Pentecoste – anno A – 2017
At 2,1-11; Sal 103; 1Cor 12,3b-7.12-13; Gv 20,19-23
Pentecoste, cinquanta giorni dopo la Pasqua, una delle feste principali per Israele (Deut 16,16), tra quelle del pellegrinaggio detta festa delle settimane: “Conterai sette settimane; da quando si metterà la falce nella messe comincerai a contare sette settimane; poi celebrerai la festa delle settimane per il Signore tuo Dio, offrendo nella misura della tua generosità e in ragione di ciò che il Signore tuo Dio ti avrà benedetto” (Deut 16,9-10; cfr. Num 28,26). Festa gioia nella luce dell’estate mentre si lavora alla mietitura.
In tale sfondo per Israele la festa assume il carattere di memoria della Torah, grande dono di Dio. Per questo è strettamente legata alla Pasqua. Il cammino di libertà che la Pasqua celebra si fa quotidiana fedeltà nell’accogliere la legge, la parola di Dio nella vita. Tutto è orientato al servizio al Signore: “Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte” (Es 3,12).
Per questo nella tradizione ebraica la festa di pentecoste non è stabilita in una data precisa ma richiede il conto dei giorni, a partire da Pasqua: e proprio il contare i giorni reca in sè il rinvio all’attesa e ad esperire il presente nel segno della precarietà.
Il IV vangelo parla della discesa dello Spirito la sera del medesimo giorno di Pasqua. E’ dono di Gesù risorto in mezzo ai suoi. Gesù in mezzo ai discepoli ‘alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo’ (Gv 20,22). Il momento della morte di Gesù era stato presentato come l’ora in cui Gesù dopo aver amato i suoi fino alla fine consegna lo spirito (Gv 19,30). Il dono dello Spirito è così letto come dono dell’ora e dei quella morte che il IV vangelo fa scorgere come manifestazione della gloria di Dio. Paradossalmente è momento di umiliazione ma là si manifesta il volto di Dio che ama sino alla fine. La sera di quello stesso giorno – è il giorno della Pasqua – il dono si rende presente per la comunità riunita.
Lo Spirito è il soffio di vita e di presenza. Forza di rigenerazione, di apertura, di libertà. A Nicodemo Gesù aveva detto: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8) Al maestro d’Israele aveva posto un orizzonte di rinascita: “se uno non rinasce dall’alto non può entrare nel regno di Dio… se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio” (Gv 3,3.5).
Il dono della Legge era per Israele parola di vita, chiamata che radunava il popolo nell’ascolto. Gesù nella sera di Pasqua alita sui suoi. Rinnova così il soffio della creazione, fa rinascere una comunità: è una ri-creazione in una corrente di vita che sarà quella del ‘rimanare’ in lui: “rimanete nel mio amore…”. Nella primavera di quel giardino luogo di un ‘sepolcro nuovo’ Gesù comunica il soffio di una vita nuova nella libertà dal male e dal peccato. E’ soffio che spinge ad andare e si fa invio a tutta la comunità a portare e tessere riconciliazione: ‘a chi rimetterete i peccati saranno rimessi’ (Gv 20,23). Al soffio della creazione si affianca il soffio della parola di perdono.
Gesù infrange le barriere della paura e dona il coraggio alla comunità dei discepoli per aprire le porte ed uscire. Il dono del soffio è dono di una legge nel cuore (Ger 31,31), presenza interiore che fa vivere con questa forza. E’ anche invio di una comunità. Non solo alcuni ma tutti nella comunità sono investiti di forza in riferimento alla speranza di Mosè: “fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo Spirito” (Num 11,29).
A Pentecoste lo Spirito è presenza che dona forza, rende capaci di annunciare e testimoniare l’opera di Dio e de-centra la nostra vita.
Alessandro Cortesi op
Spirito
Jean-Pierre Jossua (1930), teologo francese, direttore della rivista ‘Concilium’ dal 1970 al 1996, in un breve e denso libro autobiografico (Se il tuo cuore crede… Il cammino di una fede, Il pozzo di Giacobbe 2010) racconta la sua esperienza di credente. Non un credente tranquillo e senza interrogativi, neppure un credente irreggimentato in un’appartenenza irresponsabile e acritica. Piuttosto un credente in esilio, consapevole che fede sia esperienza personale generata nell’interscambio di un atto proprio di un io e di un noi insieme, e peraltro pienamente conscio del disincanto della modernità e dei limiti storici di una chiesa ancor troppo centrata su di sé.
