Gn 2,18-24; Eb 2,9-11; Mc 10,2-16
Il racconto di Genesi, con un linguaggio composto di elementi simbolici e narrativi, cerca di presentare il senso della vita degli esseri umani sulla terra: più che un racconto delle origini può essere letto e accostato come una grande pagina di riflessione sapienziale che pensa al futuro: la domanda che sta al cuore di queste pagine è: come potrebbe e dovrebbe essere la vita degli esseri umani? Quale il loro rapporto con la realtà in cui sono posti? Quale il senso profondo della loro esistenza nella relazione con Dio scoperto come liberatore e insieme creatore di ogni cosa? Il racconto ha alcuni aspetti momenti di concentrazione su aspetti particolari, una serie di messe a fuoco.
Una prima messa a fuoco è sulla condizione dell’essere umano nel rapporto alle cose, alla realtà del mondo in cui è situato. Nel ‘giardino’ dove è posto gli è affidato il compito di dare un nome agli esseri viventi. Ha un compito di parola, che proprio per questo è anche di custodia nel pronunciare e dare un nome. Dare il nome significa un rapporto fatto di conoscenza delle cose, della loro natura, delle loro potenzialità, della loro preziosità. E’ riconoscimento delle altre creature come dono con cui entrare in relazione. All’essere umano in tale quadro sta il compito di aprirsi alla consapevolezza di essere parte: partecipe di un mondo in cui non può e non deve fare da padrone. E’ invece responsabile, soggetto di una chiamata che proviene da Dio ad essere depositario di un affidamento, custode e pastore di un mondo affidato, a cui rispondere con l’impegno della vita. Non un dominatore, ma un custode chiamato a coltivare e custodire.
Tutto ciò è posto nel quadro di un disegno di Dio che va contro la solitudine: ‘Non è bene che l’essere umano sia solo’. E’ posta così in risalto una ricerca profonda: ‘l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile’. Sta qui una seconda messa a fuoco di questa pagina. La solitudine dell’essere umano è ferita che implica apertura a rapportarsi a qualcuno simile a lui, in una relazione di parola e di libertà.
Nel mondo bello a lui affidato l’essere tratto dalla terra (adam da adamah), partecipe della terra che è sorella e madre, vive il desiderio di qualcuno che ‘gli stia di fronte’. Tutti gli altri esseri viventi sono importanti, ma c’è una relazione unica possibile con una presenza altra e simile: una presenza che sola sta nella parità con lui, di fronte a lui, capace di dialogo, di accoglienza, di intesa. A questo punto è narrato il dono dell’altra persona: anch’essa creatura, uguale in tutto, simile, ma radicalmente diversa, proveniente da un dono insondabile di Dio. Opera di Dio mentre l’Adam, il partecipe della terra, dormiva. Il sonno di Adam è il modo poetico per indicare come l’altra creatura come lui non sia qualcosa proveniente dall’uomo, ma può essere solo presenza accolta come dono, non programmabile e vicina. Il narratore non parla di uomo e donna ma dell’umano.
Il sonno di Adam indica un agire libero e gratuito di Dio e un non sapere: il dono che egli si trova di fronte al suo risveglio implica l’accettazione di un non comprendere (che è rinuncia al possesso). La presenza nuova rimane mistero di gratuità. La isha’ (donna in ebraico) di fronte a ish (uomo) – uguale e diverso essere umano – è presenza scoperta, ritrovata accanto, inattesa e insperata. Anch’essa tratta dalla terra ma che condivide – cioè uguale e non dipendente – l’interiorità e la corporeità di Adam. Adam così reca in sè un mistero di privazione e di completamento. L’uomo tratto dalla terra, dovrà ricercare e ritrovare in isha’ una parte di sé al di fuori di sè per costituire insieme una umanità più grande. Dovrà accettare di non essere completo se non nella relazione e insieme a chi è volto di alterità. Per ricevere un dono dovrà accettare una mancanza e riconoscere un limite.
