Date loro voi stessi da mangiare…
La condivisione dei pani, è racconto ripetuto più volte nei vangeli e nella redazione è posto in stretta relazione con l’eucaristia (viene esplicitato nel discorso di Gesù presentato nel IV vangelo al cap. 6).
E’ gesto che interroga per coglierne il significato per noi oggi, per un cammino di fede. Il gesto dei pani infatti fu un gesto della condivisione: furono pani e pesce condivisi. A questo gesto fa riferimento il rito religioso dell’eucaristia.
In questo passaggio si è attuata una trasformazione che ha generato uno spostamento ed uno svuotamento dei significati del gesto di Gesù. Uno spostamento contro cui già Paolo era consapevole quando scriveva alla comunità di Corinto, che viveva un rito senza che cambiasse la vita: alcuni infatti non aspettavano gli altri, non accoglievano (1Cor 11). Un rito rischia come tutti i rituali religiosi, di farsi abitudine che pacifica le coscienze ma non modifica la vita. Può anche divenire un atto di esteriorità e di visibilità. Al centro viene posta l’adorazione e la devozione, ma non si attua un cambiamento della comunità chiesa né della società.
Questo gesto ha subito un altro cambiamento: l’eucaristia è divenuto sacramento della presenza di Dio da adorare, da vedere e nella storia si è giunti al non comunicarsi più (con l’uso di non comunicarsi se non ci si era confessati, oppure ad un allontanamento dall’eucaristia in quanto il sacramento anziché essere aiuto per la vita è divenuto ostacolo al camminare nella fede. Ma Gesù ha scelto il pane per dire e significare la sua presenza… dal mangiare si è passati al vedere all’adorare, ma il pane è da mangiare.
L’eucaristia non è il premio dei buoni, ma il pane dei pellegrini, è il cibo per andare avanti nel cammino: è prendere forza nella relazione con Gesù perché la sua presenza ci trasformi e cambi dentro. Accogliere l’eucaristia non è proclamare che siamo buoni ma riconoscerci bisognosi di alimento e di far rimanere la sua presenza in noi, per essere cambiati. Tutti e insieme. Non è un mezzo per un incontro da soli a soli con Gesù, ma è un mangiare che fa divenire, insieme ed in relazione, corpo di Cristo. Questo è molto importante perché abbiamo reso la ‘comunione’ un rito e un fatto privato, mentre essere comunicanti significa entrare in relazione, vivere una nuova appartenenza: ci apparteniamo gli uni e le une agli altri
E’ importante pensare che nel gesto di Gesù stava il desiderio di condividere la mensa, il cibo. Gesù suscitò reazione e scandalo perché a tavola sedeva insieme con peccatori e pubblicani, con gli esclusi e i poveri che lo seguivano e diceva che gli ultimi dovevano essere i primi.
Questo modo di vedere la vita di Gesù si scontra con il modo che noi abbiamo di concepire i rapporti sociali. Gesù non invitava a praticare una sorta di elemosina in questa esperienza della mensa. Il messaggio racchiuso nel gesto della condivisione dei pani costituiva l’indicazione di un modo nuovo di pensare i rapporti e la vita nella società. Un modo che fosse riflesso e accoglienza del progetto di Dio. Per Gesù la possibilità di incontrare Dio non sta fuori dalla storia ma dentro la vita nella concretezza degli incontri. Amare Dio, incontrare il Padre è un’esperienza che sta dentro ad un cambiamento della vita, cambiando il modo di vedere gli altri, le cose aprendosi allo stile di Dio stesso che è quello della condivisione.
Gesù ha vissuto proponendo un progetto di una società completamente diversa da quella in cui viviamo. Voleva una società in cui le persone fossero considerate come uguali con uguale dignità e diritti, tutti importanti e unici.
Noi oggi viviamo una drammatica contraddizione. Un modello di società secondo lo stile della convivialità e della condivisione è in netto contrasto con il sistema economico che ci viene imposto e domina il nostro quotidiano. E’ questo un sistema pensato e gestito per produrre disuguaglianze e iniquità: disuguaglianze di tipo economico con la concentrazione del capitale mondiale in pochi paesi e in grandi imprese multinazionali nelle mani di pochi senza scrupoli nell’usare violenza e dominazione, con il dominio della finanza e lo svuotamento del lavoro delle persone. Sperimentiamo disuguaglianze nel campo dei diritti: milioni di persone non sono riconosciute nel loro essere appartenenti all’unica famiglia umana, e sono costretti a vivere nella paura e nella clandestinità.