Parla del suo percorso come di una progressiva scoperta a partire da un ‘sentimento di presenza’ che l’ha aperto progressivamente alla scoperta della portata dell’incarnazione come “prossimità di Dio in un’esistenza umana, ma anche come regime integralmente umano dei doni di Dio”.
Al sorgere dell’esperienza del credere in tale senso è seguita la scoperta di Gesù, esito di una lettura continua e approfondita dei vangeli condotta insieme ad altri . Ma questa scoperta si connota in modo particolare e viene sperimentata in una condizione di assenza e di interiorità.
Raccontando di questo passaggio Jossua giunge a parlare dello ‘Spirito di Dio’: “Tuttavia non ho ancora detto tutto. Gesù è presente nella mia ‘memoria’ come un riferimento o meglio: come una fonte permanente. Lo credo presente nell’atto con cui si fa comunitariamente ‘memoria’ di lui. Ma non ho una relazione attuale – immaginativa dialogica – con la sua persona. Perché questa relazione non struttura la mia fede?…. perché faccio esperienza di Gesù come di uno che è partito, che è assente. Una partenza, un’assenza indispensabili per instaurare il regime che corrisponde veramente alle promesse: quello della prossimità di Dio non più nell’ordine della visibilità, ma dell’interiorità. Il solo ordine che può assicurare la totale libertà del credente. (…) In lui, ciò che io credo e a cui mi appello è lo ‘Spirito’ di Dio, profondamente presente nella mia preghiera, nelle mie azioni, nel mio essere, più di qualsivoglia presenza esplicita. Perché io non ho un’esperienza vissuta dello Spirito, che mi consenta di identificarlo, ma la mia fede consiste nell’attribuire a lui, in una maniera diversa che a Gesù, tutto quello che ho detto finora e nell’abbandonarmi al movimento con cui credo che egli mi conduca…” (p.30).
C’è un segreto dello Spirito da scorgere nell’esistenza umana: è la sua prossimità interiore nell’assenza di Gesù. Il cammino credente vive di questa mancanza e di questa ferita. E’ dolore e ferita che rinvia a tutti i posti vuoti nella vita. Sono i posti di ognune e ognuno che ci manca perché ci ha lasciato, perché è andato avanti o anche perché, pur nel suo esser vicino, è sempre inaccessibile nella profondità della sua esistenza inattingibile. Questa ferita che segna l’umano è piena di nostalgia e di desiderio, movimenti insieme verso il passato e verso il futuro, tensione e attesa. E tutto ciò genera sguardo pensoso a scorgere tracce, memorie, rinvii ad una presenza che si fa interiore e coinvolgente, verso una sorgente nascosta.
Ancora Jossua osserva: “Essendo nato nel XX secolo non posso sentire né concepire la natura come una strada verso Dio… amando appassionatamente l’idea che il servizio del prossimo ha un valore assoluto, non ho mai sperimentato un atto di accoglienza come qualcosa che mi colleghi a Dio. Abito in un mondo profano ed è per questo che l’autonomia morale e l’agnosticismo religioso non mi sorprendono. Tuttavia, a partire dalla mia fede, ogni bellezza scoperta in un istante dell’universo o in una creazione umana, ogni scintilla di libertà o di bontà riconosciuta in un essere, ogni avvenimento felice e in particolare l’incontro con una persona, sono vissuti da me – senza essere alterati nella loro emozione e nel loro significato proprio, e rimanendo condivisibili con tutti – come altrettanti doni e segni posti nel cuore della mia relazione con Dio e che suscitano un’immensa gratitudine. E’ questa forma di relazione che posso chiamare Creazione e che collego al mi sentimento iniziale di una onnipresenza (…) Essa potrebbe essere paragonata a quella del poeta che ritrova, attraverso un contatto col reale nella sua semplicità, il cammino dell’unità e una parola vera, senza abolire una distanza ormai ineluttabile, anzitutto quella della vita ordinaria e della scienza. Ma percorrendo un cammino inverso: il cammino della fede che si accorda alla Sorgente nascosta per ritrovare il mondo” (pp. 16-17).