Isha’ è tratta dalla costola di ish, cioè partecipa della medesima vita, dalla, stessa terra: la ricerca e il desiderio di ish in rapporto a isha’ sarà d’ora in poi ricerca di divenire se stesso, possibile solo nell’apertura all’altra. Isha’ nello stesso tempo è anche diversa da ish: sta di fronte. E’ possibile specchiarsi, riconoscere un volto, ma è impossibile identificarsi perché è presenza altra, il suo volto implora ‘non uccidere’.
E’ simile, ‘carne della mia carne, osso dalle mie ossa’ canta l’uomo, nell’inno di gioia dopo il risveglio dinanzi ad una scoperta meravigliosa che spalanca l’esistenza. Ma quest’inno nasconde anche un profondo malinteso. L’uomo parla a se stesso, non si rivolge a chi gli sta di fronte. ‘Carne della mia carne’, nell’esteriorità nella dimensione corporea, ‘osso delle mie ossa’ simile nell’interiorità. Sono parole che racchiudono la bellezza e la fatica della comunicazione. Tuttavia in queste parole di meraviglia dell’uomo si può cogliere un’incapacità a comprendere il dono ricevuto. Intende infatti questa presenza altra come tutta funzionale a se stesso: ‘carne della mia carne’ nega la alterità, sottolinea soprattutto la somiglianza, il ‘mio’, non riconosce la diversità. Si pone come centro e vede la donna come prolungamento di sé e quasi una parte. Ed è questo un errore che segna la vicenda dei rapporti tra uomo e donna. L’uomo non accetta di non sapere, pretende di essere capace di comprendere sino in fondo e non si mantiene nel limite di quel sonno in cui ha ricevuto l’altra in dono.
Da questo dono e disegno che sta al principio sorge la vocazione all’incontro a cercare nel cammino della vita di vivere una relazione fragile (la fragilità sta dietro al termine ‘carne’), nello starsi di fronte come ‘diversi’ e come ‘simili’: ‘Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una carne sola’. ‘Per questo’ è annotazione che riconosce la consuetudine della vita. E’ traducibile nell’espressione ‘Poiché le cose stanno così’. ‘Poiché le cose stanno così’, continua l’autore, è necessario abbandonare le relazioni che sino a questo momento aveva dato rifugio e sicurezza. lasciare il padre e la madre, presenze rassicuranti, implica anche evitare che l’altro sostituisca le presenze conosciute. Congiungersi all’altro apre ad un cammino nuovo, diventare allora una carne sola. ‘Carne’ rinvia alle diverse dimensioni della corporeità, dell’interiorità, dell’affettività, ma anche al limite e fragilità di questo cammino. L’uomo e la donna si ricercheranno per formare insieme una vita in tensione a scorgere continuamente la chiamata di Dio sulla relazione.
Nella pagina del vangelo i farisei si accostano a Gesù e gli pongono una questione: ‘È lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?’. La Torah prevedeva solamente per il marito la possibilità di allontanare la moglie nei casi in cui avesse riscontrato in lei «qualcosa di vergognoso» (lett. «un atto di nudità»); in tale situazione doveva però darle un atto di divorzio (secondo la normativa di Dt 24,1-4) che le consentiva di unirsi ad un altro uomo senza dover essere tacciata di adulterio. Nel dibattito al tempo di Gesù sono conosciuti diversi orientamenti d’interpretazione di tale questione. Per una tra le autorità del tempo, Shammai, questo ‘qualcosa di vergognoso’ doveva riguardare solo un atto di adulterio della donna, per Hillel poteva riferirsi a qualsiasi cosa che nella donna risultasse sgradita al marito.
Il dibattito sollevato di farisei con Gesù non verteva quindi sulla questione del ripudio, ma sulle cause che permettevano al marito di allontanare la donna. Ciò può trovare conferma nel testo parallelo di Matteo, dove i farisei chiedono a Gesù: ‘È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?’ (Mt 19,3).
