Verso il Sinodo dei vescovi sulla famiglia
(Giacomo Manzù, porta della morte, s.Pietro Vaticano)
In questi giorni in cui si rinnovano discussioni e manifestazioni su temi relativi alla famiglia e in cui peraltro ci si avvicina alla seconda sessione del Sinodo dei vescovi che si terrà ad ottobre prossimo, propongo una riiflessione, che suona come appello ed anche come suppllca.
E’ una pagina scritta da un laico credente, René Pujol. E’ una persona anziana. E’ stato negli anni giovanili presidente degli studenti cattolici di Tolosa. Dal 1974 al 2009 è entrato come giornalista in una casa editrice cattolica Bayard, in cui ha diretto per dieci anni la rivista Pèlerin. E’ stato hospitalier a Lourdes, catechista nella sua parrocchia, capo scout nazionale degli Scouts de France. E’ attualmente membro del Consiglio delle settimane sociali di Francia e della Conferenza cattolica dei battezzati francofoni (CCBF) amministratore dell’abbazia di Sylvanès (Aveyron). Nella sua riflessione dice esplicitamente di parlare a partire da un profondo radicamento nella chiesa in cui ha vissuto tutta la sua esistenza.
Pur non avendo occasione di conoscerlo personalmente trovo nelle sue parole un respiro che trasmette la serenità e la libertà del vangelo: sono parole cariche di umanità, di esperienza, di attenzione. Non sono parole che racchiudono esclusione, aggressività e nemmeno quell’attitudine di sospetto e di giudizio pretenzioso verso la vita degli altri che spesso segna i dibattiti in tale ambito. Sono parole buone di cui abbiamo tanto bisogno. Sono parole di un cristiano che proprio per la sua adesione a Cristo si sente chiamato a vivere un’ospitalità capace di compassione, a togliersi i sandali davanti all’altro.
Sono una indicazione che richiama a mio avviso a quella attitudine evangelica che tanti, uomini e donne nella chiesa stanno cercando di vivere nel loro quotidiano, ma che proprio in virtù di una passione per il vangelo e per l’umanità, stanno attendendo anche come presa di posizione ufficiale da parte del magistero. Propongo questa pagina in una mia traduzione. La versione originale francese può essere consultata nel blog di René Pujol dove si possono ritrovare anche le note e i riferimenti del testo. (a.c.)
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“Cari Padri eccoci ancora alla prima aurora di questo anno 2015 che vedrà il compimento del sinodo sulla famiglia voluto da papa Francesco.
Ne ho apprezzato l’intuizione, contento di ritrovarvi la generosità dello sguardo del Vaticano II che ha segnato la mia gioventù. Ho seguito la preparazione e poi i lavori della prima sessione, ho apprezzato la franchezza del dibattito, ho temuto per gli irrigidimenti suscitati dopo la relazione intermedia del card. Erdo, ho sofferto per il timoroso ripiegamento di cui è testimonianza la redazione finale dei Lineamenta, che vi sono stati inviati in prospettiva della sessione di ottobre 2015. So che i mesi che verranno saranno decisivi. Come invita la lettera del card. Baldisseri segretario generale del Sinodo, prendo la libertà di indirizzarvi questa lettera ‘aperta’.
Sono nato cattolico, in una famiglia molto credente, e lo sono rimasto sino ad ora, non avendo mai trovato ragioni sufficienti per rimettere in causa questa appartenenza e far vacillare la mia fede in Cristo. Che dire d’altro, senza cadere in forme di esibizionismo? Questo dice tuttavia il mio impegno costante da mezzo secolo nel seno della chiesa, e precisa il punto da cui vi parlo. E’ proprio dal cuore stesso di questo mio radicamento ecclesiale che vorrei dirvi, per il passato immediato la mia delusione, e per il futuro, che tenete nelle vostre mani, la mia fiducia e la mia speranza.
