XXI domenica tempo ordinario – anno B – 2018
Gs 24,1-18; Ef 5,21-32; Gv 6,60-69
La grande assemblea di Sichem è momento di ritrovarsi di un popolo che ha compiuto il cammino dell’esodo. Entrati nella terra promessa, si presenta una nuova situazione che richiede una scelta. Su quali basi costruire un futuro comune? “Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire”. E’ sempre presente la possibilità di seguire idoli vani. La domanda di Giosuè giunge al termine di un discorso in cui sono state ripercorse le tappe di una storia in cui Israele ha incontrato Dio vicino e liberatore. Segue la risposta non di individui isolati ma di un popolo che si ritrova accomunato in una direzione di fondo e assume una attitudine di responsabilità. “Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi! Perché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i nostri padri dal paese d’Egitto… Perciò anche noi vogliamo servire il Signore perché egli è il nostro Dio”. Il ‘noi’ di questa risposta indica una identità posta senza relazione, in modo egoistico e sganciato dall’assunzione del farsi carico degli altri. Essa trova le sue radici in una storia di liberazione e si orienta al futuro come fedeltà. Implica la scelta di vivere nella logica della liberazione e di farsi responsabili per gli altri popoli e per le vittime dell’oppressione. A Sichem si attua il passaggio della fede, è rinnovata l’alleanza: è una scelta di libertà per servire il Dio che si è fatto per primo incontro. Ma nel cammino di servire Dio il popolo sarà sempre rinviato allo sguardo del suo cammino di liberazione e ad assumere lo stile di Dio che ha ascoltato il grido delle vittime.
Nel IV vangelo le parole di Gesù provocano difficoltà e scandalo: “Questo linguaggio è duro chi può intenderlo?”. Gesù chiede di passare ad un nuovo registro di intendere nell’affidarsi allo Spirito: “E’ lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita”. Le sue parole indicano un cammino di conversione. C’è un modo di intendere le cose e la vita secondo la carne dove tutto è basato sulle risorse e sull’intelligenza umana. Gesù propone un modo nuovo di conoscere che fa scorgere dimensioni nuove, nell’affidamento alla sua parola. Solo la forza dello Spirito rende possibile tutto questo. Lo Spirito insegnerà ogni cosa. Gesù chiede ai suoi di scorgere nel segno del pane la sua vita, la sua carne e il suo sangue versato per la vita del mondo.
Di fronte a queste parole annota Giovanni “molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui”, ed anche i dodici vivono la difficoltà. ‘Volete andarvene anche voi?’. Simon Pietro risponde: ‘Signore da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo di Dio’. Nell’esperienza del rapporto con Gesù, nell’accogliere la sua testimonianza nel suo percorso di vita si fonda la possibilità di affidarsi a lui e di seguirlo. Nelle parole di Pietro è racchiuso il senso di affidamento allo Spirito, quale atteggiamento di ‘credere e conoscere’ in modo nuovo Gesù.
Alessandro Cortesi op
Carne e sangue
Massimo Kothmeir, comandante della nave Diciotti, ha inserito questo disegno come immagine del suo profilo pochi giorni fa. E’ un’immagine che dice tante cose e che nasconde un dramma.
La vicenda della nave ‘Diciotti’ della Guardia costiera italiana in questi giorni fa indignare e provare vergogna. 177 persone, profughi provenienti da Eritrea Somalia e altri paesi, da giorni sono trattenuti, bloccati nel porto di Catania dopo che la nave era stata fermata al largo di Lampedusa per cinque giorni senza poter ricevere autorizzazione allo sbarco. A bordo migranti segnati da lunghi periodi di abusi e torture, che necessitano assistenza e cura dopo essere stati tratti in salvo nelle acque del Mediterraneo. Tra loro chi ha diritto a richiedere asilo. Ieri sera 27 minori sono stati fatti scendere.
Il trattenimento di persone e la restrizione di libertà personale non è ammessa dalla Costituzione se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria (art. 13) e dalle Convenzioni internazionali. L’art. 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo (Cedu) riporta: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti” e l’art 5 prevede i casi in cui una persona può essere privata della libertà, affermando il principio che: “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge: …”.
Si è giunti a privare di fatto persone migranti della libertà, in violazione dei principi costituzionali, secondo il Garante dei detenuti in una lettera al Ministero dell’Interno. Questi ricorda che già nel 2016 l’Italia era stata condannata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo per la mancanza di una giustificazione legale per il trattenimento di alcuni cittadini tunisini nel centro di Lampedusa e in alcune navi a Palermo.
