II domenica dopo il Natale – anno C – 2016
Sir 24,1-12; Ef 1,3-18;Gv 1,1-18
“Il creatore dell’universo mi fece piantare la tenda e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele… Nella città amata mi ha fatto abitare, ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso”. L’immagine della tenda, e con essa l’idea dell’abitare, della casa, e del porre radici è al centro di questa pagina.
Il cammino della sapienza è visto come di presenza personale, accanto a Dio: è parola che esce da lui per una missione ricevuta da Dio stesso, mandata a percorrere un lungo viaggio attraverso la creazione e a prendere un’eredità affidata. Fino a giungere a piantare la sua tenda in mezzo alla città di Gerusalemme, tra il popolo di Israele. Il creatore la invia: in questo movimento di uscita si delinea un rapporto con la creazione e con la storia del popolo d’Israele. La sapienza pone la sua tenda in mezzo ad un popolo e lì abita. La tenda della sapienza, parola uscita dalla bocca di Dio è l’abitare di una comunicazione di vita e di amore.
Il IV vangelo riprende la medesima immagine: ‘egli pose la sua tenda tra di noi’, in noi. Le parole evocano quel segno della vicinanza di Dio, rappresentato dall’arca della alleanza, la shekinah, che ricordava e nel contempo nascondeva la presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Gesù Cristo, nella sua vicenda umana concreta, di carne, è uomo in cui incontrare Dio stesso. Tutto si concentra sulla Parola, il Verbo di Dio. La Parola da sempre vive nella comunione di vita e di amore con il Padre tutto ricevendo da Lui ed è stata inviata come luce. Le tenebre, evocazione di peccato e morte, non l’hanno potuta trattenere. La presenza della Parola che entra nel mondo, viene espressa con l’immagine della luce: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo… Venne fra la sua gente…. Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.
La Parola di Dio pone la sua tenda nella condizione umana prendendo su di sé la ‘carne’, tutta la povertà e la fragilità. L’evento dell’incarnazione reca in sé un tratto del volto e del disegno di Dio. Tutte le dimensioni che compongono la vita umana, senza lasciarne fuori nessuna sono prese e condivise. Il Figlio è presentato con i tratti della sapienza di Dio, parola del Padre: è inviato per salvare prendendo su di sé tutto ciò che è ‘carne’, umanità nelle sue varie espressioni e soprattutto nella sua debolezza. E’ luce vera perché accompagna ad entrare in rapporto Dio come presenza viva che si comunica e ci prende con sé.
La Parola di Dio scende in noi, mette la sua tenda fra le nostre tende, per salvarci, per spalancare alla nostra vita gli orizzonti di una vita di partecipazione a Lui stesso. E’ il medesimo movimento presentato nell’inno di Efesini. Un secondo movimento sorge da questo: a partire da questo discendere, noi stessi chiamati ad accogliere e ad entrare in una conoscenza di Lui che si fa dialogo e incontro. “Il Padre della gloria vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui.”
‘Conoscere’ nel linguaggio biblico non indica un sapere teorico ma esprime il rapporto e l’unione: chi conosce veramente è chi si lega nell’amore. La discesa della Parola di Dio, che ha posto la sua tenda tra noi, è feconda di un movimento di accoglienza e cammino: è lo spostare le tende per entrare nell’incontro con Lui: uno spostare le tende che conduce ad accogliere l’altro.
“Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati”. C’è una chiamata ad accogliere la luce di una presenza per aprirci a scoprire una speranza davanti a noi. Una speranza esigente, fatta di apertura e di far proprio il movimento della Parola: Gesù è già venuto e ha preso su di sé tutta la storia umana, ci rende responsabili di persone da accogliere e del cammino dell’umanità.
