XI domenica – tempo ordinario anno B – 2018
Ez 17,22-24; 2Cor 5,6-10; Mc 4,26-34
“Così è il regno di Dio, come un uomo che getta il seme nel terreno…” Gesù parlava in modo coinvolgente, capace di suscitare quell’attenzione di chi sente una parola significativa per la propria vita. Con parole vicine che mettevano in discussione demolivano egoismi e chiusure e aprivano a cambiamenti di solidarietà.
Punto centrale tutte le parabole è così l’annuncio del ‘regno di Dio’. Dietro a questa espressione non sta la rivendicazione di un dominio. Era invece un’immagine conosciuta da chi ascoltava Gesù, usata per esprimere un venire di Dio vicino. Gesù la usa per indicare lo stile di Dio e il modo in cui si pone in relazione con il suo popolo e l‘umanità. Non solo ne parla: nei suoi gesti presenta il regno come apertura e liberazione: è un mondo nuovo in cui Dio prende la parte di chi è oppresso libera e apre al futuro di accoglienza, pace, giustizia: al centro stanno i piccoli. Gesù si comporta da uomo capace di ospitalità.
Così le sue parole spiegano il suo agire. Gesù non usa un linguaggio che definisce ma usa i modi del racconto, suscita immaginazione. Le parabole narrano movimenti in divenire: di solito con un paragone che introduce un’azione … così come…: così avviene nel regno di Dio… come un uomo che getta il seme nel terreno. Gesù apre domande partendo dalla vita. Nelle parabole Gesù indica così che il rapporto con Dio non è da ricercare in momenti avulsi dalla vita ma nell’ordinario dei nostri giorni. In questo parlare si ritrovano i gesti del lavoro, della vita, della casa: l’incontro con Dio non è realtà ‘sacra’ di cui avere timore né riservato a élites religiose o intellettuali. Il vangelo è bella notizia per chi è povero, mite, perseguitato per la giustizia. Dio prende le parti di chi è lasciato ai margini e dimenticato ed apre un modo nuovo di relazioni in cui i più fragili sono al centro e le pretese della forza e del dominio sono capovolte. Nella terra della vita è deposto un seme. ‘dorma o vegli di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce…’. Gesù annuncia che nella storia è presente un seme di novità: è messaggio liberante di una realtà già presente nella terra di casa e che porta frutto buono. Tutto ciò porta a decentrare la vita.
‘E’ come un granello di senape, che quando viene seminato sul terreno è il più piccolo di tutti i semi…” C’è una indicazione preziosa in questo contrasto tra la piccolezza degli inizi e la grandezza dell’esito: il regno di Dio è un seme piccolo, anzi il più piccolo, e cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto. Dell’orto: cioè sta davanti alla casa, non è qualcosa di grande lontano, ma sta nell’orizzonte vicino e chiede che si aprano occhi e cuore per accoglierlo. Il regno è realtà non appariscente, che sta dentro le pieghe della vita, e richiede occhi attenti per scorgerne la presenza. E’ in via di crescita e si lascia incontrare nei segni piccoli, nel silenzio e nella forza di un seme. Dio non guarda le apparenze, ma al cuore e ascolta il grido di chi non è ascoltato perché è più debole e impoverito.
Gesù pronuncia le parabole in momenti di delusione, di scoramento perché non si vedevano i frutti della sua azione e della sua proposta e cresceva invece il rifiuto e l’ostilità contro di lui. Ma proprio in questi momenti indica come il regno sia realtà piccola che ha però una forza di crescita che nulla può ostacolare ed esige l’attesa paziente del contadino. E così comunica ai suoi la sua fiducia fino alla fine. Ed apre la via di un servizio al regno che investe questa realtà e questa storia, dove i piccoli siano accolti, dove gli oppressi siano liberati, dove gli esclusi trovino ospitalità. Gesù sa leggere i segni del regno già presenti, e semina la parola perché anche i suoi sappiano aprirsi alla novità del vangelo. La parabola coinvolge ed opera: è nel senso più profondo ‘poesia’, parola efficace capace di cambiare chi l’accoglie e di orientare ad un agire di ospitalità.