Il trattamento riservato ai migranti non solo ostacola la possibilità di accedere alla procedura della richiesta di asilo, ma si configura come un trattamento disumano, che non si cura della vita delle persone, e rinnega quei principi umanitari di rispetto della dignità di ogni essere umano che hanno costituito la base di una cultura di riconoscimento dei diritti umani in Europa in particolare dopo le tragedie delle guerre mondiali. Il venir meno a principi fondamentali e il fatto che persone, le più deboli, siano utilizzate e rese strumento di ricatti o per risolvere conflitti politici a livello europeo o per aumentare i consensi a scopo elettorale suscita indignazione per la violazione dei diritti umani e per mancanza di umanità.
La stessa Guardia costiera è stata posta in seria difficoltà tra obbedienza alla propria missione di salvare vite umane e obbedienza al governo. A ciò si aggiunge la vergogna per la deriva culturale in atto. Sempre più l’Italia appare un Paese incapace di scorgere le reali dimensioni dei problemi, di affrontarli in modo costruttivo, di porre attenzione alle persone più deboli.
Il vescovo di Bologna Matteo Zuppi intervenendo alla FestAmbiente di Ripescia ha detto “L’emergenza conviene, c’è qualcuno che ci guadagna. Quando non c’è una politica seria non si possono risolvere i problemi. L’emergenza dei profughi conviene soltanto a chi non vuole decidere o a chi fa vedere che decide o che ha la soluzione”. L’Italia senza accoglienza diventa un museo (“La Repubblica” 19 agosto 2018).
Qui di seguito una testimonianza diretta che aiuta a guardare negli occhi la realtà, a scorgere le reali dimensioni di quanto stiamo vivendo al di là delle deformazioni di una comunicazione virtuale che toglie la possibilità dell’incontro umano e con esso della possibilità di sentire ancora la compassione per la carne di uomini e donne che soffrono. Partecipare a mangiare il pane carne e sangue di Cristo per chi è cristiano significa entare nella vita di colui che si è identificato con le vittime e con gli esclusi della storia, lui stesso vittima della violenza e del potere.
Il testo che segue è stato scritto da una operatrice di Terre des hommes presente allo sbarco dei minori ieri sera al porto di Catania e riportato dal sito Terre des hommes. E’ un aiuto a guardare ad una storia possibile, che pure è in atto nei gesti e nelle scelte di chi intende costruire la vita come percorso di un ‘noi’ solidale e non di egoismi in continua lotta, ben lontana e altra rispetto alla storia di vergogna e disumanità che si sta scrivendo in Italia in questi tempi:
“Ho trascorso nei centri di accoglienza per minori stranieri un po’ meno di 1000 giorni della mia vita negli ultimi quattro anni. Amo il mio lavoro e sono felice perché mi permette di avviare uno scambio, di entrare in relazione, di creare uno spazio di cura, di scoprire cose di sé e dell’altro. Ieri però non sono stata così felice di presenziare a questo sbarco autorizzato su Facebook alle ore 18 circa. Vedendo quel video ho allertato i colleghi e mi sono messa la t-shirt bianca d’ordinanza, quella di Terre des Hommes, ancor prima di essere allertata. Abbiamo accolto 27 scheletrini, il più magro sarà stato un po’ più basso di me e sarà pesato una trentina di chili, la gamba con lo stesso diametro del mio polso. Abbiamo accolto 27 scheletrini, uno era tutto e solo orecchie. Abbiamo accolto 27 scheletrini, uno non riusciva a camminare perché era pieno di dolori. Abbiamo accolto 27 scheletrini, tre avevano delle bende lerce al polso, al piede e al braccio sparato. Abbiamo accolto 27 scheletrini, comprese due splendide fanciulle. Mentre li guardavo, seduti a terra e delimitati da transenne, mi sentivo la ricca e bianca signora europea che si reca la domenica pomeriggio allo zoo umano, così, per vedere l’effetto che fa. Il mio è un lavoro fatto di parole, come gli essere umani. Ieri sera eravamo in grosse difficoltà con la lingua, i fanciulli erano tutti eritrei tranne una ragazzina somala. Il mediatore non era potuto essere presente. A volte non restava che guardarci, domandarci con gli occhi “Ma quindi come va, come ti senti?”. “Ma tu chi sei? Perché mi guardi? Che vorresti dirmi?”. E mentre ci scambiavamo questi sguardi io pensavo, a dispetto della incredibile magrezza, della scabbia, delle orecchie a sventola, dei capelli arruffati di salsedine, delle bende lerce, del braccio sparato… pensavo che erano proprio belli. Mi ripetevo questo, “Che belli che siete”, e posso solo immaginare la mia faccia inebetita di fronte a tanta resilienza e, soprattutto, al permanere della capacità di fidarsi dell’altro. E in quei frangenti mi sono chiesta perché così tante persone siano arrabbiate e di cosa abbiano paura. Di due occhi che ti sorridono? Di due orecchie a sventola enormi? Di quattro ricci arruffati? Forse, del fatto che loro hanno perso la capacità di fidarsi dell’altro, forse perché non ce l’hanno mai avuta? Sono stati trasferiti tutti nel corso della nottata e mentre ero per strada e me ne tornavo a casa, orecchie a sventola mi ha riconosciuta dal pulmino su cui si trovava e mi ha salutato. L’ho salutato pure io. Penso che i sorrisi degli occhi, i saluti, il riconoscersi, valgano come un’altra bella storia. Come pure il non avere paura. Quella è la storia più bella, è la storia delle possibilità. Dei momenti in cui ciò che sarà non c’è ancora, se non nella tua testa, e sei pronto a lasciarti perturbare. Del tempo in cui tutto può ancora accadere se gli dai il giusto spazio. Dei giorni in cui non ti fai prendere dalla paura e rimani aperto a ciò che arriva. Di piccoli attimi di felicità”.
