Pierre Claverie: testimone di semplicità
Suggerisco la lettura di un bell’articolo apparso su Avvenire il 26 ottobre 2012 (Claverie: il martire della «leggerezza») di Daniele Zappalà, che ricorda l’esempio di Pierre Claverie e ripercorre alla luce delle pubblicazioni delle sue lettere i tratti di una testimonianza di leggerezza e semplicità che fa respirare… (a.c.)
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Nei decenni successivi all’Indipendenza, strappata esattamente mezzo secolo fa e al centro quest’anno di celebrazioni ancora in parte controverse, l’Algeria ha rappresentato una delle frontiere più tormentate e insanguinate della fede cristiana, ma pure un laboratorio sorprendente per il dialogo con i musulmani. Di questo confronto Pierre Claverie, il vescovo di Oran assassinato nell’agosto 1996, è stato fino all’ultimo un testimone e un protagonista appassionato. Il suo senso dell’abbandono alla speranza cristiana, la sua sensibilità acutissima verso i dettagli del quotidiano, accanto alla costante ricerca della verità nello scambio con i «fratelli musulmani», traspaiono negli anni, fra l’altro, quasi da ogni pagina di un epistolario fecondo, oltre che sfaccettato in più versanti. In Francia, le Editions du Cerf hanno intrapreso pure la pubblicazione separata delle frequenti lettere che Claverie spedì ai carissimi familiari rimasti in Francia. Si tratta di testi dal tono talora lieve e gioviale, a tratti quasi divertito, ma non per questo meno interessanti per cogliere la personalità e il carisma del religioso domenicano.
Come un diario serrato, le missive ricalcano le traiettorie di una vita spirituale e intellettuale in perpetuo movimento, sia pure attorno a punti fermi come la preghiera, il bisogno di semplicità, il continuo «adeguamento all’altro». Il terzo tomo di questo epistolario, appena pubblicato, copre il periodo cruciale dal 1975 al 1981, durante il quale Claverie dirige ad Algeri il centro diocesano di studi, divenuto per lui una palestra quotidiana della «volontà ostinata di vivere assieme». Sono gli anni delle occupazioni dei luoghi simbolo della storica presenza cristiana nel Paese: Nostra Signora d’Africa ad Algeri, la basilica Sant’Agostino a Ippona, la basilica di Santa Cruz ad Oran. E sono pure gli anni che sfoceranno nell’ordinazione episcopale di Claverie, nato nel 1938 nell’Algeria ancora coloniale e poi tornato, dopo gli intensi studi teologici in Francia a contatto con figure come Marie-Dominique Chenu e Yves Congar, in un Paese mutato e attraversato da tensioni brucianti e fermenti imprevedibili.
Curato dal cognato di Claverie, Eric Gustavson, il ponderoso volume (770 pagine) è organizzato in 42 capitoli. I titoli del primo e dell’ultimo sono citazioni intrise d’ottimismo: «Una casa piena e ronzante» e «Siamo felici della nostra leggerezza». Ma la frase scelta per illustrare l’intero tomo esprime molto meglio gli equilibri instabili e le sfide aperte: «Laddove si pongono le vere domande». Da un punto di vista anche letterario, la prosa di Claverie seduce pure per il continuo moto convettivo fra le profondità talora abissali degli interrogativi lanciati e l’umore gaio del religioso. Benché non si tratti in senso stretto di una lettera ai genitori, il testo che forse riassume il volume e verso il quale tutte le altre pagine sembrano convergere è la splendida omelia pronunciata il 2 ottobre 1981 per l’ordinazione episcopale. Rivolgendosi di colpo ai propri «amici, fratelli e sorelle cristiani d’Algeria», il vescovo appena quarantatreenne li esorta in questi termini: «Abbiamo appreso assieme che la forza del Vangelo non è nella potenza. Lo svolgimento di questa liturgia non deve ingannarci, né illuderci: siamo felici della nostra leggerezza. Più ci consegneremo alla semplicità, meglio potremo vivere dello Spirito di Gesù Cristo che ci spinge a servire e ad amare senza cercare di conquistare e possedere. È forse una follia credere alla gratuità, alla forza della povertà che obbliga a dare un po’ di se stessi per umanizzare il mondo amandolo. Ma se i cristiani non vi credono più, allora questo mondo sarà definitivamente consegnato alla volontà di potenza di coloro che ricercano solo il proprio interesse». Il 19 dello stesso mese, i genitori del presule sono già rientrati in Francia e il figlio scrive loro una corta missiva che fra le righe pare annunciare tutto il resto: «Cerco di riprendere il ritmo settimanale… I riflettori si sono spenti, il lavoro comincia.
