1 domenica tempo di Avvento – anno C – 2018
Ger 33,14-16; 1 Tess 3,12-4,2; Lc 21,25-36
Un nuovo anno liturgico, un tempo nuovo, nel segno dell’attesa di una venuta.
“In quei giorni farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia; egli eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra. In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia”.
Nell’immagine di un grande albero è narrata la genealogia di una famiglia. L’albero racchiude la storia di una comunità fatta di volti e nomi: la storia di popoli, con radici nascoste e profonde è la storia di tanti volti intrecciati nel tempo come i rami di un albero. Ogni identità sorge dall’intreccio di relazioni. Geremia vede lo sbocciare di un germoglio dall’albero della famiglia di Davide, il re della pace, il re ricordato da Israele come ideale riferimento di un tempo di benessere e pace. Il germoglio che nascerà dall’albero di Davide porterà un tempo nuovo, una nuova era di pace: è immagine di vita nuova e speranza.
E’ una presenza nuova, l’intervento del Signore nostra giustizia. Giustizia è sinonimo di ‘fedeltà’. Dio rimane fedele alle sue promesse. Il Dio fedele viene a prendere la difesa di chi è senza difesa, vittima dell’ingiustizia. Il suo venire non è quindi da guardare con paura ma è liberazione e salvezza. Per questo il salmo canta: “Ai miseri del suo popolo renderà giustizia, salverà i figli dei poveri, abbatterà gli oppressori. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace” (Sal 72,4.7)
Un seconda immagine è la strada: l’esperienza di fede del popolo di Israele prima e dei discepoli di Gesù sorge sulla strada. Abramo è chiamato a mettersi in cammino verso una terra nuova, Mosè guida Israele nel cammino verso la libertà, nell’esilio Israele scopre la possibilità di una via di ritorno nella gioia. “Fammi conoscere Signore le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Guidami nella tua verità…. Tutti i sentieri del Signore sono verità e grazia” (salmo 24). La strada è simbolo della vita, del tempo. Gesù chiama i suoi a seguirlo lungo la strada. Siamo invitati a riscoprire la Parola di Dio come lampada per i nostri passi e luce alla nostra strada.
Una terza immagine è il giorno. Luca nel discorso sulle ‘realtà ultime’ (cap. 21) utilizza un linguaggio apocalittico. Intende con esso indicare l’intervento di Dio che si comunica nella storia. Apocalisse significa rivelazione: “state bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni… e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso…” (Lc 21)
‘Quel giorno’ non è tanto riferimento ad un tempo cronologico ma ad una azione di Dio: nel Primo Testamento è il ‘giorno del Signore’, attesa del suo intervento nella storia. E’ attesa del ‘giudizio’ di Dio di salvezza in una storia carica di ingiustizie.
Lo stile di vita del discepolo è così descritto: “alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina… vegliate e pregate in ogni momento”. Il discepolo è presentato come persona del giorno, che non si lascia prendere dalla sonnolenza della notte. Sta in piedi, si dà da fare coltivando la speranza. Vive il presente immerso nell’impegno perché già da ora hanno inizio le realtà ultime: oggi è il tempo della salvezza e nel presente viviamo l’attesa di Qualcuno che viene.
Paolo sintetizza i tratti di chi vive la fede nel Signore risorto: “il Signore vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti, come è il nostro amore verso di voi, per render saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”.
Alessandro Cortesi op
Liberazione attesa
Se invece di essere impiccato
vieni sbattuto dentro
per non aver rinunciato a sperare
nel mondo, nel paese, nel popolo,
se devi farti dieci o quindici anni
oltre al tempo che ti rimane,
non dirai,
«Sarebbe stato meglio essere appeso a una corda
come una bandiera»…
Punterai i piedi e vivrai.
Potrebbe non essere esattamente piacevole,
ma è tuo solenne dovere
vivere ancora un altro giorno
per fare dispetto al nemico.
Una parte di te potrebbe sentirsi sola, là dentro,
come un sasso in fondo a un pozzo.
Ma l’altra parte
deve essere così coinvolta
nel vortice del mondo
che ti venga da tremare là dentro
quando fuori, a quaranta giorni di distanza, una foglia si muove.
Aspettare lettere mentre sei dentro,
cantare canzoni tristi,
o stare svegli tutta la notte a fissare il soffitto
è dolce ma pericoloso.
Guardati la faccia tra una rasatura e l’altra,
dimentica la tua età,
stai attento ai pidocchi
e alle notti di primavera,
e ricorda sempre
di mangiare ogni ultimo boccone di pane…
E inoltre non dimenticarti di ridere di cuore.
E chissà,
la donna che ami potrebbe smettere di amarti.
Non dire che non è una gran cosa:
è come un ramo verde spaccato
per l’uomo che è là dentro.
Pensare alle rose e ai giardini fa male,
pensare al mare e alle montagne fa bene.