Alessandro Cortesi op
XXII domenica tempo ordinario – anno B – 2018
“…Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?” Nel vangelo di Marco i farisei sono presentati come gruppo in forte polemica con Gesù. Per certi versi Marco opera una caricatura della spiritualità farisaica, legata alla Legge, alla fedeltà quotidiana all’alleanza, ad esprimere la fede in atti concreti e visibili. Per certi aspetti il loro impegno era espressione di coerenza e vicino a quanto Gesù stesso proponeva. Ma Marco nell’indicare i farisei sottolinea un modo di opporsi a Gesù proprio di persone religiose, ma che vivono una religiosità centrata su di sé, escludente e incapace di aprirsi al dono di grazia. Marco scorge che vi è un rifiuto della proposta di Gesù che giunge proprio da persone religiose, che non comprendono il suo annuncio e vi si oppongono perché destabilizza un modo di intendere la religione. I farisei divengono così paradigma di un modo di vivere la religione in termini di esteriorità, di egoismo, di preoccupazione per sé e di indifferenza agli altri. Sono chiusi alle sofferenze del prossimo e per loro le norme stanno al di sopra dell’attenzione alle persone. L’osservanza delle prescrizioni, l’esecuzione dei riti, sono così slegati dall’attenzione agli altri. Vi è al fondo una pretesa di stare nel giusto in rapporto a Dio ed una mentalità di autoaffermazione che esclude e si pone in una condizione di autosufficienza e di superiorità.
I farisei criticano Gesù perché i discepoli prendono cibo senza lavarsi le mani, il che era una prescrizione religiosa e igienica. Gesù risponde a questa critica affrontando la questione del rapporto tra quello che Dio vuole da noi e le tradizioni che sono frutto di elaborazione umana. Gesù si oppone decisamente all’ipocrisia: è questo l’atteggiamento raffinato di chi anziché vivere la fedeltà a Dio in rapporti di giustizia pone la sua preoccupazione nell’adempimento di pratiche religiose ritenendo che questo sia tutto. I profeti richiamavano con forza che l’autentico culto doveva essere compiuto nella vita e stare in rapporto ad un impegno concreto di giustizia nei rapporti con gli altri e denunciavano un modo di rapportarsi a Dio che dava spazio al culto, ma senza coinvolgimento del cuore e perdendo di vista il centro della fede come rapporto che coinvolge la vita: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto insegnando dottrine che sono precetti di uomini (Is 29,13).
Il cuore nella mentalità ebraica è il centro della persona. “Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me, noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso (…) Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vita. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,13-17)
Gesù pone la medesima domanda: dove sta il cuore, ossia il centro delle decisioni della persona? Se il cuore sta presso Dio allora il culto dovrebbe risultare un modo di vivere in cui si attua un nuovo modo di relazione con gli altri, e al primo posto sta lo sguardo alle persone a cui Dio, difensore del povero, dello straniero e della vedova, rinvia. Non ci può essere contrasto o dissociazione tra il riferimento a Dio e lo sguardo agli altri, soprattutto a coloro che non hanno sostegni e difese, ai poveri. Gesù smaschera la deviazione di ogni tipo di fariseismo religioso, il trasporre tradizioni di uomini quale esigenza divina divenendo indifferenti alle persone, alla loro sete di liberazione e di vita.
“Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”: la durezza di queste parole dovrebbe rimanere monito ad ogni tentazione sempre presente di non mantenere il riferimento alla parola di Dio, alla sua richiesta di un culto come giustizia per i poveri, criterio primo e irrinunciabile della nostra esistenza.
