la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “luglio, 2014”

XVIII domenica del tempo ordinario – anno A – 2014

193453Mosaico – s.Apollinare nuovo Ravenna, sec. VI –

(nel mosaico della moltiplicazione i pani sono quattro, mentre l’episodio del vangelo parla di cinque pani e due pesci – Mc 6,38; Mt 14,17 -: tale particolare dell’immagine rinvia a riconoscere in Gesù stesso il pane della vita, in rapporto all’Eucaristia).

Is 55,1-3; Rom 8,35.37-39; Mt 14,13-21

La prima moltiplicazione dei pani è collocata da Matteo in un passaggio critico della vicenda di Gesù, immediatamente dopo aver udito la notizia dell’uccisione del Battista. L’episodio costituisce una sorta di spartiacque tra una prima fase dell’attività di Gesù e un secondo momento successivo alla morte del Battista. Sino a questo momento Gesù è stato presentato con il profilo del predicatore itinerante e del guaritore. A questo punto Matteo lo descrive in un movimento di ricerca della solitudine nel ritirarsi in un luogo deserto: Gesù si ritira in un luogo solitario. Su questo suo ritirarsi Matteo insiste più volte nel vangelo e lo rende elemento del suo presentarsi nella sua identità più profonda che si manifesta nel suo agire e nel suo stile di vita.

Gesù si ritira ma il sopraggiungere di molte persone che lo seguono genera in lui un nuovo movimento, espresso nei termini della compassione. Compassione è avvertire su di sé le sofferenze e il bisogno degli altri e Gesù lascia che il suo desiderio di solitudine sia interrotto e indirizzato verso l’incontro e ascolto delle folle, verso le loro esigenze: “fu mosso a compassione e guarì i loro infermi”. La giornata è interamente presa da tale accoglienza. I discepoli venuta la sera invitano Gesù a congedare la folla: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla, perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”. ‘Congedare’ è termine utilizzato per indicare una separazione: Gesù però si rifiuta di mandare via le persone e non intende lasciarle senza nulla. Invita così i discepoli: “date loro da mangiare”. In questo modo prepara un segno: il segno di un banchetto. I discepoli hanno però solo cinque pani e due pesci.

Alcuni elementi indicati da Matteo aiutano a cogliere il significato di questo segno: l’episodio è collocato nel deserto. E nel deserto Israele aveva ricevuto il dono della manna come cibo per procedere nel cammino della liberazione. Matteo rinvia con qualche accenno a questo momento del cammino dell’esodo con evocazione della primavera nell’indicazione dell’erba verde che richiama il banchetto pasquale e con l’esplicitazione che furono sfamati “cinquemila uomini, senza contare le donne i bambini”(cfr Es 12,37).

C’è una sproporzione tra i cinque pani e due pesci e la moltitudine di chi potè mangiare. Questi pani e pesci furono portati a Gesù: ‘Portatemeli qui’ è una parola che dice l’autorevolezza di Gesù, presentato da Matteo come colui a cui i discepoli sono chiamati ad affidarsi. Saranno loro a dare da mangiare alla folla, ma sono invitati a portare a Gesù i pani e i pesci. Gesù pronuncia la benedizione: era quella la benedizione ebraica sul pane: ‘benedetto sei tu Signore, re del mondo che fai uscire il pane dalla terra’. E’ benedizione a Dio, parola di bene rivolta a Dio solo che fa uscire il pane dalla terra, riconoscimento di un dono e di una presenza.

Tutti mangiarono e furono sazi, e il pane fu così abbondante che avanzò. I doni di Dio sono senza misura e i numeri dei cinquemila uomini e delle dodici ceste racchiudono anche un riferimento a significati per la comunità di Matteo. Gesù prepara un banchetto per una folla stanca e bisognosa di attenzione e di cura. E’ il banchetto proprio del messia evocato nel gesto di Davide di benedire il popolo e di distribuire un pane per ciascuno (2Sam 6,19). Il re in Israele aveva come compito provvedere a far sì che il popolo avesse da mangiare. Gesù si pone come messia, sposo del popolo, che non lo abbandona e non lo lascia andare, non congeda, ma dice nel gesto dello spezzare e condividere il pane l’abbondanza di una vita che viene dalla benedizione di Dio che ha cura dell’umanità, e la possibilità di una vita nuova di relazioni fondate sulla condivisione del pane.

Matteo legge in modo simbolico una cura che guarda da un lato ad Israele (nella prima moltiplicazione avanzano dodici ceste rinvio alle dodici tribù) e dall’altro a tutti i popoli (nella seconda moltiplicazione che risulta una sorta di doppione della prima – Mt 15,32-39 – avanzano sette ceste rinvio al numero delle genti pagane, settanta). Suggerisce così al lettore che Gesù prepara un banchetto aperto che non eslcude, ma è invito ad una comunione che include il cammino di tutti i popoli della terra.

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Alcune riflessioni per noi oggi

“date loro voi stessi da mangiare” Matteo vede il gesto dello spezzare i pani da parte di Gesù come un segno che indica lo stile di tutta la sua vita. Dare da mangiare è profonda partecipazione alla sofferenza degli altri: ‘vide una grande folla e sentì compassione per loro’. Il deserto è luogo non solo geografico, ma simbolico. Esso richiama l’esodo e il cammino percorso da Israele. Gesù, presentato con il profilo di nuovo Mosè, si prende cura prova compassione: sente su di sé quel dolore che prende le viscere, condivide le attese e le sofferenze di quelli che sono con lui. Il gesto di spezzare il pane dice la sua cura per la vita, in tutti i suoi aspetti, nelle esigenze immediate e nelle seti più profonde. Questo stile di Gesù è chiamata a seguirlo, a partecipare alla sua compassione per le sofferenze di chi ha fame e sete.

Gesù incarica i suoi di farsi continuatori di questa consegna. Li coinvolge nell’esperienza dell’offrire un dono che viene da una benedizione e genera condivisione. Li educa così ad essere loro stessi a dare seguito al suo inizio. Possiamo chiederci quale sete e fame presente siano presenti nelle persone vicino a noi e in un mondo segnato dall’iniquità e dalla iniqua distribuzione delle ricchezze e dei beni.

“O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro e senza spesa, vino e latte”. Queste parole acquistano una particolare rilevanza oggi: il problema dell’acqua si sta facendo sempre più urgente. L’acqua, da bene per tutti diviene sempre più bene solo di qualcuno; le privatizzazioni delle risorse idriche costringono a dipendere dai grandi monopoli dell’acqua. Nei paesi in cui vi è abbondanza d’acqua utilizzabile per i grandi impianti idroelettrici le privatizzazioni e l’allontanamento di popolazioni che dipendono per la loro sopravvivenza da fonti e fiumi è processo che conduce al soffocamento di intere economie.

I beni che sono per la vita chiedono di essere distribuiti a tutti. Beni comuni come l’acqua l’aria, la terra, ma oltre ad essi la dignità umana non possono essere soggetti alle leggi del mercato, alla compravendita. Beni comuni esigono una custodia particolare perché non siano appropriati da qualcuno senza gli altri o contro gli altri. C’è un’esigenza di gratuità fondamentale nella vita. Un messaggio destabilizzante in una realtà dove tutto ha un prezzo ed anche la vita umana è ridotta in termini di denaro.

Nessuno dovrebbe patire la fame o la penuria di beni essenziali, la mancanza d’acqua e con l’acqua ciò che è necessario per vivere. E’ forte appello al poter partecipare ai beni del banchetto anche da parte dei poveri, da parte di chi non ha mezzi con cui pagare. Un appello alla condivisione. La comunione come orizzonte della vita è così essenzialmente un dono da accogliere, di fronte a cui stupirsi, ricevere e imparare a condividere.

