XVIII domenica tempo ordinario – anno C – 2019
Rembrandt, La parabola del ricco stolto o il cambiavalute – 1627 (part.)
Qoh 1,2;2,21-23; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21
Qohelet è ‘il predicatore’, un sapiente, che inquieta. Di solito gli scritti sapienziali presentano uno sguardo alla realtà concreta del vivere, in termini positivi come spazio in cui entrare in contatto con Dio creatore.
Qohelet invece non si offre indicazioni di una tranquilla saggezza e di giusta valutazione dei beni e delle esperienze. Al contrario di Giobbe, la sua vita è ricca e tranquilla. Ha assaporato la ricchezza, la saggezza, il piacere e il successo (1,12-2,26). Eppure la sua constatazione finale è che tutto questo è ‘vanità’. Tutto è per lui ‘hebel/habel’, termine ebraico che evoca la nebbia, il vapore che si dissolve, la schiuma sulle onde. Qohelet non è fiducioso e ottimista; conosce le esperienze umane, ma ne fa oggetto di coraggiosa e spietata osservazione: in ogni situazione individua contraddizioni, evidenzia l’ipocrisia, la finzione, e la ‘vanità’.
Qohelet smaschera la realtà di una condizione umana penosa che non fa riposare. Denuncia l’attitudine dell’affannarsi all’inseguimento di cose che non appagano le sue attese e lo mantengono continuamente senza riposo e senza pace: “quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!”
Gesù ha scelto la condizione di povero, vivendo di ciò che è necessario, non preoccupato solo di sé, attento alla condivisione, vicino ai poveri per liberarli da una condizione di asservimento e disumanità. Ha vissuto come povero per portare ai poveri la bella notizia di un nuovo tipo di rapporti in cui ci si possa scoprire fratelli, solidali nel bisogno, in cui nessuno sia sfruttato o lasciato da solo con i suoi problemi nella condizione di una povertà come esclusione. Dio sta dalla parte dei poveri non perché esclude qualcuno dal suo sguardo ma perché i primi a cui Dio rivolge la sua cura sono le vittime, gli impoveriti, quanti sono non considerati da chi sta al sicuro e lasciati ai margini.
Luca nel suo vangelo presenta alcuni episodi in cui fa emergere come l’inseguimento dei beni costituisce una vera e propria religione, una idolatria. E’ inoltre un luogo di conflitto in cui si viene meno a considerare l’altro fartello se tutto diviene oggetto di bramosia e di ricerca di possesso. a logica di un accumulo di beni cieco ed egoista contrasti con il vangelo. La vita del discepolo sta nell’attesa e nella tensione ad un incontro con il Signore che si è fatto povero. L’incontro comincia sin da qui. “Guardatevi e tenetevi lontani da ogni cupidigia… la vita non dipende dai beni”.
La vicenda del ricco stolto che fa progetti legati all’accumulo anziché pensare che da un momento all’altro può lasciare tutto, è paradigmatica dell’uomo che non comprende più la sua condizione. La possibilità di beni, le ricchezze – sembra dire Luca – recano con sé una sorta di forza magnetica che fa perdere di vista il senso profondo della vita, rende ciechi di fronte alla sofferenza degli altri, non fa capire cosa significa ‘arricchire davanti a Dio’.
Nella parabola presentata da Luca il ricco è stolto perché non valuta il senso del tempo, non coglie la vanità, il limite della vita umana. Il possidente preoccupato di ammassare ed ignaro del tempo che gli è concesso di vivere è additato da Luca ad esempio di quella durezza del cuore e leggerezza che non comprende e vive di illusioni. “Voi dite: oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni. E invece non sapete che cosa sarà domani! Ma che è mai la vostra vita? Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare” (Gc 4,13.14). Quel ricco è stolto. E stoltezza è l’atteggiamento di chi non tiene conto di Dio (Sal 14,1). Contro questo tipo di stoltezza Gesù propone di valutare il tempo e di pensare che la vita non dipende dai beni.
