Am 6,1.4-7; 1Tim 6,11-16; Lc 16,19-31
Amos nella sua azione di profeta denuncia gli spensierati, seduti in letti d’avorio, che canterellano, bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati. E’ modo di vivere di chi rimane insensibile alla miseria degli impoveriti che nel medesimo tempo vivevano nella miseria e nell’oppressione. Amos grida la sua protesta che proviene dalla chiamata ad annunciare la parola del Signore: ‘finirà l’orgia dei buontemponi’.
La parabola del ricco e del povero Lazzaro, il cui nome ‘El azar’, significa ‘Dio aiuta’, è un racconto proprio del vangelo di Luca, attento in modo particolare alla questione della povertà.
La parabola nella prima parte presenta due quadri opposti: la situazione del ricco descritto con i caratteri di uno spensierato che gode nell’abbondanza, reso insensibile dal lusso e dell’agiatezza. Vive come in una bolla e non si rende nemmeno conto del dolore di chi alla sua porta non ha nemmeno il cibo indispensabile per sfamarsi.
Alla sua porta, vicino e distante, sta Lazzaro, povero, coperto di piaghe, allontanato dalla casa dove si banchettava lautamente e la sua unica compagnia sono i cani randagi. E’ un situazione di contrasto che già nella presentazione diviene accusa di un modo di vivere che Gesù vedeva attorno a lui nel divario tra la ricchezza dei potenti e la miseria degli sfruttati, nell’ingiustizia che esso rappresenta.
Il momento della morte comporta un totale rovesciamento della situazione: Lazzaro è portato dagli angeli accanto ad Abramo mentre il ricco è immerso nei tormenti. Abramo è padre della fede d’Israele e diviene padre dei poveri. E il ricco invece sperimenta la rovina.
Questa descrizione non intende essere una sorta di descrizione della vita dell’aldilà per suscitare strane immaginazioni, di cui si trova attestazione nell’iconografia di questo racconto. Il motivo centrale della parabola sta altrove. La questione al cuore della parabola non è un invito ad immaginare un futuro lontano e fuori della nostra portata, è piuttosto un appello rivolto al presente in cui scorgere come orientare la propria vita per trovare il suo senso più profondo: a questo ci guida la seconda parte del racconto.
La seconda parte della parabola infatti presenta un dialogo tra il ricco e Abramo. Il ricco chiede di andare ad avvisare i suoi cinque fratelli, perché non abbiano a subire la medesima sorte. Si rende conto che una vita spesa nell’indifferenza senza farsi carico degli altri è una vita fallita. Ma la sua richiesta trova in modo sorprendente un rifiuto. Abramo gli risponde: “Hanno Mosè e i profeti: li ascoltino… Se non ascoltano Mosè e i profeti, anche se uno risuscitasse dai morti non si lascerebbero convincere”. E’ una parola dura, un richiamo forte a chi ascolta.
Siamo qui di fronte al punto verso cui tutto il racconto converge: l’espressione ‘Mosè e i profeti’ indica le Scritture, rinvia alla storia della comunicazione di Dio con Israele. Lì Dio si manifesta come colui che si volge alla sofferenza del povero. La risposta di Abramo, padre dei credenti, richiama ad un ascolto che va vissuto nella vita, che interpella il presente. Non è quindi questione di miracoli sorprendenti e di invii celesti: il progetto di Dio per l’umanità è sogno di comunione, di raduno di popoli, di condivisione. Le Scritture sono via per ascoltare la volontà di Dio sulla propria vita e per agire responsabilmente. Solamente l’ascolto che provoca a cambiare il cuore è forza che conduce a vincere l’insensibilità e la cecità del ricco. Tale ascolto della parola dei profeti e del grido dei poveri può generare un diverso rapporto con gli altri perché la vita si apra al suo compimento che è incontro e comunione.