Occorre dire che la festa è durata una buona settimana e che sono adesso trascinato da questo slancio di cui il nonno e la nonna sono divenuti testimoni sbalorditi! Il fidanzamento è stato un successo, adesso comincia l’autentico apprendistato della vita a due: la mia diocesi ed io…». La ricerca assoluta dell’umiltà non abbandonerà mai l’azione quotidiana del vescovo, che ha spesso ricordato quanto fosse affascinato dalla frugalità dei trappisti. Al suo arrivo ad Oran, Claverie ha appena due bagagli in mano. «Tutto è qui», risponderà semplicemente all’assistente che gli chiede quando e dove giungerà il resto. Nel 1996, pochi mesi dopo l’eccidio dei monaci di Tibhirine e in un Paese martoriato ormai sprofondato nella follia della guerra civile, il presule verrà assassinato in un attentato dinamitardo, assieme all’autista Mohamed Bouchikhi. Ai funerali, assisterà pure una fitta folla indistinta di abitanti musulmani di Oran: bottegai, cuochi, barbieri, semplici vicini. «La parabola del chicco di grano che muore è l’asse centrale di tutta la mia vita cristiana», amava ripetere l’indimenticato vescovo.
XXX domenica del tempo ordinario – anno B – 2012
Un racconto di miracolo: un cieco che giunge a vedere. Con la sensibilità di moderni siamo perplessi ed anche scettici di fronte ai racconti di miracoli. Tante domande si fanno strada. Certamente anche nei vangeli questi racconti chiedono di essere interpretati e di non essere lasciati nell’ambito del meraviglioso. Certamente recano una memoria ed una traccia di gesti e di incontri di Gesù. Nel suo andare Gesù era capace di cura e di restituire energie sopite, aperture di vita alle persone, ai malati, a sofferenti nel cuore e nel corpo. La guarigione di un cieco racchiude il ricordo di gesti di cura verso chi come il cieco è immerso nel buio, ma anche è fessura che lascia intravedere un itinerario di fede: fede come una modalità di vedere, di aprire gli occhi ad una luce che non cambia le cose ma le fa scorgere in modo nuovo e trasforma invece i cuori.
Marco racconta che a Betsaida, Gesù aveva guarito un cieco. E subito dopo la domanda di Gesù ai suoi: “Voi chi dite che io sia?” (Mc 8,27-30). Sono capaci di vedere il suo volto? La strada è lunga e faticosa per questo. Al cap. 10 un altro cieco. Questa volta è chiamato per nome Bartimeo, figlio di Timeo, ripetutamente. Egli grida a Gesù come figlio di Davide: è voce che sulla strada, evoca l’acclamazione delle folle a Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme ormai imminente. Lì Gesù è acclamato come re atteso, figlio di Davide, ma ancora si gioca una forte incomprensione che condurrà all’abbandono e all’ostilità delle folle nei momenti drammatici della passione.
A Gerico l’incontro si svolge sulla strada. Sulla strada il cieco stava seduto a mendicare; sulla strada Gesù passa; sulla strada, al termine di questo incontro, Bartimeo si mette a seguire Gesù. Al centro il grido: “Gesù, figlio di Davide abbi pietà di me!”. Al re Davide Dio aveva donato la promessa di una discendenza che avrebbe portato la benedizione di Dio stesso. E il messia avrebbe compiuto segni di liberazione come l’aprire gli occhi ai ciechi (2Sam 7,8-17; Is 11,1-9).
