VII domenica del tempo ordinario – anno A – 2017
Lv 19,1-18; 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48
“Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui.”
Covare odio nel cuore: covare è il gesto dello star sopra, è la modalità con cui gli animali ovipari trasmettono alle uova il calore stando accovacciati nel dare calore ad un uovo destinato a schiudersi. Covare è verbo della custodia che attende la crescita un po’ alla volta, con pazienza. Covare è verbo di vita ma covare odio è l’atteggiamento che si fa custodia di un germe non di vita ma di morte. Covare odio è generatore di negazione dell’altro. Al centro della legge sta uno sguardo all’altro che si collega allo sguardo a Dio che apre ad essere responsabili verso l’altro. Tutti, uomini e donne sono immagine e somiglianza di Lui: per questo il rapporto con l’altro reca con sé una scelta nel rispondere alla chiamata di Dio nella vita. C’è un comune provenire da Dio stesso. L’invocazione non uccidere che proviene dallo sguardo dell’altro è chiamata: esige risposta, responsabilità. Covare custodendo non i germi della vita, ma l’odio che è sentimento produttore di morte, è venir meno all’alleanza con Dio che rinvia al rapporto con l’altro.
Gesù riprende i riferimenti alla legge di Mosè e li conduce alla loro radice, indicando vie di nonviolenza: “Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra”. Già la legge del taglione era un modo per superare la logica della vendetta senza misura indicando un limite invalicabile. La sua formulazione andava nella linea di porre un contrasto alle forze di aggressività ed alla logica della violenza presenti nel cuore umano. La legge conduceva a scorgere il contrasto tra l’uso della violenza e l’agire di Dio che perdona come pure l’inutilità della violenza e la sua infecondità.
Gesù conduce fino in fondo questo orientamento: indica una via che appare impossibile a praticarsi. Solamente lo stare inermi davanti all’altro apre orizzonti impensabili di bene. La risposta al male con il male, alla violenza con la violenza è apparente vittoria e supremazia nella logica del più forte, ma si rivela prima o poi un fallimento. E’ questa la sconsolata constatazione che ogni guerra condotta nella storia, dalle piccole guerre a quella più grandi anziché produrre bene ha generato immani sofferenze, ferite sanguinanti, lutti e ingiustizie che prima o poi sono terreno di coltura di altra violenza, di altro dolore.
Gesù richiama ad un impossibile che si manifesta come via che risponde alle esigenze più profonde dell’essere umano. Apre la via ad una vita non segnata dalla logica mortale della violenza e del male. Fa fiorire una nostalgia di una umanità capace di relazioni nuove, nascosta e spesso offuscata dentro i cuori.
“Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”.
La richiesta di Gesù di giungere ad amare non solo il prossimo, ma anche il nemico sfida la comprensione umana, il buonsenso e le capacità e le risorse del cuore e della mente. L’esperienza dice che nella vita sono presenti i nemici; in tanti modi la vita è minacciata da chi vuole il male e lo attua in forme talvolta subdole, volte a generare sofferenza, con cattiveria e cinismo. Davanti al nemico la reazione immediata è la paura, l’odio, il desiderio di rispondere al male con il male.
Gesù invita a non reduplicare il male che si riceve. Suggerisce di volgersi ad un cammino arduo di libertà. La scelta di non rispondere al male con il male apre a seguire una via alternativa. L’unica motivazione per questo è l’essere riflesso di un modo di agire che è quello di Dio: un Dio che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni. E’ importante che Gesù rinvii alla creazione, alla natura. Il volto di Dio comprensibile a tutti è il volto riflesso nella gratuità della luce offerta a malvagi e buoni indistintamente. Come il sole che splende senza riservare i suoi raggi e il suo calore a qualcuno e senza toglierli ai malvagi. La natura diviene grande maestra di una comunicazione dello stile di Dio.
E’ difficile non restituire il male ricevuto, non covare sentimenti di vendetta e di odio. Gesù non porta a confondere i gesti di cattiveria con quelli della bontà, non mescola bene e male in una indistinta confusione. Dice che Dio fa splendere la luce perché solo questa gratuità per buoni e malvagi è via per un cambiamento e per un’uscita dalla schiavitù del male. Non altro.