Alessandro Cortesi op
Alberi e nidi
Un albero con tanti rami dove gli uccelli possono fare il nido è immagine che parla di accoglienza: aperta, libera, capace di non porre chiusure. Rami come punti di appoggio e foglie come protezione e sollievo sono messaggio che silenziosamente proviene dalla natura e richiama al senso dell’abitare il mondo. Un risiedere non di proprietari, ma come stranieri di passaggio, come uccelli che giungono da altri orizzonti e fanno sosta e costruiscono casa, facendo nido. Un abitare che apre spazi per nidi diversi e per incroci di voli, di andate e ritorni, momento di riposo nei passaggi delle migrazioni.
La sapienza degli alberi è antica, non s’impone e richiama oggi ad un ascolto da parte degli umani, in un tempo in cui invece parole di odio, di rifiuto, di chiusura si moltiplicano e come nuvola tossica inquinano l’aria che respiriamo.
Raccolgo alcune voci di denuncia e proposta a fronte della vicenda di cinismo e di miopia politica oltre che di cattiveria a cui stiamo assistendo in questi giorni in riferimento alla chiusura dei porti italiani per non accogliere la nave Aquarius con i migranti salvati nel Mediterraneo:
“La presa in ostaggio dei 629 della Aquarius interpella il Parlamento e il Capo dello Stato quale garante del rispetto della Costituzione e dei trattati internazionali. Perché il rifiuto di autorizzarne l’attracco nei porti italiani disposto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini nulla ha a che vedere con la discrezionalità dell’azione politica. È un atto insieme illegale e fraudolento. In aperta violazione della “Convenzione Internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo” siglata ad Amburgo il 27 aprile del 1979 e ratificata dal nostro Paese con la legge 147 del 1989. Quella Convenzione fissa l’obbligo di soccorso in mare a chi sia in pericolo di vita e quello del suo trasferimento in un luogo sicuro (…) Salvini ha consapevolmente violato quell’obbligo. E per giunta, in modo fraudolento, spacciando al mercato del rancore come “vicescafista” la nave di una Ong che aveva partecipato a un’operazione di soccorso disposta dal Paese di cui è ministro dell’Interno”. (Carlo Bonini L’attracco negato è un atto illegale “la Repubblica” 12 giugno 2018)
“…su una cosa sono d’accordo con Salvini: la rotta libica va chiusa. Basta tragedie in mare, basta dare soldi alle mafie libiche del contrabbando. Sogno anch’io un Mediterraneo a sbarchi zero. Il problema però è capire come ci si arriva. E su questo, avendo alle spalle dieci anni di inchieste sul tema, mi permetto di dare un consiglio al ministro perché mi pare che stia ripetendo gli stessi errori dei suoi predecessori. (…) Viviamo in un mondo globalizzato, dove i lavoratori si spostano da un paese all’altro in cerca di un salario migliore. L’Europa, che da decenni importa manodopera a basso costo in grande quantità, in questi anni ha firmato accordi di libera circolazione con decine di paesi extraeuropei. (…)però, continua a proibire ai lavoratori africani la possibilità di emigrare legalmente sul suo territorio. In altre parole, le ambasciate europee in Africa hanno smesso di rilasciare visti o hanno reso quasi impossibile ottenerne uno.
Siamo arrivati al punto che l’ultima e unica via praticabile per l’emigrazione dall’Africa all’Europa è quella del contrabbando libico. Le mafie libiche hanno ormai il monopolio della mobilità sud-nord del Mediterraneo centrale. Riescono a spostare fino a centomila passeggeri ogni anno con un fatturato di centinaia di milioni di dollari ma anche con migliaia di morti.