Gesù risponde solamente rinviando a Mosè: ‘che cosa vi ha ordinato Mosè?’ i farisei controbattono: ‘Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla’. A questo punto Gesù osserva: ‘Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma’. La norma allora viene da Mosè non per una sua iniziativa, ma a causa della ‘durezza del cuore’: è la sklêrokardia, la causa di tale prescrizione. Mosè per adattarsi al cuore duro che esprime mancanza di amore, conseguenza del peccato (Ez 36,26) ha proposto quella norma.
Le parole di Gesù rinviano ad un ‘principio’. Riprende la Scrittura: ‘Ma all’inizio della creazione Dio li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola’. In questa risposta compare il riferimento a due passi di Genesi – due testi della Torah quindi – posti insieme. Il primo è tratto dal racconto sacerdotale della creazione, il secondo da quello jahwista. Dio ha creato l’uomo e la donna come due esseri uguali e complementari (Gen 1,27) e li ha chiamati ad unirsi in modo tale da formare quasi un’unica carne (Gen 2,24). Da qui la conclusione: ‘Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto’. Nel disegno del principio uomo e donna sono chiamati ad intendere la propria vita nell’orizzonte dell’unione e l’uomo non può separare ciò che Dio ha unito in tale modo.
Nella spiegazione poi data in privato ai discepoli, l’evangelista introduce un altro detto: ‘Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; se la donna, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio’. Queste parole pongono in primo piano non tanto la separazione quanto la seconda unione che costituisce l’adulterio. E’ anche sottolineato che la medesima regola è rivolta all’uomo e alla donna. Uomo e donna sono visti in una prospettiva di parità. Una precisazione che si scontrava con il privilegio nella tradizione ebraica di un ripudio da attuare dalla parte maschile e forse opportuna in un contesto (come quello romano), in cui anche le donne avevano la facoltà di divorziare.
La discussione sul divorzio infine si chiude con una scena in cui compare la presenza di bambini: Gesù chiede ai discepoli di non impedire ai bambini di andare da lui e propone questi piccoli come modello per chi vuole entrare nel regno di Dio.
Gesù rinvia a quel progetto del principio e richiama ognuno alla responsabilità del cuore che è lo stare della coscienza di fronte a Dio. Ciò implica aprirsi all’azione del ‘Dio che congiunge’, che ha un progetto di alleanza per ogni uomo e donna. Gesù invita a vivere la fedeltà verso ciò che Dio ha congiunto nello scoprire la propria responsabilità in questo incontro con Dio e con gli altri.
Questa parola di Gesù va letta nel quadro progressivo della sua presa di posizione con una serie di passaggi: innanzitutto richiama la Sacra Scrittura, in particolare in rapporto alla storia della creazione (Gen 1,26 e 2,24) che parla del matrimonio come di una alleanza con Dio. Evidenzia il comandamento per cui l’uomo non deve disfare ciò che Dio ha unito. Nella casa infine, con i suoi discepoli, affronta la questione dell’adulterio: è da tener conto che il contesto in cui questi testi sorgono è quello di una tradizione in cui solamente l’uomo poteva attuare il divorzio e non la donna. La parola di Gesù esige di essere interpretata non nel quadro di un diritto che chiude e si pone come giogo insopportabile (cf. Mt 11,9; At 15,10), ma come parola di salvezza che apre all’esperienza della misericordia e al futuro. Al cuore del suo messaggio sta la bella notizia del regno di Dio e tutte le sue parole vanno lette in questo orizzonte.
