III domenica di Avvento – anno C – 2015
Sof 3,14-18; Fil 4,4-7; Lc 3,10-18
La città di Gerusalemme, ‘la figlia di Sion’ è invitata alla gioia: ‘Rallegrati’. Il breve salmo posto a conclusione del libro di Sofonia – libro segnato dal cupo annuncio del giorno del Signore – è rovesciamento di parole di minaccia: è invito alla gioia, ad una gioia entusiasta, piena. Dio stesso si fa vicino in mezzo al suo popolo, prende con sé i giusti e si fa difensore, liberatore. La gioia dei giusti è contagio della gioia stessa di Dio che viene in mezzo al suo popolo. La sventura, dolorosa esperienza umana, non ci sarà più. Il Signore raccoglie tutti nel suo abbraccio e fa vincere la paura: ‘non temerai alcuna sventura’. Il ‘Dio che viene’ non ha i tratti terribili del giudice ma si rende presenza vicina gioiosa. C’è una consapevolezza di presenza: ‘re d’Israele il Signore è in mezzo a te’. Il regnare di Dio non si pone come dominio che opprime o esige, ma quale presenza di vita e pienezza. E’ dono di salvezza.
‘Siate sempre lieti’: è invito di Paolo alla comunità di Filippi. Rinvia alla pace del Signore, più grande di ogni pensiero umano, capace di custodia. Il motivo della gioia sta nel fatto che il Signore è vicino: una vicinanza non da temere come minaccia ma una vicinanza amica, di cui essere contenti. Essere lieti nel Signore significa poter vivere una pace radicata dentro, perché Dio si prende cura di noi: Paolo invita a maturare consapevolezza di non essere soli ma nella compagnia del Dio vicino.
Luca presenta il popolo in attesa. Le folle domandano a Giovanni Battista: ‘Che cosa dobbiamo fare?’ Le sue risposte pongono esigenze che non distolgono dal presente, ma indicano un modo nuovo di impostare la vita con scelte di condivisione, onestà e giustizia, nonviolenza. Condividere i propri beni e il cibo perché tutti possano mangiare, non rubare agli altri, vivere il proprio compito con attitudine di rispetto e solidarietà. E’ quanto Giovanni indica alle tre categorie di persone che a lui si rivolgono, le folle, i pubblicani, o agenti delle tasse, e i soldati.
La vita del Battista è tutta orientata ad un altro: la sua testimonianza è preparazione del messia. Giovanni presenta colui che deve venire con i tratti del ‘più forte’. La simbologia legata al ‘slegare il lacco dei sandali rinvia ad un gesto del diritto matrimoniale (Dt 25,5-10; Rut 4,5-8): Giovanni non è lo sposo, la sua testimonianza è orientata ad indicare un altro, il messia.
Giovanni utilizza l’immagine della separazione del grano dalla pula: “…viene uno che è più forte di me, costui vi battezzerà in Spirito santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula la brucerà con fuoco inestinguibile”.
Si tratta di operare scelte che impostino la vita su orizzonti nuovi di senso. La pula è tutto ciò che è inconsistente nella vita e dev’essere eliminato. Nel linguaggio biblico ‘pula’ sono anche gli idoli: coloro che adorano gli idoli sono presentati come pula portata via dall’aia dal soffio del vento (Os 13,3) perché vanno alla ricerca di cose senza consistenza, che non danno felicità, e sono illusione: ‘Gli empi sono pula che il vento disperde’ (Sal 1,4). Aderire al messia apre ad una scelta nel lasciare ciò che non vale.
Un messaggio emerge: il ‘Dio che viene’ è presenza vicina che arreca gioia. Il suo venire genera uno stile di esistenza non appesantita da angustia e paura ma fatta di serenità sobria e di amabilità: ‘re d’Israele il Signore è in mezzo a te’. Nelle vicende e fatiche della storia la presenza di Dio è vicinanza di salvezza e di liberazione. Accogliere questo annuncio è movimento che cambia la vita. La vicinanza del Signore è forza per vivere una pace dentro. Nelle contraddizioni del presente si fa amabilità e capacità di dolcezza di gioia: letizia quale gioia consapevole dei drammi del vivere, ma capace di sperare nella debolezza di Dio più forte di ogni potenza umana: ‘siate sempre lieti’.
