La lentezza della storia e le responsabilità nel presente
Trovo importante in questi giorni segnati da violenza, dalle provocazioni, e in cui prevalgono i sentimenti e le voci più estreme, dare spazio ad analisi che guardano al lungo periodo e alla complessità dei cammini dei popoli irti di difficoltà e di sofferenze.
Riprendo due articoli letti in questi giorni, dopo l’assassinio di Chris Stevens, ambasciatore degli USA in Libia, uomo che coltivava nella sua azione un ideale di far comunicare non solo i governi ma i popoli, capace di parlare la lingua dell’altro, l’arabo, per poter colmare le distanze e le incomprensioni.
Questi articoli delineano una analisi a mio avviso capace di offrire elementi per orientare un giudizio su quanto sta accadendo. In questi momenti si fa ancor più urgente confermare gli sforzi e le azioni di tutti coloro che operano sui territori di confine, sulle pericolose ‘terre di mezzo’, quelle lontane ma anche quelle vicine delle nostre città. In esse si può e si deve operare perchè questi spazi non vengano ridotti ma trovino modo di allargarsi e possano comprendere tutti coloro che si aprono a riconoscere la responsabilità che la libertà implica e il chiaro e deciso rigetto della violenza.
In questi ambiti di frontiera si può scoprire l’importanza dei passi faticosi della maturazione propria e altrui. Attuare democrazia e libertà non è compito già concluso per qualcuno e ‘da fare’ per altri, ma è impegno sempre da ricominciare, è conquista da custodire ma rendendola attuale, soprattutto di fronte a segnali eclatanti di crisi.
Attraversare i confini e farne occasione di riconoscimento di differenze ma anche di accoglienza della possibilità di umanizzazione nell’incontro e non nello scontro è la grande sfida che abbiamo davanti anche nel seguire il cammino storico che stanno vivendo i popoli nel mondo arabo. (a.c.)
Mimmo Candito nell’articolo La storia è più lenta delle illusioni (La Stampa 15.09.12) contrappone il sentimento di entusiasmo e illusione nel periodo dell’inizio della primavera araba e la delusione e sentimento del fallimento di tanti ideali che oggi si diffonde guardando le immagini di un mondo arabo dove sembrano soprvanzare le tesi di forze politiche estremiste. Offre tra l’altro l’indicazione a guardare non in modo schiacciato sul presente ma leggendo i lunghi e pazienti percorsi dei processi storici. Ne riporto alcuni brani:
“Meno di due anni fa, la Primavera araba ci ha incantato e affascinato, vi vedevamo il trionfo dell’illuminismo della nostra civiltà; e davamo per acquisito quello che invece stava appena nascendo. (…)
Ci sbagliavamo, certo; proiettavamo sull’altra sponda del Mediterraneo le nostre illusioni. E oggi che anche laggiù le illusioni devono misurarsi con la spigolosità cruda e dura della realtà, allora passiamo subito al nuovo fotogramma, quello del fallimento, della delusione amareggiata, anche del giudizio saccente sulla inferiorità delle altre civiltà. La Primavera che già è morta, perché come si vede dai giornali essa è impossibile a quella latitudine: «quelli» sono arabi.
La Storia è paziente, non ha fretta. Anche la democrazia è paziente, deve esserlo, perché deve conquistare le menti, il costume, il senso comune, le abitudini irriflessive. Ci vuole tempo, e arabi e europei allo stesso modo – pur con le loro incontestabili differenze – devono cedere al Tempo il dominio dello sviluppo delle cose.
Sotto lo stupore disperato del massacro siriano, sotto la nuova insofferenza delle masse egiziane, sotto l’esplodere angoscioso dell’assalto di Bengasi, stiamo già passando al fotogramma del fallimento della Primavera, e abbiamo dimenticato quanta incertezza, quanti turbamenti, quante retromarce, quanta violenza anche, hanno accompagnato la nascita e il consolidamento della democrazia in quei paesi dell’Est europeo che per mezzo secolo avevano fatto da satelliti al sol dell’avvenire sovietico. E abbiamo dimenticato anche quante cronache amare ha dovuto raccontare, e quanto sangue, il lungo rientro alla democrazia delle dittature mediterranee, la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar, la Grecia dei colonnelli. Anche il nostro stesso paese. Che pur erano tutte, o quasi tutte, società nelle quali il sentimento della libertà individuale aveva comunque radici, un costume, una cultura.
(…)
Vi è comunque, e conta certamente, un elemento di diversità, tra quanto sta accadendo in questa transizione araba e le transizioni delle democrazie europee. Il fattore religioso. La pace di Westfalia aprì un tempo nuovo in Europa, ma una Westfalia non sta nella mappa del Medio Oriente; l’uso politico della fede religiosa inquina e intorbida i processi di modernizzazione, blocca l’evoluzione laica (liberale, dunque, illuminista) delle società, ne tarda la sedimentazione, appiattendo sui dogmi della fede gli stessi processi identitari «nazionali».