Pane e vino sono i segni di un banchetto, luogo di comunicazione e di relazioni umane, segni che rinviano ad una relazione con Dio che convoca ad una mensa in cui per tutti e per ognuno c’è un posto. In questo testo c’è anche una critica rivolta al tentativo sempre presente di trovare una sistemazione, di ricercare un benessere vano e illusorio, ‘lo spendere i propri beni per ciò che non è pane’. Lo sperpero quando a qualcuno manca l’essenziale. La sovrabbondanza di beni, la ricerca di altre sicurezze o garanzie fa perdere di vista l’alleanza con Dio che si concretizza in stili di vita di solidarietà: far sì che vi sia acqua e pane e latte per tutti. Non un intervento miracoloso dall’esterno, ma il miracolo del fare spazio alla condivisione e all’attenzione all’altro.

Alessandro Cortesi op

 

Con il pensiero a Gaza: un appello per fermare il massacro

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A Gaza si sta consumando una tragedia umana e un massacro. Non si può restare indifferenti. I mass-media in Italia e non solo sono per lo più allineati nel presentare la guerra sferrata da Israele nella Striscia di Gaza come una guerra di difesa. I morti risultano essere numeri, senza volto e senza nome: quasi un conteggio di inevitabili conseguenze di una azione militare motivata dalla ricerca di eliminare pericolosi terroristi, per ostacolare il lancio dei missili sulle città d’Israele.

Ma i media quasi per nulla parlano della condizione di oppressione, di disprezzo e prigionia in cui sono tenuti un milione ottocentomila persone nella Striscia di Gaza, una sottile striscia che corrisponde come estensione a 360 kilometri quadrati, un lembo di terra con una larghezza di circa 10 km e una lunghezza di 40 km circa. Non parlano delle umiliazioni quotidiane che i palestinesi nei territori occupati della Cisgiordania sono costretti a subire in un’area dove vige l’occupazione di Israele: privazione d’acqua per l’irrigazione dei campi e orti, obblighi continui di controlli e umiliazioni ai check point per raggiungere il posto di lavoro o per gli spostamenti, impossibilità ad avere medicine e di accedere alle cure necessarie.

Dal 2006 la Striscia di Gaza è stata sottoposta ad un isolamento e ad un embargo senza paralleli nella storia. Gli abitanti sono isolati sia dal mare sia per via terra: se un pescatore si inoltra in mare oltre tre miglia viene preso di mira dal fuoco della marina israeliana. Nessuno può allontanarsi via terra se non attraverso uno dei due valichi sotto controllo degli israeliani a Erez a Nord e degli egiziani a Rafah a Sud. La popolazione di Gaza non può recarsi in altri territori palestinesi, non può andare a Gerusalemme, né può recarsi all’estero per studiare, per lavoro, se non con un permesso di Israele impossibile ad ottenere dalla maggior parte delle persone. Non può raggiungere parenti e persone care residenti altrove. Le terre vicine al confine non possono essere coltivate, e i prodotti agricoli non possono essere esportati. Nella morsa dell’embargo operato da anni da parte di Israele un popolo intero è tenuto in condizioni di prigionia e di umiliazione continua: l’80 per cento della popolazione di Gaza vive sotto la soglia della povertà con meno di due dollari al giorno. Da quando la Stiscia di Gaza è stata abbandonata da Israele nel 2005 si sono susseguite una serie di attacchi militari durissimi a brevi intervalli di tempo, nel 2006, tra il 2008-2009 e nel 2012.

L’assedio e l’embargo di Gaza sono un sorta di condanna a morte lenta. Israele è un popolo che ha diritto alla sicurezza e certamente non è accettabile e condivisibile la scelta della lotta armata da parte di Hamas come anche il lancio dei missili sulle città israeliane. La violenza genera solo altra violenza e la spirale della vendetta va interrotta da scelte di dialogo. Ma  quando un popolo è tenuto in una condizione disumana cerca in tutti i modi di sopravvivere, e di resistere all’annientamento. La disperazione e l’odio ingenerato da violenza e ingiustizia sono terreni di coltura di ogni genere di reazione. Nel documento Kairos redatto dai pastori delle chiese di Palestina nel 2009 si può leggere: “Alcuni partiti politici hanno seguito la strada della della resistenza armata. Israele ha usato questo come pretesto per accusare i palestinesi di essere terroristi distorcendo così la reale natura del conflitto, presentandolo come guerra di Israele contro il terrore, invece che come legittima resistenza palestinese all’occupazione isareliana in modo che essa finisca” (Documento Kairos, 2009)

Il governo di Israele con il pretesto della propria sicurezza con il suo esercito sta conducendo un’opera di punizione collettiva nei confronti un intero popolo, causando morte e dolore di bambini e innocenti, costringendo in una condizione di terrore e di paura. I bombardamenti di questi giorni dall’inizio di luglio non solo hanno già causato più di 1200 morti, ma hanno seminato una sofferenza indicibile, dolore, umiliazione, disperazione. Molti hanno perso la vita mentre stavano raccogliendo i beni di necessità prima di lasciare le case. Sono stati uccisi bambini, portatori di handicap, donne e anziani. Sono state prese di mira abitazioni, scuole, centri dell’ONU, ambulanze e ospedali.

Hanan Ashrawi ha detto alla BBC che se l’esercito di Israele, che nel suo nome reca l’espressione ‘forza di difesa’ (IDF), sta tentando di non colpire civili, come afferma la propaganda, è allora il peggior esercito del mondo perché sinora ha ucciso 85 per cento di civili con i suoi bombardamenti.

Ma l’attacco a Gaza oltre a lutti e devastazioni sta generando ferite inenarrabili nei cuori delle persone, ferite che sono portatrici di odio e altra violenza. Un bambino nato a Gaza che ha dieci anni ha già vissuto quattro eventi di guerra nella sua breve vita. Al 30 luglio si contano 1200 morti e più di 7000 feriti. L’85 per cento delle vittime sono civili, innocenti, donne vecchi, bambini. Più di 150.000 civili sono stati costretti lasciare le loro case, e non sanno dove andare perché l’intero territorio della Striscia è sotto attacco con bombardamenti dal cielo, da terra e dal mare. Una situazione che solo al pensiero dà il senso di oppressione e impazzimento.

Ferite psicologiche che segneranno per sempre la vita di bambini, di donne, uomini, terrore e paura nell’impossibilità di fuggire, chiusi come animali in gabbia. Se c’è una schiavitù per gli abitanti di Gaza c’è anche una schiavitù di Israele che si condanna ad una condizione di guerra permanente e ad essere oppressore, attore di disumanità senza limite. L’esercito di Israele a Gaza sta commettendo crimini di guerra e contro l’umanità, nel silenzio della comunità internazionale a causa dei forti interessi che molti paesi hanno per il commercio di armi. E l’Italia risulta essere il primo esportatore di armi a Israele.

La denuncia proviene da varie parti, un gruppo di scienziati testimoni in un artcolo sulla pretigiosa rivista The Lancet denunciano la situazione e in particolare l’uso nefasto delle armi utilizzate.

Amira Hass, giornalista israeliana di Ramallah nel quotidiano Ha’aretz riporta il pensiero di un amico da Gaza “se Hamas è nato dalla generazione della prima Intifada, quando i giovani che tiravano pietre sono stati presi a fucilate, cosa nascerà dalla generazione che ha sperimentato i ripetuti massacri degli ultimi sette anni?” e commenta: “La nostra sconfitta morale ci perseguiterà per molti anni in futuro”.