Paura e paure
“La paura è con ogni probabilità il dèmone più sinistro tra quelli che si annidano nelle società aperte del nostro tempo. Ma è l’insicurezza del presente e l’incertezza del futuro che covano e alimentano la più spaventosa e meno sopportabile delle nostre paure. Questa insicurezza e questa incertezza, a loro volta sono nate da un senso di impotenza: ci sembra di non controllare più nulla, da soli, in tanti o collettivamente” (Z.Bauman, Il demone della paura, Laterza 2014, 9)
L’insicurezza è il senso di non essere protetti e la percezione di poter perdere ciò che protegge non solo in territori e aree pericolose, ma anche nella normalità della vita sociale. La paura è suscitata da ragioni diverse: i processi economici, le minacce dell’ambiente, le incertezze riguardanti la salute, e ancora la criminalità, il terrorismo. Le paure conducono ad elevare recinti, ad assumere attitudini difensive, allo sforzo di individuare i portatori di rischi. Oggi le paure si configurano come un’inestricabile matassa di fili: i problemi che le generano sono intrecciati e cresce il senso d’impotenza nel fare qualcosa per eliminarle, per scioglierle e ritrovarne un capo.
Il senso di insicurezza abita il nostro vivere e lo rinchiude. Chi è bloccato dall’angoscia non riesce più a muoversi, a compiere passi avanti. L’angoscia diviene pervasiva occupando tutte le sfere del vivere individuale e sociale. La paura è così uno dei caratteri del nostro tempo. E’ tuttavia paura che si legge in modi diversi. E’ paura quella disegnata negli occhi di profughi che lasciano dietro di sè violenza, guerre orrori e impossibilità di vivere andando verso un futuro incerto. E’ paura quella che cova sotto la cenere di esistenze confuse nell’anonimato di periferie dove giovani sradicati coltivano incertezza sul loro passato, presente e futuro e magari scoprono nell’avventura della violenza o in una predicazione religiosa fondamentalista l’ambito di sfogo di paure non affrontate, accogliendo una scelta distruttiva per sé e per altri. E’ paura il sentimento che pervade le esistenze tranquille di chi matura il sospetto di fronte ad ogni estraneo, diverso. Così paura può essere indicata come veleno che inquina la vita quotidiana in cui il problema è quello di identificare rapidamente un colpevole, un capro espiatorio, da eliminare e da escludere.
Oggi la paura viene anche coltivata. I media sono un fortissimo veicolo di coltivazione della paura nel favorire la percezione del pericolo dell’altro. La paura viene ad essere un modo di intendere l’identità della persona, che per questo nella sua privatezza e solitudine si trova a gestire un sentimento che diventa distruttivo nei confronti degli altri. Tener lontane le paure, sotterrarle non è leggerle. Solamente la fatica di affrontarle, e di coglierne cause e ragioni è forse unica via per trarne motivi di consapevolezza e di impegno, per uscirne e per non rimanerne schiavi e vittime.
Le città oggi sono i luoghi in cui le insicurezze si manifestano più fortemente, ma anche i luoghi in cui poter affrontare la sfida a costruire spazi di interdizione e di esclusione o al contrario spazi dove i confini vengono attraversati e dove poter incontrarsi insieme. Le città sono le frontiere in cui l’estraneo possa essere conosciuto e non resti nella condizione dell’alieno, sconosciuto e incomprensibile, in cui i linguaggi possano interagire.