Alessandro Cortesi op
Non si tratta solo di altri
E’ un pugno nello stomaco il reportage di Francesca Moannocchi dallo Yemen pubblicato su “L’Espresso” del 22 settembre 2019, pp.10-21. Il titolo già indica la discesa a cui conduce l’articolo: L’inferno dei bambini. E’ un percorso di contatto diretto con la realtà in cui si viene portati ad ascoltare una parola ripetuta ogni giorno: “‘manca tutto’ dicono i bambini”. Ma è affermazione che contrasta con gli scaffali delle botteghe in cui è esposta la farina e le farmacie in cui sono presenti i medicinali. “Però nelle case manca tutto, le corsie degli ospedali sono piene di bambini malnutriti e i bambini muoiono di fame. Sono gli effetti delle guerre quando assumono la forma più subdola, quando diventano cioè guerre economiche e i morti che si contano, nel burocratico vocabolario bellico, si chiamano vittime indirette”.
E’ un aspetto della distanza odierna ma i mondi della ricchezza in cui regna l’abbondanza e lo spreco e gli inferni della miseria in cui i bambini muoiono di fame, di colera e difterite a causa della guerra. C’è infatti un elemento importante che il reportage pone in evidenza: le guerre sono tra le prime cause della iniquità che attraversa il mondo. Lo Yemen oggi è terra dimenticata in cui questa tragedia è quotidiana e da lì sale il grido silenzioso delle vittime. Dodici milioni di persone vedranno nelle prossime settimane ulteriormente diminuite. E questa situazione si svolge mentre la comunità internazionale rimane indifferente.
Racconta Francesca Mannocchi delle parole e del volto di una madre: “Alima, come le altre madri, sembra anestetizzata dalla fatica di sopravvivere. Non inveisce, non si lamenta”. E’ questo silenzio da ascoltare…
“Secondo lo Yemen Data Project che raccoglie i dati sugli attacchi aerei, la coalizione a guida saudita ha effettuato 20 mila attacchi aerei, un terzo dei quali su siti non militari: infrastrutture, ospedali, scuole. I danni materiali, uniti al blocco aereo, navale e marittimo imposto alle aree settentrionali hanno paralizzato l’accesso ai beni primari, mettendo in ginocchio il paese che era già il più precario dell’area e impoverendolo al punto da essere considerato sull’orlo della carestia”.
“E nel tutti contro tutti la guerra militare è anche guerra di propagande nemiche che alimentano l’arma più subdola: la fame, la più insidiosa delle battaglie, perché la fame uccide lentamente e dalla fame nessuno può scappare”.
Le foto di Alessio Romenzi che corredano l’articolo testimoniano interni di ospedali, bambini seduti tra case ridotte a cumuli di macerie, edifici sventrati e inabitabili, immagini della devastazione e della distruzione che sono denuncia della responsabilità di quanti alimentano questa guerra e dell’ignavia di un mondo distratto. La storia del ricco e di Lazzaro si ripete anche nel nostro mondo.
“Le società economicamente più avanzate sviluppano al proprio interno la tendenza a un accentuato individualismo che, unito alla mentalità utilitaristica e moltiplicato dalla rete mediatica, produce la “globalizzazione dell’indifferenza”. In questo scenario, i migranti, i rifugiati, gli sfollati e le vittime della tratta sono diventati emblema dell’esclusione perché, oltre ai disagi che la loro condizione di per sé comporta, sono spesso caricati di un giudizio negativo che li considera come causa dei mali sociali. L’atteggiamento nei loro confronti rappresenta un campanello di allarme che avvisa del declino morale a cui si va incontro se si continua a concedere terreno alla cultura dello scarto. Infatti, su questa via, ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa a rischio di emarginazione e di esclusione.
Per questo, la presenza dei migranti e dei rifugiati – come, in generale, delle persone vulnerabili – rappresenta oggi un invito a recuperare alcune dimensioni essenziali della nostra esistenza cristiana e della nostra umanità, che rischiano di assopirsi in un tenore di vita ricco di comodità. Ecco perché “non si tratta solo di migranti”, vale a dire: interessandoci di loro ci interessiamo anche di noi, di tutti; prendendoci cura di loro, cresciamo tutti; ascoltando loro, diamo voce anche a quella parte di noi che forse teniamo nascosta perché oggi non è ben vista”.