Alessandro Cortesi op
Durabilità
E’ scaduto da pochi giorni, il 29 luglio, l’Overshoot Day, il giorno dell’anno in cui si calcola che l’umanità abbia consumato le risorse prodotte dal pianeta nell’intero anno. Oggi la questione dell’uso dei beni e il rapporto con la ricchezza rinvia al rapporto con l’intero ecosistema, col mondo in cui viviamo e di cui siamo parte. Ci sono modi di produrre ricchezza che generano impoverimento. Un impoverimento che presenta contemporaneamente due facce: il versante dell’esclusione di milioni di persone nel mondo dalla possibilità di avere i minimi requisiti per un vita dignitosa e il versante dell’offesa dell’ambiente che viene consumato e devastato da modi di produzione che conducono all’esaurimento delle risorse, a conseguenze di devastazione sulla vita dell’intero ecosistema e dell’umanità.
In un’intervista il gastronomo e sociologo Carlo Petrini (Sostenibilità non si parola vuota, Intervista di G. Fazzini a Carlo Petrini, Avvenire 1 agosto 2019) offre una interessante critica al concetto di sostenibilità: “Preferisco parlare di “durabilità”. Il paradigma oggi vincente teorizza la produzione di beni che deperiscano nel più breve tempo possibile. Questo appartiene ad un’economia che uccide, come dice papa Francesco, perché lascia spazio allo spreco e allo scarto. Ora: le risorse del pianeta non sono finite e noi stiamo andando in sofferenza. Per questo la società civile comincia a chiedere risposte alla politica e all’economia…”
L’osservazione non si ferma alla critica del concetto di sostenibilità ma si fa suggerimento di un passaggio ineludibile oggi a fronte di un sistema economico che sta portando a devastazione delle risorse e aumento delle diseguaglianze, e peraltro alimentando il fenomeno delle migrazioni di mass dovute a conflitti, a catastrofi climatiche e a disparità sociali. Il discorso quindi si concentra sull’urgenza di un nuovo paradigma economico. I riferimenti indicati pur da una posizione laica, sono le linee tracciate nella lettura di Laudato sì e il Sinodo sull’Amazzonia nel prossimo ottobre in cui emergerà fortemente il legame tra sfruttamento della terra e oppressione dei popoli indigeni.
Carlo Petrini indica il valore di alcune voci nell’ambito italiano che propongono una economia di tipo diverso e aggiunge una notazione sul panorama politico: “Non vedo altre strade: se, infatti, da sinistra, la proposta è una versione un po’ più democratica del neoliberismo, non cambierà niente! Abbiamo bisogno di un’economia di comunità, che abbia come interesse principale il riconoscimento della prossimità e la valorizzazione dei territori”.
Comunità, territorio, relazionalità, beni che possano durare nel tempo per essere condivisi: la parabola del ricco che progetta di allargare i suoi granai è quasi il ritratto di un mondo in cui grandi forze stanno progettando ampliamento di guadagni, continuazione di forme di economia di scarto e di impoverimento, non pensando che si avvicina un momento di crisi che comporterà forse la fine di un tipo di presenza umana sulla terra e che richiederebbe un po’ di lungimiranza e impegno in azioni concrete per pensare e preparare un altro futuro possibile.
Alessandro Cortesi op
XXVIII domenica del tempo ordinario – anno B – 2021
Sap 7,7-11; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30
“Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Una domanda apre un dialogo con Gesù. Questo tale che lo interroga esprime il desiderio di ognuno che si lascia toccare dal desiderio di dare un senso autentico alla propria vita. Questo ‘tale’ ha condotto una vita di impegno dal punto di vista religioso, nell’osservanza dei comandamenti, e presenta il profilo di un credente che ha camminato secondo la legge: un uomo buono, con apertura sincera a vivere la vita in modo significativo per sé e per gli altri. Gesù manifesta verso di lui sentimenti di ammirazione e simpatia: il suo sguardo è di sintonia e di amore: “Fissatolo lo amò…”. E la sua risposta apre ad una scelta da vivere: “una cosa sola ti manca: va’ vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. La ‘cosa che manca’ ha a che fare con la condivisione di quanto si ha: ricchezze materiali ma anche ricchezze di vita. Gesù indica la via del farsi solidali con i poveri, del condividere per entrare in una dimensione nuova, autentica nel rapporto con lui. Propone di lasciarsi sgravare da ciò che situa la vita nell’orizzonte del possesso e del mantenere per aprirla ad una scioltezza che permette di ‘venire e seguire’ lui.
