XXV domenica tempo ordinario – anno A – 2014
Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1,20c-27a; Mt 20,1-16a
La parabola degli operai chiamati a lavorare a diverse ore del giorno nella vigna è presente solamente in Matteo. E’ racconto che fa riferimento ad una quotidianità di lavoro, di sfruttamento, di proprietari di terre e di lavoratori che attendono di essere presi a giornata anche per poche ore.
E’ un racconto che riporta la quotidianità di un’esperienza diffusa nel mondo in cui Gesù viveva, la Galilea segnata dall’arricchimento di proprietari terrieri e da una situazione di impoverimento di molti e di ingiustizia. In molti elementi del racconto il richiamo è alla vita: il lavoro nella vigna, l’uscire del padrone alle diverse ore del giorno, il suo recarsi alla piazza, dove qualcuno attendeva di essere preso a giornata, il suo scorgere chi se ne stava in attesa dal mattino fino alla sera.
Eppure è una vicenda che apre al disorientamento e all’interrogativo. Lo sconcerto giunge alla fine, al momento del venire della sera, quando il padrone chiama gli operai per dare loro la ricompensa. La sorpresa sta nel fatto che il salario è uguale per tutti, per gli ultimi arrivati, come per quelli che avevano lavorato sin dalle prime ore del mattino. Un denaro è il compenso pattuito ed è una buona ricompensa per un giorno di lavoro. Ma è la medesima paga data anche agli ultimi. A partire da un paragone con una situazione di vita in cui molti potevano riconoscersi, come sempre nelle parabole, si pone la questione di un salto, di un riferimento ad altro. Questa parola non intende essere una istruzione per gestire i rapporti di lavoro, ma al cuore di queste come di tutte le parabole di Gesù sta la questione dell’incontro con Dio, la grande domanda sul volto di Dio: ‘il regno dei cieli, infatti, è simile ad un uomo, padrone di casa…”
Lo sconcerto è espresso dal verbo ‘mormorare’: “ricevutolo, mormoravano contro il padrone di casa dicendo: questi ultimi hanno fatto un’ora sola, e li hai fatti uguali a noi, che abbiamo portato il peso della giornata e il caldo”. La lamentela si giustifica secondo una logica che vede la ricompensa essere proporzionale al lavoro compiuto: tanto lavoro, tanti soldi. Mormorare è un verbo che richiama la reazione di Israele nel deserto, quando aveva messo in dubbio la presenza di Dio nel faticoso cammino. E’ così indicazione che nel racconto di Gesù la questione è sul volto di Dio vicino e sul cambiamento che l’incontro con lui richiede.
La parabola ha qui il suo vertice: la risposta del padrone va al profondo delle obiezioni che gli sono rivolte: come mai la paga è uguale per gli ultimi come per i primi? Gesù affronta questa obiezione smascherando ciò che Matteo indica come ‘l’occhio appesantito’. Lo sguardo pesante è quello occupato dall’invidia, dal misurarsi in rapporto agli altri nei termini della competizione e della rivalità. Vive il peso di un modo di concepire Dio come padrone ingiusto e lontano, che misura tutto secondo i criteri del merito, come freddo calcolatore. Le parole del padrone rinviano ad un’altra logica che trova le chiavi di fondo nella parola ‘amico’ con cui inizia il dialogo e nella questione sul suo essere buono: ‘Amico, non ti faccio torto: non ti eri accordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; io voglio dare a quest’ultimo come a te. Ovvero non mi è lecito fare quello che voglio con le cose mie? Oppure il tuo occhio è malvagio perché io sono buono?’.
Questa risposta apre innanzitutto uno squarcio su come funzionano le cose nella relazione che Dio instaura con noi, cioè, nel linguaggio di Matteo, nel regno dei cieli che ha fatto irruzione con la vita di Gesù. E’ una parola sul volto del Padre che Gesù annuncia. Il padrone di casa è un uomo che va oltre la logica del compenso: guarda al cuore, la sua preoccupazione è la relazione vivente. Non ragiona in termini di mercato: non tutto può essere valutato in base al denaro e c’è qualcosa di più e di altro nella vita rispetto al denaro.
Ma queste parole sono anche una lettura profonda del cuore umano: l’obiezione di chi mormora si accentra sul fatto che il padrone “ha fatto gli altri uguali a noi”. C’è uno sguardo all’altro che coltiva un senso di superiorità e un desiderio di affermare la propria differenza e privilegio, laddove si è realizzato qualcosa di più. C’è in fondo il desiderio che l’altro abbia invidia e che si misuri la differenza sulla base dei soldi ricevuti.