Amare in perdita senza pretese di contraccambio non è precetto da adempiere, ma è via aperta di felicità. E’ possibilità di covare non germi generatori di morte, l’odio nel cuore che rende la vita ripiegata e asservita al desiderio di male, ma la gratuità di una luce accolta con gratitudine che sola porta vita. Gesù suggerisce i quattro verbi: amate, pregate, porgete, prestate quale esercizio per una prassi concreta di trasformazione del cuore. Nessuno potrà dire di aver compiuto questo. Ma nell’intraprendere tale via ci si apre alla scoperta di poter accogliere quel dono che è l’agire di Dio. E questo solo apre all’impossibile.
In questo forse è da scorgere una sapienza che non s’identifica con l’accumulo di erudizione o con l’abilità di tipo tecnico o scientifico, ma è il lasciarsi prender e contagiare da uno stile, lo stile della gratuità di Dio, che può essere accolto e custodito al cuore della vita umana: “Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente”.
Alessandro Cortesi op
Sono solo canzonette…
Uno sguardo ai testi delle tre canzoni giunte in finale al recente festival di Sanremo può suggerire interessanti spunti di vicinanza, talvolta quasi eco, alle parole evangeliche di questa domenica.
La canzone che ha vinto il primo premio presenta una musica facilmente orecchiabile e ballabile ed è stata arricchita dall’esibizione danzante di uno ballerino-scimmia accanto all’artista Francesco Gabbani. E’ una riflessione sulla ‘scimmia nuda’ che balla, con allusione alle teorie dell’antropologo Desmond Norris che parla dell’uomo come scimmia che ha vissuto un venir meno della copertura di peli, ma che fondamentalmente nei suoi comportamenti si orienta come le altre scimmie. Il testo della canzone non è di facile accostamento: le parole, a prima vista sembrano essere assembrate senza nessi evidenti. Ad una lettura più attenta il testo fa riferimento ad una contraddittorio mescolamento tra adesione al messaggio di religioni orientali e la condizione dell’uomo occidentale contemporaneo schiacciato nel suo individualismo e narcisismo. La trasformazione che l’umanità sta vivendo nell’età post-moderna va nella direzione di una vita di individui ripiegati su se stessi nella rinuncia a tutto quanto è pensiero e fatica: il rispecchiamento di se stesso, il selfie è cifra della condizione dell’individuo che ha rinunciato a porsi domande esistenziali : “Soci onorari al gruppo dei selfisti anonimi. / L’intelligenza è démodé / Risposte facili / Dilemmi inutili”.
In tale quadro il fascino della spiritualità orientale che si diffonde nel mondo occidentale ha un suo peso e viene inseguito spesso in modo acritico e superficiale senza coglierne le profondità, quasi come un respiro di prigionieri in carcere: “C’è il Buddha in fila indiana / Per tutti un’ora d’aria, di gloria. / La folla grida un mantra”.
Karma è termine sanscrito che indica la forza capace di far sì che le persone possano essere protagoniste del proprio destino, ma non appare che nel contesto occidentale questo sia possibile dove la corsa sembra sia orientata verso un benessere pieno di cose superflue e ad una fuga lontano dall’altro nella contrapposizione tra relazioni evitate nel reale e vissute solamente nel mondo virtuale. “Piovono gocce di Chanel / Su corpi asettici / Mettiti in salvo dall’odore dei tuoi simili. / Tutti tuttologi col web / Coca dei popoli / Oppio dei poveri”.
La scimmia nuda balla, come nella preistoria e forse una nuova condizione preistorica è quella che si affaccia là dove uomini appaiono accomodati in una comoda gabbia, con la possibilità di navigare ovunque in internet, ma nell’incapacità di scorgere sentieri di libertà: “Nella tua gabbia 2×3 mettiti comodo. / Intellettuali nei caffè / Internettologi. (…) La scimmia nuda balla / Occidentali’s Karma”.
C’è una ricerca di sapienza che vada oltre le forme scontate e consuetudinarie, oltre il dominio di una tecnica. Ma questo può divenire moda effimera o può aprirsi a quella sapienza dello Spirito che conduce a vivere una nuova scoperta di quell’origine dell’essere umano nella sua chiamata fondamentale: scimmia che ha la dignità della responsabilità di scegliere la via del bene, di cercare e compiere il proprio ‘karma’.