“Quali che siano le circostanze, le epoche o le latitudini, il terrorismo scommette sempre sulla paura. Non solo la paura che diffonde nella società, ma la politica della paura con cui lo stato reagisce: una fuga in avanti dove al terrorismo segue la sospensione dei diritti democratici in una guerra senza fine, senza fronti e senza limiti, senza altro obiettivo strategico che il suo perpetuarsi, in cui gli attacchi e le risposte si alimentano a vicenda, le cause e gli effetti s’intrecciano all’infinito senza che mai emerga una soluzione pacifica. Per quanto doloroso, dobbiamo cercare di capire le ragioni del terrorismo. Per combatterlo meglio, per non cadere nella sua trappola, per non dargli mai ragione, fosse pure per incoscienza o cecità. Le profezie che si autoavverano sono il meccanismo su cui si basa la sua logica omicida: provocare attraverso il terrore un caos ancora maggiore da cui trarre ulteriore rabbia, risentimento, ingiustizia. Lo sappiamo per esperienza, abbiamo visto come la fuga in avanti statunitense dopo gli attacchi del 2001 sia stata all’origine del disastro in Iraq, che ha generato il gruppo Stato islamico, nato dalle macerie di uno stato distrutto e dalla disgregazione di una società violentata. Riusciremo a imparare da questi errori catastrofici, o finiremo per ripeterli?” (Edwy Plenel, La paura è la nostra nemica, “Internazionale” 15 novembre)
Ma la paura rinvia a scorgere ancora più a fondo cause nascoste in un modo violento di intendere la vita, in una imposizione di processi di globalizzazione che hanno generato iniquità e dividono il mondo in privilegiati e disperati, in arricchiti ed esclusi.
Bauman osserva: “In un pianeta globalizzato negativamente è impossibile ottenere la sicurezza, e tanto meno garantirla, all’interno di un solo paese o di un gruppo scelto di paesi: non con i propri mezzi soltanto, e non a prescindere da quanto accade nel resto del mondo. Il nuovo individualismo, l’affievolirsi dei legami umani e l’inaridirsi della solidarietà sono incisi sulla faccia di una moneta che nel suo verso mostra i contorni nebulosi della globalizzazione negativa” (ibid. 4-5).
Come oggi leggere le paure e cogliere da questo percorso motivi per trovare vie di uscita? Una vittoria sulla paura potrà avvenire? Si potrà scorgere al di sopra di confini di separazione, in un lungo cammino, ma insieme?
“tu non temerai più alcuna sventura… Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia…”
Alessandro Cortesi op
XI domenica – tempo ordinario anno B – 2018
“Così è il regno di Dio, come un uomo che getta il seme nel terreno…” Gesù parlava in modo coinvolgente, capace di suscitare quell’attenzione di chi sente una parola significativa per la propria vita. Con parole vicine che mettevano in discussione demolivano egoismi e chiusure e aprivano a cambiamenti di solidarietà.
Punto centrale tutte le parabole è così l’annuncio del ‘regno di Dio’. Dietro a questa espressione non sta la rivendicazione di un dominio. Era invece un’immagine conosciuta da chi ascoltava Gesù, usata per esprimere un venire di Dio vicino. Gesù la usa per indicare lo stile di Dio e il modo in cui si pone in relazione con il suo popolo e l‘umanità. Non solo ne parla: nei suoi gesti presenta il regno come apertura e liberazione: è un mondo nuovo in cui Dio prende la parte di chi è oppresso libera e apre al futuro di accoglienza, pace, giustizia: al centro stanno i piccoli. Gesù si comporta da uomo capace di ospitalità.