Il padrone di casa rompe questa logica: ‘non ti faccio torto: non ti eri accordato con me per un denaro?’ ma soprattutto si rivolge a quell’uomo, chiamandolo ‘amico’. C’è qualcosa di più della prestazione di manodopera ad un prezzo giusto o abbondante. Il volto del padrone rivela una logica nuova: il padrone gioisce perché nessuno è escluso, e perché quel lavoro può essere occasione di vivere un incontro in cui lo sguardo non è quello del dipendente o del suddito, ma è lo sguardo degli amici. C’è anche un messaggio sul lavoro umano: la questione del lavoro è riconsdotta a far sì che sia esperienza in cui si promuova il volto di ciascuno, la dignità diogni persona e in cui si apra spazio a relazioni non di esclusione ma di incontro.
La risposta del padrone è innanzitutto una provocazione ed un invito ad un cambiamento del cuore: è invito a lasciarsi liberare da quella preoccupazione che l’altro sia accolto e abbia il suo spazio. L’essere fatti uguali è segno di un superamento del dominio dei soldi e di un modo di leggere la vita sulla base di un valere di più e nella paura dell’altro. E’ poi anche invito ad assumere lo sguardo di Dio che gioisce quando ognuno si sa accolto e riconosciuto.
Alcune riflessioni per noi oggi
Un primo pensiero che questa parabola può suggerire è una forte provocazione ad uscire dalla logica del mercato e ad entrare nella logica dello sguardo rivolto all’altro e della responsabilità. Viviamo un tempo in cui grande accento viene dato all’efficienza e al merito di ognuno. La parabola indica uno stile: rapportarsi agli altri senza cadere nella spirale dell’invidia. Invidia è incapacità di vedere e incapacità di immaginare. C’è infatti la capacità di scorgere la situazione dell’altro, di potersi immaginare nella sua condizione, di essere vulnerabili a ciò che vive soprattutto chi ha meno possibilità. Fare uguaglianza non significa appiattire tutto e mortificare le potenzialità, ma è tensione a far sì che chi ha meno possibilità possa essere aiutato ad avere spazi e modi per esprimere se stesso, ad avere uguale punto di partenza per camminare. Viene da pensare che l’articolo 3 della Costituzione italiana che parla di uguaglianza in questi termini è un riferimento fondamentale che racchiude un profondo significato evangelico.
Al cuore delle parabole sta la preoccupazione del volto di Dio. Questa parabola è percorso suggerito per aprirsi al Dio della gratuità e della misericordia. E’ una parola che genera cambiamento del modo di pensare Dio. E questo è unito al rapporto con gli altri: passa infatti attraverso un modo diverso di guardare agli altri, liberandosi dal cuore pesante. Sempre le parabole sono parole efficaci di itinerari di conversione.
Viviamo un tempo segnato dalla violenza e dalla logica della vendetta. Nel mondo del pluralismo e delle diversità, sociali, culturali, religiose c’è una chiamata di Dio, una sfida particolarmente attuale. E’ il passaggio dalla visione limitata, dalla logica dell’invidia e dell’ostilità, alla scoperta del senso profondo della missione della chiesa nel mondo del pluralismo: essa può essere espressa nei termini del ‘rendere amici’. Lo sguardo del padrone del vigna rivolto ai primi è uno sguardo amico, che intende aprire a scorgere la preziosità di una relazione con lui e con gli altri come senso profondo del laoro e della vita. E’ questa una via aperta…
Il lavoro nel tempo della crisi è ambito nel quale si vivono le più grandi difficoltà. Proprio questa parabola potrebbe apririe la domanda su come intendere il senso del lavoro, come esperienza di sguardo all’altro e come luogo in cui si possa crescere in umanità e in relazioni significative: al centro del lavoro sta l’uomo e la donna e ogni lavoro pone in una rete di relazioni con gli altri. E’ forse da cogliere la provocazione ad un senso nuovo del lavoro uscendo dalla schiavitù di una precarizzazione che riduce le persone a strumenti e a merce?