Nella canzone di Fiorella Mannoia “Che sia benedetta” attribuito a vita è l’aggettivo ‘perfetta’: la vita è perfetta. E’ affermazione che a primo impatto non può non suscitare una reazione di indignazione e di sconcerto pensando alle tante forme di dolore, di assurdità e di tragedia che sono presenti nelle vite di tanti. La vita non è affatto perfetta. Le vite della stragrande maggioranza della popolazione mondiale è fatta di stenti, di malattie, di migrazione, è lotta quotidiana per sopravvivere, è dolore e morte. Ma forse questa è la medesima reazione che si può provare di fronte alle parole del vangelo ‘siate perfetti…’ Anche qui è presente una assurdità. C’è stata una retorica della perfezione che ha inquinato la vita dei credenti: i perfetti sono stati indicati come coloro che si sono dedicati alle ‘cose spirituali’ contrapposte alle ‘cose materiali’. La perfezione è stata prospettata quale fuga dall’esistere quotidiano, o come un esito di sforzi e di osservanze religiose esteriori o peggio ancora l’inseguimento di una scrupolosa attenzione a sé che fa perdere del tutto la possibilità di guardare agli altri. Ma forse il senso di questa parola è da ricercare in altre direzioni e in diversi orizzonti: nel testo della canzone della Mannoia si legge anche: “In questo traffico di sguardi senza meta / In quei sorrisi spenti per la strada / Quante volte condanniamo questa vita / Illudendoci d’averla già capita/ Non basta non basta / Che sia benedetta”
Il benedire la vita sorge non da una attitudine di spensieratezza e di trionfo, ma da una consapevolezza di non averla compresa nelle sue profondità, da un sentimento di imperfezione. Il dire sia benedetta sorge da una consapevolezza di limite, di ferita, di imperfezione
“A chi trova se stesso nel proprio coraggio / A chi nasce ogni giorno e comincia il suo viaggio / A chi lotta da sempre e sopporta il dolore / Qui nessuno è diverso nessuno è migliore. / A chi ha perso tutto e riparte da zero perché niente finisce quando vivi davvero / A chi resta da solo abbracciato al silenzio / A chi dona l’amore che ha dentro / Che sia benedetta”.
E i profili dei viventi, nessuno diverso nessuno migliore, sono quelli di chi riconosce in sé l’impasto imperfetto e contraddittorio di polvere di stelle e di polvere di terra: “Siamo eterno siamo passi siamo storie / Siamo figli della nostra verità (…) / E siamo noi che dovremmo imparare a tenercela stretta”.
Allora la vita è ‘perfetta’ non perché si passa sopra a tutto il male che la segna né perché ingenuamente si guarda ad un momento di spensieratezza ma perché in essa si può riflettere, nel suo essere radicalmente imperfetta, un tratto di quell’amore che è la gratuità stessa di Dio e la nostalgia più profonda del cuore umano.
La canzone di Ermal Meta dal titolo ‘Vietato morire’ suggerisce il messaggio di vincere la violenza non reduplicando il male, ma generando percorsi nuovi nonostante il male ricevuto, la vita possa generare bene per altri e non ancora malvagità. Il tratto autobiografico di questa canzone provoca a pensare. Ed è triste rappresentazione della condizione di un presente segnato dalla pervasività della violenza tra le pareti di casa, attuate e perpetrata nelle forme più quotidiane e nei luoghi più sacri. La canzone è il racconto di una violenza subita silenziosamente e con paura in famiglia per la presenza di un uomo violento che non rispetta la sua donna: “Ricordo quegli occhi pieni di vita / E il tuo sorriso ferito dai pugni in faccia / Ricordo la notte con poche luci / Ma almeno là fuori non c’erano i lupi”.
Le parole di questa canzone rinviano – quale ricordo di figlio che ripensa al doloroso percorso – al faticoso percorso della madre nel credere che sia possibile aprire al sogno dell’amare dando ad altri quanto non si è ricevuto. In filigrana si può leggere il volto di una donna vittima di violenza. Per lei questa tragica esperienza diviene scelta ad orientare la vita in modo diverso e a vivere la sua maternità per generare una vita non asservita alla violenza, ma libera per non morire. Da qui il titolo ‘vietato morire’. Nella canzone si delinea così il profilo di una donna forte che sceglie di non far proseguire la spirale della violenza, ma di coltivare percorsi di sogno e d’amore, invitando a ‘cambiare le stelle’ ricordando che l’amore non colpisce mai. Non può mai essere confuso l’amore con le forme di violenza più plaesi o più sottili, come tanto spesso avviene.
“E la fatica che hai dovuto fare / Da un libro di odio ad insegnarmi l’amore / Hai smesso di sognare per farmi sognare / Le tue parole sono adesso una canzone / Cambia le tue stelle, se ci provi riuscirai / E ricorda che l’amore non colpisce in faccia mai (…) / E scegli una strada diversa e ricorda che l’amore non è violenza / Ricorda di disobbedire e ricorda che è vietato morire, vietato morire”.
