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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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Omelia II domenica Avvento A 2022

Era la fine del 1967, 55 anni fa. Giorgio La Pira si recava in viaggio in Terra santa. Per lui era un pellegrinaggio di pace che riprendeva quello fatto dieci anni prima. E per questo partiva da Hebron la tomba del patriarca Abramo, comune padre della triplice famiglia di ebrei cristiani e musulmani e poi prevedeva come tappa Betlemme  e Gerusalemme, la città santa, il Carmelo, il, monte di Elia e Nazareth la città dell’incarnazione, per concludersi in Egitto, passando a Damietta dove san Francesco “in piena crociata ed in piena guerra compiendo un grande atto di fede religioso e storico (e, perciò, anche politico) – portò al sultano il suo messaggio cristiano di pace” in tempo di guerra”.

Agli inizi del 1968 La Pira scriveva un articolo esprimendo i motivi che avevano guidato il suo pellegrinaggio, riassumibili “in quella tesi che in questi anni ha sempre guidato la nostra azione di pace: ‘la tesi di Isaia’: cioè la tesi – fondata sulla rivelazione di Abramo e, perciò, in piena aderenza alla pace di Betlemme ed alla pace del Corano – della inevitabilità della pace universale, della inevitabilità del disarmo (le armi cambiate in aratri!) e della inevitabile promozione civile e spirituale dei popoli di tutta la terra (…) Questa tesi assume in Terra santa un rilievo particolare: essa pone qui in maniera più drammatica l’inevitabile domanda: perché ancora la guerra? Perché non trovare una soluzione politica per tutti i problemi che separano ancor tanto dolorosamente arabi e israeliani? … Il Mediterraneo, lungo le sponde del quale questi popoli abitano, non può tornare ad essere – è il suo destino! – un centro di attrazione e gravitazione storica , spirituale e politica essenziale per la storia nuova del mondo?… Perché non superare con un atto di fede – religioso e storico e, perciò, anche politico, in questa prospettiva mediterranea e mondiale – tutte le divisioni che ancora tanto gravemente rompono l’unità della famiglia di Abramo, per iniziare, proprio da qui, quell’inevitabile moto di pace destinato ad abbracciare tutti i popoli della terra e destinato ad edificare un’età qualitativamente nuova… della storia del mondo?  … Se c’è una ‘convergenza di destino storico’ per arabi e israeliani, fra tutti i popoli della famiglia di Abramo abitanti nello spazio mediterraneo (che è spazio essenzialmente europeo) allora tutti i problemi che ancora dividono possono essere rivisti in modo rovesciato: trasformandoli da problemi che dividono in problemi che unificano.  Se tutto questo è vero – ed è vero perché questo è il senso della storia presente del mondo – perché insistere a credere nelle soluzioni militari, ostacolando ancora l’incontro, il negoziato, la pace? Perché non sfidare la storia e non mettersi in cammino insieme per questa avventura nuova della storia del mondo? (…) Perché dunque, tardare più oltre – inutilmente dannosamente – l’inizio di questa missione comune a servizio dei popoli di tutto il mondo? Perché non dare al mondo presente una prova del grande fatto che specifica l’attuale età storica: del fatto, cioè, che la guerra anche ‘locale’ non risolve, ma aggrava i problemi umani; che essa è ormai uno strumento per sempre finito: e che solo l’accordo, il negoziato, l’edificazione comune di tutti i popoli, sono gli strumenti che la Provvidenza pone nelle mani degli uomini per costruire una storia nuova e una civiltà nuova?” E si chiedeva “del resto il nostro stesso pellegrinaggio…non è stato forse un pnte di speranza steso fiduciosamente tra le due rive?”

In questa lettura si possono ritrovare in filigrana tre linee del messaggio che viene dalle letture di stasera: innanzitutto la tesi di un orizzonte della storia umana che ha come suo punto di arrivo non tutto ciò che distrugge ma la pace. Pace come armonia, pace come incontro possibile tra diversi, pace come venir meno della logica del più forte, pace come benessere che lascia spazio ai desideri di fondo della vita umana… “Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare”.