C’è un secondo aspetto da cogliere nella risposta di Gesù alla questione sul puro e sull’impuro: “Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”. Bene e male non stanno nelle cose in se stesse. Le cose in se stesse non sono buone o cattive. E’ invece la persona che decide per il bene o per il male nel modo in cui utilizza le cose. .
Così dicendo Gesù dice che tutte le cose in se stesse sono buone ma possono essere utilizzate in vario modo, per il bene o per il male. In sé non hanno radice di male. Tutto viene da Dio e per questo non può esser cattivo o impuro in sé. E’ chiamata in gioco la responsabilità umana che non può essere delegata ad altri. Gesù critica quindi una religiosità che fa rimanere tranquilli perché si osservano alcune pratiche esteriorie non s’interroga sull’orientamento del cuore. E indica come il rapporto con Dio sia un dialogo vivente in cui non si è mai concluso di domandare cosa è bene davanti a lui e in rapporto agli altri.
Puro e impuro rinviano allora ad una vita di fedeltà a Dio che trova espressione in una prassi che ha radice in un ‘cuore’ rivolto al Signore. Gesù richiama all’interiorità, a quella sorgente profonda da cui ogni comportamento della vita ha origine. Pone ogni persona davanti nella situazione di responsabilità, nell’esigenza di rispondere a se stessa e agli altri, davanti a Dio. E’ un messaggio di libertà e di fiducia perché apre ad accogliere la presenza di Dio, che solo può liberarci dall’egoismo e da ogni tipo di idolatria.
Alessandro Cortesi op
C’è un tipo di responsabilità a cui oggi siano chiamati in modo particolare, che unisce insieme il rispondere agli altri, in particolare a chi soffre per l’ingiustizia e l’iniqua distribuzione dei beni della terra e la vita stessa del pianeta: è la responsabilità ecologica che si scopre inscindibilmente legata alla responsabilità sociale. I mutamenti climatici in atto stanno dimostrando come un certo modello di sviluppo che viene presentato come elemento di miglioramento delle condizioni di vita dei popoli incide profondamente sugli equilibri ecologici. Così la devastazione della terra, lo sfruttamento senza limite delle risorse, si riflette nello sfruttamento e nell’impoverimento di popolazioni e persone.
Nel Messaggio per la 13ª Giornata Nazionale per la Custodia del Creato che si terrà il 1° settembre 2018 la commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro insieme alla commissione per l’ecumenismo e il dialogo richiamano a Coltivare l’alleanza con la terra.
Ricorda il simbolo dell’arcobaleno di Gen 9,12. L’arco nel cielo richiama il dono della terra come spazio abitabile: Dio promette un futuro in cui l’umanità e gli altri viventi possano fiorire nella pace
In contrasto a questa visione di alleanza e di pace è richiamata la situazione del nostro presente: “Anche gli ultimi mesi hanno visto diverse aree del paese sconvolte da eventi metereologici estremi, che hanno spezzato vite e famiglie, comunità e culture – e le prime vittime sono spesso i poveri e le persone più fragili. Le stesse storie narrate da tanti migranti, che giungono nel nostro paese chiedendo accoglienza, parlano di fenomeni inediti che colpiscono – in modo spesso anche più drammatico – aree molto distanti del pianeta”.
Di fronte all’ampiezza del degrado può insorgere un senso di impotenza e di disperazione. Il Messaggio richiama ad un’attitudine di attenzione e di prevenzione fatta di pazienza e di un quotidiano operare che investe l’ambito politico e le scelte economiche. E viene sottolineato come la cura del creato sia da collegare ad una cura per gli altri, per il popolo e ad una dimensione spirituale: “…la sfida non interessa solo l’economia e la politica: c’è anche una prospettiva pastorale da ritrovare, nella presa in carico solidale delle fragilità ambientali di fronte agli impatti del mutamento, in una prospettiva di cura integrale. Occorre ritrovare il legame tra la cura dei territori e quella del popolo, anche per orientare a nuovi stili di vita e di consumo responsabile…”
“Ma c’è anche una prospettiva spirituale da coltivare: papa Francesco ricorda che “la pace interiore delle persone è molto legata alla cura dell’ecologia e al bene comune, perché, autenticamente vissuta, si riflette in uno stile di vita equilibrato unito a una capacità di stupore che conduce alla profondità della vita” (Laudato Si’, n.225)”.
Tali sfide sono da affrontare con la cura che parte dai comportamenti quotidiani e dalla lucidità nel saper leggere le cause profonde di fenomeni quali il cambiamento climatico e le migrazioni che segnano il nostro presente.
“é importante operare assieme, perché possiamo tornare ad abitare la terra nel segno dell’arcobaleno, illuminati dal “Vangelo della creazione”.
Alessandro Cortesi op