L’apertura del cuore in questo parlare della propria esperienza dello spirito, prossimità interiore di Dio, è ricca di motivi per pensare, soprattutto quando sottolinea che il cammino di fede nella sua esperienza si è alimentato e trova continuo nutrimento proprio nel rapporto con tutto ciò che è lontano, diverso, anche talvolta contrastante, ben lungi da una cultura chiusa e paga di se stessa. Sono osservazioni che provengono da un teologo che si è dedicato a sondare la letteratura quale luogo della teologia e che, pioniere della ‘teologia letteraria’, ha aperto la via a scorgere come la letteratura offra grammatica e linguaggi per una meditazione della fede oltre i confini stabiliti.
Si è lascianto interrogare dalla ricerca presente in autori con convinzioni diverse, dall’inquietudine dell’assoluto presente nel cuore di credenti e agnostici, dalle parole pregne della vita dell’altro. E’ la fecondità dell’irruzione dello straniero nella vita: “La mia fede si nutre di ciò che le è straniero. Niente di peggio per lei di una cultura clericale bloccata sull’identico. Sul versante critico della teologia letteraria, gli scrittori e i poeti non cristiani (o cristiani altrimenti) mi hanno dato molto. Al di là del piacere della lettura, della lezione di scrittura, del risveglio dell’immaginazione e della capacità di sognare, nonché di una conoscenza crescente dell’uomo in sinergia con l’esperienza della vita – dono di ogni opera letteraria a coloro che veramente la amano – essi mi hanno offerto in maniera insostituibile un insegnamento sulla diversità dell’altro, compreso, amato e rispettato per quello che è” (pp.50-51).
A conclusione del suo breve scritto Jossua cerca di offrire pagine di preghiera tirando fuori dal profondo quello che ha da dire a Dio. Un aiuto a pronunciare parole sincere, ad esprimere un cammino del credere vacillante a fronte di tanta superficialità che attornia e pervade, un aiuto a lasciare lo spirito che respira nell’interiorità, invocare e far parlare la vita:
“Vorrei guardare con te mio Dio, i percorsi infinitamente complicati degli esseri, leggere come te le loro vite dall’interno. Non per curiosità ma per rendere loro giustizia. Sentire le ferite che hanno deviato il corso delle loro esistenze verso l’ottusità o la malvagità, le ragioni per cui alcuni sono stati fuorviati dall’assoluto e dal bene, o per cui altri, con tutti i doni, saranno votati allo scacco. (…) Io non aspiro al carisma di leggere nei cuori, spesso attribuito ai profeti e ai santi. Le poche intuizioni – psicologiche? spirituali? – che mi sono state donate non mi sembrano altro che dei risultati mediamente felici. Il sogno che ti dedico è piuttosto di raggiungere, per poco che sia, il tuo sguardo di misericordia” (pp. 116-117).
Alessandro Cortesi op
Solennità della Ss. Trinità – anno B – 2018
Dt 4,32-34.39-40; Rom 8,14-17; Mt 28,16-20
“Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore Dio è lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n’è altro”.
Nell’esperienza della fede di Israele Dio è presenza nascosta e vicina: non è una tra le creature della terra, sta infatti ‘lassù’, luogo del divino, nelle altezze dei cieli, metafora di una dimensione non racchiudibile entro i confini del creato. Nel medesimo tempo si fa vicino ed irrompe nel ‘quaggiù’, nei luoghi della vicenda umana, sulla terra.
Il Dio unico e vicino, è il non dominabile, non racchiudibile. Non sta nelle mani dell’uomo, non è uno tra gli elementi del cosmo. Per questo tutto nel creato viene così sdivinizzato e il mondo è restituito ad essere mondo dell’uomo. Nessuna manifestazione naturale, nessun essere per quanto meraviglioso, nessun uomo o donna possono prendere il posto di Dio. Dio è altro.
Ma il Dio che sta lassù è anche il vicinissimo, E’ presenza che soffia non sopra ma dentro le cose, con il suo spirito che è respiro di vita donata. ascolta il grido del popolo che soffre e scende a liberarlo. è coinvolto nella vita del popolo. Abramo padre dei credenti è l’esempio di chi ha ascoltato una parola interiore, una chiamata di Dio. E così Mosè. Quest’esperienza del cuore, non di uno solo ma di popolo, viene espressa con l’immagine del fuoco che avvolge il roveto e non lo consuma. Un fuoco che arde e non dà morte ma porta vita.