Leggi e scrivi senza riposo,
e consiglio anche di tessere
e di costruire specchi.
Voglio dire, non è che non si possano passare
dieci o quindici anni dentro
e anche di più…
È possibile
fintanto che il gioiello
nella parte sinistra del tuo petto non perda la sua lucentezza.
Nazim Hikmet (1902-1963), poeta turco, scrisse questa poesia in riferimento alla sua esperienza di perseguitato politico e di prigionia. Per lunghi anni infatti fu prigioniero nel carcere di Bursa in Turchia. La sua poesia richiama al vivere giorno dopo giorno, resistendo al nemico e coltivando la speranza: “dimentica la tua età,… e ricorda sempre/ di mangiare ogni ultimo boccone di pane… “.
Con le sue parole conduce a pensare a tutti coloro che oggi nelle carceri di diversi paesi del mondo sono rinchiusi a causa delle loro idee politiche, o per un lavoro svolto nella promozione dei diritti e della libertà – gli avvocati come Amal Fathy in Egitto, moglie di un consulente legale della famiglia Regeni, gli attivisti di diritti umani, insegnanti e giornalisti oggi in Turchia, o i perseguitati a motivo della loro fede religiosa – si pensi alla vicenda di Asia Bibi in Pakistan – o ancora a causa di una condizione di vita, dell’essere migranti – e il pensiero va alla Libia e alla condizione delle innumerevoli persone imprigionate e torturate oggi nei lager libici nell’indifferenza di un mondo preoccupato di allontanare i perseguitati dalla porta di casa.
Una descrizione di chi oppresso si interroga sulla sua colpa è presentata dalla voce femminile di Dareen Tatour (1982-), poetessa palestinese imprigionata nel 2015 per aver pubblicato sui social media una poesia dal titolo “Resist, my people resist them”, (“Resist, my people, resist them. / Resist the settler’s robbery / And follow the caravan of martyrs.“) e accusata di istigazione alla violenza:
“(…) Non conosceranno mai la loro colpa …
poiché l’amore è il loro crimine
e per gli innamorati, la prigione è il destino.
Ho interrogato la mia anima,
fra dubbio e sbalordimento:
“Qual è il tuo crimine, anima mia?”.
Non lo so ancora.
Ho fatto una cosa sola:
svelare i miei pensieri,
scrivere di questa ingiustizia…
tracciare con l’inchiostro i miei sospiri …
Ho scritto una poesia…
La colpa ha vestito il mio corpo,
dalla punta dei piedi al capo.
Sono una poetessa in prigione,
una poetessa dalla terra dell’arte.
Sono accusata per le mie parole. (…)”
Non è facile alzare il capo nelle condizioni dell’oppressione e guardare alla liberazione futura e vicina. E’ stato questo alzare il capo a nutrire la speranza di coloro che non hanno rinunciato alla loro libertà anche quando attorno a loro tutto imponeva disperazione e degrado. ““alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina…”
Alessandro Cortesi op
Cristo re – anno C – 2019
“Il Signore disse a Davide: tu pascerai Israele mio popolo, tu sarai capo in Israele. Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele dal re in Ebron e il re Davide fece alleanza con loro davanti al Signore ed essi unsero Davide re sopra Israele”
Il 2 libro di Samuele, uno tra i libri storici del Primo testamento narra un passaggio critico nella storia di Israele. Si fa strada poco alla volta, tra le tribù stabilizzate nel sud della Palestina l’esigenza di avere un re, capace di comandare come negli altri popoli. Israele è popolo che ha le sue radici nella fede di Abramo chiamato a partire e ad andare seguendola chiamata di Dio; nell’esodo poi trova l’evento fondante della sua vita nel cammino di liberazione dall’Egitto. Ora in Canaan sorge un nuovo desiderio di avere un re. E’ un passaggio compiuto non senza polemiche e dibattiti. I popoli vicini conoscevano questa forma di governo: gli egiziani, gli hittiti, gli assiri, gli aramei, avevano occupato la scena del mondo medio orientale. Attorno al 1000 a.C. prima Saul poi Davide, in seguito alla sua opera di unificazione delle varie tribù e di organizzazione politica, furono scelti per essere re in Israele dando così inizio al periodo della monarchia.
Ma in Israele il re ha un profilo che lo distanzia dai modelli di capo politici e religiosi di altri popoli. L’unico re di Israele rimane Jahwè: il re non è perciò un capo che possa dominare e tanto meno una presenza divina da adorare e a cui rendere il culto come ad una divinità (si pensi alla figura dei faraoni nel mondo egiziano). Il re è pastore chiamato a guidare il popolo, in rapporto alla voce dell’unico Dio. Per questo il re è unto, investito di un mandato a procurare per tutti la pace e il benessere: in quanto portavoce di Dio dovrà porre innanzitutto attenzione al povero alla vedova e al forestiero, perché Dio si preoccupa dei più indifesi.