Eppure non è sempre stato così. Davvero ci siamo dimenticati che gli sbarchi non esistevano prima degli anni Novanta? Vi siete mai chiesti perché? E vi siete mai chiesti perché nel 2018 anziché comprarsi un biglietto aereo una famiglia debba pagare il prezzo della propria morte su una barca sfasciata in mezzo al mare? Il motivo è molto semplice: fino agli anni Novanta era relativamente semplice ottenere un visto nelle ambasciate europee in Africa. In seguito, man mano che l’Europa ha smesso di rilasciare visti, le mafie del contrabbando hanno preso il sopravvento. (…)
… continuo a non capire come mai un ventenne di Lagos o Bamako, debba spendere cinquemila euro per passare il deserto e il mare, essere arrestato in Libia, torturato, venduto, vedere morire i compagni di viaggio e arrivare in Italia magari dopo un anno, traumatizzato e senza più un soldo, quando con un visto sul passaporto avrebbe potuto comprarsi un biglietto aereo da cinquecento euro e spendere il resto dei propri soldi per affittarsi una stanza e cercarsi un lavoro. Esattamente come hanno fatto cinque milioni di lavoratori immigrati in Italia, che guardate bene non sono passati per gli sbarchi e tantomeno per l’accoglienza. Sono arrivati dalla Romania, dall’Albania, dalla Cina, dal Marocco e si sono rimboccati le maniche. Esattamente come hanno fatto cinque milioni di italiani, me compreso, emigrati all’estero in questi decenni. Esattamente come vorrebbero fare i centomila parcheggiati nel limbo dell’accoglienza. (…) Altro che riforma Dublino, noi dobbiamo chiedere la libera circolazione dentro l’Europa dei lavoratori immigrati. Perché non possiamo permetterci di avere cittadini di serie a e di serie b. E guardate che lo dobbiamo soprattutto a noi stessi.
Perché chiunque di noi abbia dei bambini, sa che cresceranno in una società cosmopolita. Già adesso i loro migliori amici all’asilo sono arabi, cinesi, africani. Sdoganare un discorso razzista è una bomba a orologeria per la società del domani. Perché forse non ce ne siamo accorti, ma siamo già un noi. Il noi e loro è un discorso antiquato. Un discorso che forse suona ancora logico alle orecchie di qualche vecchio nazionalista. (…) Legalizzate l’emigrazione Africa –Europa, rilasciate visti validi per la ricerca di lavoro in tutta l’Europa, togliete alle mafie libiche il monopolio della mobilità sud-nord e facciamo tornare il Mediterraneo ad essere un mare di pace anziché una fossa comune. O forse trentamila morti non sono abbastanza?” (Gabriele Del Grande Lettera al ministro dell’Interno post su Facebook, 13.06.2018).
“Salvini sta facendo sapere a tutta Europa che l’Italia è pronta a vedere annegare quegli sventurati passeggeri pur di esibire i muscoli a Francia e Germania. Tutti gli interrogativi morali e politici che gli sbarchi implicano sono risolti senza indugio, svelando sin dai primi giorni del governo Conte il vero volto del populismo in carica. Le conseguenze che la catechesi rivoluzionaria predicata in campagna elettorale può sortire sono state illuminate come da un lampo ora che questa ha traslocato dalle piazze ai vertici del governo del nostro Paese. Salvini ha virato in una direzione che non ha mai fatto mistero di voler imboccare. E tutto il carrozzone al comando non ha saputo fare di meglio che acconsentire e prendere atto. Non ha mosso ciglio il Presidente del Consiglio. Nulla ha obbiettato Di Maio, che si trova tra l’incudine di una porzione di elettorato sconvolta dall’idea di negare l’attracco all’Aquarius e il martello del suo coinquilino alla vicepresidenza del Consiglio. Questo oscuro episodio ci dice molte cose. In primo luogo ci mostra che il «governo del cambiamento» è pronto a privilegiare la ragione di Stato (la presunta necessità di dare un segnale “forte”) all’etica della situazione, che imporrebbe invece di salvare quelle 629 vite prima di tutto e poi, solo in un momento successivo, di ridiscutere i termini di Dublino. Inoltre, questa vicenda ci ricorda un’altra lezione. Chi stringe patti col diavolo prima o poi ne resta vittima. (…) Il mito sovranista non vuol dire altro che questo: aspirare incondizionatamente ad una sovranità illimitata esercitata da una minoranza (perché la Lega è una minoranza) in nome e per conto dell’intero popolo sovrano. Con una acrobazia politica si cerca si contrabbandare la parte per il tutto e di piegare un’intera nazione al volere di un partito che in un dato momento ha raccolto il voto della frustrazione e della rabbia. E che ora sembra trascinare dietro di sé tutto l’esecutivo e ammaestrare il suo Presidente ad assecondare ogni arbitraria decisione”. (Antonio Merlino, Il vero volto del populismo in carica, “Trentino” 13 giugno 2018)