Da lì sorge una storia di incontro che si delinea come amore impegnativo e di relazione. Israele lo esprime nei termini dell’alleanza, un patto di dono e fedeltà: “Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità dei cieli all’altra, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?”.
I testi biblici non offrono una definizione di Dio ma raccontano l’esperienza di un popolo nell’incontro della fede. Il suo volto si delinea solo in una storia. E’ una storia sospesa, fondata sull’affidamento: la fede è espressa con l’immagine di appoggiarsi su un piccolo appiglio di roccia, una parola accolta nel cuore, una promessa custodita e trasmessa, una stabilità fragile. Israele scopre l’agire di Dio negli eventi della storia. La sua è esperienza non tanto della ricerca umana di Dio, quanto del venire di Dio in cerca dell’uomo. E’ un venire, il suo, che continuamente si ripropone in modi nuovi, e passa per la chiamata di persone che si fanno voce della sua Parola, che annunciano la sua fedeltà, che allargano i confini di un raduno.
Nei vangeli un dato fondamentale del profilo di Gesù è indicato nel suo rapporto con l’Abbà, Dio il padre. Partecipe della fede del suo popolo Gesù, come ebreo vive la fede dei padri. Nella sua vita manifesta la coscienza di un rapporto particolare con l’Abbà: a lui si affida senza riserve. Nella sua preghiera sta la profondità del suo rapporto con Dio. All’Abbà si rivolge nella solitudine e soprattutto nei momenti di scelta e di prova. Si affida a Dio di cui annuncia il regno, come vicinanza che apre senso della vita e salvezza per chi non ha speranza. La sua preghiera respira di una confidenza unica fino al grido sulla croce in cui affida a Dio il suo grido che esprime l’esperienza dell’abbandono. Marco riporta che il centurione vedendolo morire a quel modo, sotto la croce, disse ‘Veramente quest’uomo è Figlio di Dio’. Dopo la Pasqua la comunità riconosce a Gesù i titoli di ‘Figlio’ e Signore.
L’esperienza della prima comunità dopo la pasqua, si può sintetizzare nell’esperienza dello Spirito che fa sentire accolti, figlie e figli: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno Spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo Abbà, Padre. Lo Spirito stesso attesta al nostro Spirito che siamo figli di Dio”.
Dire Abbà non è esito di sforzo umano: è in radice un dono, opera dello Spirito, dono della Pasqua (cfr Gv 20,22). Nello Spirito, lasciando spazio a lui, colui che ricorda tutto quello che Gesù ha detto (cfr. Gv 14,26) e consola (Gv 14,15), la comunità vive l’esperienza di essere coinvolta in un evento di comunione: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre… in quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi” (cfr. Gv 14,20).
Se il volto di Dio è comunione il volto autentico di ogni persona e dell’umanità stessa è nell’orizzonte della comunione. La comunità di Gesù dovrebbe essere segno e strumento, profezia e annuncio, di tale comunione nel cammino della storia. L’esperienza di vita nelle famiglie, delle comunità umane, dei rapporti tra i popoli, può trovare nel volto di Dio Trinità, una promessa, una chiamata ed un orizzonte di speranza.
Alessandro Cortesi op
“Pagano: Ti prego, fratello, guidami a capirti quando parli del tuo Dio. Dimmi: che cosa sai del Dio che adori? Cristiano: So che tutto ciò che so, non è Dio, e che tutto ciò che concepisco, non gli è somigliante, ma che egli è al di sopra di tutto”.
E’ questo un rapido scambio di battute tra il pagano e il cristiano, protagonisti dell’opera Dialogo tra un pagano e un cristiano di Niccolò Cusano. Filosofo, teologo, vescovo del XV secolo, Cusano, in questo intenso dialogo fa emergere profonde domande ed apre nuovi orizzonti nel pensare Dio stesso. Presenta soprattutto il pericolo insito in ogni pretesa umana di dire Dio e di nominarlo. E’ continuo il rischio di rinchiuderlo in una gabbia che non lascia spazio al suo essere Altro. Il ‘dare il nome’ è sempre indirizzato a piccole cose e di fronte a Dio ogni nome è incapace a disegnarne il profilo. Così Cusano parla di un non sapere riguardo a Dio che tuttavia costituisce la grande e autentica saggezza: è una dotta ignoranza.