Alessandro Cortesi op
XXVI domenica del tempo ordinario – anno A – 2014
Matteo colloca nel suo vangelo, tra il capitolo 21 e 22, subito dopo la domanda rivolta a Gesù sulla sua autorità – “con quale autorità fai tali queste cose? (Mt 21,23) – tre brevi parabole. La prima è la parabola dell’uomo che chiede ai due figli di andare a lavorare nella vigna; la seconda è quella dei vignaioli che maltrattano i servi inviati dal padrone e uccidono il figlio; la terza è la parabola del re che fece un banchetto di nozze ma gli invitati non vollero andare. Matteo riprende qui materiale già presente in Marco (la parabola dei vignaioli al cap. 12) e con paralleli in Luca (Lc 14,15-24 la parabola degli invitati in un diverso contesto). La collocazione di queste parabole accostate insieme conduce a cogliere un messaggio di fondo: la storia della salvezza è un dono di relazione. C’è un protagonista al centro che chiama, che invita, che si offre. Al cuore dell’esistenza credente sta una chiamata, un invito da parte di Dio, ed è un invito aperto che si fa appello e invio. Tuttavia questa offerta di incontro e di vita si scontra drammaticamente con la possibilità del rifiuto, con la non accoglienza, con la durezza di chi non si lascia smuovere, cambiare, convertire e con l’ipocrisia di chi si limita a parole vuote, a proclamazioni di discorsi che non toccano la vita e non cambia il suo agire.
Di fronte agli inviati, i profeti di Israele, Giovanni Battista infine Gesù e gli inviati del messia si può cogliere una storia di accoglienza da parte di chi si rende disponibile ad un cambiamento ma anche il dramma del rifiuto. Matteo sintetizza tutto questo in una breve parabola, quella del padre e dei due figli.
(E’ da notare In alcune traduzioni l’ordine delle risposte dei figli appare diverso. Nelle versioni che si rifanno alla lezione del codice Vaticano si riporta per primo il figlio che dice sì alla chiamata ad andare lavorare nella vigna e poi non ci va. Altre traduzioni riportano invece la sequenza di altri codici importanti che pongono prima il figlio che risponde di no e poi si pente e va a lavorare. La prima versione sembra essere influenzata dall’interpretazione che vedeva nelle figure dei figli un riferimento ad Israele, il popolo che per primo è stato chiamato, e ai pagani che per ultimi hanno accolto e risposto all’invito della salvezza).
Il riferimento della parabola non è tanto al popolo d’Israele contrapposto ai pagani, ma va piuttosto alla predicazione del Battista: “Venne infatti a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto: i pubblicani e le prostitute gli hanno creduto. Ma voi, vedendo ciò non vi siete pentiti, neppure alla fine, per credere in lui”. C’è uno sguardo a quella che era stata la proposta del Battista vicina e collegata a quella di Gesù.
Il rimprovero è rivolto ai sommi sacerdoti e ai capi del popolo ed è quello di non essersi pentiti, di non aver lasciato spazio ad un cambiamento capace di coinvolgere la concretezza dello stile di vita neppure ‘alla fine’.
La parabola è racchiusa tra due domande: ‘Che ve ne pare?’ all’inizio e, alla fine, “Chi dei due ha compiuto la volontà del Padre?”. E’ provocazione a lasciarsi coinvolgere e a prendere orientamenti pratici.
La prima sottolineatura del dialogo tra il padre e i due figli riguarda la distanza tra il dire e il fare. C’è una contrapposizione tra il figlio che ha detto no e poi è andato a lavorare, e l’altro che ha risposto sì ma poi non ha compiuto la volontà del Padre.
E’ questa una sottolineatura cara a Matteo. Il discorso della montagna era stato concluso proprio nella contrapposizione tra chi dice “Signore, Signore!” (Mt 7,21.22) e non compie la volontà del Padre e chi invece fa la volontà del Padre che è nei cieli. A ben guardare nessuno dei due figli ha risposto pienamente, nessuno ha vissuto un ascolto pieno. E tuttavia questo non è importante. Ciò che conta è la disponibilità a lasciarsi mettere in discussione, a ripensare anche in un secondo momento, e cambiare la propria vita in modo operativo e concreto. Anche ‘alla fine’. Non solo dire ma fare la volontà del Padre. Seguire quella via della giustizia che Giovanni aveva indicato come fedeltà a Dio che chiede un cambiamento, un nuovo orientamento della vita con conseguenze concrete e pratiche.