“L’hashtag #chiudiamoiporti, twittato dal neoministro degli Interni e rimbalzato nella Rete, è il Muro innalzato dall’Italia. Così è stato interpretato all’estero. I porti si chiudono quando sta per arrivare un invasore, un nemico insidioso, di fronte al quale ci si sente indifesi. Ma l’Aquarius ha solo un carico di migranti fuggiti da fame, miseria, guerra, alcuni feriti e ustionati, molti esausti; tra questi 123 minori non accompagnati e parecchi bambini. Lo schiaffo del No è anche per loro, colpevoli di essere migranti, cioè di essersi mossi. I diritti dei cittadini, protetti dai confini, mal si conciliano con i diritti di quelli che stanno là fuori e sono semplicemente esseri umani. (…)Con quel gesto l’Italia ha perso ben più di quanto abbia guadagnato. Perché quel che l’ha contraddistinta nei secoli non è solo e non è tanto l’arte e l’ingegno, quanto piuttosto l’umanità. (Donatella Di Cesare, Lo scontro (perdente) tra la sovranità e l’umanità dell’Italia, “Corriere della Sera” 13 giugno 2018).
“…non si può non constatare che il sistema Paese non può andare in panne per 100mila persone, quante sono le persone sbarcate in Italia nel corso di un anno, che si vanno ad aggiungere ad un totale sette o otto volte tanto. In Germania è arrivato un milione di persone nel giro di due anni e il sistema Paese ha retto. Non parliamo poi di altri Paesi, come Libano o Giordania, dove i profughi parliamo di ben altri numeri che rapportati a quelle popolazioni portano a percentuali qui inimmaginabili. L’Italia, un Paese con 60 milioni di abitanti, si inceppa per 100mila persone? Dobbiamo renderci conto del fenomeno e delle sue reali dimensioni, elaborando vere politiche di sistema. C’è una drammatizzazione oggettiva che dipende però anche da una carenza: l’accoglienza non ha saputo affrontare il problema del dopo.” (Intervista a don Mogavero, vescovo: Riccardo Cristiano, Dal dramma migranti alla drammatizzazione. Parla il vescovo Mogavero, www.formiche.net 14.06.18).
E’ del 14 giugno 2018 il testo di un messaggio di papa Francesco inviato al “II colloquio Santa Sede – Messico sulla migrazione internazionale”. In esso il papa richiama “ai valori della giustizia, della solidarietà e della compassione” e ad un cambiamento di mentalità:
“A tal fine, occorre un cambiamento di mentalità: passare dal considerare l’altro come una minaccia alla nostra comodità allo stimarlo come qualcuno che con la sua esperienza di vita e i suoi valori può apportare molto e contribuire alla ricchezza della nostra società. Perciò, l’atteggiamento fondamentale è quello di «andare incontro all’altro, per accoglierlo, conoscerlo e riconoscerlo»”. (…) Vorrei infine segnalare che nella questione della migrazione non sono in gioco solo numeri, bensì persone, con la loro storia, la loro cultura, i loro sentimenti e le loro aspirazioni. Queste persone, che sono nostri fratelli e sorelle, hanno bisogno di una protezione continua, indipendentemente dal loro status migratorio. I loro diritti fondamentali e la loro dignità devono essere protetti e difesi. Un’attenzione speciale va riservata ai migranti bambini, alle loro famiglie, a quanti sono vittime delle reti del traffico di esseri umani e a quelli che sono sfollati a causa di conflitti, disastri naturali e persecuzioni. Tutti costoro sperano che abbiamo il coraggio di abbattere il muro di quella complicità comoda e muta che aggrava la loro situazione di abbandono e che poniamo su di loro la nostra attenzione, la nostra compassione e la nostra dedizione”.