Così le sue parole spiegano il suo agire. Gesù non usa un linguaggio che definisce ma usa i modi del racconto, suscita immaginazione. Le parabole narrano movimenti in divenire: di solito con un paragone che introduce un’azione … così come…: così avviene nel regno di Dio… come un uomo che getta il seme nel terreno. Gesù apre domande partendo dalla vita. Nelle parabole Gesù indica così che il rapporto con Dio non è da ricercare in momenti avulsi dalla vita ma nell’ordinario dei nostri giorni. In questo parlare si ritrovano i gesti del lavoro, della vita, della casa: l’incontro con Dio non è realtà ‘sacra’ di cui avere timore né riservato a élites religiose o intellettuali. Il vangelo è bella notizia per chi è povero, mite, perseguitato per la giustizia. Dio prende le parti di chi è lasciato ai margini e dimenticato ed apre un modo nuovo di relazioni in cui i più fragili sono al centro e le pretese della forza e del dominio sono capovolte. Nella terra della vita è deposto un seme. ‘dorma o vegli di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce…’. Gesù annuncia che nella storia è presente un seme di novità: è messaggio liberante di una realtà già presente nella terra di casa e che porta frutto buono. Tutto ciò porta a decentrare la vita.
‘E’ come un granello di senape, che quando viene seminato sul terreno è il più piccolo di tutti i semi…” C’è una indicazione preziosa in questo contrasto tra la piccolezza degli inizi e la grandezza dell’esito: il regno di Dio è un seme piccolo, anzi il più piccolo, e cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto. Dell’orto: cioè sta davanti alla casa, non è qualcosa di grande lontano, ma sta nell’orizzonte vicino e chiede che si aprano occhi e cuore per accoglierlo. Il regno è realtà non appariscente, che sta dentro le pieghe della vita, e richiede occhi attenti per scorgerne la presenza. E’ in via di crescita e si lascia incontrare nei segni piccoli, nel silenzio e nella forza di un seme. Dio non guarda le apparenze, ma al cuore e ascolta il grido di chi non è ascoltato perché è più debole e impoverito.
Gesù pronuncia le parabole in momenti di delusione, di scoramento perché non si vedevano i frutti della sua azione e della sua proposta e cresceva invece il rifiuto e l’ostilità contro di lui. Ma proprio in questi momenti indica come il regno sia realtà piccola che ha però una forza di crescita che nulla può ostacolare ed esige l’attesa paziente del contadino. E così comunica ai suoi la sua fiducia fino alla fine. Ed apre la via di un servizio al regno che investe questa realtà e questa storia, dove i piccoli siano accolti, dove gli oppressi siano liberati, dove gli esclusi trovino ospitalità. Gesù sa leggere i segni del regno già presenti, e semina la parola perché anche i suoi sappiano aprirsi alla novità del vangelo. La parabola coinvolge ed opera: è nel senso più profondo ‘poesia’, parola efficace capace di cambiare chi l’accoglie e di orientare ad un agire di ospitalità.
Alessandro Cortesi op
Alberi e nidi
Un albero con tanti rami dove gli uccelli possono fare il nido è immagine che parla di accoglienza: aperta, libera, capace di non porre chiusure. Rami come punti di appoggio e foglie come protezione e sollievo sono messaggio che silenziosamente proviene dalla natura e richiama al senso dell’abitare il mondo. Un risiedere non di proprietari, ma come stranieri di passaggio, come uccelli che giungono da altri orizzonti e fanno sosta e costruiscono casa, facendo nido. Un abitare che apre spazi per nidi diversi e per incroci di voli, di andate e ritorni, momento di riposo nei passaggi delle migrazioni.
La sapienza degli alberi è antica, non s’impone e richiama oggi ad un ascolto da parte degli umani, in un tempo in cui invece parole di odio, di rifiuto, di chiusura si moltiplicano e come nuvola tossica inquinano l’aria che respiriamo.