Eppure ci sono segni di resistenza al prevalere dell’odio: sono i soldati israeliani che si rifiutano di recarsi a combattere come Udi Segal, sono i gruppi minoritari che in Israele si schierano per il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese, sono i palestinesi che rinunciano a odiare, come il medico Abuelaish Izzedin, e come tutti coloro che coltivano la speranza, con una resistenza che si pone nella scelta della nonviolenza. Sono le presenze dei cooperanti che rimangono a Gaza accanto a un popolo martoriato come i giornalisti che offrono notizie e testimonianze. Un piccolo grande segno di presenza e vicinanza è stato il viaggio di una delegazione di Pax Christi in Palestina nei giorni scorsi. E’ il gesto della bambina che tra le macerie di una casa distrutta va a raccogliere i libri di scuola per salvarli dalla distruzione, un gesto che fa ricordare la vicenda narrata da Eric-Emmanuel Schmitt ne ‘Il bambino di Noè’: nel diluvio raccogliere e custodire tutto quello che non deve andare perduto.

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Si deve affermare con chiarezza: la causa principale da rimuovere è l’occupazione di Israele che occupa la Palestina non consentendo il riconoscimento dei fondamentali diritti umani alla popolazione palestinese.

Sempre il documento Kairos Palestina del 2009 firmato dai dei pastori delle chiese in Palestina denunciava la violenza condotta in modo sistematico e si faceva eco del grido di dolore del popolo palestinese, indicando con chiarezza la via della nonviolenza e della resistenza creativa: ”Noi … gridiamo dal cuore della sofferenza che stiamo vivendo nella nostra terra, sotto occupazione israeliana, con un grido di speranza in assenza di ogni speranza….” (…) “Il Muro di separazione eretto in territorio palestinese… ha reso le nostre città e i nostri villaggi come prigioni, separandoli gli uni dagli altri; Gaza, specialmente, continua a vivere in condizioni inumane, sotto assedio permanente… Gli insediamenti israeliani devastano la nostra terra in nome di Dio o in nome della forza, controllando le nostre risorse naturali, specialmente l’acqua e le risorse agricole…”

“L’occupazione israeliana della terra palestinese è un peccato contro Dio e contro l’umanità poiché depriva i palestinesi dei fondamentali diritti umani”

“L’ingiustizia contro il popolo palestinese, cioè l’occupazione israeliana, è un male che deve essere combattuto. E’ un male e un peccato che deve essere contrastato e rimosso. La primaria responsabilità di questo è degli stessi palestinesi che subiscono l’occupazione. L’amore cristiano ci invita alla resistenza. Tuttavia l’amore mette fine al male camminando sulla via della giustizia. La resposnabilità è inoltre della comunità internazionale, poiché oggi le leggi internazionali regoalno i rapporti tra i popoli, Infine la responsabilità è di coloro che perpetuano l’ingiustizia; essi devono liberarsi dal male che è in loro e dll’ingiustizia che hanno imposto agli altri”.

”Affermiamo che la nostra scelta come cristiani di fronte all’occupazione israeliana è di resistere. La resistenza è un diritto e un dovere per il cristiano. Ma è una resistenza che ha l’amore come logica. E’ quindi una resistenza creativa , poiché deve trovare strade umane che impegnino l’umanità del nemico. Dobbiamo combattere il male, ma Gesù ci ha insegnato che non possiamo combattere il male con il male. Possiamo resistere attraverso la disobbedienza civile. “

La prima proposta è attuare il boicottaggio soprattutto per quel che riguarda il commercio di armi: “Individui, aziende e stati si impegnino nel disinvestimento e nel boicottaggio di ciò che viene prodotto dall’occupazione. (…) Queste campagne devono essere portate avanti con coraggio,prclamando sinceramente e apertamente che il loro scopo non è la vendetta ma la fine del male esistente, la liberazione sia degli oppressori che delle vittime dell’ingiustizia”.

E’ proposta ripresa da Alex Zanotelli che la allarga a chiedere l’embargo militare contro Israele come proposto dai Premi Nobel in un recente appello, la revoca del Trattato militare segreto Italia-Israele, conosciuto come”Accordo generale di cooperazione militare e della difesa” e il boicottaggio delle Banche, che pagano per questo commercio di armi (Campagna Banche armate), ritirando i nostri soldi dalle banche ‘armate’. (Alex Zanotelli, Non lasciamo soli i palestinesi)

Riprendiamo l’appello dei patriarchi e capi delle chiese di Gerusalemme: “Ci appelliamo a Israele affinché interrompa l’ingiustizia verso di noi, e non continui a fuorviare la verità dell’occupazione fingendo che sia una battaglia contro il terrorismo. Le radici del terrorismo sono nell’ingiustizia umana commessa e nel male dell’occupazione ”.

E’ importante e urgente in questo momento non lasciare nella solitudine il popolo palestinese piegato dalla sofferenza e che vive in una condizione di umiliazione, di disprezzo, di non riconoscimento della propria dignità umana.

L’indignazione di fronte alla violenza delle armi si fa grido per invocare e chiedere a chi ha in qualche modo potere di agire e influenzare le scelte internazionali: si fermino i bombardamenti, si intraprenda un percorso di riconoscimento di diritti fondamentali del popolo palestinese, si facciano tacere le armi e si lasci spazio al riconoscimento dell’umanità dell’altro, ad un negoziato per porre fine all’occupazione, all’attuazione di una pace con riconoscimento di diritti e nel ristabilire giustizia, attuando percorsi di disarmo radicale.

Come chiedono i pastori di Palestina: “Il nostro futuro e il loro futuro è lo stesso futuro, sia il ciclo della violenza che ci distrugge entrambi, sia la pace di cui di cui beneficeremo entrambi”.

Alessandro Cortesi op

10527346_851225801567769_5421427076836356279_nQuartiere di Shejaya, ad est di Gaza city, 26 luglio 2014 – photo: Jehad Saftawi/IMEU

XVII domenica del tempo ordinario – anno A – 2014

ansa(marcia silenziosa per le vittime del volo MH 17 – Amsterdam 23.07.14 – foto Ansa)

1Re 3,5.7-12; Sal 118; Rom 8,28-30; Mt 13,44-52

Leggiamo queste pagine della scrittura mentre alcuni avvenimenti di violenza e di guerra stanno segnando gli ultimi giorni: l’abbattimento nel cielo dell’Ucraina di un aereo civile della compagnia Malaysian airlines partito da Amsterdam ad opera di un missile in un’area di conflitto, l’operazione di attacco militare e invasione di Israele nella striscia di Gaza che ha già causato più di 700 morti nella popolazione civile e migliaia di feriti oltre a terrore, paura, umiliazione. La cacciata dei cristiani dalla città di Mosul in Irak da parte dell’esercito dello Stato Islamico dell’Irak e del Levante (ISIS), costretti ad andarsene lasciando le loro abitazioni, contrassegnate da lettera ‘N’ (per Nazareni), e tutti i loro beni in preda ai furti e al saccheggio.

Sono eventi che lasciano disorientati, consapevoli dell’impotenza di fronte a tanta violenza e terrore, e pongono interrogativi profondi. Leggiamo le pagine della Parola di Dio con la sensibilità di chi vive in un mondo in guerra e dove la violenza appare prevalere. L’ascolto della Bibbia genera una capacità di sguardo capace di stare nella realtà, di cercare tracce di bene in questo presente così buio e alimento per una attitudine profetica, di denuncia del male, di impegno perché il regno di Dio trovi cuori disponibili, in ascolto e possa crescere nella storia umana. E’ una parola di speranza e di nutrimento nelle tragedie del presente, motivo per pregare accanto alle vittime e per scorgere qual è la chiamata del Signore in questo tempo.

“Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male…” Dio chiede a Salomone cosa desidera in dono. Si tratta di un capovolgimento del consueto modo di pensare la preghiera. Non è l’uomo che chiede qualcosa a Dio, ma Dio sollecita per primo a chiedere un dono. Nel dialogo tra Dio e Salomone emerge come alla radice della vita vi sia un dono, un appello che rinvia all’incontro, all’apertura. E’ dono che incrocia un desiderio e genera una nuova storia tra ascolto dell’uomo e ascolto di Dio.

Salomone, paradigma del re saggio, non chiede potenza, né ricchezze, ma riconosce il proprio limite: chiede a Dio la saggezza nel distinguere il bene dal male, di essere operatore di giustizia. Gli chiede un cuore capace di imparare perché non sa come regolarsi. Un cuore docile è caratteristica di chi sta in ascolto, di chi non ha risposte semplici ed immediate per ogni situazione, di chi sa che per scegliere è necessario porsi in ricerca, sostare nella fatica di comprendere e di coinvolgersi. E’ disponibilità a lasciarsi istruire da quanto si ascolta: distinguere il bene dal male è faticoso, è cammino che passa attraverso l’ascolto di Dio, delle persone, delle situazioni. Salomone vive così la consapevolezza di una duplice fedeltà: a Dio in primo luogo, perché le sue scelte siano ispirate da lui, alle persone, nei confronti di un popolo numeroso. Chiede un cuore capace di ascoltare: ascolto di Dio, ascolto dei più deboli.

‘Il regno dei cieli è come un uomo che trova un tesoro nel campo…Nel regno dei cieli avviene così… le cose vanno in questo modo… Gesù parla del regno dei cieli facendo riferimento a tre situazioni della quotidianità. Il tesoro trovato inaspettatamente, la perla preziosa, la rete gettata nel mare. Il tesoro scoperto e poi nascosto rinvia alla meraviglia di fronte ad una novità inattesa. Il tesoro va oltre ogni ricerca e il suo ritrovamento improvviso apre ad modo nuovo di pensare il presente, il futuro e di intendere la vita stessa. Tutto passa in second’ordine rispetto a questa novità inattesa e preziosa da custodire come propria. Il regno dei cieli è così paragonato ad una realtà che si offre gratuitamente. E’ scoperta improvvisa che suscita meraviglia: prezioso, più grande di ogni altra cosa umana e nello stesso tempo nascosto e racchiuso nel luogo della quotidianità, nel campo del proprio lavoro. L’immagine del tesoro racchiude questo senso di cosa preziosa per la quale vale la pena di lasciare tutto il resto. E’ un’occasione unica, da non lasciar perdere. La parabola suggerisce anche la dimensione della gioia e dell’urgenza di decisioni: vendere tutto per acquistare quel campo, senza dire nulla al padrone, è un movimento dettato dall’entusiasmo per la preziosità della scoperta. Anche il vendere tutto che può apparire una perdita è vissuto con la gioia di aver acquistato una ricchezza senza misura.

La parabola della perla collega il ritrovamento questa volta di una perla preziosa ad una ricerca condotta con continuità e cura. Indica innanzitutto l’esperienza della ricerca. Chi ascolta le sue parole è chiamato a porsi in una situazione di apertura, di ricerca. L’ultima parabola del capitolo è quella della rete e della pesca. Secondo la legge ebraica alcuni pesci erano considerati puri, altri impuri e dopo la pesca andava compiuta una selezione: ‘di tutti gli animali che si muovono nelle acque ma non hanno né pinne né squame non mangerete la carne’ (Lev 11,10). I pesci senza scaglie andavano eliminati perché non adatti alla mensa. Gesù parte da questa esperienza per parlare del regno come di una realtà presente, ma nascosta. Scoprirla esige pazienza, attesa: l’azione di raccogliere i pesci buoni e buttare via i cattivi è momento di un futuro. L’accento della parabola sta invece sul presente: il paragone della rete gettata richiama ad un compito urgente nel presente: questo non è tempo di dividere e selezionare, ma è il tempo della fatica del gettare le reti. E’ il tempo dell’impegno, della semina, dei gesti che aprono al futuro, dell’attesa e della speranza. E la rete è metafora di una raccolta che mette insieme tanti pesci: c’è un gettare le reti in vista di una raccolta che è fatta di tanti elementi diversi. Al cuore della parabola sta la domanda sull’esito della vicenda dei giusti, sulla fecondità del seme seminato nella terra buona: è uno sguardo che si apre al provenire di tutte le genti in una convocazione nuova (cfr. Rom 11,25: ‘fino a quando saranno entrate tutte le genti’).

Il regno non è questione del passato è invece processo già in atto, è la vicinanza di Dio che si prende cura dei poveri e suscita un mondo nuovo, in cui poter vivere la fraternità come orizzonte di fondo della vita. Fa scoprire a ciascun di essere pensato e amato e rinvia ad un futuro nelle mani di Dio. Il regno dei cieli è una vita segnata da questa speranza e fiducia che il nostro tempo e la nostra storia vive già al suo interno una trasformazione e una novità che ora è nascosta, è piccola, ma si renderà chiara. E al discepolo sta il compito di trarre cose nuove e cose antiche, divenendo responsabile del vangelo ricevuto.

foto Oxfam Gaza 21 luglio 2014(foto Oxfam – abitanti di Gaza in fuga dai bombardamenti 21 luglio 2014)

Le scelte di guerra, la violenza che genera altra violenza sono tutte espressioni di ciò che può essere espresso come anti-regno: esprimono una logica opposta al regno di Dio che trova inizio là dove si attua giustizia e pace. Se il regno è la vicinanza di Dio che si prende cura e guarda ai poveri, il contrario di questo è l’ingiustizia, l’umiliazione, l’inseguimento del dominio, il disprezzo per l’altro come non-uomo. E’ la condizione di prigionia nella paura di chi vive nel seminare terrore e nel coltivare la vendetta, di chi non sa ascoltare la sofferenza dell’altro popolo.

Il regno è già presente come piccolo seme, come tesoro di fronte al quale qualcuno lascia tutto, anche la sua stessa vita: è presente in chi a Gaza richiama a ‘rimanere umani’, in tutti coloro che si rendono solidali con le vittime. E’ presente nella rivolta di chi interrompe la spirale di odio e violenza, come nel gesto dell’insegnante musulmano a Mosul che si è rivoltato contro la persecuzione ai cristiani ed ha pagato questa sua coerenza con la vita. E’ presente in chi denuncia il mercato della guerra e della vendita delle armi (l’Italia è il primo paese esportatore di armi a Israele): scelte e gesti profetici, piccole grandi epifanie del regno di Dio che vanno oltre i confini delle appartenenze, che si pongono in ricerca, che mantengono aperta ancora la domanda: ‘dona un cuore docile’, capace di vendere tutto per accogliere il tesoro del regno di Dio.

Alessandro Cortesi op

XVI Domenica Tempo Ordinario anno A – 2014

DSCF2119Sap 12,13.16-19; Rm 8,26-27; Mt 13,24-43

La parabola del seminatore (Mt 13,18-23) aveva posto in luce quattro tipi di terreni: quelli che non portano frutto perché non comprendono la parola del regno, quelli che non portano frutto in modo completo, ma solo parzialmente; quelli che non danno frutto perché preoccupati dalle ricchezze, queli infine che recano frutto in modo fecondo.