(Andrea Roggi, L’amore apre i cuori e la nostra mente – 2015 – Spello)
Alcune riflessioni per noi oggi
La recente enciclica di Francesco, ‘Laudato si’, ha pagine di grande intensità sul progetto di Dio per l’umanità all’interno della creazione. In un passo, riprendendo riflessioni provenienti da varie regioni del mondo afferma (n.85): “Dio ha scritto un libro stupendo, «le cui lettere sono la moltitudine di creature presenti nell’universo». I Vescovi del Canada hanno espresso bene che nessuna creatura resta fuori da questa manifestazione di Dio: «Dai più ampi panorami alla più esili forme di vita, la natura è una continua sorgente di meraviglia e di reverenza. Essa è, inoltre, una rivelazione continua del divino». I vescovi del Giappone, da parte loro, hanno detto qualcosa di molto suggestivo: «Percepire ogni creatura che canta l’inno della sua esistenza è vivere con gioia nell’amore di Dio e nella speranza». Questa contemplazione del creato ci permette di scoprire attraverso ogni cosa qualche insegnamento che Dio ci vuole comunicare, perché «per il credente contemplare il creato è anche ascoltare un messaggio, udire una voce paradossale e silenziosa». Possiamo dire che «accanto alla rivelazione propriamente detta contenuta nelle Sacre Scritture c’è, quindi, una manifestazione divina nello sfolgorare del sole e nel calare della notte». Prestando attenzione a questa manifestazione, l’essere umano impara a riconoscere sé stesso in relazione alle altre creature: «Io mi esprimo esprimendo il mondo; io esploro la mia sacralità decifrando quella del mondo» (Paul Ricoeur)”.
Può essere d’aiuto la lettura di una poesia di Elisabeth Green, teologa battista (da Il filo tradito. Vent’anni di teologia femminista, Torino, Claudiana 2011), con uno sguardo femminile al volto di Dio stesso:
Dio è seduta e piange. / la meravigliosa tappezzeria della creazione / che aveva tessuto con tanta gioia è mutilata, / è strappata a brandelli, ridotta a cenci: / la sua bellezza è saccheggiata dalla violenza
[…] guardate! / tutto ritesse con il filo d’oro della gioia, / dà vita a un nuovo arazzo, / una creazione ancora più ricca, ancora più bella / di quanto fosse l’antica! / Dio è seduta, tesse con pazienza, con perseveranza / e con il sorriso che sprigiona come un arcobaleno / sul volto bagnato dalle lacrime.
E ci invita a non offrirle soltanto i cenci / e i brandelli delle nostre sofferenze / e del nostro lavoro./ ci domanda molto di più; / di restarle accanto al telaio della gioia, / e a tessere con lei l’arazzo / della nuova creazione.
Inizia in questi giorni il Sinodo dei vescovi sulla famiglia. La speranza di molti è che da questo momento sgorghi un messaggio di apertura, di comprensione e di misericordia per poter intendere l’esperienza delle relazioni affettive come un cammino in cui è sempre presente una speranza e una parola di bene da parte di Dio, nella complessità dei percorsi esistenziali e biografici nella loro gioia e bellezza ed anche nelle loro ferite, ritardi, fallimenti. In una recente intervista il card. Walter Kasper ha ribadito l’importanza di leggere anche le Scritture con attitudine che sappia interpretarle nel senso della misericordia e del perdono. Sono queste le chiavi per leggere ogni parola di Gesù donata non come norma che opprime e rinchiude ma come notizia di vita e speranza per la vita e per intendere la vicinanza del regno di Dio:
“Personalmente ritengo che prendere una parola del Vangelo per difendere una propria tesi è una sorta di fondamentalismo, un nuovo fondamentalismo che si fa con una parola. Che non si può sciogliere il matrimonio è cosa chiara e assodata, eppure ci sono passi biblici che menzionano una qualche “eccezione” alla parola del Signore sulla indissolubilità del matrimonio, e cioè nel caso di pornèia (il capitolo 19 di Matteo) e nel caso di separazione a motivo della fede (la prima lettera ai Corinzi, capitolo sette). Tali testi indicano che i cristiani in situazioni difficili hanno conosciuto già nel tempo apostolico un’applicazione flessibile della parola di Gesù”. (Ma le eccezioni sono previste anche nei passi del Vangelo, intervista a Walter Kasper, a cura di Paolo Rodari, La repubblica 1 ottobre 2015).