Sono solo canzonette… ma forse racchiudono un messaggio che apre a scorgere quella via di nonviolenza, di sguardo alla vita nel luce di una benedizione che è gratuità, nella direzione di una responsabilità per farsi protagonisti del proprio destino: in fondo parole che generano echi di vangelo da inseguire nella musica dei versi.
Alessandro Cortesi op
VIII domenica tempo ordinario – anno A – 2017
Is 49.14-15; 1Cor 4.1-5; Mt 6,24-34
“Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”. All’origine della fede biblica sta la percezione di una presenza vicina. Il Dio dei profeti non idolo muto, non si confonde con un’entità impersonale, lontana, né ha il profilo di un dominatore assetato di pagamenti e sacrifici. Non è il ricattatore che minaccia terrore in cambio di sottomissione e per garantire tranquillità e pace. Per parlare di Dio i profeti riprendono esperienze umane. Così il volto di Dio ha un profilo femminile: come di donna che tiene in braccio un bambino, come di chi si prende cura delle piccole cose della vita. Se anche una donna potesse dimenticarsi del proprio figlio… “io non ti dimenticherò mai”. Dio ha volto umano, è qualcuno che non si dimentica. Il volto di Dio reca i tratti di un’umanità bella, di tenerezza e rispetto, dove non c’è traccia di possessività, dominio, violenza. E’ questa forse proiezione della nostalgia di bene presente nel cuore umano? O è accoglienza di un venire, di un manifestarsi che sta prima e da cui proviene anche ogni nostra nostalgia? Di gratuita comunicazione dell’origine che non è invenzione di ingegno umano ma scoperta da accogliere e custodire con stupore? Per l’esperienza dei profeti, uomini di fede, l’incontro con Dio apre a scoprire orizzonti nuovi della propria vita. La sua presenza non genera paura ma a Lui ci si può affidare, senza riserve. Nel suo sguardo di cura si può trovare un senso che non è un ideale, pur alto e nobile, ma è relazione di vita, incontro vivente. Dio si prende cura e non dimentica le sue creature.
E’ questa l’esperienza di Dio che traspare dalla vita di Gesù, uomo radicato nella fede dei suoi padri. Nei suoi gesti e nelle sue scelte traspare un’umanità serena, matura. Gesù non si lascia sommergere dalle cose. Non si lascia schiacciare da angustie e pesi. Il centro della sua vita non sta nelle cose, nell’inseguimento di ricchezze. E’ uomo che sa godere delle cose, sa provare stupore di fronte al bello, lo sa scovare tra le pieghe del quotidiano, nei volti di persone senza grandezza. Sa gioire insieme di tutto ciò che riempie la vita ma non se ne rende servo. Non ha posto il senso della sua esistenza nel possesso, e neppure nella ricerca di una fama e di un’affermazione di sè. Non ha interesse a farsi vedere grande, anzi la sua preoccupazione è per altro, è davanti ad un Altro. Tutta la sua vita è spossessata – in questo senso è povero – nel divenire disponibile a stare in ascolto di quanto il Padre chiede a Lui e nel dare ospitalità. Non ha abitazione propria ma il suo cuore è abitato e vi è spazio per gli altri dimenticati, esclusi e senza futuro. Il suo stare davanti al Padre è sereno, di chi sa cos’è l’affidarsi e la sicurezza di essere accolto. Sa di essere ospitato, pienamene nelle sue mani. A partire da questi suoi atteggiamenti la prima comunità parla di lui come del ‘figlio’. Al cuore della sua vita sta una fiducia radicale che comunica nei gesti di far sentire fratelli e sorelle quelli che incontra. Nei tratti della sua vita si scorge l’ineffabile di una comunione unica con Dio, il Padre.
Nelle sue parole egli comunica questa esperienza. Ne parla facendo scorgere come essa sia nostalgia dell’esistenza umana: non preoccupatevi di cose che per quanto appariscenti, grandi e importanti non possono riempire tutta la vita… C’è qualcosa di più grande e più profondo. Non si può mettersi al servizio di un padrone umano per quanto grande importante esso sia. E’ annuncio di una libertà faticosa. Tanto meno ci si può asservire ad inseguire cose che limitano il senso della vita ad illusioni di grandezza, a qualcosa che passa e non costruisce dono, condivisione.