Con tutti questi generi di disuguaglianze le religioni possono divenire luoghi di conferma e sostegno di un sistema oppressivo e spesso ne stanno al servizio: utilizzano i loro rituali per tranquillizzare coscienze e perpetuare i sistemi della violenza e della morte.
Oggi è la festa dell’eucaristia. La memoria dei gesti di Gesù che ha invitato i suoi dicendo ‘date loro voi stessi da mangiare’ e nella condivisione dei pani ha accompagnato a scorgere che nel condividere c’è incontro e abbondanza per tutti, apre una domanda: cosa significa continuare i gesti di Gesù? A cosa ci chiama oggi il vangelo?
Alessandro Cortesi op
Solennità Corpo e sangue di Cristo – anno C – 2016
Gen 14,18-20; 1Cor 11,23-26; Lc 9,11-17
‘Melchisedek re di Salem, offrì pane e vino’: Melech in ebraico significa re. Sedek indica ‘giustizia’. Melchisedec è nome di un re di giustizia e di shalom (pace). Indicato come sacerdote del Dio altissimo, re di Gerusalemme città dello shalom, della pace. Questa enigmatica figura che si fa incontro ad Abramo racchiude la promessa e l’attesa di giustizia e pace che segna la storia. Ed è presenza di riferimento a Dio altissimo prima ancora di ogni alleanza e della legge. E’ espressione dell’orizzonte di tutta il cammino di Abramo. Il suo gesto nell’incontro è offerta di alleanza: presenta pane e vino e con la sua ospitalità permette alla tribù di Abramo di riposare. L’incontro si chiude con una benedizione. Al cuore di questo incontro i segni del pane e del vino, segni di accoglienza e ospitalità.
‘Gesù prese i cinque pani e i due pesci, e levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono e si saziarono…’ (Lc 9). I gesti di Gesù generano condivisione, ristoro, pace. La sua parola e il suo agire danno possibilità di condividere il poco cibo, perché tutti possano mangiare fino ad essere sazi: non si tratta tanto di moltiplicazione dei pani che costituirebbe un miracolo strepitoso. Dietro ai gesti di Gesù si nasconde un miracolo forse più profondo, ma meno eclatante: l’ordinaria opera di distribuzione iniziata da una parola di bene, da un invito a condividere il poco che c’è per farne parte. Luca riprende da Marco questa narrazione e ne individua un passaggio decisivo nella vita di Gesù. Subito dopo infatti Gesù presenta la sua missione di figlio dell’uomo che subisce il rifiuto umano ma rimane fedele al progetto di Dio alla sua missione e incontra l’approvazione del Padre (nell’episodio della trasfigurazione Lc 9,18-22). E si dirige decisamente verso Gerusalemme.
In questa pagina Luca tesse alcuni rinvii al racconto del dono della manna nel deserto (Es 16,8.12; Num 11,21). Anche ora vi è un luogo deserto, vicino a Betsaida. E’ poi evocato un episodio della vita di Eliseo, profeta di Dio (2Re 4,42-44). A lui si era infatti presentato qualcuno offrendogli primizie ed Eliseo lo invitò a distribuirle: ‘Dallo da mangiare alla gente’. Di fronte all’obiezione ‘come posso mettere questo davanti a cento persone?’ l’invito è ribadito: ‘Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: ne mangeranno e ne avanzerà anche’. Lo pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore’. La parola del Signore è promessa che il cibo condiviso non viene meno e la parola del profeta si fa interprete di questo invito per un fecondità nuova.
Attraverso tali richiami Luca pone in risalto il significato dell’esperienza eucaristica della prima comunità. I gesti compiuti da Gesù mentre il giorno stava per declinare, sono i medesimi presentati nell’incontro con i due di Emmaus, vissuti in un altra sera. Anch’essi al tramonto pregano lo sconosciuto che si era accostato a loro nel cammino: ‘resta con noi perché si fa sera’. Nella locanda i gesti di Gesù sono ancora quelli di prendere il pane, pronunciare la benedizione, spezzarlo e porgerlo ai discepoli. Sono i medesimi gesti che Luca riporta all’ultima cena: ‘Poi, preso un pane lo spezzò e lo diede loro dicendo: ‘questo è il mio corpo che è dato per voi…’ (Lc 22,19).