Raccolgo alcune voci di denuncia e proposta a fronte della vicenda di cinismo e di miopia politica oltre che di cattiveria a cui stiamo assistendo in questi giorni in riferimento alla chiusura dei porti italiani per non accogliere la nave Aquarius con i migranti salvati nel Mediterraneo:
“La presa in ostaggio dei 629 della Aquarius interpella il Parlamento e il Capo dello Stato quale garante del rispetto della Costituzione e dei trattati internazionali. Perché il rifiuto di autorizzarne l’attracco nei porti italiani disposto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini nulla ha a che vedere con la discrezionalità dell’azione politica. È un atto insieme illegale e fraudolento. In aperta violazione della “Convenzione Internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo” siglata ad Amburgo il 27 aprile del 1979 e ratificata dal nostro Paese con la legge 147 del 1989. Quella Convenzione fissa l’obbligo di soccorso in mare a chi sia in pericolo di vita e quello del suo trasferimento in un luogo sicuro (…) Salvini ha consapevolmente violato quell’obbligo. E per giunta, in modo fraudolento, spacciando al mercato del rancore come “vicescafista” la nave di una Ong che aveva partecipato a un’operazione di soccorso disposta dal Paese di cui è ministro dell’Interno”. (Carlo Bonini L’attracco negato è un atto illegale “la Repubblica” 12 giugno 2018)
“…su una cosa sono d’accordo con Salvini: la rotta libica va chiusa. Basta tragedie in mare, basta dare soldi alle mafie libiche del contrabbando. Sogno anch’io un Mediterraneo a sbarchi zero. Il problema però è capire come ci si arriva. E su questo, avendo alle spalle dieci anni di inchieste sul tema, mi permetto di dare un consiglio al ministro perché mi pare che stia ripetendo gli stessi errori dei suoi predecessori. (…) Viviamo in un mondo globalizzato, dove i lavoratori si spostano da un paese all’altro in cerca di un salario migliore. L’Europa, che da decenni importa manodopera a basso costo in grande quantità, in questi anni ha firmato accordi di libera circolazione con decine di paesi extraeuropei. (…)però, continua a proibire ai lavoratori africani la possibilità di emigrare legalmente sul suo territorio. In altre parole, le ambasciate europee in Africa hanno smesso di rilasciare visti o hanno reso quasi impossibile ottenerne uno.
Siamo arrivati al punto che l’ultima e unica via praticabile per l’emigrazione dall’Africa all’Europa è quella del contrabbando libico. Le mafie libiche hanno ormai il monopolio della mobilità sud-nord del Mediterraneo centrale. Riescono a spostare fino a centomila passeggeri ogni anno con un fatturato di centinaia di milioni di dollari ma anche con migliaia di morti.
Eppure non è sempre stato così. Davvero ci siamo dimenticati che gli sbarchi non esistevano prima degli anni Novanta? Vi siete mai chiesti perché? E vi siete mai chiesti perché nel 2018 anziché comprarsi un biglietto aereo una famiglia debba pagare il prezzo della propria morte su una barca sfasciata in mezzo al mare? Il motivo è molto semplice: fino agli anni Novanta era relativamente semplice ottenere un visto nelle ambasciate europee in Africa. In seguito, man mano che l’Europa ha smesso di rilasciare visti, le mafie del contrabbando hanno preso il sopravvento. (…)
… continuo a non capire come mai un ventenne di Lagos o Bamako, debba spendere cinquemila euro per passare il deserto e il mare, essere arrestato in Libia, torturato, venduto, vedere morire i compagni di viaggio e arrivare in Italia magari dopo un anno, traumatizzato e senza più un soldo, quando con un visto sul passaporto avrebbe potuto comprarsi un biglietto aereo da cinquecento euro e spendere il resto dei propri soldi per affittarsi una stanza e cercarsi un lavoro. Esattamente come hanno fatto cinque milioni di lavoratori immigrati in Italia, che guardate bene non sono passati per gli sbarchi e tantomeno per l’accoglienza. Sono arrivati dalla Romania, dall’Albania, dalla Cina, dal Marocco e si sono rimboccati le maniche. Esattamente come hanno fatto cinque milioni di italiani, me compreso, emigrati all’estero in questi decenni. Esattamente come vorrebbero fare i centomila parcheggiati nel limbo dell’accoglienza. (…) Altro che riforma Dublino, noi dobbiamo chiedere la libera circolazione dentro l’Europa dei lavoratori immigrati. Perché non possiamo permetterci di avere cittadini di serie a e di serie b. E guardate che lo dobbiamo soprattutto a noi stessi.