Nel discorso della montagna Gesù chiede ai suoi di non preoccuparsi, di non angustiarsi. Certo ci sono cose che possono avere importanza ma non possono divenire il senso totale e pieno dell’esistenza. C’è una passione da coltivare, questa sì: l’autentica preoccupazione di orientare la vita a costruire rapporti di ospitalità data e ricevuta, di parola condivisa, di accoglienza della creazione, di prendersi cura. Tutto il resto è da porre in funzione di questo orizzonte. E questo libera e allarga mente e cuore. Allarga soprattutto a riconoscere gli altri, a scorgere la vita della natura, ad aprirsi a dimensioni profonde dell’essere che fanno toccare un infinito presente in noi: “non preoccupatevi per la vostra vita…Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. (…) Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.
Un invito proviene dalle parole di Paolo ai Corinti: “ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele”. Anche questo è un invito liberante: si può scoprire di essere chiamati ad una consegna, amministratori, non padroni. La vita stessa è dono affidato e ci interpella non da possessori da chiamati, a rispondere a… a rispondere di…. La vita viene sciolta quale percorso di restituzione nel custodire. E’ luogo in cui comunicare il volto materno di un Dio che si prende cura. E’ spazio per scorger come Dio si comunica nella fragilità.
Bellezza e parola
Gesù nel discorso della montagna usa parole che danno voce alla bellezza. In questo si manifesta poeta. Jean-Louis Chrétien è filosofo e poeta. Particolarmente sensibile al valore della parola. Da filosofo riflette sulla bellezza e sulla parola che proviene dal silenzio e si fa espressione di lode e di gratuità. In un suo libro dal titolo L’arca della parola, rinvia all’immagine dell’arca di Noè che al tempo del diluvio ha ospitato uomini animali e cose facendoli giungere oltre la distruzione delle acque.
L’arca della parola presenta un duplice significato: nella parola come arca si possono radunare tutti gli esseri del mondo e si può attuare una custodia premurosa di ogni realtà. Ma anche nella parola coma arca anche noi stessi siamo ospitati e custoditi: “La parola è l’unica arca perché è l’unico memoriale e la sola promessa… Non possiamo far entrare ogni cosa nell’arca della parola se non perché essa stessa ci ha già custodito” (L’arca della parola, Cittadella Assisi 2011,28).
Ritroverei qui spunti per sondare la parola di Gesù, parola che accoglie e sa custodire e nel medesimo tempo parola che sgorga da una custodia. Gesù è poeta innanzitutto perché con la sua parola sa scorgere e far parlare il segreto delle cose. Le sa sfiorare con il suo sguardo. Non ne prende possesso, non le sciupa calpestandole. Di fronte a cose piccole e ordinarie, guardando i gesti della vita ne scorge un senso, una profondità inattesa. Gesù sa parlare di Dio parlando delle cose. Il suo è un parlare laico, aperto a tutti, non fatto di retorica religiosa. Lascia la porta aperta senza esigere condizioni di appartenenza per ascoltarlo: nella realtà scorge orizzonti che la bellezza apre. Sa scorgere la presenza di Dio racchiusa nella piccolezza della vita ordinaria.
“Che la parola umana sia un’arca mette incessantemente in gioco e in opera la sua possibilità di accogliere, offrire riparo, proteggere ogni luminoso ricominciare del mondo, riprendendo, traducendo, rilanciando i suoi appelli mormorati, i silenzi che reclamano il verbo, il suo urgente alludere (…) perché la cose possano essere convocate dalla nostra parola occorre che abbiano già in qualche modo provocato il nostro sguardo e la nostra voce, e occorre anche che abbiano fatto una sorta di irruzione davanti a noi inquietandoci. La bellezza non è la sola di queste provocazioni sicuramente è però la più autorevole. Che cosa dice? E può dire addio, ossia inviare a Dio, convocare una risposta in cui la riconoscenza e il grazie intimo non abbiano più fine?” (L’arca della parola, 127-128)
Di fronte alla bellezza la parola di Gesù si pone come gesto di meraviglia, di risposta ad una chiamata, di stupore che si ferma e raccoglie.