Astri e terra
A fine anno alcuni quotidiani lanciano un sondaggio sulla parola più utilizzata nell’anno. La parola dell’anno 2014 fu ‘selfie’: un neologismo per indicare un tipo di foto fatte a se stessi possibile con i nuovi dispositivi di telefoni smartphone. Un termine rivelatore di una attitudine di sguardo autocentrato, di autocompiacimento e di voglia di apparire. Quasi una cifra di un tempo in cui il self, l’attenzione rivolta all’io, ai propri bisogni e al proprio volto è divenuto modalità di intendere la vita, secondo la logica presente nel mito di Narciso. Con la conseguente invasione dilagante sui social network di foto con il faccione in primo piano di chi orgogliosamente si ritrae al centro di panorami esotici, in compagnia dei propri animali domestici o accanto a pietanze, tra architetture avveniristiche o più spesso in mezzo a gruppi di amici con smorfie diverse.
Tra le parole indicate per l’anno del 2015, da Vatileaks a Grexit, ce n’è una che fa invece riferimento ad un impresa aerospaziale che ha attirato l’attenzione popolare. Si tratta della vicenda vissuta dall’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, prima donna inserita negli equipaggi dell’Agenzia Spaziale Europea. Nel 2015 ha trascorso 200 giorni nello spazio vivendo nel laboratorio spaziale in cui si svolge una collaborazione di ricerca tra diverse nazioni. ‘Astrosamantha’ è così una tra le parole nuove del 2015, almeno in Italia: un orribile neologismo che tuttavia racchiude in sé, proprio per l’attenzione che evidenzia, alcuni messaggi o alcune nostalgie da far emergere nel tempo che viviamo: forse la nostalgia di una sapienza nuova e diversa?
Si potrebbe trovare in questa espressione quasi un rovesciamento della logica del selfie. E’ indice di un passaggio da uno sguardo centrato sull’io ad uno sguardo che fa scorgere altre dimensioni.
Dall’orbita spaziale sulla quale stava svolgendo il suo faticoso lavoro di ricerca e di sperimentazione Samantha Cristoforetti faceva giungere di tanto in tanto alcune foto che rendevano presente la terra vista dalla prospettiva del cielo, da quel ‘lassù’ lontano e remoto e tuttavia mai così vicino attraverso le opportunità di comunicazione. Una prospettiva nuova e insolita. Le immagini riportavano i contorni della terra vista dal cielo, di giorno e di notte: un pianeta che appariva piccolo e limitato, una sfera dispersa nelle immensità dello spazio cosmico. Richiamavano lo stupore di Pascal di fronte alla smisuratezza degli spazi e nella percezione dell’infinitamente piccolo.
Le foto talvolta delineavano da lontano i drammi che segnano la vita sulla terra: nelle foto notturne le luci presenti in regioni segnate dalla guerra apparivano limitatissime ed esigue a differenza di altri luoghi dove l’illuminazione intensa offriva il segnale di un pulsare della vita. Vista dallo spazio oltre l’atmosfera la terra appariva così veramente come un piccolo mondo correlato insieme, in cui forse le cause di disuguaglianze, iniquità, divisioni e conflitti potevano trovare soluzione solamente se il punto di vista si fosse elevato un po’. Pensare all’umanità da quella distanza non poteva non far percepire il senso di una missione comune tra tutti da condividere per far sì che la vita potesse svolgersi in pace, per risolvere i conflitti, per custodire la preziosità di un pianeta fragile.
La prima reazione di Samantha al suo rientro dopo mesi di lontananza è stata fissata nel suo sorriso stupito, espressione di una gioia serena nel poter percepire dopo tanto tempo – come ella stessa ebbe a dire – il profumo dell’erba fresca. La navicella che l’aveva riportata a terra era atterrata tra le steppe del Kazakhstan. L’impressione della terra guardata da lontano come piccola sfera sperduta nell’immensità dei cieli si mescolava ora con l’intensità del profumo della terra, delle sue zolle dove affondavano ciuffi di erbe che, smosse dal vento della steppa, diffondevano profumi e fragranze.