Siamo chiamati a cogliere la bellezza della proposta di Gesù che richiama il disegno originario di Dio e nel contempo vivere la responsabilità del cuore di fronte a Dio, per comprendere le sue chiamate anche nelle vicende talvolta faticose e difficili della nostra vita nella consapevolezza che “nella vita coniugale sono disseminati molti più ostacoli di quanti non ne ammetta la teologia del matrimonio oggi facilmente idealizzante” (Anne-Marie Pelletier)
La seconda lettura ha al suo centro la condiscendenza di Gesù: pur essendo figlio si è chinato su di noi, ha condiviso in tutto la nostra vita e le nostre fatiche. In questo senso è divenuto il fratello di ogni uomo e donna. Nel suo farsi servo rende possibile scoprire orizzonti nuovi di fraternità: è lui il bambino/servo di Dio che prende la condizione dei bambini, i senza dignità che egli abbraccia e pone al centro della comunità. Se lui è nostro fratello allora l’esperienza di famiglia diviene possibile in un orizzonte che allarga lo sguardo alla famiglia di Dio al suo disegno di relazioni nuove per tutta l’umanità.
Alessandro Cortesi op
Pubblicato in
Commenti letture con tag
Adamo,
creazione,
divorzio,
donna,
dono,
ecologia,
famiglia,
Kasper,
matrimonio,
Mediterraneo,
sinodo |
Solennità di tutti i santi – anno B – 2015
Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a
Le comunità che vivono nelle difficoltà e sperimentano la persecuzione verso la fine del I secolo nell’Asia minore si interrogano sulla loro fede. La promessa di Dio, la presenza del Risorto è operante, ma le sfide della violenza e della persecuzione nel contesto della dominazione imperiale sono faticose da sopportare. Pur immersi in una situazione che contraddice e pone interrogativi profondi alla fede è possibile scorgere un disegno di salvezza ed un cammino che richiede coraggio. Apocalisse libro di lettura profetica del presente, esprime tutto questo in immagini fortemente evocative: l’agnello ferito richiama Gesù partecipe delle sofferenze dei suoi: il crocifisso, segnato dal sangue della morte. Ma egli stesso, il medesimo, è anche il risorto, alzato in piedi da Dio che non l’ha abbandonato. Il medesimo è ferito e in piedi: agnello che ha inteso la sua vita come dono nella linea della nonviolenza.
Come lui anche le comunità convocate dalla sua parola nel tempo vivono la prova e la sofferenza. Al seguito di Gesù sono chiamate ad una via di servizio e di ferita – la kenosis come diventare nulla e percorso di debolezza -. In questo cammino sperimentano anche l’incontro con lui. Vivono così la certezza che Gesù passato attraverso la morte e vivente presso il Padre può sciogliere i nodi che tengono chiuso il libro della vita e della storia. Apocalisse così è un testo di ‘rivelazione’, non la ‘fine del mondo’, in cui si articola una lettura profonda della storia alla luce del vangelo.
Le pagine a tratti presentano una grande liturgia: è così al capitolo 7. Una moltitudine immensa che non può essere contata è al centro di una visione, la moltitudine di tutti i testimoni: “Dopo queste cose vidi: ecco una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: la salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’agnello”
E’ una grande immagine della chiesa vista non come gruppo a parte, separato, esclusivo, ma come popolo, moltitudine di convocati a condividere da ogni orizzonte la bella notizia della salvezza. Una moltitudine raccolta per divenire allargamento di invito e di condivisione. Le provenienze sono da tutti i popoli e lingue. Non vige una logica di esclusione, ma vi sono provenienze diverse, da luoghi lontani, da lingue e popoli tra cui si attua un incontro nuovo, fatto non di esclusioni, ma di intreccio di differenze.
