Gerusalemme, Gerusalemme…
(Mosaico della chiesa greco-ortodossa di san Giorgio Madaba – Giordania – VI sec.)
In questi giorni in cui l’annuncio del presidente degli Stati Uniti sul riconoscimento di Gersualemme capitale dello Stato di Israele sta suscitando reazioni diverse e nuovi motivi di conflittualità, una riflessione si fa strada sul senso di Gerualemme quale città non di qualcuno, ma simbolo di un cammino umano universale.
Una analisi politica della situazione è condotta da un attento osservatore delle vicende medio orientali Janiki Cingoli del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (pubblicato sul magazine online Huffington Post), che s’interroga sulle ragioni di tale dichiarazione, tra le quali inserisce la preoccupazione di Trump di distrarre l’opinione pubblica dalle questioni interne americane delle investigazioni sul Russiagate:
“… se si legge bene il testo del suo discorso, si scorgono dei caveat, o meglio dei paletti, che probabilmente gli sono stati suggeriti dai concitati scambi telefonici avuti con i maggiori leader arabi ed europei, oltre che dai suoi collaboratori più impegnati nello sforzo negoziale (…) L’elemento più significativo è la sottolineatura che, con questo riconoscimento, gli Usa non stanno prendendo posizione su alcun aspetto riguardante il negoziato sul Final Status, compresi gli specifici confini della sovranità israeliana dentro Gerusalemme, o la risoluzione delle contestazioni sui confini tra le due parti. Tali questioni, si afferma, sono lasciate al negoziato tra le parti coinvolte. (…)
Il Premier di Israele sa che Trump resta essenzialmente un mercante, e con lui i debiti si pagano. Resta da vedere quale sarà, in concreto, questa proposta di pace. In questi giorni si rincorrono le anticipazioni, si parla di un’ampia porzione del Sinai egiziano, ai confini con Gaza, che verrebbe ceduta ai palestinesi per costruire il loro Stato, in cambio di una striscia della Cisgiordania, di circa il 12%, ove sono concentrati i maggiori insediamenti israeliani; si parla di una proposta di Capitale palestinese ad Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme Est (riesumando così vecchia proposta di accordo proposta nel 1995 dall’esponente israeliano Yosii Beilin e dall’attuale Presidente Palestinese Mahmoud Abbas, allora respinta dalla destra israeliana). Si parla di un quotidiano scambio di Sms tra Jared Kushner e Mbs, il Principe ereditario saudita Moḥammad bin Salmān, per definire i contorni regionali di tale proposta. Bisognerà vedere se alla fine la proposta potrà essere accettabile per il Presidente palestinese Abbas (e la proposta su Abu Dis capitale difficilmente lo sarebbe). E se Netanyahu potrà reggere senza che il suo Governo vada in frantumi. Un’equazione a molte incognite, che solo nei prossimi mesi potrà trovare la sua soluzione”.
(Mappa di Gerusalemme, 1200 ca. Frammento di salterio. L’Aja, KB, 76 F 5. Courtesy Medieval Illuminated Manuscripts Project, Koninklijke Bibliotheek)
In ‘Cose dell’altro mondo’, blog curato dal giornalista e scrittore Riccardo Cristiano si può leggere una riflessione (Gerusalemme, il senso di una città.) che pone la questione del significato di Gerusalemme per un cammino che sin dal principio non è di isolamento e solitudine ma che solo può essere comune. Questa città il cui nome reca in sè la speranza e l’annuncio della pace rimane lo snodo di conflitti che investono popoli e religioni:
“Gerusalemme ha troppi significati, per questo rischia di perdere il suo vero senso. E’ una pietrificazione di pregiudizi, o forse di un’idea, cioè di un’idealismo estraneo a tutti i monoteismi, fatti di greggi, di migranti, non di idee. Gerusalemme così, in un’ottica sana, sta chiaramente lì a indicare il bisogno di tutti e tre i monoteismi di vivere insieme, di non essere soli, abbandonati, separati, isolati dagli altri.