Mi è piaciuto il respiro del ‘rapporto intermedio’
Del rapporto intermedio, molto criticato, ho apprezzato soprattutto questo soffio di libertà che spingeva la chiesa a decentrarsi così come papa Francesco invita. Sicura della bella notizia che essa porta per la coppia e la famiglia, poteva offrire sul mondo uno sguardo ottimista e generoso. Il testo ci invitava a ‘percepire le forme positive della libertà individuale’, a ‘riaffermare il valore e la consistenza propria del matrimonio naturale’ e ‘riconoscere elementi positivi nelle forme imperfette’ del matrimonio civile, della coabitazione e della convivenza, come nei tipi di unione in cui si potevano ‘riscontrare valori familiari autentici’ laddove trovavano posto: ‘la stabilità, l’affetto profondo, la responsabilità di fronte ai figli, la capacità di resistere nelle prove’.
Ho apprezzato, a proposito dei divorziati risposati, l’idea che un approfondimento teologico possa aiutarci a superare l’unica apertura fatta a queste coppie di una ‘comunione spirituale’; così ho apprezzato il riconoscimento che ‘le persone omosessuali hanno doni e qualità da offrire alla comunità cristiana’ e l’invito a ‘prendere atto che esistono (in tali esperienze) casi di sostegno reciproco fino al sacrificio’ (§ 5, 18, 38 et 22). Come giornalista , ne sono stato testimone negli anni ’80, quando molti malati di AIDS, abbandonati dalla loro famiglia, anche cattolica, morivano nella solitudine avendo come unico sguardo amorevole, al momento del loro ultimo respiro, quello dell’uomo o della donna che condivideva la loro vita.
Se mi guardo intorno…
Ed ecco che la sintesi finale, approvata dai partecipanti al Sinodo romano, che serve ora come documento preparatorio al sinodo ordinario di ottobre 2015, al quale siete chiamati a partecipare, ritornava su queste affermazioni ‘audaci’. Come se, al termine dei loro lavori, ‘i padri sinodali (volessero) trovare i modi per riproporre la bellezza del matrimonio cristiano piuttosto che insistere sugli aspetti positivi delle situazioni problematiche’. Al punto di ricentrarsi sul primo punto rinunciando all’altro.
Cari Padri, se mi guardo intorno: i miei figli e nipoti, tutti in età per vivere l’esperienza di coppia, osservo una bella diversità di matrimoni religiosi o civili, PACS o semplici convivenze. Tra di loro ve n’è uno che ha fatto la scelta radicale di una vita monastica… ortodossa! I loro figli sono, in alcune famiglie, battezzati, in altre no; qualcuno ha celebrato un battesimo repubblicano in comune. Se offro uno sguardo alla nostra famiglia e ai nostri amici scopro vecchie coppie sposate, come noi, ma anche persone sole, o seconde unioni dopo il divorzio. E tra i vicini o conoscenti: omosessuali, coppie libere da ogni legame giuridico, altre che hanno stipulato i PACS o che si sono sposate da poco.
Mi trovo a vivere in mezzo a loro. Con felicità e riconoscenza. La domenica, alla messa, le porto senza differenze nella mia preghiera. Vedo in loro una testimonianza: di fedeltà nella coppia, di affetto reciproco e di sostegno, di responsabilità verso i figli, di capacità di resistere nelle prove della vita, di apertura agli altri… in breve tutte qualità percepite come costitutive del matrimonio cristiano per tutte e tutti coloro che accettano che Dio abbia qualcosa a che vedere con il loro amore! Ed essi sanno che verso di loro nutro rispetto, stima e affetto. E desidererei tanto renderli partecipi nella mia chiesa.
Queste ‘periferie’ dove sembra che non vogliate avventurarvi
Senza dubbio vivono in quelle periferie che papa Francesco ci invita a visitare, e dove al momento sembra volervi dissuadere dall’avventurarvi. A meno che vi sia qualche anima da riportare all’ovile. ‘Bisogna accogliere le persone, con le loro esistenze concrete, sostenere la loro ricerca, incoraggiare il loro desiderio di Dio e la loro volontà di fare pienamente parte della chiesa’. ‘Tutte queste situazioni devono essere affrontate in modo costruttivo, cercando di trasformare in occasione di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del vangelo’.