La palma nelle mani di coloro che compongono questa moltitudine rinvia alla testimonianza: sono coloro che hanno percorso la strada di Gesù agnello inerme e indifeso. Al centro di questa assemblea che unisce provenienze da ogni confine della terra, compimento della promessa dei profeti stanno Dio e l’agnello: solo Dio e l’agnello sono da adorare nessun’altra potenza terrena politica o religiosa. E’ una festa con al centro la pasqua. La pasqua di Cristo, la sua morte e risurrezione, diviene la pasqua del credente e della comunità che vive nel tempo il morire e risorgere con Gesù e nel tempo celebra con uno sguardo oltre il tempo stesso.
“Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è.”
Le parole di Giovanni richiamano l’itinerario della fede, tra un ‘già’ sperimentato nel presente, ed un ‘non ancora’ da attendere, da costruire, anche da affrettare. Sin d’ora siamo figli di Dio, partecipi di una relazione come i figli e le figlie vivono in rapporto ai genitori. Per ogni volto c’è un nome che ha i tratti dell’amore e della scelta. E’ nome unico perché Dio l’ha pronunciato chiamando alla vita. Un nome che non è punto di arrivo, definizione di una identità data, ma una promessa, un seme chiamato a crescere e fiorire, annuncio di vita e di futuro. Quel nome richiede cura e nutrimento, luce e spazio: la chiamata si apre ad una crescita. chiamata fondamentale sta nel diventare simili al volto di Cristo che ha fatto della sua vita un dono. Ancora non è rivelato il nostro volto più profondo. Nell’incontro con Cristo – che significa vivere lo stile di amore che Gesù ha vissuto – può trovare compimento il nome ricevuto. Nel percorso della vita si apre un cammino che è divenire simili a lui volgendo lo sguardo per lasciare che la sua luce sia cambiamento. Contro ogni forma di pensiero chiusa e fissata, qui la vita è delineata come cammino, movimento, luogo in cui si attua una gradualità di consapevolezza, responsabilità, dono.
La vita dei credenti si colloca in una attesa fatta di dolore talvolta, e affidata come responsabilità. C’è un dolore perché non si vede. Il nostro vedere è incapace di scorgere avanti: quello che saremo ancora è sconosciuto. Ma c’è anche un’attesa che richiama un’esigenza di risposta, perché la speranza è affidamento all’impossibile di Dio. Nel riconoscere le tracce dell’amore di Dio, quello che – dice Giovanni – abbiamo veduto, sperimentato nello scendere e servire di Gesù si apre la possibilità di scorgere che gli occhi possono essere aperti. La nostra vita va verso una comunione tra di noi e con Lui. Il vedere diviene esito di un cammino in cui lo sguardo si è lasciato formare e cambiare nell’affidamento.
“Beati i miti perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati”.
Gesù propone un orizzonte nuovo per la vita: quello della felicità. I poveri in spirito, quelli che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia, ‘tutti voi quando vi insulteranno’… sono chiamati a rallegrarsi. E’ felicità particolare: non è la felicità quale privilegio di chi sta bene e si disinteressa degli altri mentre altri sperimentano la sofferenza soffre, ma è la felicità di chi intende al propria vita legata a quella altrui, di chi si prende cura, di chi si lascia coinvolgere e condivide la vita dei piccoli.
Gesù non vuole per nessuno povertà, persecuzione, ingiustizia. Annuncia invece che Dio prende le difese e si pone dalla parte di tutti coloro che vivono in situazioni di margine e svantaggio. E non dimentica nessuno. Si fa loro vicino, per liberarli, prende le loro parti. Dio ‘ha guardato alla condizione umile dei suoi servi’, di tutti coloro che si affidano a lui e non hanno potenza e ricchezza e strumenti di affermazione umani.