“Il bello, la bellezza racchiudono un appello. Un appello è più di una chiamata. E’ invito ad un coinvolgimento, ad una risposta che si fa rispondere di qualcosa e rispondere a qualcuno: Il bello ‘chiama manifestandosi e si manifesta chiamando. Che il bello ci attiri, ci metta in movimento verso di sé, ci muova, venga a cercarci là dove siamo affinché possiamo ancora cercarlo, questo è il suo appello e la nostra chiamata (vocation)’ (J.-L. Chrétien, L’appel et la réponse, Minuit 1992, 19)
Gesù si è lasciato toccare e smuovere dalla bellezza racchiusa nelle cose e questa chiamata ha suscitato una sua parola. Gesù è poeta anche perché sa lasciarsi toccare dalla bellezza. Si lascia interrogare dalla bellezza, la accoglie, ne fa spazio dentro di sè: la bellezza di una natura i cui i gigli fioriscono con i vestiti più belli di ogni tessitura e in cui gli uccelli del cielo tracciano i loro voli, sono per lo sguardo di Gesù luogo per il germinare di una parola sulla vita. Gesù sa scorgere la gratuità come il respiro profondo delle cose.
“Ciascuno di noi, nel corso della sua vita, ha fatto esperienza della bellezza, in molti modi e tante volte. Un uomo è qualcuno la cui quiete è stata minacciata dalla bellezza, sebbene avrebbe potuto mettersi al riparo da questa minaccia e sottrarsi ad essa. Intensa o discreta, dolce o violenta, il più delle volte tale da avere entrambi i tratti, questa esperienza non ci lascia come prima e talvolta ha deciso totalmente della nostra vita (…) Non consumiamo la bellezza ma ne siamo consumati, siamo bruciati dal suo fuoco che solleva, rende leggeri, portandoci alla nostra pienezza e al compimento della nostra umanità (…) Un mondo privo di bellezza non sarebbe più che ciò che i greci chiamavano kosmos, il quale risplende. Una ricca tradizione di pensiero, che ha avuto molti e diversi sviluppi, ha visto nella bellezza un appello e fatto derivare kalos, ‘bello’, da kalein, ‘chiamare’. Ma che cosa nella bellezza chiama, e a che cosa chiama? Chiamandoci la bellezza ci com-muove, ovvero ci tocca, viene a toccarci là dove siamo mettendoci in cammino e sulla strada affinché non restiamo là dove siamo, e affinché non restiamo ciò che siamo. Ma dove conduce questo cammino? (L’arca della parola, 129-130)
Gesù ha saputo pronunciare parole rispettose del mondo e nel contempo parole che hanno fatto risuonare un significato profondo. La sua parola può essere letta come arca che raccoglie e sa ospitare. Ed egli è anche poeta perché la sua parola non solo si lascia concepire dall’accoglienza delle cose, ma è feconda di qualcosa di nuovo. Sa infatti generare qualcosa in chi lo ascolta: è appello e in questo si fa azione: è un fare ‘poiein’ che non si misura nei termini dell’efficienza, ma nel generare ascolto e cambiamento del cuore. Le parole di Gesù sono così anche appello alle nostre parole, che siano capaci di rispondere a… e di rispondere di…:
“Che nella nostra parola abbiamo il compito di rispondere alla bellezza del mondo e di rispondere di essa, non lo afferma soltanto la fede biblica e non si tratta soltanto di un compito religioso. Gerusalemme esprime la propria gratitudine, ma anche Atene ha un suo modo di lodare, la filosofia. La risposta che la filosofia dona al mondo è il pensarne l’ordine e la bellezza (come indica il termine kosmos). Non ogni gratitudine svolge, certo, opera di pensiero filosofico, ma ogni opera di pensiero autentico è gratitudine. (…) Pensare e ringraziare (denken und Danken) scrive tra gli altri Paul Celan, nella lingua tedesca sono parole che hanno la medesima radice (…)” (L’arca della parola, 182).
Nelle parole di Gesù come parole che custodiscono gratitudine, sta una traccia per poter dire parole che sappiano liberare la parola muta del mondo.
“Il mondo stesso è carico di parola, convoca la parola e la nostra parola perché risponda, ma non chiama se non rispondendo esso stesso già alla Parola che lo ha creato. Come potrebbe essere estraneo al verbo ciò che sussiste, secondo la fede, soltanto per il Verbo? Non si tratta di sapere se la natura ‘provi’ o ‘non provi’ l’esistenza di Dio ma di ascoltare il suo silenzio come voce visibile (…) La parola che pronunciamo sul mondo non viene da un altro mondo né gli è estranea, almeno non più di quanto lo siamo noi. Essa non si propone di imporgli dall’esterno, per nostra iniziativa, un significato arbitrario: essa vuol far risuonare il significato di cui è portatore e che, senza di noi, non può portare compimento. Cantare il mondo è tentare di concentrare il suo coro profuso e confuso nella chiarezza tremante della nostra voce umana” (L’arca della parola, 200)
Alessandro Cortesi op