Vedete, cari Padri, coloro di cui vi parlo non esprimono necessariamente, oggi, un desiderio di Dio che li condurrebbe a voler far parte pienamente della chiesa. Vivono e sono contenti di vivere, apparentemente senza Dio e senza chiesa. Tuttavia, come laico credente, camminando da tanto tempo accanto a loro, con alcuni da sempre, desidero incarnare vicino a loro questa ‘arte dell’accompagnamento’ costitutiva del mio battesimo, che presuppone ‘di imparare a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro’ quale che sia la sua appartenenza o il suo progetto di vita.
Quando la chiesa si rifiuta di vedere Dio all’opera nel cuore delle persone
Sulla situazione dei divorziati risposati osservo che vi è ormai proposto ‘un approfondimento ulteriore’ e su quella delle persone omosessuali, la ricerca di una attenzione pastorale in riferimento all’insegnamento della chiesa secondo cui: ‘non c’è alcun fondamento ad assimilare o stabilire analogie, neppure lontane, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia’. Ciò conduce al paradosso che la chiesa si rifiuta di vedere Dio all’opera nel cuore delle persone a meno che questo non corrisponda alla sua comprensione del piano di Dio. Senza neppure domandarsi se tale comprensione rimane valida!
Cari Padri, a distanza di qualche mese dall’evento che segnerà sicuramente la vita della nostra chiesa, misuro la vostra responsabilità e non dubito della vostra determinazione a volerla assumere in fedeltà alla parola di Dio. Sono consapevole dei mutamenti culturali che sono all’opera nelle nostre società e delle tensioni che sorgono dai nostri desideri contraddittori di libertà individuale e di servizio al bene comune. Comprendo la preoccupazione vostra di ricordare alle giovani generazioni come il cammino dell’amore, di fedeltà e di fecondità che è loro proposto risponde alle loro attese più profonde e che Dio può aiutarli ad assumerlo nelle prove della vita. Condivido lo sguardo pastorale al quale i Lineamenta invitano perché nelle nostre comunità nessuno si senta escluso, emarginato, disprezzato a causa di un suo fallimento, della sua sofferenza o del suo semplice desiderio di cercare la felicità.
Trasformeremo il mondo se non lo amiamo?
Ma gli altri, cari padri? Tutti gli altri che, per ragioni che sfuggono a voi e a me, si trovano indifferenti alla chiesa e alla religione? Tutti questi altri in mezzo a cui viviamo nel quotidiano perché sono i nostri figli, i nostri amici, i nostri vicini… non avremmo altro da dire loro che offrire loro un impossibile invito alla conversione? Trasformeremo il mondo se non lo amiamo già così com’è? Se non diciamo che è già amato da Dio? Se non sappiamo godere già del di più di umanità, di solidarietà? Se decidiamo di riservare il nostro sguardo e il nostro cuore alle sole persone che possono entrare nell’ambito della chiesa cattolica, apostolica romana? E saremo ancora fedeli al vangelo di Matteo 25, allo spirito delle beatitudini?
Cari Padri, non voglio abusare del vostro tempo che ci è prezioso. La XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo a cui siete invitati a partecipare ha per oggetto: ‘la vocazione e la missione della famiglia nella chiesa e nel mondo contemporaneo’. Abbiate il coraggio di discernere con noi, con generosità, in questo mondo contemporaneo così denigrato, l’ampiezza e la diversità dei semi del Verbo, per farli crescere insieme, sapendo che a Dio solo appartiene decidere delle condizioni di ingresso nel regno”. (René Pujol)
XIII domenica tempo ordinario anno B – 2015
Nel quadro della missione di Paolo una rilevante importanza ha il progetto della colletta da lui promossa e richiesta tra le comunità per recare aiuto alla comunità di Gerusalemme in difficoltà concrete. A Corinto era stato deciso di attuarla ma stentava ad essere effettuata: perciò Paolo invia Tito con altri per sollecitare a compiere quell’opera (2Cor 8,6).