Questa è la ragione del rallegrarsi: vivere in tale orizzonte, anche se non si occupano i primi posti, anche se si è ritenuti falliti o perdenti, è stare sulla strada di Gesù. Le beatitudini parlano di lui, il vero povero, mite, puro di cuore. Chi si appoggia in lui e trova in lui il senso della propria esistenza può aprirsi ad una vita bella, ad una gioia profonda, ad un rallegrarsi autentico. Non perché le fatiche sono tolte o le difficoltà sono eliminate, ma perché è si è passati da una vita da schiavi nella paura sotto i ‘comandamenti’ ad una condizione liberata di sapersi amati, di essere partecipi della cura di Dio per i più piccoli e per chi non ha sostegni umani.
La festa di tutti i santi è festa di comunità, di incontro. C’è un rischio in questa festa di pensare ai santi ufficiali, e così nella considerazione della santità come condizione eccezionale, relegata in una sfera lontana dalla vita, esclusiva di mondi immaginati, soffusi di un aria di sacralità e proprie di persone particolari.
E’ rischio che svia dal pensare invece alla moltitudine immensa di ogni nazione, popolo e lingua che nessuno può contare. Perché i santi sono coloro che hanno vissuto la loro vita nella concretezza ordinaria, nella ferialità di compiti e lavori e incontri, comuni ad ogni uomo e donna. E santi sono i volti che hanno lasciato una traccia di bene, che hanno seminato affetto, che hanno costruito dignità per gli altri, che hanno speso tempo energie e competenze per un mondo nuovo.
Sono i santi a cui si rivolgeva Paolo nelle sue lettere, i membri delle comunità, con tutti i loro limiti, pregi e difetti, ma aperti ad un’opera più grande di loro, l’operare dello Spirito. E santi anche sono coloro che da popoli lontani, da provenienze sconosciute, da religioni diverse, hanno percorso i cammini dell’interiorità, della cura, dell’ospitalità, della nonviolenza, hanno costruito giustizia pensando ai più deboli, hanno cercato di tessere sentieri di riconciliazione. Santi sono credenti e non credenti che hanno vissuto secondo quella fedeltà alla propria coscienza in cui opera lo Spirito di Dio.
La vicinanza tra il giorno dedicato ai santi e quello dedicato al ricordo di chi è ‘andato avanti’, i defunti, ci provoca a considerare che quello che saremo ancora non è manifesto, ma anche coloro che nella loro vita hanno vissuto la fatica e il limite hanno potuto incontrare il volto di Cristo che li ha cambiati e trasfigurati.
Le feste di questi giorni sono tempo di grande speranza: una pausa nell’autunno, tempo di raccolta, di frutti che si ricevono, donati da una terra che non trattiene ma porta con generosità: i frutti dell’olivo, della vite, dei castagni sono memoria di frutti di vita, di bene che nell’anonimato di esistenze senza gloria è stato e viene seminato. Sta a noi riconoscere il dono e dire grazie.
Il termine ‘santità’ può essere tradotto allora come scorrere di una vita di Dio che non può essere definito e che pure sta al di dentro delle attese e delle azioni che fanno crescere uomini e donne, nella loro umanità, nella capacità di essere liberi, di sperimentare bellezza e armonia, di aprirsi ad un senso della vita nel cose semplici di tutti i giorni. Una vita così divina da essere in modo stupefacente umana. Come quella Gesù, che sapeva parlare dei fiori del campo per parlare di Dio e che sapeva indicare una casa con tanto spazio per dire il suo sogno di una vita che sin d’ora si attua come ospitalità e che sarà ospitalità conviviale in modi nuovi nel per sempre di Dio. Oltre ogni confine e oltre ogni esclusione che ogni tipo di gerarchia clericale o di dominio religioso tende a costruire…
Alessandro Cortesi op