La Primavera araba aveva anche un bisogno collettivo di libertà ma, soprattutto, aveva un bisogno collettivo e individuale di riscatto sociale, di conquista d’una quieta vivibilità economica, della uscita dalla desolazione antica dei «dannati della terra». Di tutto questo, finora si sono avute soltanto parcelle, significative ma alla fine insufficienti: la libertà si è quasi sempre fermata sulla soglia del processo elettorale, e il desiderio di star meglio, di avere un lavoro, una speranza, di farsi finalmente borghesia, si è arenato nella cacciata delle vecchie consorterie di potere. L’elemento identitario della religione è allora apparso a molti il fattore con cui puntare a recuperare la capacità d’incidere su un processo che si stava esaurendo (…)”.
Pasquale Ferrara, Segretario generale dell’Istituto Universitario Europeo, nell’articolo Profeti di sventura contro l’Islam democratico pubblicato su“L’Unità” del 18 settembre 2012, mette in guardia rispetto ai processi di deragliamento e all’azione dei sabotatori esterni e interni:
“(…) Nella «primavera araba» i profeti di sventura non sono mancati in Occidente; ma non sono mancati – e non mancano tuttora – i «sabotatori» locali. L’attentato all’Ambasciatore Stevens a Bengasi – e occorre ricordare che il suo «curriculum» ce lo mostra soprattutto come un uomo del dialogo – va analizzato alla luce di questo tentativo di far saltare il consolidamento democratico. Ma bisogna essere vigilanti e non cadere nella trappola nella quale gli «spoilers», quelli che remano contro, ci vogliono attirare.
Una prima lezione di questa prudenza ci viene proprio da Obama, che ha giustamente sottolineato, nella prima dichiarazione che ha fatto seguito all’attentato di Bengasi, come le religioni in quanto tali vadano tenute fuori da questo cinico gioco al massacro. E soprattutto ci mettono in guardia dal confondere il sentimento religioso di interi popoli con l’agenda politica di pochi.
Ciò vale anzitutto per l’Islam, che è spesso ostaggio di «islamisti» i cui obiettivi hanno a che fare più con la conquista e conservazione del potere che con la diffusione del credo del Profeta. Ma vale anche per l’Occidente «cristiano», quando gli «atei devoti» utilizzano tragedie e lutti che colpiscono l’umanità intera come la conferma che nessun dialogo è possibile, che esistono culture e religioni «superiori» e che l’unica politica internazionale plausibile, in questi casi, è l’isolamento o l’esportazione armata della democrazia.
Era questo probabilmente l’obiettivo anche degli autori del film che ha scatenato l’indignazione e la protesta nel mondo islamico: una provocazione, per generare una reazione a catena che porti a concludere che nessuna «primavera» è possibile nel mondo arabo.
La strategia europea verso queste aree dovrebbe essere improntata a maggior realismo: al contrario di quanto si crede, infatti, non è affatto «realistico» concepire tali società come completamente plagiate dalla logica dell’islamismo militante aggressivo. Era inevitabile e scontato che gli eventi nella regione mediterranea e mediorientale avrebbero portato all’espansione della sfera di partecipazione politica, con l’ingresso sulla scena politico elettorale di nuovi attori; ed era perfettamente prevedibile la comparsa o il consolidamento di movimenti politici di ispirazione religiosa, in taluni casi precedentemente banditi dalla vita politica nazionale.
Lungi dal demonizzare tale processo, si sarebbe dovuto prendere atto che senza una piena integrazione dell’Islam politico nello scenario la stessa sostenibilità delle trasformazioni in corso avrebbe potuto essere messa a repentaglio. In Paesi come la Tunisia e l’Egitto, il dialogo politico di cui avremmo bisogno riguarda una vecchia idea europea. In molti Paesi del Vecchio Continente – ad esempio in Italia, Germania, Belgio, Spagna, e per alcuni versi anche in Francia – sono state sperimentate, negli anni, formule di impegno politico di cittadini portatori di visioni del mondo improntate a motivazioni religiose.
L’esperienza storica dei movimenti politici europei di ispirazione religiosa è stata caratterizzata da una modalità di presenza nel sistema politico che ha tenuto conto dei principi di laicità e si è articolata nel contesto di istituzioni democratiche e rappresentative, con il pieno recepimento dei principi costituzionali e il rispetto del pluralismo politico e culturale. Se è stata possibile una «democrazia cristiana» (come ragione dell’impegno politico dei credenti) perché permettere a pochi islamisti violenti e reazionari di convincerci che non sarà mai possibile una «democrazia islamica»? Attenzione: è questo che vogliono farci credere gli epigoni islamici dello scontro di civiltà”.