In questo incrocio di percezioni sta forse la chiave di una esperienza cha ha certo impressionato l’opinione pubblica per la prima volta di una donna italiana nello spazio e per i risvolti tecnici e scientifici, ma che ha offerto la possibilità di uno sguardo insolito: uno sguardo che fa percepire la profondità di una sapienza da coltivare. Non un sapere riservato a pochi, ma quello sgorgante dal contemplare e toccare il piccolo e il grande, la fragilità di una terra che appare nella sua piccolezza di fronte alle ampiezze smisurate del cosmo, la meraviglia di fronte al respirare il profumo dell’erba. Sono esperienze che rinviano ad una sapienza da coltivare oggi.
“La sapienza fa il proprio elogio, in mezzo al suo popolo proclama a sua gloria…. Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e come nube ho ricoperto la terra… ho percorso da sola il giro del cielo, ho passeggiato nelle profondità degli abissi… fra tutti questi ho cercato un luogo di riposo, qualcuno nel cui territorio potessi risiedere” (Sir 24,1-5).
Alessandro Cortesi op
IV domenica di Pasqua – anno B – 2021
At 4,8-12; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18
La pagina del cap. 10 di Giovanni è centrata sull’immagine del pastore: a lui sono contrapposte tre figure diverse, il ladro, l’estraneo e il mercenario. Il ladro che giunge per sottrarre e non per custodire, l’estraneo che non ha alcun rapporto di legame e affetto, il mercenario che è profittatore della situazione in vista di trarre unicamente propri vantaggi senza rapporti e coinvolgimento.
La metafora del pastore è usata ad indicare l’identità di Gesù stesso: è il pastore che da’ la sua vita per le sue pecore. L’immagine evoca pagine del Primo testamento in cui Dio stesso è indicato come pastore che guida i suo popolo, in contrasto con le guide umane che si rivelano inadeguate e tese a sfruttare e impoverire il popolo. In queste parole possono anche essere colti echi drammatici perché vi è riferimento alla figura del servo di Jahwé: ‘non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto…si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… (Is 53,3-7). Paradossalmente la figura di colui che è sfigurato e davanti al quale ci si copre il volto è usata ad indicare il volto di Gesù, pastore ‘bello’, la cui bellezza esprime il dono della sua vita per gli altri. Il pastore indicato nel IV vangelo reca in sé i tratti del servo che si offre per tutti. Da qui la contrapposizione con il mercenario, che presta servizio fino al momento in cui ha qualcosa da guadagnare e non coinvolge per nulla la sua vita in una relazione impegnativa.
Un primo tratto dell’immagine del pastore indica che Gesù ha fatto della sua vita un dono in un legame intenso per tutti come il pastore con il suo gregge.Il pastore conosce le sue pecore e sa che le pecore lo conoscono: ‘conoscere’ implica una relazione di vita nella reciprocità. E’ un movimento di incontro che inserisce nella relazione stessa tra il Figlio e il Padre: ‘come il Padre conosce me e io conosco il Padre’. ‘Non vi chiamo più servi, ma vi ho chiamati amici’, è la chiamata ad un percorso profondo di amicizia, con lui e tra noi. Sta qui il cuore del vangelo, e costituisce il dono ed il progetto di vita che viene proposto a chi si apre all’incontro con Gesù. Gesù sta in rapporto al Padre come figlio, vivendo il dono e l’accoglienza dell’amore; così il ‘conoscere’ che lega Gesù è coinvolgimento nell’amicizia.
Lo sguardo di Gesù va oltre ogni ovile che chiude e impedisce di vedere oltre: “ho altre pecore che non di quest’ovile”. La sua vita è non per il privilegio di qualcuno, ma per la condivisione di tutti. La radice di un tale sguardo sta nella sua libertà radicale: ‘io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo’. A questo sguardo aperto ad altri orizzonti oltre i confini di ovili chiusi Gesù pastore spinge anche i suoi.