La distribuzione dei pani non è solo memoria del gesto di Gesù, ma reca in sé un invito ad andare al senso profondo del gesto dello ‘spezzare il pane’ – questa è l’espressione con cui nella prima comunità cristiana si indicava l’eucaristia – ripetuto nelle comunità nel ritrovarsi dopo la sua morte e risurrezione. La sua presenza continua nella comunità e rende responsabili i discepoli: ‘date voi loro da mangiare’.
Gesù chiede ai suoi di mettere a disposizione ciò che si ha, inizia un movimento di condivisione che contro ogni aspettativa non impoverisce, ma porta a moltiplicare, ad scoprire fecondità inattese. Porta infatti abbondanza per tutti. I discepoli sono i primi coinvolti in questa distribuzione: ‘E mangiarono e si saziarono e dei pezzi avanzati ne portarono via dodici panieri’. La comunità è chiamata a centrare la sua attenzione verso ‘tutta questa gente’ di affamati e a vivere lo stupore di un’abbondanza nuova.
Spezzare il pane insieme, fare eucaristia trova il suo autentico senso e compimento nel distribuire il poco. Non nel trattenere ma nel restituire: non è solo un dare a chi ha bisogno, ma significa vivere l’esperienza del far parte insieme. E’ tutt’altro che evento individuale e intimistico, ma spalanca agli orizzonti di una relazione nuova, di un modo di intendere la vita come ‘spezzare il pane’, dono e condivisione.
Alessandro Cortesi op
Corpo
Tre testi per pensare al corpo.
Il primo è una poesia di Wislawa Szymborska che rinvia alla capacità di male nel torturare i corpi di chi innocente viene sottoposto alla violenza: la tortura è violenza che attraversa i tempi. E il pensiero va a Giulio Regeni e a tutti i giovani spariti e torturati in Egitto…
Torture
Nulla è cambiato.
Il corpo prova dolore,
deve mangiare e respirare e dormire,
ha la pelle sottile, e subito sotto – sangue,
ha una buona scorta di denti e di unghie,
le ossa fragili, le giunture stirabili.
Nelle torture di tutto ciò si tiene conto.
Nulla è cambiato.
Il corpo trema, come tremava prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,
le torture c’erano e ci sono, solo la Terra è più piccola
e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.
Nulla è cambiato.
C’è soltanto più gente,
alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove,
reali, fittizie, temporanee e inesistenti,
ma il grido con cui il corpo
ne risponde era, è
e sarà un grido di innocenza,
secondo un registro e una scala eterni.
Nulla è cambiato.
Tranne forse i modi, le cerimonie, le danze.
Il gesto delle mani che proteggono il capo
è rimasto però lo stesso,
il corpo si torce, si dimena e si divincola,
fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,
illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.
Nulla è cambiato.
Tranne il corso dei fiumi,
la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.
Tra questi paesaggi l’anima vaga,
sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,
a se stessa estranea, inafferrabile,
ora certa, ora incerta della propria esistenza,
mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è
e non trova riparo.
(Wislawa Szymborska)
Un secondo testo è una breve frase di un vescovo di Gerusalemme del IV secolo, uno sguardo limpido sull’importanza del corpo a fronte di modi di concepire la vita per cui il corpo non conta ed è da negligere, nascondere, disprezzare: “Non tollerare nessuno di coloro che affermano che questo corpo è estraneo a Dio” (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali IV, 22).
Infine un testo di Etty Hillesum, testimone in tempi drammatici di una ricerca e di una profondità di ascolto del proprio corpo, di tutta la sua vita e delle sue profondità insondate: “L’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi e anche l’unica che veramente conti è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì mio Dio sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi ad ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento, invece di salvare te, mio Dio. E altre persone che sono ridotte a ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessun se si è nelle tue braccia. Mio Dio è un periodo troppo duro per persone fragili come me. So che seguirà un periodo diverso, un periodo di umanesimo. Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie esperienze quotidiane. L’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi e di prepararli fin d’ora in noi stessi. Vorrei tanto vivere per aiutare a preparare questi tempi nuovi: verranno di certo, non sento forse che stanno crescendo in me, ogni giorno?” (Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi 1996, 169-170)
“Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo… Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite” (Etty Hillesum, Diario, 238-239)
Alessandro Cortesi op