Questa pagina è stata letta nella tradizione cristiana come indice di una chiamata particolare solamente per pochi. Si tratta invece di una chiamata che Gesù nel suo cammino rivolge a tutti per seguirlo: Marco infatti nel vangelo situa questo incontro dopo aver parlato del progetto di Dio sul rapporto tra uomo e donna. Ora si tratta del rapporto con i beni e con ogni genere di ricchezza. I molti beni imbrigliano e opprimono e solamente nella condivisione possono lasciare la vita aperta e non soffocata. Quel tale “se ne andò via afflitto perché aveva molti beni”. Non sappiamo se in seguito iniziò a seguire Gesù: è una storia che rimane aperta e sospesa, segnata da questo invito. Ma questo passaggio del vangelo indica ai discepoli che una vita autentica deve passare per un rapporto nuovo con i beni: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio… è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. Questo cammello è stato variamente interpretato: forse una corda utilizzata sulle barche dai marinai oppure una porta stretta della città di Gerusalemme detta ‘cruna d’ago’, ingresso aperto quando le altre porte erano chiuse o ancora riferimento ad altro: l’immagine in ogni caso è finalizzata ad aprire il cuore dei discepoli ad una scelta nel vivere la sequela di Gesù, per tutti. La reazione è a questo punto di smarrimento e di paura: “e chi mai si può salvare?”.
Gesù propone ancora una volta un affidamento senza riserve a Dio, trovando in lui la forza per vivere rapporti nuovi sin d’ora: legami di fraternità e sororità che fanno scorgere gli altri come parte di un noi sempre più grande. La pretesa di salvarsi con le sole proprie forze e di considerare la salvezza un progetto umano è fallimentare: “Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! perché tutto è possibile presso Dio”: è questo il grande annuncio della salvezza come opera del Dio che viene e per primo ci ha amati (cfr Lc 1,37). Il senso autentico della nostra vita non si compie nei termini di sicurezza, conquista accumulo o possesso, ma secondo la logica dell’affidamento, del dono, della condivisione. La salvezza non è solo orizzonte da attendere nel futuro ma da scorgere in una vita liberata sin da ora.
Da qui sorge un modo diverso di usare ogni bene e la possibilità di rispondere all’invito di Gesù a condividere con i poveri ed a seguirlo lungo la strada che lui ha percorso.
Alessandro Cortesi op
Un momento di verità
“Dagli anni 70 un punto particolare è da sottolineare: fino agli inizi degli anni 2000 vi è una indifferenza profonda, una indifferenza totale ed anche crudele nei confronti delle vittime”. “Per me la cosa più terribile è stata aver visto il male assoluto, la violazione dell’integrità fisica e psichica di bambini. Un’opera di morte, perpetrata da persone con la missione di portare vita e salvezza”. Con queste parole François Devaux, presidente dell’associazione di vittime di abuso ‘La parola liberata’, è intervenuto nella conferenza stampa di presentazione delle conclusioni del rapporto sugli abusi sessuali nella chiesa in Francia dal 1950 ad oggi.
Il 5 ottobre us è stato infatti presentato il rapporto della commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa cattolica (Ciase), richiesto dalla Conferenza episcopale di Francia (CEF) e dalla Conferenza delle religiose e dei religiosi di Francia (Corref).
La commissione è stata presieduta da Jean-Marc Sauvé, ex vicepresidente del Consiglio di Stato, che ha guidato i lavori. In un’intervista alla BBC egli ha detto che la commissione si attendeva un numero di qualche migliaio di soggetti coinvolti, tuttavia man mano che gli ascolti procedevano si sono rivelate proporzioni sconcertanti del fenomeno. La commissione è giunta ad accertare dal 1950 ad oggi la presenza di 216.000 vittime (che oggi hanno 18 o più anni) che hanno subito violenze sessuali e abusi da parte di un prete, di un diacono o di un religioso. Se si aggiungono gli abusi attuati da persone nell’ambito ecclesiale, come ad esempio personale scolastico, catechisti, animatori di movimenti giovanili e altro si giunge alla stima di 330.000 vittime. Sono cifre impressionanti che suscitano sconcerto e indignazione. Jean Marc Sauvé ha detto: “La Chiesa cattolica è, al di fuori delle cerchie familiari e amicali, l’ambiente in cui la prevalenza di violenze sessuali è la più elevata”.