E’ la profezia di Isaia che vede un germoglio che porta lo spirito, un germoglio di pace. E nella vita si ripresenta anche a noi in questo nostro tempo la sfida di una scelta di fede che è storica e perciò anche politica di osare la pace anche in situazioni di contraddizione laddove c’è la guerra e il buio dell’escalation militare. Sono persone sconosciute dall’una e dall’altra parte che ci richiamano questa scelta costosa, drammatica, ma liberante, come lo fu per Franz Jägerstatter contadino austriaco che aveva maturato la sua scelta di fede semplice con Franziska sua moglie e si rifiutò di arruolarsi nell’esercito nazista motivando questa scelta in base alla sua coscienza e per questo fu condannato a morte. E sono oggi gli obiettori di coscienza, in Russia e in Ucraina che sono disposti a subire le conseguenze delle loro scelte di non prendere le armi per uccidere. E’ il sogno di Isaia che diviene storia e si fa germoglio in questo inverno dell’umanità.E anche noi come Francesco, nel nostro quotidiano limitato possiamo trovare le forme e i modi per portare un messaggio di pace in tempi di guerra.

C’è un secondo messaggio che possiamo raccogliere dalla lettera di Paolo: “…in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza. E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù…”

E’ un invito a coltivare la pace anche quando ci rendiamo conto della nostra impotenza di fronte alle grandi vicende di ingiustizia e di violenza nel mondo. Possiamo tenere viva la speranza. Possiamo coltivare l’attitudine ad avere i medesimi sentimenti sull’esempio di Gesù. Possiamo ritornare a Gesù e fissare gli occhi su di lui, quel Gesù da incontrare non nelle immagini patinate o devote, ma nella semplicità dei suoi gesti delle sue parole, ritornando al vangelo, ai gesti della sua umanità riscoprendolo fratello che ci guida. E’ bello questo invito a riscoprire i sentimenti, che sono una dimensione molto spesso trascurata in culture che hanno soppresso i sentimenti e hanno educato a non porvi attenzione, a non comprenderli, dove tutto è razionalizzato o ridotto a calcolo o a pulsione immediata. Ma i sentimenti sono le forze profonde che guidano la vita e la conducono ad una comunicazione profonda che comprende in modo più profondo le parole e va oltre l’espressione delle parole stesse perché coinvolge il corpo che noi siamo nella sua complessità. Fare propri i sentimenti di Gesù è aprirsi ad una apertura di comprensione, di tenerezza, ma anche di speranza davanti all’altro, all’umanità…       

Infine possiamo porre attenzione all’invito di Giovani Battista questo uomo coerente e duro, con se stesso prima di tutto. Il deserto della Giudea è pietroso e inospitale ma è attraversato dal fiume Giordano e là dove giunge anche solamente poca acqua il deserto immediatamente fiorisce. Il profilo del Battista si staglia su tale sfondo e in qualche modo lo riflette. Giovanni esprime nelle sue scelte la radicalità di una fede che coinvolge l’esistenza. La sua scelta del deserto è richiamo a scegliere una condizione di precarietà per lasciare spazio all’attesa del Dio che viene. Nel deserto si fa ‘voce che grida’: richiama ad un cambiamento radicale perché il ‘regno dei cieli è vicino’. Richiama alla centralità della presenza di Dio.

Giovanni è capace di parole forti per scuotere un mondo addormentato. “Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo”. E’ una provocazione ad uscire da un modo di sentirsi a posto protetti da una copertura di religiosità che impedisce di scorgere le esigenze della fede. E’ la contraddizione che si vive in un mondo in cui il Natale è divenuto momento integrato nella logica consumistica e funzionale ad una vita sociale dimentica della sofferenza e della fatica degli altri, di chi è invisibile, lasciato fuori dai riflettori, piegato dalla fatica quotidiana. Figlie e figli di Abramo, persone che sanno aprirsi ad un orizzonte di vita nella giustizia e nell’amore sono ovunque… I frutti di conversione sono indicazioni di una prassi da cambiare, provocazione a scegliere strade diverse in cui l’incontro con Dio non passa attraverso articolati discorsi, ma nelle scelte concrete e nell’operare. L’annuncio del regnare di Dio non è conoscere qualcosa in più di ciò che Gesù ha detto, ma è camminare come Gesù ha fatto. Per questo operare scelte di fede, ha una valenza religiosa e storica e perciò politica.