Ricordo infine alcuni orientamenti su cui impegnare sforzi e progetti per affrontare la complessità di fenomeni che richiederebbero oggi lucidità e responsabilità che sono stati proposti dai missionari italiani: questi sono l’apertura di corridoi umanitari per chi fugge da situazioni drammatiche; l’embargo sulla vendita di armi italiane agli stati africani; una seria politica economica verso questi paesi con forti investimenti, non ai governi, ma alle realtà di base per permettere ai popoli d’Africa di rimettersi in piedi; la sospensione delle nostre politiche predatorie nei confronti dell’Africa, ricchissima di materie prime; la sospensione degli Epa (Accordi di partenariato economico) che la Ue ha imposto ai paesi africani e che creeranno ancora più fame.
Alessandro Cortesi op
XXVII domenica tempo ordinario – anno A – 2020
Is 5,1-7; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43
“Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate… Egli aspettò che producesse uva, essa produsse invece, acini acerbi … che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Ebbene la vigna del Signore… è la casa di Israele”
In una bellissimo poema Isaia evoca l’immagine della vigna, un’immagine centrale del Primo Testamento che parla di cura, di dedizione e di amore: ‘che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?’. Anche nel Cantico dei cantici la vigna è simbolo utilizzato per parlare dell’amore: la amata infatti è indicata come ‘vigna in fiore’. La vigna diviene così simbolo del popolo d’Israele.
Il poema di Isaia inizia con una descrizione serena della vigna e del lavoro che il ‘diletto’ vi svolge. E’ una descrizione di pace e operosità. Parla della cura amorosa con cui la vigna è coltivata con attenzione a tutti i particolari. Ma nonostante la fatica della coltivazione la vigna produce solo acini acerbi. Sorge allora la delusione e il senso di fallimento: il riferimento è al rapporto tra il popolo di Israele e il suo Dio.
L’autore del poema gioca con le parole per descrivere il capovolgimento delle attese: anziché attuazione del diritto (mishpat) vi è spargimento di sangue innocente (mispah), al posto della giustizia (sedaqah) c’è il grido degli oppressi (se’aqah). Isaia è un grande poeta: tratteggia una drammatica vicenda di infedeltà da parte del popolo d’Israele. L’attesa paziente di Dio che si è preso cura del suo popolo viene delusa.
Il tema della vigna che rappresenta Israele è presente anche nel libro di Osea (10,1) ed è ripreso da Geremia: “Io ti avevo piantato come vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora, come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?” (Ger 2,21). Geremia presenta la denuncia da parte di Dio dell’infedeltà di Israele. Ma anche presenta ancora il desiderio di Dio di racimolare un resto che sia in grado di ascoltarlo: “’Racimolate, racimolate come una vigna il resto di Israele; stendi ancora la tua mano come un vendemmiatore verso i suoi tralci’. A chi parlerò e chi scongiurerò perché mi ascoltino?” (Ger 6,9) La vigna-popolo di Israele è chiamata ad ascoltare la parola di Dio e la cura di Dio è in vista di questo ascolto. Tale vigna è stata devastata da cattivi pastori che hanno reso il campo prediletto un deserto isolato (Ger 12,10).
Anche Ezechiele usa questa immagine in un poema in cui il legno della vite viene messo a bruciare sul fuoco, simbolo dell’inutilità dei comportamenti degli abitanti di Gerusalemme infedeli al Signore (Ez 15,1-8). Viene evocata la vigna rigogliosa sradicata e trapiantata nel deserto, con rinvio all’esperienza dell’esilio (Ez 17,1-10; 19,10-14) e il profeta richiama alla fedeltà a Jahwè. Egli è signore di tutti gli alberi: “Io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso; faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò” (Ez 17,24).