L’occasione è motivo per presentare le ragioni di uno stile di rapporti per coloro che seguono Cristo. La situazione dell’altro, anche lontano, in difficoltà, è un appello a condividere, ciò che si è e quanto si ha. Paolo presenta l’esigenza evangelica di redistribuire i beni in favore di chi ha meno per fare uguaglianza e per prendersi cura.
Quest’opera generosa è prova della generosità di un amore fatto di premura. Avvertire l’urgenza del bisogno e delle attese degli altri è attitudine di cuori capaci di larghezza, non ristretti in orizzonti chiusi del proprio egoismo. Fino a dare anche oltre le proprie capacità come hanno fatto le chiese della Macedonia, senza calcoli, larghi oltre ogni paura di perdere. “Qui non si tratta di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza”.
La colletta è ben più che un gesto di elemosina. E’ far proprio il cammino di Cristo, è entrare in un’esperienza di gratuità. L’uguaglianza che si realizza costituisce così un’esperienza della grazia: ‘Da ricco che era si è fatto povero perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà…’.
Vivere tale solidarietà apre a scoprire che nel portare aiuto non si dà solamente ma si riceve e questa esperienza è grazia. C’è un dare da un lato ma c’è anche un ricevere: vi sono doni che giungono da altre ricchezze, di umanità, di vita, di relazione. E’ così lasciarsi coinvolgere nella stessa vita di Cristo che ha fatto della sua vita un dono per gli altri: è lui riferimento fondamentale e criterio delle scelte dei cristiani. Povertà è scelta di liberarsi da tutto ciò che appesantisce e pone ostacolo all’incontro: non è mai esperienza vissuta nella solitudine, ma evento di condivisione. Gesù ha scelto la via della debolezza e della privazione per poter partecipare la sua ricchezza, per poter fare comunione.
Marco presenta al capitolo 5 due miracoli di Gesù, intrecciati nella narrazione. Due segni del suo agire che porta guarigione e libera dalla morte. Al capitolo 4 Gesù era stato presentato come ‘più forte’ delle forze del male (il mare in tempesta) ora è presentato nel suo guarire nel portare liberazione. Al centro della narrazione sono due donne – la figlioletta di Giairo, capo della sinagoga, e la donna che soffriva da dodici anni di emorragie e il filo che collega le due scene è la questione della fede.
La donna che si accosta a Gesù da dietro, è indicata come una che ha perso tutto, quasi un riferimento dei tanti diseredati. Eppure inespressi nel suo cuore stanno nodi di sofferenza, di timore, di speranza. Il suo avvicinarsi è senza parole. Il suo farsi strada tra la folla, lei esclusa come impura, è spinto da una fiducia fondamentale che la fa andare avanti, e la porta a trasgredire la legge che impediva contatti per non trasmettere impurità. Quali le sue attese? Il poter essere riconosciuta, compresa, accolta nella sua sofferenza: intuiva che in Gesù poteva sperare nello sguardo di Dio vicino.
Gesù sente su di sé, proprio nel contatto, la forza dell’affidamento della donna. Il toccare Gesù da parte della donna è diverso dal premere della folla. Gesù non ha paura del contatto. La sua presenza dice che la santità di Dio non tiene lontani ed esclusi ma comunica vita e misericordia. Nel dialogo con la donna offre accoglienza piena a lei e a tutti coloro che sono senza nome. Riconosce un volto, davanti a lui: ‘Và la tua fede ti ha salvata’. Gesù dice così la forza di tale fiducia e ne riscontra la potenza: ‘la tua fede…’. C’è una forza impensabile racchiusa nella fede come accettazione dell’impotenza e affidamento radicale. Marco presenta Gesù come il volto umano, capace di compassione e tenerezza, in cui si rende presente e vicino Dio che salva, e conduce a cogliere la fede dei poveri come forza di salvezza.