Alessandro Cortesi op

V domenica del tempo ordinario – anno C – 2022

Is 6,1-2.3-8; 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11

Il tema della chiamata ritorna nella prima lettura e nel vangelo. La vocazione del profeta Isaia e la vocazione di Simone sono paradigma della vocazione di ogni credente.

La chiamata di Isaia è posta in un contesto liturgico e solenne, nell’anno 740 a.C. Isaia è un sacerdote di Gerusalemme, e vive un’esperienza particolare di vicinanza di Dio proprio mentre sta per svolgere il culto. Tra le volute dell’incenso nello spazio sacro percepisce la gloria di Dio: Dio che si manifesta a lui rimane tuttavia inaccessibile. Il racconto esprime questo presentando la reazione di Isaia che dice la sua piccolezza di fronte alla santità di Dio. E subito dopo il segno delle labbra toccate dal carbone dell’altare racchiude un’investitura ad essere portatore di una parola proveniente da Dio che è come fuoco che purifica e consuma. “Chi manderò e chi andrà per noi?”. Isaia risponde “Eccomi, manda me”. Due movimenti compaiono in questo racconto di chiamata: da un lato l’irrompere di una iniziativa inattesa, sorprendente da parte di Dio, che si rende vicino in modo irresistibile.  La sua vicinanza trasforma non lascia indifferenti. D’altro lato la disponibilità ad un coinvolgimento per una missione: ‘eccomi manda me’. Accettando la chiamata Isaia sceglie di entrare nel rischio della fede. Così sarà il suo annuncio tutto centrato su di un richiamo al credere come unica esperienza per trovare stabilità e senso (Is 7,9b). Nelle sue parole proporrà la fiducia nel Dio dell’alleanza in contrasto alla ricerca d sicurezza nell’uso delle armi e per via di alleanze con gli imperi del tempo. Isaia si farà portatore del sogno messianico, di un tempo nuovo di pace e gioia in cui le spade saranno trasformate in vomeri e le lance in falci, un tempo di giustizia in cui un bambino sarà principe della pace (Is 9,5; 11,6).

Luca presenta la chiamata di Simone in un contesto diverso, di lavoro, di quotidianità, sulle rive del lago. Dopo una notte di fatica Simone, pescatore esperto e conoscitore dei segreti del lago, rientrava a riva con la sua barca vuota. Segno di un fallimento e di delusione. La parola di Gesù raggiunge questi pescatori sfiduciati che gli dicono “abbiamo faticato … non abbiamo preso nulla”. Gesù invita Pietro a prendere il largo e a gettare le reti ancora. Da questo invito accolto prende le mosse un nuovo partire: “Sulla tua parola getterò le mie reti”. La pesca è abbondante oltre ogni attesa e misura. E’ un esito che supera ogni previsione umana. Il racconto indica così la fecondità nuova che è generata nella vita dalla parola di Gesù accolta. Pietro avverte così la sua condizione di peccatore davanti alla forza della parola di Gesù. E rimane cambiato dalla forza della sua parola. C’è una insistenza propria di Luca sulla parola di Gesù che genera cose nuove nella vita di chi l’accoglie. Lo stupore è il sentimento che permea il racconto. Pietro anziché essere allontanato, viene chiamato da Gesù ad essere pescatore in modo nuovo. Sarà chiamato ancora a gettare reti nuove sulla parola di Gesù: ‘pescatore di uomini’ indica un modo di orientare l’esistenza a servizio degli altri. Luca sottolinea anche un altro aspetto della chiamata, la disponibilità nello scegliere una nuova gerarchia delle cose importanti nella vita. Tutto il resto vale meno rispetto al seguire Gesù e la sua parola. Si tratta di una scelta di povertà, propria dei discepoli, che diviene via di libertà da quanto può essere di peso e far perdere l’essenziale. ‘Non temere’… La vita al seguito di Gesù non è esperienza di paura ma di gioia nuova.