L’inchiesta è stata condotta in due anni e mezzo di lavoro ed ha posto in luce che dal 1950, un numero compreso tra 2900 e 3200 preti, diaconi e religiosi di accertata identità hanno inflitto violenze sessuali per lo più a minorenni o a maggiorenni vulnerabili (principalmente religiose, ma anche seminaristi). La commissione ha affermato che “un tasso attorno al 3% di chierici e religiosi autori di aggressioni sessuali costituisce una stima minima e una base di confronto pertinente con gli altri paesi”. Sono cifre che delineano un fenomeno diffuso e sistematico.
La reazione della chiesa istituzione a fronte di questo fenomeno è stata studiata nell’inchiesta dal sociologo e storico Philippe Portier, professore alla École pratique des hautes études. Dalla sua ricerca risulta che più della metà degli abusi (56%) si sono verificati negli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso. La gerarchia ecclesiastica ha innanzitutto operato in modo da difendersi dal possibile scandalo nell’intento di difendere l’istituzione con una attenzione rivolta ai preti aggressori e non prestando ascolto alle vittime, anzi spesso invitandole al silenzio. Nei due decenni successivi si è verificato il 22% degli abusi. In questo periodo l’attenzione ha visto una decrescita e solo negli anni ‘90 è iniziata una iniziale considerazione dell’esistenza delle vittime. Ma solo a partire dagli ultimi dieci anni è stato attuato un riconoscimento delle vittime, anche se in modo diseguale nella chiesa.
La commissione ha espresso un giudizio sintetico nei termini di ‘occultamento’ e “relativizzazione, se non negazione, con un riconoscimento solo molto recente, realmente visibile solo a partire dal 2015”. E’ quindi rilevato un fenomeno che coinvolge il sistema nel suo complesso: “l’istituzione ecclesiale non ha chiaramente saputo prevenire quelle violenze, né semplicemente vederle, e meno ancora trattarle con la determinazione e la precisione necessarie”.
La commissione ha indicato come l’impianto del diritto canonico vigente sia “ampiamente inadatto”, perché non pone alcuna attenzione alle vittime e neppure prende in considerazione le violenze sessuali. Esso non risponde “agli standard del processo equo e ai diritti della persona umana nella materia così sensibile delle aggressioni sessuali su minori”.
La commissione inoltre ha evidenziato alcuni elementi che hanno favorito la pratica degli abusi quali la sacralizzazione del prete, l’eccessiva valorizzazione del celibato, lo sviamento dell’obbedienza fino a cancellare la responsabilità di coscienza, la visione tabuistica della sessualità.
Riguardo alle misure poste in atto negli ultimi vent’anni dalla chiesa dopo che i primi casi di abusi erano stato resi noti suscitando una reazione pubblica, il giudizio della commissione è che esse sono state spesso prese in ritardo e “globalmente insufficienti”.
François Devaux rappresentante delle vittime, nella conferenza stampa ha denunciato “un tradimento della fiducia, della morale, dei bambini, dell’innocenza, del Vangelo, di tutto insomma”. Ha detto inoltre che “la chiesa non ha saputo vedere, non ha saputo ascoltare”. Dal 1950 al 2000, “le vittime non vengono credute, ascoltate, si ritiene abbiano un po’ contribuito a quello che è loro accaduto”. Ha avuto parole assai chiare rivolte alle istituzioni ecclesiastiche e ha indicato l’”estrema confusione del diritto canonico sulle responsabilità del vescovo”.
A conclusione del rapporto la commissione ha elencato 45 raccomandazioni per la chiesa sui temi: riforma del governo, aggiornamento del diritto canonico, maggiore attenzione nella selezione del clero, ridimensionamento del potere e del ruolo sacrale del prete. Esigenze che impongono una non ritardabile opera di riforma strutturale. Su tali ambiti si rende necessario un cambiamento.