Perché chiunque di noi abbia dei bambini, sa che cresceranno in una società cosmopolita. Già adesso i loro migliori amici all’asilo sono arabi, cinesi, africani. Sdoganare un discorso razzista è una bomba a orologeria per la società del domani. Perché forse non ce ne siamo accorti, ma siamo già un noi. Il noi e loro è un discorso antiquato. Un discorso che forse suona ancora logico alle orecchie di qualche vecchio nazionalista. (…) Legalizzate l’emigrazione Africa –Europa, rilasciate visti validi per la ricerca di lavoro in tutta l’Europa, togliete alle mafie libiche il monopolio della mobilità sud-nord e facciamo tornare il Mediterraneo ad essere un mare di pace anziché una fossa comune. O forse trentamila morti non sono abbastanza?” (Gabriele Del Grande Lettera al ministro dell’Interno post su Facebook, 13.06.2018).
“Salvini sta facendo sapere a tutta Europa che l’Italia è pronta a vedere annegare quegli sventurati passeggeri pur di esibire i muscoli a Francia e Germania. Tutti gli interrogativi morali e politici che gli sbarchi implicano sono risolti senza indugio, svelando sin dai primi giorni del governo Conte il vero volto del populismo in carica. Le conseguenze che la catechesi rivoluzionaria predicata in campagna elettorale può sortire sono state illuminate come da un lampo ora che questa ha traslocato dalle piazze ai vertici del governo del nostro Paese. Salvini ha virato in una direzione che non ha mai fatto mistero di voler imboccare. E tutto il carrozzone al comando non ha saputo fare di meglio che acconsentire e prendere atto. Non ha mosso ciglio il Presidente del Consiglio. Nulla ha obbiettato Di Maio, che si trova tra l’incudine di una porzione di elettorato sconvolta dall’idea di negare l’attracco all’Aquarius e il martello del suo coinquilino alla vicepresidenza del Consiglio. Questo oscuro episodio ci dice molte cose. In primo luogo ci mostra che il «governo del cambiamento» è pronto a privilegiare la ragione di Stato (la presunta necessità di dare un segnale “forte”) all’etica della situazione, che imporrebbe invece di salvare quelle 629 vite prima di tutto e poi, solo in un momento successivo, di ridiscutere i termini di Dublino. Inoltre, questa vicenda ci ricorda un’altra lezione. Chi stringe patti col diavolo prima o poi ne resta vittima. (…) Il mito sovranista non vuol dire altro che questo: aspirare incondizionatamente ad una sovranità illimitata esercitata da una minoranza (perché la Lega è una minoranza) in nome e per conto dell’intero popolo sovrano. Con una acrobazia politica si cerca si contrabbandare la parte per il tutto e di piegare un’intera nazione al volere di un partito che in un dato momento ha raccolto il voto della frustrazione e della rabbia. E che ora sembra trascinare dietro di sé tutto l’esecutivo e ammaestrare il suo Presidente ad assecondare ogni arbitraria decisione”. (Antonio Merlino, Il vero volto del populismo in carica, “Trentino” 13 giugno 2018)
“L’hashtag #chiudiamoiporti, twittato dal neoministro degli Interni e rimbalzato nella Rete, è il Muro innalzato dall’Italia. Così è stato interpretato all’estero. I porti si chiudono quando sta per arrivare un invasore, un nemico insidioso, di fronte al quale ci si sente indifesi. Ma l’Aquarius ha solo un carico di migranti fuggiti da fame, miseria, guerra, alcuni feriti e ustionati, molti esausti; tra questi 123 minori non accompagnati e parecchi bambini. Lo schiaffo del No è anche per loro, colpevoli di essere migranti, cioè di essersi mossi. I diritti dei cittadini, protetti dai confini, mal si conciliano con i diritti di quelli che stanno là fuori e sono semplicemente esseri umani. (…)Con quel gesto l’Italia ha perso ben più di quanto abbia guadagnato. Perché quel che l’ha contraddistinta nei secoli non è solo e non è tanto l’arte e l’ingegno, quanto piuttosto l’umanità. (Donatella Di Cesare, Lo scontro (perdente) tra la sovranità e l’umanità dell’Italia, “Corriere della Sera” 13 giugno 2018).