Papa Francesco nel Messaggio per la 105 giornata mondiale del migrante e rifugiato (29 settembre 2019) richiama un fenomeno in atto di globalizzazione dell’indifferenza, che non solo è disinteresse per la sorte di interi popoli, ma diviene attitudine di disprezzo e sospetto verso i più vulnerabili. E’ la cultura dello scarto per cui si può fare a men di qualcuno e la vita viene intesa come una gande competizione in cui c’è posto solo per i più forti e più ricchi e gli altri sono come i resti portati via dalla risacca sul bagnasciuga.
Una vita ricca di comodità, ma anche una pigrizia nel non ricercare modi per conoscere la reale condizione della vita degli altri impedisce di vedere.
La parola chiave che guida l’appello è Non si tratta solo di migranti… si tratta infatti della nostra vita… come per il ricco che si domanda sul senso della sua vita quando ormai il suo tempo è finito…
Non si tratta solo di migranti: si tratta della carità. … Non si tratta solo di migranti: si tratta della nostra umanità. … Non si tratta solo di migranti: si tratta di non escludere nessuno … Non si tratta solo di migranti: si tratta di mettere gli ultimi al primo posto…. Non si tratta solo di migranti: si tratta di tutta la persona, di tutte le persone. … Non si tratta solo di migranti: si tratta di costruire la città di Dio e dell’uomo.
“la risposta alla sfida posta dalle migrazioni contemporanee si può riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ma questi verbi non valgono solo per i migranti e i rifugiati. (…) non è in gioco solo la causa dei migranti, non è solo di loro che si tratta, ma di tutti noi, del presente e del futuro della famiglia umana. I migranti, e specialmente quelli più vulnerabili, ci aiutano a leggere i “segni dei tempi”. Attraverso di loro il Signore ci chiama a una conversione…”
Una lettera da leggere per intero ed in cui trovare motivi per un cambiamento che ci conduca dall’ostilità all’ospitalità, dal sospetto al desiderio di incontri diretti, dall’indifferenza al farci carico nella concretezza di scelte e azioni quotidiane.
Alessandro Cortesi op
V domenica di Quaresima – anno A – 2020
Nel capitolo 11 del IV vangelo il ‘segno’ della vita, dell’uscita dal buio del sepolcro, segue ai segni del vino a Cana, dell’acqua con la donna di Samaria, della luce nell’incontro con il cieco.
Gesù, informato he il suo amico Lazzaro è morto attende e non si reca subito da lui. In questo intende offrire un messaggio: ‘questa malattia non è per la morte ma per la gloria di Dio’. Il ‘segno’ della vita di Lazzaro è orientato a far comprendere che la persona di Gesù è presenza di vita. Nella sua presenza c’è il dono di un profumo che vince l’odore della morte. In lui si può incontrare la vicinanza del Padre che vuole la vita. Nel credere come affidarsi in lui, una vita nuova può essere scoperta sin da ora: ‘Chi crede è passato dalla morte alla vita’.
Gesù dice a Marta. ‘tuo fratello risusciterà’. E ciò costituisce una conferma della fede di Marta che gli risponde: ‘So che risusciterà nell’ultimo giorno’. Ma Gesù le propone un affidamento più profondo e radicale: ‘Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà’. Ogni segno nel IV vangelo è orientato a condurre all’unico grande segno in cui Dio rivela la sua gloria: la morte sulla croce di Gesù, ora di rivelazione del volto di un Dio che si è umanizzato e che s’incontra nell’amore.
Gesù propone a Marta non solo di vivere la fede nella risurrezione nell’ultimo giorno, ma di vivere sin d’ora un’esperienza di vita nuova nell’incontro con lui, nell’uscire dalle chiusure e camminare sulla sua via. Per Marta – e per ognuno di noi – è già ora presente la possibilità di una vita nuova, l’esperienza della risurrezione. Gesù guida Marta ad aprirsi non solo al superamento di una mentalità che vede la vita chiudersi con la morte ma la invita anche ad uscire fuori, come grida a Lazzaro ‘Vieni fuori’.