Alessandro Cortesi op
Oltre gli ovili
Era il 22 aprile 2001, vent’anni fa: a Strasburgo, il metropolita ortodosso Jeremias, presidente della Conferenza delle Chiese d’Europa (Kek), e il cardinale Vlk, presidente del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Ccee), firmarono la Charta œcumenica. Il documento indicava linee guida per la crescita della collaborazione tra le Chiese in Europa. Era il frutto di un cammino che affondava le radici nelle assemblee ecumeniche svoltesi negli anni precedenti.
A Basilea, nel 1989 la prima assemblea ecumenica europea aveva visto riunirsi i cristiani di diverse confessioni che partecipavano alle trasformazioni in atto dal punto di vista politico nell’Europa in cui cadevano i muri. A Graz nel giugno 1997 si era tenuta la seconda Assemblea ecumenica europea sul tema della riconciliazione (Riconciliazione, dono di Dio e sorgente di vita nuova) e lì per la prima volta era sorta l’idea di un documento comune. A Graz si era visto non solo un incontro di vertice ma una significativa partecipazione di persone e comunità che aveva indicato l’urgenza di promuovere un ecumenismo dell’incontro tra i cristiani.
La Charta ecumenica fu preparata con la paziente opera di mons. Aldo Giordano allora segretario della CCEE e del suo ufficio, e fu redatta in collaborazione con l’Istituto per gli studi ecumenici di Strasburgo, centro dedicato alla ricerca ecumenica della Federazione Luterana mondiale. Il testo fu affidato subito dopo la firma ad un gruppo di giovani cristiani d’Europa sottolineando in tal modo che la Charta avrebbe dovuto essere una indicazione per un cammino di base e di incontro nella comune responsabilità condivisa per la testimonianza del vangelo nel nostro tempo.
Da quella primavera del 2001 molte vicende si sono susseguite in particolare a partire dal passaggi segnato dall’attacco terroristico alle torri gemelle del settembre 2001 e dalle scelte di guerra che sono state intraprese dai paesi occidentali che hanno condotto il mondo ad un’epoca di violenza diffusa e assurda.
La Charta ecumenica è stato un passaggio importante che ha espresso ufficialmente prese di posizioni e impegni di tutte le chiese nel riconoscere i doni spirituali delle diverse chiese cristiane, nel riconoscere la necessità di superare divisioni e inimicizie, nell’affermare l’unità già in atto nell’impegno comune e nel pregare insieme. Ha manifestato la assunzione di responsabilità comune nel cammino dell’Europa, ha dichiarato l’importanza di riconoscere la libertà religiosa e di coscienza, l’importanza della comunione che lega con il popolo di Israele con il quale Dio ha stipulato una eterna alleanza e dell’incontro e a tutti i livelli tra cristiani e musulmani con atteggiamento di stima. Infine è stato espresso un imepgno per la salvaguardia del creato: “… i beni della terra vengono sfrut-tati senza tener conto del loro valore intrinseco, senza considerazione per la loro limitatezza e senza riguardo per il bene delle generazioni future. Vogliamo impegnarci insieme per realizzare condizioni sostenibili di vita per l’intero creato”.
In una stagione in cui sono presenti forme di ripiegamento egoistico ed identitario ed appare come le stesse istituzioni europee non riescono ad esprimere scelte di riconoscimento di diritti umani dei migranti e di solidarietà con le popolazioni più fragili la Charta ricorda un impegno preso a livello comune: “Sul fondamento della nostra fede cristiana ci impegniamo per un’Europa umana e sociale, in cui si facciano valere i diritti umani e i valori basilari della pace, della giustizia, della libertà, della tolleranza, della partecipazione e della solidarietà”.
Ricordare oggi quel momento di impegno comune dei cristiani per il dialogo, per la pace e per realizzare l’unità visibile delle chiese come segno concreto di conversione a Cristo, di riconciliazione e di testimonianza, può essere motivo per scorgere l’urgenza nel presente di scelte, e di passi ancora non compiuti, che possano portare speranza e indicare vie concrete di profezia di pace.
Alessandro cortesi op