Questa parabola denuncia in secondo luogo l’ipocrisia di coloro che dicono e non fanno (Mt 23,3): è l’attitudine tipica di chi religioso si limita ad una esteriorità o a discorsi che non hanno poi riscontro nella prassi. E’ questo l’atteggiamento di chi nasconde dietro l’apparenza del ‘dire’, una vita in cui non vi è attuazione del vangelo. E’ il dramma di persone religiose, di uomini del culto, di tutti coloro che chiusi all’interno di un mondo costruito su sicurezze non si lasciano interrogare e provocare dai profeti e non si lasciano cambiare. Nemmeno di fronte a testimoni come Giovanni, che con il suo annuncio destabilizzava ogni ricerca di potere.
“I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. C’è invece chi, pur vivendo in situazioni morali lontane dal vangelo, ha un cuore disponibile. Si sono lasciati toccare dalla via della giustizia annunciata da Giovanni battista. Si lasciano commuovere da un annuncio che li interroga e questo diviene forza di cambiamento e di nuovo cammino.
E’ una situazione ben diversa da chi nasconde la propria infedeltà al vangelo dietro una facciata di perbenismo e di espressioni religiose. E’ questa la sottile ipocrisia che risolve la fede in una apparenza per essere lodati e non ricerca un cambiamento profondo del vissuto interiore in scelte e atti concreti.
Gesù coglie un’apertura sincera e disarmata, senza ipocrisia, in chi pur avendo vissuto situazioni di disonestà, e di immoralità si apre al cambiamento, si espone a manifestare le sue ferite, inadempienze, errrori, ripensa le sue vie e non pretende di giustificarsi nascondendo il proprio comportamento lontano dalla via della giustizia.
Gesù si faceva vicino a chi era tenuto lontano manifestando l’ospitalità del Padre che ha a cuore la vita di ognuno e apre al perdono e al cambiamento. Se ne stava lontano dal mondo religioso chiuso alla inquietudine e alla ricerca, si stupiva invece nello scoprire che qualcuno non aveva paura di perdere la faccia nel cambiare e nell’intraprendere sentieri di autenticità della vita e di incontro con lui.
Siamo soliti leggere questa pagina pensando ai due figli come a soggetti distinti. Forse dovremmo cogliere come nella nostra vita e nel nostro cuore sono compresenti le attitudini dei due figli, di chi risponde no e poi fa e di chi risponde sì e poi non si muove. Matteo insiste sulla verifica che non si ferma alle enunciazioni verbali ma va alle azioni, alle scelte di vita: non chi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli…
La vita al seguito di Gesù si pone come ascolto di una chiamata che è invio e conduce ad un lavorare nella vigna. Nella parabola si sottolinea l’atteggiamento del ripensare, del riflettere del ricredersi. E’ l’attitudine di chi si mantiene aperto, capace di mettersi in discussione, libero nel considerare i propri errori e le proprie valutazioni e prese di posizioni errate. La disponibilità a non considerarsi a posto è base per scoprire orizzonti nuovi nella vita. Il cammino in cui vi sia spazio per pentirsi è un cammino di libertà, che apre oltre le nostre acquisizioni. Apre all’importanza di ascoltare e di lasciarsi cambiare nel rapporto con gli altri e con le situazioni per vivere la via della fedeltà al Signore. Il riconoscee di aver sbagliato costituisce non un segno di debolezza e di incoerenza, ma un passaggio di libertà e di consapevolezza del limite. L’autentico credente sa che tutta la vita è ascolto e cammino sempre nuovo.
Oggi siamo a conoscenza di tante situazioni di povertà, di bisogno, di ingiustizia che richiamerebbero un impegno e una dedizione in tanti modi. E accogliere questo porta a cambiamenti nella nostra vita. Eppure l’atmosfera prevalente è quella dell’indifferenza, della pigrizia che blocca di fronte all’urgenza di smuoversi da una condizione di sicurezza e tranquillità. Si vive così nella conoscenza, nel’informazione di autentici drammi vicini e lontani che toccano persone, ma non ci si commuove. E’ un sapere che non conduce a prendere decisioni per azioni concrete e che talvolta si accompagna a discorsi che non conducono all’impegno. La parola di Gesù è una provocazione ad ascoltare le chiamate di Dio nel quotidiano, soprattutto nella storia delle vittime dell’iniquità del nostro tempo, e accogliere l’invito a lavorare in questa vigna.
Alessandro Cortesi op