Le domande aperte dalle diverse situazioni dei terreni possono essere colte come motivo di fondo delle altre parabole che Matteo fa seguire: la parabola della zizzania (13,24-30) offre una risposta alla domanda perché le erbacce che non recano frutto non vengono sradicate; quelle del grano di senape e del lievito (13,31-33) affrontano il tema della fatica e della prova e rispondono all’interrogativo perché è necessario sopportare tribolazioni per portare frutto. Le parabole del tesoro e della perla (13,44-46) suggeriscono come la scoperta del regno conduca ad offrire tutto, fino al dono della stessa vita; infine la parabola della rete piena di pesci (13,47-50) indica una risposta alla questione di quando si riveleranno coloro che hanno dato tutto il frutto possibile.

Tutte le parabole possono essere lette come paragoni in riferimento a situazioni di vita che rinviano alla descrizione del regno di Dio: gesù non definisce il regno ma lo racconta nel suo parlare in parabole, nel suo richiamare situazioni di vita. Il regno risulta così indicato come il farsi vicino di Dio che ha passione per l’uomo e la creazione, che intende liberare e dare vita facendo entrare in una relazione con lui e aprendo ad un modo nuovo di rapportarsi con la vita e con gli altri. Nelle parabole ha spazio la quotidianità, il rapporto con la terra, con l’attività dell’uomo, nelle parabole è dato spazio alla vita degli umili.

La parabola della zizzania presenta così la dinamica della presenza e della vicenda del ‘regno’ come luogo della pazienza di Dio. La parabola è innanzitutto una riflessione sulla realtà, in cui nel campo è presente seme buono e seme cattivo. E’ uno sguardo che paragona la mescolanza di buon seme e cattivo seme alle concrete situazioni umane fatte di luci e di ombre di bontà e malvagità, che stanno insieme e non separate. La zizzania, una sorta di gramigna, simile nell’asspetto al grano buono, viene seminata ‘mentre gli uomini dormono’. Si può cogliere forse in questo particolare uno sviluppo da parte di Matteo della breve parabola presentata da Marco sul seme che cresce da solo “sia che il seminatore dorma, o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa”.

La zizzania seminata infatti non viene estirpata prima della mietitura. Ai servi che chiedono “Vuoi che andiamo a raccoglierla” il padrone del campo risponde “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura”. L’indicazione di fondo è quella di attendere, di lasciare tempo ad una crescita. Attendere e lasciare, due attitudini ben diverse da chi vive nella fretta di una separazione e pretende di fare subito chiarezza.

E’ una parola rivolta ad accettare la fatica di una situazione in cui male e bene sono presenti insieme. Non si tratta di un compromesso di fronte al male. C’è una presa d’atto della complessità delle situazioni umane, ma anche un chiaro orizzonte di mitezza e di attesa che sia dato tempo perché anche chi compie il male possa cambiare. E’ invito ad aprire gli occhi sullo scandalo del male, che attraversa la storia. Ma al centro della parabola sta l’annuncio dell’attesa di Dio. Il volto di Dio che Ges annuncia è volto attento a non togliere alcun elemento anche piccolo di bene, preoccupato perché il bene possa avere tempo di maturazione. E’ una parola che apre a scorgere la pedagogia di Dio e del regno. E anche invito a cambiare mentalità, ad uscire da una mentalità di giudizio e di separazione, per assumere il senso dell’uso del tempo come tempo di cambiamento e di conversione al bene, e per accolgiere la responsabilità dell’attenzione e della cura.

La parabola è anche una indicazione per la comunità di Matteo. La comunità stessa non è composta solamente di giusti, ma vede al suo interno lo scandalo del male e dei peccatori. La pretesa di una comunità composta solamente di giusti è una forma di orgoglio, che non tiene contro della realtà e che segue una logica di esclusione. L’invito è piuttosto quello di lasciar crescere, offrendo lo spazio del tempo e della pazienza. La parabola si concentra così sulla pazienza di Dio che attende, non risolve le situazioni con la forza, ma suscita responsabilità nel tempo.

Al centro della parabola del granello di senape sta da un lato l’aspetto della crescita: da un piccolo inizio vi è uno sviluppo che apre ad un effetto imparagonabile. Tuttavia sembra che una particolare insistenza sia nell’essere seminato sulla terra. E’ un accento riscontrabile nella versione della parabola presente nel vangelo aprocrifo di Tommaso: “E’ simile a un granello di senape, che è il più piccolo di tutti i semi. Ma quando cade sulla terra arata, produce un grosso arbusto e diventa un rifugio per gli uccelli del cielo”. Un seme deposto, non muore, ma porta frutto: è quanto verrà ripreso dal IV vangelo in: “chi vuol salvare la propria vita la perderà, ma chi perde la sua vita per causa mia la troverà” (Gv 12,24). Così nella parabola del lievito nella pasta l’accento principale sta nell’azione del lievito che non è visibile, ma ha una forza che muove nel profondo ed è interiore: l’insisetnza va non tanto sulla diversa quantità tra lievito così esiguo e la pasta (cfr. 1Cor 5,6), ma sul fatto che il lievito è seminato, è posto dentro e mescolato dentro la pasta.

Una allusione di questa parabola alla vicenda di Sara e Abramo può esere importante per coglierne un messaggio sotteso. E’ infatti Sara la moglie di Abramo che nell’episodio dell’ospitalità dei tre sconosciuti che giungono alla tenda presso Mambre (Gen 18,6), impasta una quantità di farina pari a quella indicata nella parabola tre staia: è una quantità enorme – tre staia corrispondono a circa 50 chili -. Centinaia di persone possono essere sfamate con una tale quantità di farina: si tratta di una grandezza smisurata. E’ un segno dell’abbondanza che sgorga dalla promessa di Dio e dalla fede di Abramom, e dall’ospitalità di Sara. Quel piccolo gesto dell’accoglienza, il ricevere la vista di quegli ospiti sconosicuti e l’affidamento alla loro parola, è inizio di una storia che trova fodnamento nella fede. Nei profeti questa storia viene descritta come la vicenda di un piccolo germoglio che diviene grande albero: “Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro… e lo pianterò sopra un monte alto…metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami dimorerà” (Ez 17,22-24). C’è una storia di incontro, di possibile rifugio, come quello di uccelli che trovano dimora su di un albero grande, che attrevsra la storia umana e la vicneda del cosmo stesso. E’ una vicenda che non eslcude, che si apre a tutti, e ancor più si apre a comprendere la partecipazione di tutta la realtà. La fede di Abramo, l’ospitalità di Sara, sono i termini di riferimento di questa fecondità di vita che coinvolge tutto il mondo: il regno di Dio è questo grande movimento di incontro nuovo, che Gesù ricorda e richiama con le sue parole.

Infine una osservazione sullo stile del parlare di Gesù: Gesù parla di Dio guardando i gesti di un contadino che getta la semente nel campo, osservando la crescita di piccole piante, cogliendo l’intreccio di piante buone e meno buone in un campo seminato, guardando le reti di una barca. Gesù parla di Dio non facendo uscire dal mondo e dal linguaggio del quotidiano, ma scoprendo la presenza di Dio, il suo regno, lì dentro. Così in modo inaudito Gesù parla di Dio facendo riferimento ai gesti di una donna che impasta farina e lievito: Gesù parlava e lo ascoltavano anche donne che vivevano in una condizione di enarginazione religiosa e sociale. E comprendevano che il volto di Dio che Gesù annunciava non era il Dio dei forti e di chi dominava, ma il Dio che scorgva la preziosità dei volti, non il Dio dell’esclusione, ma dell’accoglienza. Una inaudita parola che annunciava Dio parlando dei gesti di una donna nella quotidianità della casa, nei gesti dell’ospitalità.