“…non si può non constatare che il sistema Paese non può andare in panne per 100mila persone, quante sono le persone sbarcate in Italia nel corso di un anno, che si vanno ad aggiungere ad un totale sette o otto volte tanto. In Germania è arrivato un milione di persone nel giro di due anni e il sistema Paese ha retto. Non parliamo poi di altri Paesi, come Libano o Giordania, dove i profughi parliamo di ben altri numeri che rapportati a quelle popolazioni portano a percentuali qui inimmaginabili. L’Italia, un Paese con 60 milioni di abitanti, si inceppa per 100mila persone? Dobbiamo renderci conto del fenomeno e delle sue reali dimensioni, elaborando vere politiche di sistema. C’è una drammatizzazione oggettiva che dipende però anche da una carenza: l’accoglienza non ha saputo affrontare il problema del dopo.” (Intervista a don Mogavero, vescovo: Riccardo Cristiano, Dal dramma migranti alla drammatizzazione. Parla il vescovo Mogavero, www.formiche.net 14.06.18).
E’ del 14 giugno 2018 il testo di un messaggio di papa Francesco inviato al “II colloquio Santa Sede – Messico sulla migrazione internazionale”. In esso il papa richiama “ai valori della giustizia, della solidarietà e della compassione” e ad un cambiamento di mentalità:
“A tal fine, occorre un cambiamento di mentalità: passare dal considerare l’altro come una minaccia alla nostra comodità allo stimarlo come qualcuno che con la sua esperienza di vita e i suoi valori può apportare molto e contribuire alla ricchezza della nostra società. Perciò, l’atteggiamento fondamentale è quello di «andare incontro all’altro, per accoglierlo, conoscerlo e riconoscerlo»”. (…) Vorrei infine segnalare che nella questione della migrazione non sono in gioco solo numeri, bensì persone, con la loro storia, la loro cultura, i loro sentimenti e le loro aspirazioni. Queste persone, che sono nostri fratelli e sorelle, hanno bisogno di una protezione continua, indipendentemente dal loro status migratorio. I loro diritti fondamentali e la loro dignità devono essere protetti e difesi. Un’attenzione speciale va riservata ai migranti bambini, alle loro famiglie, a quanti sono vittime delle reti del traffico di esseri umani e a quelli che sono sfollati a causa di conflitti, disastri naturali e persecuzioni. Tutti costoro sperano che abbiamo il coraggio di abbattere il muro di quella complicità comoda e muta che aggrava la loro situazione di abbandono e che poniamo su di loro la nostra attenzione, la nostra compassione e la nostra dedizione”.
Ricordo infine alcuni orientamenti su cui impegnare sforzi e progetti per affrontare la complessità di fenomeni che richiederebbero oggi lucidità e responsabilità che sono stati proposti dai missionari italiani: questi sono l’apertura di corridoi umanitari per chi fugge da situazioni drammatiche; l’embargo sulla vendita di armi italiane agli stati africani; una seria politica economica verso questi paesi con forti investimenti, non ai governi, ma alle realtà di base per permettere ai popoli d’Africa di rimettersi in piedi; la sospensione delle nostre politiche predatorie nei confronti dell’Africa, ricchissima di materie prime; la sospensione degli Epa (Accordi di partenariato economico) che la Ue ha imposto ai paesi africani e che creeranno ancora più fame.
Alessandro Cortesi op