Gesù fa uscire Lazzaro dal sepolcro: nella mentalità semitica era questo l’ingresso nello Sheol, l’ambiente delle ombre: ‘Non gli inferi ti lodano Signore, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà. Il vivente, il vivente ti rende grazie, come io faccio quest’oggi’ (Is 38,18-19).
Uscire fuori da ogni dominio e oppressione è possibile a chi scopre che in Gesù la morte è stata vinta e il dono della risurrezione, dono dell’incontro con lui è realtà già in atto nella nostra esistenza e già ha inizio nel presente.
Paradossalmente dopo il segno di Betania cresce l’opposizione contro di lui: proprio di fronte a gesti di vita si prepara la sua morte. Betania è così luogo di morte e di vita. Di fronte alla morte Gesù è turbato e reagisce opponendosi a tutto quello che essa comporta. Negli elementi presenti nel racconto si può scorgere già in filigrana l’annuncio della risurrezione di Gesù: le lacrime di chi piange alla tomba, il sepolcro e la pietra, le fasce, l’invito a ‘lasciar andare’. Il segno di Lazzaro rinvia così al segno definitivo, la morte di Gesù sulla croce. E’ questo il momento in cui si rende visibile il volto di Dio, la sua gloria come amore: nel suo morire, avendo amato fino alla fine, Gesù rende visibile una vita che va oltre la morte. La via di fedeltà all’amore e al servizio è strada che non va verso la chiusura e il buio ma va verso la vita.
Alessandro Cortesi op
Respiro
Non attendere che Dio su te discenda/ e ti dica «Sono»./ Senso alcuno non ha quel Dio che afferma/ l’onnipotenza sua./ Sentilo tu nel soffio, onde Egli ti ha colmo/ da che respiri e sei/. Quando non sai perché t’avvampa il cuore:/ è Lui che in te si esprime. (18.05.1898 Viareggio – Rainer Maria Rilke – 1875-1926 – Poesie giovanili 1895-1898, a cura di G.Baioni A. Lavagetto, Einaudi, Biblioteca della Pléiade 1994)
E’ una riflessione amara e triste quella di questi giorni, di fronte ad uno scenario di morte. L’epidemia che divampa in tutto il mondo è impressionante perché toglie il respiro. Toglie il respiro a coloro che si trovano a lottare nei reparti di terapie intensiva per far entrare un po’ d’ossigeno nei polmoni incapaci, toglie il respiro a tutti coloro che si dedicano, con l’affanno e l’ansia di chi non ha mezzi sufficienti, nell’arginare la sofferenza dei malati. Toglie il respiro a chi rimane a casa, ingabbiato tra le mura domestiche nel desiderio e nella nostalgia dell’aria aperta. Toglie il respiro a chi si espone per motivi di lavoro, di servizio, di cura ad entrare in contatto con altri in un tempo in cui l’invisibile nemico si annida dove non sappiamo, in un piccolo particolare del quotidiano. Chi sta lottando nella malattia testimonia la durezza del cercare il respiro attimo per attimo. Chi sta vivendo l’interruzione del lavoro, di impegni avverte la sospensione dell’aria che dà vita nel venir meno delle risorse, nel pensiero di un futuro incerto e buio.
In questa ricerca di respiro che tutti avvolge indistintamente da origine e cultura, da colore della pelle e appartenenze sociali, da lingua e religione, da condizione di vita ci scopriamo uniti nella medesima umanità e nel legame che ci rende interdipendenti gli uni dagli altri. Un legame che fa avvertire il dolore dell’altro come proprio, la speranza dell’altro come propria, la sofferenza dell’altro come propria. E’ questo forse il respiro della compassione, respiro che è anelito di tanti, di tutti… respiro in cui si fa vicino non il Dio lontano delle religioni e dei sistemi teologici, ma il Dio della vita, il Dio da scrutare nel respiro della terra, nel fiato corto di chi fa più fatica, nel respiro di un’umanità ferita e in ricerca.
Alessandro Cortesi op