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‘Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene’ (Rom 12,21): foto di un manifesto nella Chiesa di san Nicola a Lipsia (Nikolaikriche Leipzig) – sede delle preghiere per la pace 1989

Alcune osservazioni per noi oggi.

Viviamo anche noi oggi lo scandalo del male. Rendersi consapevoli della presenza dell’azione dei malvagi che si confronta con l’azione dei giusti insieme è passaggio fondamentale per non rimanere nell’ingenuità di un mondo ideale scontrandosi poi con la cocente disillusione di fronte all’esperienza. D’altro lato scoprire come il campo della vita e della storia sia luogo di grano insieme ad una seminagione cattivo, la zizzania, aiuta a non rimanere schiavi di una concezione negativa del mondo e dell’uomo in quanto malati alla radice e asserviti alla malvagità. Scorgere grano e zizzania è guardare la realtà accostarsi alla complessità del reale, imparando la fatica del vivere nella complessità senza cedere al male. Non solo c’è bene e male fuori di noi, ma anche nel nostro intimo c’è mescolanza di scelte di bene e di compromesso con l’egoismo, l’ingiustizia e il male. Saper attendere per sé e per gli altri, lasciare il tempo della crescita è vivere una attitudine fiduciosa: non nella connivenza o timidezza di fronte al male ma nell’impegno perché chi compie il male cambi orientamento. E’ sguardo di speranza su di sé e sugli altri: possiamo cambiare e crescere e lo sguardo di Dio è quello non di un giudice ma di un educatore attento e fiducioso che non estirpa, non esclude, ma conosce la pazienza dell’attesa, non ha di mira una purezza senza discussione, ma è preoccupato che ogni apertura di bene non rimanga senza respiro. La sua mitezza è forza di attesa e di operosità perché anche l’empio ritrovi la sua via.

Le delusioni e i fallimenti che una situazione crisi economica e sociale pongono di fronte, così come i fallimenti di sforzi di costruire pace in terre dove c’è violenza può far crescere sentimenti di inutilità e di abbandono di ogni genere di impegno. L’insistenza delle parabole di Gesù sul momento della semina ci fa guardare in modo diverso tutte le possibilità di gesti anche piccoli e la loro fecondità che ora non vediamo. Il deporre un piccolo seme è in sé inizio di un processo di cui non siamo in grado di calcolare gli esiti: è questo un motivo per cogliere l’importanza di impegni anche minimi e quotidiani in una situazione di crisi e nonostante la contraddizione evidente.

Il mondo e la storia sono permeati dell’energia nascosta e feconda del regno di Dio che inizia dai gesti di ospitalità di Sara e dall’apertura del cuore di Abramo: è il medesimo regno che Gesù rintraccia nel gesto quotidiano di una donna che impasta la pasta per cuocere il pane. C’è una storia del regno che attraversa le culture, le religioni, ed è presente nella vita, nelle sue pieghe e attimi nascosti, nelle persone umili: dare spazio a questa vicenda è il servizio di profezia a cui Gesù chiama per tutta l’umanità.

Alessandro Cortesi op

XV domenica tempo ordinario – anno A – 2014

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(fioritura di crochi al disgelo presso rif. Lagonero – Pt – inizio giugno 2014)

Is 55,10-11; Sal 64; Rom 8,18-23; Mt 13,1-23

Come la pioggia e la neve… C’è una fecondità silenziosa e lieve della Parola che scende e penetra, impregna, si mescola facendo tutt’uno con la pasta della vita. E’ la fecondità di un dono come l’agire dell’acqua. Così la parola umana, soffio che passa e penetra e suscita cambimenti. Così la parola che è agire silenzioso di Dio. La parola coma acqua: forza di vita, dono che proviene dall’alto o che gorgoglia fuori dal profondo. Dono diffuso e per tutti, da non rinchiudere e privatizzare nell’egoismo del possesso. Acqua è simbolo in tute le culture della forza misteriosa della vita che si espande e dilaga ed è feconda. E’ la fecondità di parola come pioggia, neve che suscita frutto solo se scende ed entra nel profondo della terra.

La forza della Parola è espressa con uno sguardo alla natura, alle sue manifestazioni primordiali di vita. La pioggia, l’acqua è così vista nel suo ciclo di venire e ritornare, un ciclo che unisce terra e cielo, che copre distanze considerate impercorribili. Ma questo sguardo si fa anche meraviglia di fornte al miracolo quotidiano della vita che trae possibilità da un incontro sempre nuovo, che sgorga da un venire e da altrove. Così la parola scende e non rimane inefficace. L’agire di Dio, il suo comunicarsi vicino, il suo farsi appresso è evocato dalla metafora della parola come pioggia. La nostra esperienza è quella della parola umana che reca in sé la capacità di cambiare, di operare: c’è infatti una potenzialità nascosta, racchiusa nelle parole che recano nuova vita, fanno risuscitare e operano fecondità. Ma anche le parole possono recare in se stesse la violenza per distruggere e annientare la dignità o il futuro di una persona.

Il riferimento all’acqua e alla neve è colta dalla pagina di Isaia in termini positivi, come è possibile laddove l’acqua è bendeizione di vita e fonte di sopravvivenza, per uomini animali e vegetazione: in una terra che conosce il deserto – in Israele la neve è visibile sule pendici del monte Ermon, o sui valichi a Nord – la poggia e la neve sono perceite con una intensità particoalre. In questa pagina la parola di Dio è accostata con lo stupore dei doni preziosi e delle parole rare, quelle che scendono a portare futuro, a dare vita, a fecondare aprendo una novità. Fecondare è azione di incontro, di reciprocità. Se c’è un primato al dono della Parola, c’è anche considerazione dell’incontro con la terra e di un germogliare prodotto prorpio nell’incontro. E’ il mistero dell’incarnazione, la scelta di Dio che prende con sé e si unisce a questa terra. La parola è dono di Dio che non distrugge ma s’incontra e feconda la realtà della terra e genera qualcosa di nuovo.