Isaia presenta una prospettiva nuova nel rapporto tra la vigna e il suo guardiano: “Io il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che la si danneggi, ne ho cura notte e giorno. Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme. Oppure meglio, si afferri alla mia protezione, faccia la pace con me, con me faccia la pace!” (Is 27,2-5)
La prospettiva finale è di pace, di riconciliazione e di speranza: un ritorno in cui sarà il Signore a raccogliere tutti i suoi figli dispersi e questi ‘si prostreranno al Signore, sul monte santo, in Gerusalemme’ (Is 27,13).
L’immagine della vigna è ripresa da Gesù nella parabola dei vignaioli omicidi che si connota come una allegoria: nel racconto è presentata una vicenda di amore e cura da parte di un uomo che ha piantato e lavorato la vigna prima di darla in affitto a dei contadini andandosene lontano. Ma si attua per contro una vicenda di ingiustizia e di rifiuto. I servi mandati dal padrone per raccogliere i frutti vengono bastonati, uccisi lapidati. Traspare in questi riferimenti la denuncia dei capi del popolo di Israele, i detentori del potere religioso, che pretendono di farsi padroni della vigna e rifiutano gli inviati del padrone – di Dio stesso – cioè i suoi profeti. “Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini,… dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo”.
E’ una parola chiara di denuncia da parte di Gesù rivolta a coloro che stanno tramando contro di lui. La parabola si chiude con una domanda “Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?” La vigna verrà data ad altri. Su tutto prevale una storia di fedeltà, la fedeltà del servo e del figlio. La vigna sarà data ad altri vignaioli, eppure essa rimarrà sempre quella vigna di Israele, la vigna delle promesse senza pentimento da parte di Dio.
Il centro della parabola sta nell’annuncio della fedeltà di amore di Dio: nonostante il rifiuto ripropone all’umanità il suo dono, la salvezza. E Gesù stesso, la pietra scartata dai costruttori, diverrà pietra fondamentale di una nuova costruzione. Sarà una costruzione in cui al centro dovranno essere gli esclusi perché Dio prende la pietra scartata e la fa pietra d’angolo. Sarà una comunità fatta di esclusi e non di esclusione.
“Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli… Dio degli eserciti ritorna! guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte” (Sal 80,9-16)
E’ Gesù, dirà il quarto vangelo, la vite fedele che porta frutti: ‘Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla’ (Gv 15,5).
Alessandro Cortesi op
La pietra scartata
“La pandemia ci ha dimostrato che non possiamo vivere senza l’altro, o peggio ancora, l’uno contro l’altro”. Non hanno avuto un’eco sui media ma le parole che papa Francesco ha espresso nel suo videomessaggio in occasione della 75a sessione dell’Assemblea dell’ONU il 25 settembre us sono state un appello di grande forza che potrebbe costituire una traccia di impegni urgenti da assumere a livello globale.
Ha richiamato innanzitutto la peculiarità di questo tempo di pandemia che provoca ad un cambiamento e ad un ripensamento di tanti aspetti della vita dei popoli, senza facili ottimismi e con un forte richiamo alla responsabilità:
“La pandemia ci chiama, infatti, ‘a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. […]: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è’. Può rappresentare un’opportunità reale per la conversione, la trasformazione, per ripensare il nostro stile di vita e i nostri sistemi economici e sociali, che stanno aumentando le distanze tra poveri e ricchi, a seguito di un’ingiusta ripartizione delle risorse. Ma può anche essere una possibilità per una «ritirata difensiva» con caratteristiche individualistiche ed elitarie”.
Ha poi richiamato alcune lezioni della pandemia ponendo in luce come l’ambito della sanità, delle politiche del lavoro e dell’attenzione ai diritti umani siano i luoghi che richiamano ad un cambiamento di fondo: ha proposto di far sì che “tutti abbiano possibilità di accesso a cure e assistenza nella salute pubblica per realizzare il diritto di ogni persona alle cure mediche di base (…) E se bisogna privilegiare qualcuno, che sia il più povero, il più vulnerabile, chi generalmente viene discriminato perché non ha né potere né risorse economiche”.