“È piccola cosa quella che è nominata. La grandezza di ciò che non può essere concepito, rimane ineffabile”. Ineffabile, ma anche sopra ogni nome, oltre.
La grandezza di certi testimoni della fede e del pensiero sta nell’introdurre a domande inquietanti: essi spingono ad uscire da comode certezze e da situazioni acquisite. L’avventura della vita umana forse troppo spesso non ha il coraggio di affacciarsi sugli strapiombi dei grandi interrogativi che fanno percepire la fragilità, l’incertezza, il dubbio. C’è un sottile crinale che non si delinea fuori dei cuori ma li attraversa all’interno, in modi che difficilmente sono giudicabili. Tra questi soprattutto il crinale tra credere e non credere: ognuno reca in sé stesso un non credente e un credente che tra loro si parlano e s’interrogano in un ininterrotto dialogo interiore. E domande inquietanti sorgono. “Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa» (Carlo Maria Martini).
E’ questa l’attitudine che si ritrova nei cercatori e camminatori su vie di confine, laddove l’ascolto dell’altro pone in questione dati acquisiti:
“La mia fede in Dio è tutta intrisa di dubbi e sento che non potrebbe essere altrimenti, perché credere è affidarsi a ciò che è oltre i propri orizzonti. Trovo spiritualmente esaltante questo affidarmi all’oltre i miei orizzonti, dove le mie certezze si indubbiano e da quelle crepe intravedo l’oltre in cui esisto. Io, dalla fede intrisa di dubbi, provo prossimità con l’ateo dall’ateismo intriso di dubbi. I re magi dovevano proprio essere personaggi così: non riuscivano a negare che quella stella mai vista avesse un senso; d’altra parte non sapevano dove li avrebbe condotti qualora l’avessero seguita”.
Così parla di ‘una fede intrisa di dubbi’ p.Luciano Mazzocchi, sensibile all’incontro di fedi e culture, testimone del dialogo tra vangelo e zen. E così continua suggerendo il movimento del credere come un volare in un cielo che qualsiasi volo non può rinchiudere o comprendere e che pure lo custodisce: “L’uccello gusta di volare dentro il cielo che rimane sempre più ampio del suo volo; lo preferisce a un qualsiasi spazio recintato tutto suo. La fede è gusto religioso del dubbio, vissuto con fiducia, senza indietreggiare. Ma tutto svanisce se il dubbio viene eretto a criterio assoluto: non è più dubbio. Si può fare la farsa di dubitare, mentre non ci si vuole minimamente spostare dal tepore del dubbio. Non ci si vuole mettere in cammino. Perché chi sa dove si può andare a finire! La fede è gaudio esistenziale di esistere “finito” dentro l’”infinito”. Di essere sempre ambedue gli aspetti, senza che uno assorba l’altro. Se il finito assorbe l’infinito, l’infinito cessa di essere infinito mancandogli il finito; e viceversa. L’uccello vola sospeso dentro il vuoto del cielo; il credente cammina immerso nel mistero della vita”.
E’ forse bene ricordare che al dubbio non si oppone il credere, ma la certezza, il sapere. E il credere stesso è popolato di domande, di inquietudini in cui grande è la consapevolezza del non sapere. Il credere non si confonde con una via intellettuale di conoscenza, ma vive di fiducia, nel ‘dire sì’ consegnandosi, di un sapere anche, ma particolare, che proviene dallo sguardo dell’amore. Per questo si mantiene solo nel cammino. Traccia ne è l’esperienza del dono, della cura, dell’amore.
Tiene insieme inquietudine, la fatica del dubbio, come uno stare al bivio, e cammino che si affida continuando a superare l’immobilità. Non si nutre di evidenze ma di intuizione profonda che indica una direzione. Non vive di spiegazioni ma di testimonianza accolta e di promessa. E’ continuamente cercato e atteso nel lasciarsi coinvolgere. E proprio il percorso umano fatto di incontri, di parole scambiate, di silenzi, nell’incapacità di esprimere il segreto delle cose o di trovare parole per dire se stessi, lì è luogo di una ricerca che, affidandosi, rimane sospesa… “Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono…”
Alessandro cortesi op