Alessandro Cortesi op

Pescare, insieme

Un mosaico del sec XIV della Basilica di San Marco a Venezia – situato nella volta nord della Cappella di sant’Isidoro – riprende l’episodio della pesca miracolosa. Nell’immagine si possono individuare vari elementi. Il lago e la barca sono raffigurati al centro. Sono posti nell’immagine in rapporto ad un gruppo di persone sulla sinistra, riferimento alle folle a cui si rivolge l’insegnamento di Gesù, e ad un profilo di città che appare sulla destra.

Il lago al centro è simboleggiato dalle onde tra le quali sta navigando la barca. In questa sono presentati i profili non solo degli apostoli ma anche di Gesù insieme con loro contornato da un’aureola nimbata. I particolare è riferiemnto al testo di Lc 5,3 in cui viene indicato che Gesù seduto sulla barca ammaestrava le folle dopo che la barca si era un po’ scostata da terra. Gesù seduto sulla prua si rivolge quindi alle folle. Nel mosaico si unisce quasi in un’unica narrazione anche la scena successiva. Gesù invita Simone a prendere il largo e calare le reti (Lc 5,4). Sulla barca sono presenti sette discepoli di cui due sono impegnati nello stendere le reti. In questo particolare si può ritrovare un rinvio all’episodio narrato nel IV vangelo: al momento della manifestazione di Gesù risorto sul lago sette sono i discepoli indicati per nome che seguono Pietro (Gv 21,2-3). Nella scritta al di sopra del mosaico si fa poi riferimento al conteggio pesci, “IUSSIT PISHANTUR CAPIUNTUR VEL NUMERANTUR” (Comandò di pescare. I pesci sono presi e vengono contati). E’ questo un particolare che riporta al IV vangelo in cui sono indica 153 grossi pesci quale esito della sorprendente pesca (Gv 21,11).

Nella raffigurazione del mosaico è da rilevare da un lato l’atteggiamento di Gesù che parla con la folla: viene quindi posto in rilievo il suo insegnamento dalla barca in cui è seduto. D’altra parte la sua presenza sulla barca mentre i discepoli stanno tirando su le reti si apre ad un’ulteriore interpretazione. Ora la pesca avviene con lui. Quella fatica che costituiva la quotidianità dei suoi discepoli assume una profondità ed un significato nuovo.  Gesù chiede loro di prendere il largo e gettare le reti: si tratta del loro lavoro e il rinvio va al fallimento della pesca di quella notte in cui avevano faticato ma non avevano preso niente. Ma ora Gesù li invita ad agire insieme a lui, con quella parola che racchiudeva l’orientamento della sua vita e la sua chiamata. E’ quanto Simone esprime dicendo “sulla tua parola getterò le mie reti”. La presenza di Gesù sulla barca simboleggia questa pesca compiuta sulla sua parola.

Si può cogliere come il mosaico, con linguaggio visivo, indichi vari aspetti dell’incontro con Gesù: in primo luogo evidenzia l’importanza del suo insegnamento, del suo parlare alla folla; esprime poi la risposta ad una chiamata nel compiere quanto Gesù aveva indicato, nel vivere l’impegno quotidiano, nel compiere l’operare della pesca insieme a lui, basandosi sulla sua parola. Infine esprime la sorpresa della fecondità inattesa: il gran numero di pesci che vengono pescati e contati. Il numero dei discepoli nella barca racchiude anch’esso un simbolismo: sono infatti raffigurati in numero di sette e accanto a loro Gesù. Si indica così una pienezza di vita racchiuso nel numero sette a cui si aggiunge la presenza di Gesù che si apre all’incontro con Dio stesso – otto è numero che si riferisce all’ottavo giorno compimento della vita umana ed alla risurrezione -. Nel gesto di gettare le reti si può scorgere l’importanza dell’operare quotidiano che compiuto insieme a Gesù trova fecondità nuova. Nel contempo in questo agire si apre la chiamata ad essere portatori di una vita (pescatori di uomini) che è già partecipazione ala risurrezione di Cristo e trova in lui salvezza.

Alessandro Cortesi op

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