Tra la casa e il mare Gesù pronuncia una parabola, anzi la ‘parola del regno’ (Mt 13,19). Il regno, questa realtà al cuore della vita di Gesù e al centro della sua predicazione, non torva una definizione, non può essere racchiusa in una nozione, in un dogma fissato, ma troav espressione solamente nello stile del raccontare di Gesù. Gesù racconta parabole che richiamano vicende dlela vita: accosta la quotidianità ad una storia più grande profonda che è la vicinanza inaudita di Dio che sta dalla parte dei poveri. Il regno non è teoria ma esperienza di vita. Può solo essere evocato da parole di racconto, capaci di indicare ma senza trattenere, ricche di invito, ma senza imposizione o codificazioni. Il regno si connota così annuncio, bella notizia, da indagare attraversando le parole di Gesù, mettendole insieme, ma soprattutto lasciandosi coinvolgere nella dinamica di un racconto che parla di cose quotidiane, rivelando, togliendo il velo, sulle profondità della vita in cui è presente una parola nascosta, l’agire amante di Dio, il Padre, che chiama, fa scoprire, invita. Ed è parola che rinvia ai suoi gesti, ai segni della sua ospitalità, al suo stile. La parabola in tale senso non è narrazione allegorica (dove ogni elemento e dettaglio fa riferimento ad altro), è piuttosto racconto che si colloca nel contesto di un coinvolgimento con chi si sente pro-vocato perché è la sua vita: così per i contadini della Galilea ascoltare il racconto di una semina è cosa familiare e apre il cuore. Le parabole spesso vennero trasformate in allegorie. Così la parabola del seminatore, pronunciata per raccontare l’attività del seminatore, diviene poi la parabola dei diversi terreni (che costituisce un’altra narrazione). La parabola del seminatore trova il suo fuoco nella attività di colui che getta i grani ovunque. Nel momento in cui la sua missione trovava opposizione e incomprensione, Gesù pronunciò questa parabola per esprimere la sua lettura di ciò che stava accadendo. Gran parte del racconto descrive la vanità dello sforzo del seminatore. I grani caduti sul sentiero vengono beccati dagli uccelli, quelli caduti sul terreno di pietre germogliano subito ma appena giunge il sole appassiscono, quelli caduti sulle spine vengono soffocati appena cresciuti. Ma al cuore sta una lettura di fiducia e di speranza: nonostante l’insuccesso che sembra prevalere nel fallimento della semina su vari terreni, ci sono grani che producono un raccolto abbondante: sulla terra buona fruttificano dove il trenta, dove il sessanta, dove il cento. E’ una parabola sul regno, la vicinanza salvifica del Padre ai piccoli, che Gesù ha inaugurato, è una parabola che parla di quella parabola di Dio che è la vita di Gesù: il seme è gettato, la parola è scesa come pioggia e neve. La missione di Gesù ha dato inizio ad un processo che non si arresta anche se deve confrontarsi con il rifiuto e il fallimento. Ma è semina senza riserve e senza rimpianti, dono abbondante che è anche annuncio di una fecondità paradossale.

“La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio.. e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”. Paolo invita a guardare come le sofferenza del presente sono poca cosa rispetto alla salvezza futura: è una salvezza che va attesa come nella vigilia di un parto. I segni del travaglio che accompagna questo parto sono il gemere dell’umanità ed insieme ad essa il gemere di tutto il creato. Quando nella risurrezione l’uomo sarà rivelato nella sua più profonda identità di figlio di Dio, figlio per adozione, guardato con amore senza limiti, anche la creazione parteciperà a questa trasformazione e a questa liberazione. Ma già nel presente ci sono tre gemiti che segnano la vita. Il gemito della creazione tutta, che attende e vive le doglie di un parto; il gemito dello Spirito presente nei cuori di uomini e donne di ogni provenienza e popolo che attendono liberazione; il gemito dello Spirito che intercede per noi. E’ un respiro, di apertura, di attesa, di sofferenza che coinvolge tutta la realtà.

DSCF5202Alcune brevi riflessioni per noi oggi

La metafora della pioggia e della neve legate alla parola di Dio ci possono condurre a valutare l’importanza della parola. Per accostare la Parola di Dio è necessario conoscere le parole umane, sostare sulla rofondità della parola umana. Le parole umane recano una forza di vita e di relazione. Nella parola si può trovare la dimora di una vita che si consegna e si comunica. Conosciamo oggi la vacuità della parola, ridotta a chiacchera o a vocio disperso e senza interlocutore. Sperimentiamo le parole vuote e la retorica di parole che nascondono l’ ipocrisia e gli infingimenti del potere. Molte parole del nostro discorrere sono cariche di violenza che generano aggressività e conflitto. Ma ci sono anche le parole della mitezza e della cura. Ci sono le parole feconde di futuro, tutte quelle parole che incontrandosi con cuori accolgienti aprono al mistero della gravidanza della comunicazione e dell’amicizia. C’è una terra gravida che attende e la testimonianza oggi di un servizio alla Parola di Dio potrebbe proprio essere nel dare spazio alle parole buone nel valorizzare tutte le parole umane di ogni provenienza, le parole dell’arte, della bellezza, della poesia, delle fedi, dell’amore, ma anche le parole familiari, del quotidiano che recano in sé acqua dche dà vita, come una fontana nell’arsura di un terra deserta, o un bicchiere di acqua fresca nella penombra del pomeriggio di una calda estate.

Gesù ha parlato in parabole, è stato capce di racconti che dicevano riferimento alla vita. E nel suo parlare raccontava qualcosa del regno, e non solo raccontava ma lo rendeva presente. In tale senso la parabola è poesia. Nel momento del rifiuto quella parabola traduce la sua vita ma fa aprire lo sguardo all’oltre di una presenza altra eppure nascosta e vicina. Ci sono gesti nella vita che sono parabole. Un amico mi ha riferito in questi giorni il gesto di chi, da quarant’anni, quando un condannato a morte viene ucciso nelle prigioni degli USA, si reca davanti all’ambasciata a depositare silenziosamente una rosa con su scritto il nome del condannato. Una parola silenziosa, racchiusa in un nome. Un gesto inutile si direbbe, perduto nell’oceano dell’indifferenza, ma, come questo, i gesti di chi con la fedeltà e la continuità non viene meno all’attenzione all’altro, alla tessitura di solidarietà, all’aprire sentieri di pace, sono i gesti fecondi di futuro, parole significative. Sono quella autentica liturgia che non è il rito avulso dalla storia, ma quella che si esplica nei gesti semplici della vita, del servizio, della parola condivisa, della fedeltà quotidiana a ciò che è apparentemete inutile. Come una goccia d’acqua o un fiocco di neve, inutili. Si può passare indifferenti accanto ad essi ma in essi sta racchiusa quella grande bellezza che, come la gratuità dell’amore e del servizio concreto all’altro, quando è ascoltata e accolta da cuori che si lasciano toccare, può far sgorgare la fecondità della meraviglia che sola trasforma e genera nuova vita.

“E un giorno… un giorno ecco che la neve ha cominciato a cadere e dopo tutte quelle ricerche (…) ecco che un giorno, raccogliendo un fiocco di neve, vedendo la sua perfezione, la sua bellezza, la differenza con tutti gli altri ho avuto (oh, non è un ragionamento) ma ho avuto come un’intuizione che c’era qualcuno dietro il più piccolo fiocco di neve. (…) C’era tanta bellezza, grandezza e tanta diversità nello stesso tempo per una cosa così effimera che bisognava bene che ci fosse una intelligenza, un pensiero, un amore anche dietro quel piccolo fiocco di neve, che si era fuso appena lo avevo preso in mano” (J.Loeuw, Se conosceste il dono di Dio, Città nuova 1975,11).

Alessandro Cortesi op

Wherecoolthingshappen_christals8(tratto da: http://www.linkiesta.it/fiocchi-neve)

XIV domenica del tempo ordinario – anno A – 2014

DSCF5184Zac 9,9-10; Sal 144; Rom 8,9.11-13; Mt 11,25-30

“l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti”. L’interruzione della spirale di guerra, l’abbandono di un arco ormai inutilizzabile e rotto e lo spazio dato ad una voce, disarmata, forte solo della fidcuia in Dio, che parla di pace. Lo sguardo dei profeti non si ferma a constatare l’evidenza, non è atttiudine di indifferenza o giustficazione di irresponsabilità. Come i profeti del passato e del presente Zaccaria, in un’epoca di difficoltà – per Isreale era il ritorno dopo la fine della prova dell’esilio – sa scorgere orizzonti invisibili. Non è illusione ma lettura del tessuto più profondo che sta sotto il visibile e che indica direzione. E’ sguardo al futuro che non costituisce fuga e rifugio consolatorio, ma rinvia ad una provocazione e ad un’esigenza di deidizione per il cambiamento nel presente. Dopo il tempo duro dell’esilio si apre un tempo di cose nuove. Il Tempio sta per essere ricostruito, Gerusalemme e altre città sono in via di riedificazione: si capovolgono le sorti di chi aveva disprezzato e oppresso il popolo d’Israele. Zaccaria vede però nella situazione di chi sta restaurando le antiche rovine la necessità di una ricostruzione interiore, spirituale. E’ tempo della benevolenza del Signore ma si deve guardare più lontano, ad un futuro legato alle promesse di Dio, il futuro che vedrà la venuta del messia.