Nel grido di Bartimeo, c’è in qualche modo questa attesa. Si rivolge a Gesù, mentre la folla è di ostacolo. Paradossalmente è il cieco ad avvertire la presenza di Gesù come messia. Tuttavia anch’egli è cieco, incapace di vedere quale tipo di messia è Gesù. Lo invoca pensando a Davide che aveva riunito un regno con la forza. E ciononostante sta nell’attitudine del chiedere con insistenza, con caparbietà oltre la folla, come mendicante. E la folla lo tiene lontano: c’è un ruolo sempre negativo delle folle indistinte. Gesù lo fa chiamare. Fa sì che coloro che volevano tenerlo distante lo chiamino. Il cieco abbandona il mantello, proprietà indispensabile e propria del povero, e – dice Marco – si alzò, evocando così il movimento di una risurrezione già iniziata. Senza vista e senza il mantello, sua unica ricchezza, Bartimeo si pone davanti a Gesù. La domanda che lo raggiunge è un’eco del dialogo con i due fratelli Giacomo e Giovanni che – ciechi – non avevano compreso la via di Gesù come via di servizio. “Che cosa volete che io faccia per voi?” (Mc 10,36); “Che cosa vuoi che ti faccia?”. Essi avevano chiesto i posti nella gloria, il cieco invece si rivolge a Gesù con un termine nuovo Rabbunì, riconosce un maestro grande, intravede forse un volto diverso di messia a cui affidarsi: ‘Rabbunì che io riabbia la vista’. Gesù parla così a lui come si era rivolto alla donna malata che lo aveva toccato, in mezzo alla folla (Mc 5,34). Gli dice: ‘Va’ la tua fede ti ha salvato’. Come quella donna anche il cieco cerca di accostarsi a Gesù con un atteggiamento di abbandono e di povertà radicale. Gesù gli risponde solamente riconoscendo la sua fede. Il grande segno è questo. Qui sta l’autentico miracolo. La vista riavuta è indicazione del vedere nuovo che la fede porta nella sua esistenza. “E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo sulla sua strada”. Dal cap. 8 Gesù aveva iniziato ad insegnare ai suoi discepoli lungo la strada ciò che significava il suo percorso. Sulla strada, in cammino: non si tratta di un insegnamento da imparare ma di una relazione con lui da vivere insieme. Sulla strada Gesù si era scontrato con l’incomprensione e la durezza del cuore dei discepoli, chiusi nella ricerca dei primi posti o di un’affermazione umana. Solamente l’affidarsi pienamente a Gesù e solo un suo intervento può aprire gli occhi per seguirlo verso Gerusalemme. La strada verso Gerusalemme: la via della passione e della croce. Marco tratteggia nelle parole e nei movimenti del cieco Bartimeo un esempio del discepolo. Discepolo è colui che si lascia cambiare da Gesù, che si apre a vedere in modo nuovo. Discepolo è colui che si apre al miracolo della fede che fa vedere. La tua fede ti ha salvato. E lo seguiva infine: non un entusiasmo momentaneo ma il continuare a seguirlo sulla via di un messia che vive la sua vita come servizio fino alla fine.
Penso a quelle che possono oggi essere le cecità del nostro tempo, l’incapacità di sguardo che tiene chiusi e bloccati, incapaci di alzarsi e di mettersi a seguire quella strada del servizio che è la strada di Gesù. C’è una cecità diffusa come soddisfazione delle cose e sicurezza o paura di perdita delle sicurezze nel benessere materiale. C’è quella cecità che è incapacità di riconoscersi poveri in una società in cui il posto è assicurato solo per i primi. Incapaci di chiedere, di mendicare. C’è la cecità fatta di pretesa di onnipotenza sulla vita propria e altrui, con il fastidio per i mendicanti che passano, al punto da volerli cancellare con ordinanze comunali. C’è la cecità che diviene gelosia per quanto si ha senza guardare le fatiche di chi non ce la fa. Cecità che chiudono all’incontro con gli altri, ma anche con l’Altro che passa…
Sulla strada di Gerico Gesù incontra Bartimeo. Oggi le strade divengono sempre più invivibili, per il traffico, per l’inquinamento, per la delinquenza, per la spersonalizzazione di masse senza nome e senza volto che s’incrociano di fretta senza salutarsi. E sulla strada tanti giovani si perdono, e i più fragili divengono preda di chi sfrutta. Come riscoprire le vie, le strade, i luoghi fisici delle città dei paesi, come luoghi dove incontrare persone, in cui scoprire nomi e volti, dove superare la cecità che impedisce di vedere e dove superare l’indifferenza e l’esclusivismo della folla che emargina e allontana?
La tua fede ti ha salvato… è parola sconvolgente. Gesù parla di qualcosa che è tutto in Bartimeo. Bartimeo vive questa fede nel suo mendicare e invocare, mentre le folle lo allontanano e zittiscono. C’è una drammatica contrapposizione. Come poter scoprire la parola di Gesù che riconosce la fede al di là delle appartenenze, fuori dalle cerchie religiose, in chi è tenuto a distanza o fatto tacere, e conduce a riavere la vista? Come ascoltare e portare questa parola rivolta a tutti coloro che nella vita sono aperti a chiedere, a cercare, si lasciano chiamare e alzare?
Alessandro Cortesi