Le reazioni ai lavori di questa commissione sono state di grande impressione. Vergogna e orrore ha manifestato il presidente della Conferenza episcopale francese, Eric de Moulins-Beaufort. Papa Francesco nell’udienza di mercoledì 6 ottobre ha menzionato l’inchiesta dicendo il suo dolore nell’aver appreso le notizie, e ha rivolto il suo pensiero “anzitutto alle vittime, con grande dispiacere per le loro ferite e gratitudine per il loro coraggio nel denunciare”. Anch’egli ha parlato di vergogna sua personale e della chiesa.
Due brevi riflessioni a margine di questi dati che rinviano ad un fenomeno di portata sistemica. Non è sufficiente manifestare il sentimento e la reazione di vergogna e nemmeno concentrare unicamente la preoccupazione sui doverosi risarcimenti alle vittime. Si deve condurre con lucidità la ricerca delle cause di fenomeni che affondano le radici in un tempo segnato dall’impostazione tradizionale della formazione dei preti e della vita delle parrocchie (gli anni 50 e 60) e che hanno avuto continuazione in forme diverse anche successivamente. Soprattutto sono da considerare le ragioni di una presenza così diffusa nella realtà ecclesiale di aggressori.
Appare come la questione del potere nella chiesa e la sacralizzazione di tale potere nella esaltazione della figura del prete e nella mentalità del clericalismo assai diffuso costituisca una tra le principali cause. L’abuso infatti si delinea come espressione di un dominio violento sugli altri, sui più fragili, che vengono ridotti ad oggetti di utilizzo e consumo e costretti ad un silenzio senza uscita. Tale consapevolezza dovrebbe condurre a cambiamenti strutturali nella chiesa che investa un radicale ripensamento sulla figura del prete, sul modo di impostare i percorsi di formazione dei ministri e le dinamiche di rapporto tra i diversi soggetti ecclesiali nelle comunità e nei compiti di servizio.
Un fondamentale passaggio è da attuare è il riconoscimento della voce delle vittime e il passaggio dalla considerazione degli abusi come peccato – con la preoccupazione rivolta a difendere l’aggressore e ad evitare scandali per l’istituzione – ad una considerazione del reato con l’apertura a riferirsi ai percorsi della giustizia civile e a collaborare con essi.
Veronique Margron, suora domenicana presidente della Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia ha partecipato ai lavori della commissione e ha detto: «Si tratta di crimini contro l’umanità, che non invecchiano» con riferimento a quegli atti che preferisce non indicare non come pedofilia e abusi ma con il termine pedocriminalità. Nel suo libro Un moment de vérité (ed. Albin Michel 2019) aveva denunciato anche una errata cultura del segreto nella chiesa e aveva posto la questione di rivedere la nozione di peccato che ha permesso di non riconoscere la responsabilità dell’aggressore. Secondo la teologa questa crisi deve condurre la Chiesa a “rivedere la sua morale”, richiamando ad un’opera di riforma radicale. Accanto a questo si pone l’esigenza di un ripensamento di fondo della stessa visione della sessualità per “allontanarsi da un cristianesimo del codice a favore di un cristianesimo dello ‘stile’”, cioè ispirato allo stile di Gesù e al suo “modo di abitare il mondo con l’ospitalità, l’assenza di menzogna e la corrispondenza con lui”.
Certamente tale inchiesta può costituire occasione di grande ripensamento e cambiamento e può aprire una nuova consapevolezza: p.Zollner, docente alla Gregoriana e consultore della commissione pontificia per la protezione dell’infanzia, ha chiesto che dopo la Francia anche in Italia sia condotta una ricerca per indagare realtà dell’abuso negli ultimi decenni.
È questa la prima modalità per dare ascolto alla voce delle vittime e per riconoscere come da loro può provenire una parola di verità per tutta la chiesa. Ed anche per superare il sistema clericale fondato sulla sacralizzazione del potere, sulla difesa dell’istituzione al di sopra della dignità delle persone che ha permesso il perpetuarsi di tali crimini e l’indifferenza crudele verso le vittime. E per una revisione della stessa funzione dei vescovi che hanno potuto coprire e difendere tanti aggressori. La domanda se una tale revisione sia possibile nella chiesa rimane aperta e drammaticamente sospesa.
Alessandro Cortesi op