Annuncia così la figura di un re legato all’eredità di Davide, che apre nuova speranza. Israele è indicato come la ‘figlia di Sion’ e la ‘ figlia di Gerusalemme’ che può vivere l’esperienza di una gioia nuova, di un entusiasmo che si fonda non sulla forza delle armi, ma sulla fiducia. La figura di questo re ha caratteri paradossali, e fa riferimento al cammino dell’intero popolo: non si impone con la forza ma è umile. Non trae la sua forza dalle sue imprese ma dalla fiducia in Dio e attua così la parola di Isaia “nell’abbandono confidente sta la vostra forza” (Is 30,15). La sua politica consisterà nella eliminazione delle armi. “Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato…”. Con questo abbandono dei mezzi di potenza in modo paradossale si aprirà a possibilità di un dominio nuovo: si estenderà sino ai confini della terra. Si tratta di un dominio non di oppressione ma di pace: ‘grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine’ (cfr. Is 9,6); cfr. Is. 11,6-9). Egli è indicato come ‘giusto’; sarà anche vittorioso perché la sua forza è quella di Jahwè. La sua figura appare piuttosto una ripresentazione del servo di Jahwè di Is 42,1-4. E’ una figura paradossale: un ‘re umile’, guida e riferimento di un popolo di poveri, chiamati a seguire Jahwè in un affidamento radicale.

Gesù, in una preghiera di lode riportata dal vangelo di Matteo ringrazia il Padre perché “ha rivelato queste cose ai piccoli e ai poveri”. E’ importante il contesto in cui questa preghiera è posta. Poco prima Matteo ha presentato le parole di Gesù di fronte a coloro che per motivi diversi si opponevano sia a Giovanni Battista sia a lui stesso non accogliendo alcun tipo di provocazione ad essere messi in crisi. Ed evidenzia poi il rifiuto da parte di coloro che si ritenevano fedeli esecutori della legge religiosa. Gesù legge questo fallimento della sua predicazione come occasione di benedizione. Gesù è stato uomo capace di preghiera, e di una preghiera impastata di vita. Pregare per Gesù è esperienza di di gratitudine e gioia, nel riconoscere l’agire e la presenza del Padre. Chi pretende con atteggiamento di autosufficienza e di orgoglio di incontrare Dio sulla base della propria capacità è fuori strada. Sono invece i piccoli ad essere veramente accoglienti, coloro che si aprono a ‘conoscere’ il dono del Padre come dono. Gesù gioisce nel vedere che il Padre sceglie chi da un punto di vista umano è escluso e non considerato. Gesù benedice il Padre per questo.

La sua preghiera, questo inno definito da qualche esegeta un meteorite del IV vangelo finito nel vangelo di Matteo (per il rivnio al tema della ‘conoscenza’ del Padre e del Figlio), e da altri indicato piuttosto come ‘la perla preziosa di grande valore di Matteo’ si compone di tre parti: dapprima un inno di benedizione e un ringraziamento al Padre perché ha rivelato ai poveri e ai semplici i misteri del regno dei cieli; nella seconda parte il riconoscimento di un rapporto unico, di ‘conoscenza piena’ tra il Padre e il Figlio; la conclusione è l’invito di Gesù a seguirlo nel suo cammino di messia mite e povero. A differenza dei maestri che imponevano al popolo una serie innumerevole di precetti e prescrizioni, Gesù si presenta con i tratti di un maestro diverso. L’immagine del giogo era utilizzata dai maestri ebrei per parlare della legge e delle osservanze (Sof 3,9; Lam 3,27, Ger 2,20; 5,5). Gesù chiede ai piccoli: ‘prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore’. E’ Gesù il ‘piccolo’ che vive nell’abbandono fiducioso al Padre: riprende l’immagine del giogo la libera da ogni senso di pesantezza e di insopportabilità: ‘il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero’. Gesù conosce la nostra debolezza e la nostra incapacità. Ma più profondamente apre a considerare che la vita di fede si connota per un rapporto con lui, per vivere una relazione in cui affidarsi a lui libera da pesi inutili imposti da tutti i sapienti. Si possono ritrovare così richiami e differenze ad immagini presenti in un testo del del Siracide (cap. 51) quasi una confessione del cammino di un cercatore della sapienza che ha dedicato le sue forze migliori per inseguirla e metterla in pratica.: “Avvicinatevi a me, voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola. Perché volete privarvi di queste cose, mentre le vostre anime sono tanto assetate? Ho aperto la bocca e ho parlato: ‘Acquistatela per voi senza denaro. Sottoponete il collo al suo giogo e la vostra anima accolga l’istruzione: essa è vicina a chi la cerca. Con i vostri occhi vedete che ho faticato poco e ho trovato per me un grande tesoro (…) L’anima vosra si dieltti della misreicordia di lui, non vergognatevi di lodarlo” (Sir 51,23-30). Nel testo di Matteo appare come Gesù prenda il posto della sapienza (cfr. Mt 11,19).

Gesù invita non coloro che sono senza istruzione ad assumere spaienza con lo sforzo di uno studio, ma coloro che sono appesantiti a liberarsi per trovare in lui riposo. E’ invito ad una via nuova, una ia in cui seguire lui e portare con lui la passione di Dio per il mondo, una via da percorrere come cammino, nell’affidamento e nello scoprire Gesù come sapienza della vita nell’esperienza della misericordia. E’ la via un seguire Gesù uscendo da tutti i pesi di una religione che si è stabilizzata come sistema di potere, che vive nel compromesso e nella paura, che è preoccupata della opposizione all’esterno contro i nemici e di stipulare patti con i potenti per garantirsi privilegi di tipo culturale e materiale. E’ una provocazione a uscire dalla ‘cristianità’ in cui la religione è costruzione stabilizzata e chiusa, e in cui la chiesa stessa pretende essere modello di superiorità e separatezza nei confronti degli ‘altri’. Seguire Gesù è vivere un incontro con il Padre e una scoperta del proprio volto di uomini e donne nella libertà e nell’apertura del cuore. Gesù invita ad un’esperienza di fede che viva la dimensione della misericordia e in cui la chiesa allora si rende presente laddove c’è condivisione con coloro che sono respinti, condannati, poveri. Al centro dev’esserci il rapporto di amore e di fiducia vissuto nella figliolanza, nello scoprirsi responsabili di fraternità da custodire e costruire e non da schiavi.

Paolo nella lettera ai Romani riprende quanto aveva sviluppato nella lettera ai Galati riflettendo sulla libertà dell’esistenza cristiana (Gal cap. 5). Lì aveva sintetizzato la sua riflessione nell’espressione ‘camminate secondo lo Spirito’. Due logiche sono contrapposte, quella del vivere secondo l’egoismo che fa ripiegare su di sé (il dominio della carne), e quella del lasciarsi cambiare nella cura e nell’attenzione mite agli altri (il dominio dello Spirito). Vivere secondo lo Spirito è stare immersi nella realtà del quotidiano, scegliendo la via del servizio e della nonviolenza.

Alessandro Cortesi op

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