Ha poi richiamato alla solidarietà non come ‘parola o promessa vana’ focalizzando in particolare l’ambito del lavoro: “È particolarmente necessario trovare nuove forme di lavoro che siano davvero capaci di soddisfare il potenziale umano e che al tempo stesso affermino la nostra dignità. Per garantire un lavoro dignitoso occorre cambiare il paradigma economico dominante che cerca solo di aumentare gli utili delle imprese”.
Un ‘cambio di rotta’ è richiesto da perseguire in netto contrasto con la cultura dello scarto, per cui vengono sistematicamente violati diritti fondamentali delle persone. Nel messaggio si osserva che in questi anni le crisi umanitarie sono divenute stabili e i conflitti nel mondo e l’uso di armi generano conseguenze drammatiche sulle popolazioni.
Una particolare attenzione è per coloro che subiscono le conseguenze di conflitti e con forza è denunciata un’indifferenza intenzionale nei confronti di immani sofferenze: “Spesso, i rifugiati, i migranti e gli sfollati interni nei paesi di origine, transito e destinazione, soffrono abbandonati, senza opportunità di migliorare la loro situazione nella vita o nella loro famiglia. Fatto ancor più grave, in migliaia vengono intercettati in mare e rispediti con la forza in campi di detenzione dove sopportano torture e abusi. (…) Tutto ciò è intollerabile, ma oggi è una realtà che molti ignorano intenzionalmente!”
Il messaggio indica alcuni orizzonti di cambiamento individuando soprattutto l’urgenza di un nuovo sistema economico: “La comunità internazionale deve sforzarsi di porre fine alle ingiustizie economiche (…) Abbiamo la responsabilità di fornire assistenza per lo sviluppo alle nazioni povere e la riduzione del debito per le nazioni molto indebitate”.
Il messaggio contiene anche una indicazione di orientamento costruttivo per scorgere nel presente una occasione di cambiamento. La crisi attuale può essere anche un’opportunità perché si generi una economia che contrasti il progredire delle diseguaglianze e si generi una società più fraterna. Concretamente ciò può attuarsi nel prospettare un sistema economico che promuova la sussidiarietà “sostenga lo sviluppo economico a livello locale e investa nell’istruzione e nelle infrastrutture a beneficio delle comunità locali”. Ed è rinnovato l’appello a ridurre, se non a condonare, il debito che grava sui bilanci dei paesi più poveri.
Viene anche indicata la necessità di ripensare la architettura finanziaria a livello globale: “’Una nuova etica presuppone l’essere consapevoli della necessità che tutti s’impegnino a lavorare insieme per chiudere i rifugi fiscali, evitare le evasioni e il riciclaggio di denaro che derubano la società, come anche per dire alle nazioni l’importanza di difendere la giustizia e il bene comune al di sopra degli interessi delle imprese e delle multinazionali più potenti’. Questo è il tempo propizio per rinnovare l’architettura finanziaria internazionale”.
E’ delineata una chiara denuncia della corsa agli armamenti e dell’uso di armi devastanti che alimentano solo l’industria bellica e la sfiducia e paura.
“Dobbiamo chiederci se le principali minacce alla pace e alla sicurezza, come la povertà, le epidemie e il terrorismo, tra le altre, possono essere affrontate efficacemente quando la corsa agli armamenti, comprese le armi nucleari, continua a sprecare risorse preziose che sarebbe meglio utilizzare a beneficio dello sviluppo integrale dei popoli e per proteggere l’ambiente naturale”.
“Da una crisi non si esce uguali: o ne usciamo migliori o peggiori. Perciò, in questo momento critico, il nostro dovere è di ripensare il futuro della nostra casa comune e del nostro progetto comune. È un compito complesso, che richiede onestà e coerenza nel dialogo, al fine di migliorare il multilateralismo e la cooperazione tra gli Stati”.
Il messaggio si conclude con un appello: “Le Nazioni Unite sono state create per unire le nazioni, per avvicinarle, come un ponte tra i popoli; usiamolo per trasformare la sfida che stiamo affrontando in una opportunità per costruire insieme, ancora una volta, il futuro che vogliamo”.
Alessandro Cortesi op