Così Gerusalemme ha un senso, se viene vista come simbolo vivo di un islam che è attratto dalla città di ebrei e cristiani, perché non esiste islam senza ebraismo e cristianesimo, non si può credere nell’islam senza credere anche nell’ebraismo e nel cristianesimo. Gerusalemme recupera il suo senso anche se viene vista e capita come simbolo della persistenza della matrice giudaica nel cristianesimo paolino, universale. E’ di conseguenza Gerusalemme una città piena di senso se vista come segno di un destino comune, che richiede un cammino comune.
Se le religioni prediligono il tempo allo spazio, cioè se prediligono camminare con l’uomo, vivere con lui, nel tempo, nella storia, allora sono chiamate a farlo insieme, come sorelle della famiglia umana fatta di figli di Dio, cioè di fratelli, che hanno nella loro parentela e nella loro diversità il segno della volontà celeste. Ma se le religioni prediligono lo spazio al tempo, cioè il potere, la fortificazione, il possesso, allora non solo si fermano, non camminano più, ma si chiudono, si isolano, non sono più sorelle dell’umanità. I simboli delle religioni non sono più le greggi, le migrazioni, i pastori, ma le caserme. (…)
Ecco che Gerusalemme da simbolo di fratellanza e sorellanza celeste diviene simbolo chiuso di incomunicabilità, di separatezza, di cuori che si fanno di pietra invece che di pietre che hanno un cuore, o che parlano. L’unità di Gerusalemme è solo l’unità del plurimo, del non riducibile, del non assimilabile. (…)
Se c’è un valore eterno oggi evidente a Gerusalemme è quello del tradimento del suo valore fraterno, del messaggio di sorellanza, della sua consapevolezza che vivere da soli è contro la nostra natura e quindi contro il messaggio di quella creazione che è cominciata con la creazione di Adamo e subito dopo dell’altro, o altra, senza la quale la creatura sarebbe morta. Di solitudine”.
Vengono così oggi alla mente le parole del Salmo:
“Se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra;
mi si attacchi la lingua al palato,
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia” (Salmo 136,5-6)
Alessandro Cortesi op
Domenica VI di Pasqua – anno C – 2016
At 15,1-2.22-29; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29
“In quei giorni alcuni venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa dottrina: ‘se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè non potete essere salvi’”.
La questione di cui si tratta – e che vede un’opposizione decisa convinta e ostinata di Paolo e Barnaba – riguarda un modo di considerare il seguire Gesù Cristo. Secondo alcuni per essere discepoli di Cristo era necessario osservare le prescrizioni della legge giudaica: ‘se non fate questo… non siete salvi’. Era in fondo il rinchiudere l’annuncio di Gesù nelle forme religiose di un sistema religioso identificato con prescrizioni della legge. Per contro, esigere una pratica religiosa come la circoncisione per i pagani che si accostavano alla comunità condividendone la fede in Gesù, era visto da Paolo come uno svuotamento del messaggio stesso di Cristo. La salvezza è radicalmente dono, non si realizza sulla base di un privilegio o per l’osservanza di una legge, ma va accolta come evento di grazia di Dio che suscita la fede.
Un primo motivo della reazione di Paolo e Barnaba riguarda il modo di concepire la salvezza: questa non dipende dall’uomo, da osservanze religiose, ma è dono gratuito e non richiede condizioni previe. Ciò significa affermare l’assolutezza dell’agire di Dio in Cristo, il suo primato su ogni tipo di costruzione umana, anche religiosa (non solo nei confronti dell’ebraismo con cui Paolo polemizzava ma anche di tutte le forme religiose).
Ma c’è un secondo aspetto da rilevare nella ‘questione’: Gesù, nella sua esperienza storica, era rimasto all’interno della tradizione ebraica. A lui non si era posto il problema del venir meno alle prescrizioni della legge ebraica. Certamente nei vangeli si trovano tracce della pretesa di Gesù, l’affermazione forte che l’uomo è più importante del sabato e la polemica contro un’osservanza che svuota il senso profondo della legge (Mc 7,8-13.20-21). Nei vangeli compaiono alcune figure di pagani: Gesù risponde all’insistenza delle loro richieste riconoscendone la fede – come con la donna sirofenicia (Mc 7,24-30). Tuttavia per Gesù non si pose il problema del superamento delle osservanze giudaiche.