La salvezza è un senso nuovo donato e scoperto nella vita: la guarigione ne è segno e indicazione. Passa nel contatto dei corpi: questa donna voleva toccare Gesù. Toccare è relazione. Nel vangelo è continua la disponibilità di Gesù, la sua ricerca del contatto diretto con le persone : toccava i malati, gli esclusi, si lasciava toccare da loro (Mc 1,41; 6,56; 7,33; 8,23-25; 10,13.16). In questo toccare, in una relazione che passa nella corporeità e nella concretezza, Gesù apre ad un riconoscimento e ad una liberazione. Libera dall’esclusione e dal disprezzo, apre a nuove relazioni. Nel silenzio dei suoi gesti, nelle sue parole è raccontato il volto di Dio che Gesù annuncia: un Dio che sta vicino agli esclusi e dice la possibilità di una storia diversa, di ospitalità aprendo a ciascuno un cammino nuovo.
Ancora la fede è tema al cuore dell’incontro con Giairo: egli si getta ai piedi di Gesù e ‘lo pregava con insistenza’ mentre la figlioletta stava per morire. ‘Vieni a posare le mani su di lei perché sia salva e viva’. Poi però tutto sembra ormai finito, la figlioletta è morta. Ma l’invito di Gesù è a ‘non temere, continua solo ad aver fede’.
Gesù si reca nella casa di Giairo, entra proprio lì dove la morte sembra avere posto la parola ultima e definitiva. Si fa incontro alla bambina ormai morta ma il suo modo di guardare alla piccola defunta è diverso: ‘Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta ma dorme’. Marco aveva indicato il ‘dormire’ di Gesù sulla barca durante la tempesta come rinvio alla sua morte. La morte non è parola ultima ma è un dormire che per la parola di Gesù si apre ad un ‘alzarsi’ nuovo. Gesù comunica la sua forza di vita: ‘Talità kum, Io ti dico alzati’: è invito che racchiude l’annuncio della risurrezione. La risurrezione è ‘alzarsi dalla condizione di morte’. La fede a cui Gesù aveva invitato Giairo è potenza di vita. C’è un alzarsi che è già in atto nella fede vissuta come fiducia nella vita.
Alla donna impaurita che aveva cercato di toccare il suo mantello, Gesù dice ‘Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male’. Fede non è l’esaltazione della folla, ma è incontro personale che si fa strada nella ricerca sofferta, nel cuore di chi consegna a lui la propria vita e cerca un contatto profondo, personale. Nell’alzare la figlia di Giairo, Gesù manifesta che il dono di salvezza è restituire alla vita in modo pieno fino a superare la morte stessa. Gesù non salva nonostante la morte. Il suo percorso di farsi povero lo ha condotto al rifiuto e alla morte: rifiutato e condannato, è risorto, ‘alzato’. Comunica la forza della risurrezione nel chiederci ‘continua ad avere fede’.
Due donne, capaci di dare vita, sono segnate dalla malattia e dalla morte. Gesù restituisce a queste due donne la capacità di dare vita. Ma in primo luogo accoglie la fede come apertura del cuore ad una vita oltre i limiti della malattia e della morte.
Alcune riflessioni per noi oggi
La donna che si accosta a Gesù, da dietro, per toccare anche solo un lembo del suo mantello è donna che ha perso tutto: è volto senza nome e senza più nulla su cui contare. Gesù accoglie questa donna riconoscendo la sua fede. E’ indicazione di uno stile che dovrebbe ispirare cammini di chiesa. La domanda da porsi di fronte alle persone, prima di esprimere un qualsiasi giudizio: quante sofferenze nascoste sono racchiuse nel cuore? Quante parole non espresse cercano accoglienza in gesti che chiedono ascolto? Queste domande fanno passare da un accostamento superficiale e insensibile, ad una attitudine di compassione.
Gesù provoca ad uno stile capace di coltivare la compassione. Prima di ogni altra cosa la capacità di ascolto e accoglienza dei cammini umani. Gesù apre futuro a partire dalla condizione in cui la donna viveva, liberandola nel riconoscere che dentro di lei, la sua fede era motivo di salvezza. Non è questa forse la parola di vangelo che oggi dovremmo comunicare a chi incontriamo? E vivere così esperienza di chiesa come comunità che accoglie e dà spazi per guarire, per camminare, per essere restituiti alle relazioni e alla vita con speranza?