E’ una situazione nuova che si presenta alle prime comunità, nel sorgere di contatti nuovi con i pagani. Proprio nel confronto con realtà nuove sorge una domanda inedita. L’incontro è il luogo in cui si fa strada – per impulso dello Spirito – una comprensione più profonda delle esigenze del vangelo. Gli apostoli ritornano così al cuore dell’annuncio di Gesù. La fedeltà al regno di Dio implica aprire le porte ai pagani. Il regno è in atto già nella storia, è dono di un mondo nuovo già iniziato e non si lega ad un tempio, ad una classe di sacerdoti, ad una terra particolare, ma è apertura all’Alterità di Dio, al suo amore per tutti, reso visibile nella vicenda di Gesù.
Così nel dibattito sorto nella prima comunità, a Gerusalemme, è elaborata una scelta di novità: era una rinuncia rispetto a ciò che sembrava essenziale – l’osservanza della legge giudaica – ma che essenziale non era rispetto alla gratuità della salvezza. E ciò si fa strada nell’incontro nelle case dei pagani (cfr. At 8; 10) e nell’esperienza dell’agire dello Spirito oltre i confini.
A Gerusalemme si attuò un passaggio fondamentale: fu decisivo agli inizi dell’esperienza cristiana, ma dovrebbe restare normativo per tutti passaggi. Cresce la comprensione della Parola di Dio, la tradizione progredisce nell’esperienza di tutto il popolo di Dio, insieme: si attua non come ripetizione meccanica di quanto Gesù ha vissuto (anche perché impossibile), ma come attuazione sempre nuova di quella Parola che Gesù ci ha comunicato e che continua a raggiungerci nelle vicende della storia, sotto la guida dello Spirito. M.D.Chenu diceva che gli eventi sono ‘luoghi teologici’ in atto. Di fronte alle nuove sfide oggi, nell’epoca del pluralismo, nell’incontro con gli ‘altri’, non credenti o credenti di altre religioni, le chiese cristiane sono chiamate a lasciare qualcosa che sembra essenziale, a rinunciare a forme di esclusivismo e di chiusura, a rivedere profondamente forme culturali e religiose talvolta scambiate per il vangelo.
“Non vidi alcun tempio in essa, perché il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole né della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello”.
L’Apocalisse parla di una città, la nuova Gerusalemme in cui la luce non viene da nient’altro se non dalla presenza di Dio e dal Risorto: è questo l’orizzonte finale della nostra storia. E’ anche quanto siamo chiamati a vivere sin d’ora nel non lasciarci imprigionare nella costruzione di templi che possano racchiudere Dio stesso e trattenerlo in progetti, dottrine e costruzioni umane.
“Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”.
Gesù promette il Consolatore, una presenza che si caratterizza per due azioni: il ricordare e l’insegnare – al futuro. Siamo chiamati a riscoprire la presenza dello Spirito nel tempo della chiesa. E’ il tempo dell’ascolto della Parola di Dio, per vivere non come chi vive prigioniero della paura o della legge, con l’attitudine aggressiva che difende i privilegi ed esclude, piuttosto di chi vive l’esperienza di novità e di gioia dei primi cristiani, chiamati a liberarsi continuamente dai templi di ogni potere e dalla schiavitù di ogni religione che non rende ospitali verso l’altro.
Alessandro Cortesi op
Responsabilità
E’ datata 19 marzo 2016 ma è stata resa nota il 26 aprile: vi compaiono parole forti contro il clericalismo, indicato come attitudine ‘che annulla la personalità dei cristiani’. Reca la firma di Francesco vescovo di Roma, che in essa esprime il profilo di una chiesa “in cui tutti facciamo il nostro ingresso come laici”.
L’immagine che guida la lettera è quella del santo popolo di Dio, ad indicare la chiesa. Chiave di lettura è la ripresa di Lumen Gentium, citata nei nn. 9-14 dove si afferma che la sacramentalità della Chiesa appartiene a tutto il popolo di Dio e «non solo a pochi eletti e illuminati”. E’ una lettera inviata al card. Ouellet al termine dell’incontro della Commissione per l’America Latina e i Caraibi “sulla partecipazione pubblica del laicato alla vita dei nostri popoli”.
Compito di chi ha un ministero affidato quella chiesa è quello di sentirsi parte “accompagnandola nelle sue ricerche e stimolando quell’immaginazione capace di rispondere alla problematica attuale”. Rivolgendosi ai pastori Francesco afferma “è illogico, e persino impossibile, pensare che noi come pastori dovremmo avere il monopolio delle soluzioni per le molteplici sfide che la vita contemporanea ci presenta”.
Vi sono parole talvolta ironiche contro una certa retorica che usa espressioni svuotandole della loro portata di provocazione al cambiamento: “Guardare continuamente al Popolo di Dio ci salva da certi nominalismi dichiarazionisti (slogan) che sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità. Per esempio, ricordo ora la famosa frase: “è l’ora dei laici” ma sembra che l’orologio si sia fermato”.
Al cuore di questa lettera una sorta di analisi del clericalismo come uno dei mali che si è annidato e cresciuto nella chiesa. Da qui l’urgenza di maturare consapevolezza per combatterlo come deformazione che esige riforma: “Non possiamo riflettere sul tema del laicato ignorando una delle deformazioni più grandi che l’America Latina deve affrontare – e a cui vi chiedo di rivolgere un’attenzione particolare –, il clericalismo. Questo atteggiamento non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente. Il clericalismo porta a una omologazione del laicato; trattandolo come ‘mandatario’ limita le diverse iniziative e sforzi e, oserei dire, le audacie necessarie per poter portare la Buona Novella del Vangelo a tutti gli ambiti dell’attività sociale e soprattutto politica. Il clericalismo, lungi dal dare impulso ai diversi contributi e proposte, va spegnendo poco a poco il fuoco profetico di cui l’intera Chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli. Il clericalismo dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, nn. 9-14), e non solo a pochi eletti e illuminati”.
Vi è un richiamo a considerare l’impegno dei laici cristiani non solo sul versante delle opere di chiesa ma riconoscendo autonomia nell’impegno politico e culturale: “Senza rendercene conto, abbiamo generato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano in cose ‘dei preti’, e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede. Sono queste le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché è più preoccupato a dominare spazi che a generare processi. Dobbiamo pertanto riconoscere che il laico per la sua realtà, per la sua identità, perché immerso nel cuore della vita sociale, pubblica e politica, perché partecipe di forme culturali che si generano costantemente, ha bisogno di nuove forme di organizzazione e di celebrazione della fede. I ritmi attuali sono tanto diversi (non dico migliori o peggiori) di quelli che si vivevano trent’anni fa! ‘Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane’ (Evangelii gaudium, n. 73)”.
E ancora “L’inculturazione è un lavoro artigianale e non una fabbrica per la produzione in serie di processi che si dedicherebbero a fabbricare mondi o spazi cristiani».
Lo sguardo si sofferma sulla realtà drammatica di molte città: “Oggigiorno molte nostre città sono diventate veri luoghi di sopravvivenza. Luoghi in cui sembra essersi insediata la cultura dello scarto, che lascia poco spazio alla speranza. Lì troviamo i nostri fratelli, immersi in queste lotte, con le loro famiglie, che cercano non solo di sopravvivere, ma che, tra contraddizioni e ingiustizie, cercano il Signore e desiderano rendergli testimonianza (…) Non è ma il pastore a dover dire al laico quello che deve fare e dire, lui lo sa tanto e meglio di noi. Non è il pastore a dover stabilire quello che i fedeli devono dire nei diversi ambiti. Come pastori, uniti al nostro popolo, ci fa bene domandarci come stiamo stimolando e promuovendo la carità e la fraternità, il desiderio del bene, della verità e della giustizia. Come facciamo a far sì che la corruzione non si annidi nei nostri cuori.
“I laici sono parte del Santo Popolo fedele di Dio e pertanto sono i protagonisti della Chiesa e del mondo; noi siamo chiamati a servirli, non a servirci di loro».
Parole chiare, che danno voce e respiro a tante e tanti che hanno lavorato e faticato nel tempo, anche in contrasto ad un clericalismo pervasivo, diffuso e tuttora dominante – e non solo in America Latina, ambito a cui la lettera è diretta – per un volto di chiesa più semplice e fraterna. Parole che attendono una diffusa capacità non solo di accoglienza ma di risposta adulta e propositiva soprattutto laddove chiedono di individuare nuove forme di organizzazione e di celebrazione della fede e l’audacia indispensabile nell’impegno sociale e civile.
Alessandro Cortesi op