E’ fenomeno ormai dirompente la concentrazione e assorbimento dell’attenzione nell’uso dei mezzi tecnologici: smartphone, tablet, computer… Il tempo quotidiano è frammentato dal ricorrere di messaggi e notifiche, di richiami e continue sollecitazioni ad entrare in contatto con gli altri attraverso il mondo virtuale. Ma a questo grande sviluppo corrisponde una sorta di movimento di crescita dell’analfabetismo nella capacità delle relazioni reali. Una sorta di ignoranza della grammatica delle relazioni. nell’incapacità progressiva ad entrare in rapporti diretti, a faccia a faccia, dando il tempo dell’ascolto, della parola, del toccare l’altro nella condivisione di gesti, di parole, di esperienze. Forse oggi c’è da interrogarsi su come vivere un rapporto con la tecnologia che possa lasciar custodire la preziosità del contatto fisico, esperienziale Toccare è entrare a contatto, nel dare attenzione, nell’accettare l’altro. Toccare significa certamente un contatto diretto, un avvertire il contatto corporeo, ma anche un entrare dentro le situazioni, non rimanerne alla superficie, non trattare le vicende personali con la distrazione con cui si attua un click o si sfiora con le dita una schermata. Toccare può essere sinonimo di lasciarsi contaminare dalle realtà, un avvertire su di sé il peso della vita di chi soffre e un prendere nella propria vita la vita e le domande degli altri.
Jeb Bush, della stessa famiglia dei più famosi presidenti USA che tante tragedie hanno portato con scelte di guerre nei decenni scorsi, candidato alla presidenza Usa, ha affermato che la Chiesa deve occuparsi di anime, non di economia. Questa presa di posizione a fronte della critica all’attuale sistema economico suggerita nella enciclica ‘Laudato sì’ è occasione per sollecitare una riflessione sul rapporto tra messaggio del vangelo realtà umana in tutte le sue dimensioni.
Fare uguaglianza è la richiesta di Paolo alla comunità di Corinto. Fare uguaglianza è la grande sfida in un mondo che si scopre segnato dalla grande separazione e ingiustizia che genera disuguaglianze. Uguaglianza non è soppressione delle differenze: siamo oggi ben consapevoli dell’importanza di riconoscere le differenze, ma la disuguaglianza che è non avere punti di partenza uguali, che è mancanza di avere possibilità per esprimere la propria umanità è il grande dramma della separazione tra coloro che sono considerati uomini/donne e coloro che sono ritenuti esclusi, diversi perché non uomini/ non donne.
I gesti di Gesù toccano i corpi e lasciano coinvolgere la sua corporeità. La fede cristiana sorge dall’incarnazione, da un rapporto che non mantiene separate le dimensioni della vita umana. La salvezza come senso pieno della vita passa attraverso anche liberazioni storiche e nella lotta contro tutto ciò che tiene le persone oppresse. Il regno di Dio promesso non è solo dimensione dell’al di là, ma investe la premura per le concrete situazioni di impoverimento e per la giustizia nell’aldiqua. Investe perciò la dimensione politica. Il messaggio del vangelo non offre soluzioni pratiche concrete che sono sempre continuamente da ricercare in ogni tempo e luogo con intelligenza e fatica, ma dà criteri di fondo per orientare la vita.
In particolare è importante la critica e la visione proposta nella ‘Laudato sì’. E’ una critica radicale ad una società mondiale in cui la dimensione economica ha il primo posto e non considera che la vita umana insieme e nella relazione con il cosmo può compiersi solo tenendo insieme aspetti economici, ma anche aspetti sociali e spirituali che costituiscono la vita profonda delle persone. Da qui la provocazione a pensare in modo diverso la stessa economia e i rapporti sociali per percorrere vie alternative e diverse rispetto ad un modello di società ridotta a dimensione mercantile dove tutto – anche le vite umane, il lavoro e la natura – viene ridotto a merce.
Alessandro Cortesi op