Alla figura del re si collega il movimento della speranza che il messia, l’unto che porterà liberazione e pace, sarà proprio un re. I profeti richiameranno contro i re infedeli a questo orizzonte denunciando tutte le situazioni in cui il regno viene inteso come dominio e allontanamento dalla fede in Jahwe.
Quando Gesù viene crocifisso l’accusa politica è quella di essersi fatto re: “i soldati lo schernivano e gli si accostavano per porgergli l’aceto e dicevano: se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso’. C’era anche una scritta sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei.” Al contrario dello scherno dei soldati il malfattore sulla croce accanto a Gesù gli presenta una preghiera: ‘Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno’. Al termine della vita di Gesù, nell’ora della croce, Gesù stesso manifesta come compie in modo paradossale la attesa del regnare di Dio. Gesù sta vicino a persone che sono gli ultimi, due malfattori: tutta la sua vita è stata un andare incontro ad esclusi e marginali. Mentre viene sfidato a porre gesti di potenza spettacolare, Gesù accoglie la preghiera di chi gli chiede ‘ricordati…’. L’ultimo gesto della sua vita è accoglienza e liberazione. Luca fa scorgere come Gesù sia un re diverso: non spadroneggia, non manifesta onnipotenza e forza, ma è inerme. Regna dalla croce. Il suo trono regale è il luogo dell’umiliazione dove vivere la dedizione e il servizio fino alla fine. La sua parola di perdono è parola creatrice: ibera dalla morte e fa entrare nel paradiso, il giardino (termine di origine persiana) dell’incontro con Dio. Il suo regno è dono e va accolto nella responsabilità a scorgere nella storia i segni della sua presenza e del suo crescere.
Alessandro Cortesi op
Un regno diverso e alternativo
“La storia è, per definizione, tanto complessa, così ampiamente strutturata, così terrena da sembrare che possa fare poco rispetto ad essa la fede cristiana, la continuità della vita di un uomo come il Gesù storico. Se Egli finì nel fallimento della croce, per quanto attiene alla sua vita storica, la cosa migliore da fare sembra quella di rinunciare alla salvezza storica per rifugiarsi nella fede della risurrezione, nella salvezza spirituale ed individuale mediante la grazia e il sacramento che assicura una risurrezione, che solo alla fine rappresenterà una salvezza o una condanna della storia. Siffatta attitudine ignora il senso reale della risurrezione e fraintende la missione della Chiesa nei confronti della storia. La risurrezione, infatti, non è il trapianto del Gesù storico in un mondo posto al di là della storia. Non a caso, la risurrezione è espressa nel Nuovo Testamento come la riassunzione da parte di Gesù non tanto del suo corpo mortale quanto della sua vita trasformata; Gesù risorto prolunga la sua vita trasformata oltre la morte e le cose di questo mondo per convertirsi in Signore della storia, precisamente grazie all’incarnazione ed alla morte nella storia. Non abbandonerà mai più la sua carne e, con essa, il suo corpo storico, continuando ad essere vivo in esso affinché, una volta compiuto ciò che ancora manca alla propria passione, si compia anche ciò che manca alla sua risurrezione. Morte e risurrezione storica continuamente ripetendosi finché tornerà il Signore. Lo Spirito di Cristo continua ad essere vivo e ad animare il suo corpo storico come animò il suo corpo mortale e risorto”. (Ignacio Ellacuría, Conversione della Chiesa al Regno di Dio)
Queste parole di Ignacio Ellacuria, uno dei martiri della UCA in Salvador, richiamano al senso profondo del regno di Dio nella predicazione e nella prassi di Gesù: il regno non è promessa di un aldilà che costituirebbe un altro mondo, da attendere dopo le pene di questa storia, con atteggiamento disilluso e passivo di fronte all’ingiustizia e al male presente. Il regno di Dio che Gesù ha annunciato inizia nei suoi gesti di liberazione e guarigione, si rende visibile nella condivisione di mensa con chi è escluso e tenuto lontano dai centri di potere, cresce nella scoperta del sogno di Dio di rapporti nuovi presentato nelle parabole, inizia nella fraternità e sororità di uguali che è la comunità che Gesù ha raccolto attorno a sè. E’ una comunità in cui non c’è dominio e superiorità, ma al centro sono posti i piccoli e la regola è il servizio.
E’ un mondo alternativo a quello pensato per i privilegiati e che esclude i poveri, al mondo in cui si fa la guerra per mantenere il dominio della ricchezza, è il sogno e la reale possibilità di una condivisione di tutti alla medesima tavola della vita per poter ricevere vita gli uni dagli altri, quella vita che proviene dal Dio che vuole la vita delle sue figlie e figli.
Un regno di giustizia e di pace che inizia laddove i rapporti ingiusti sono trasformati in rapporti nuovi, dove il pane distribuito si moltiplica, dove gesti di cura e di accoglienza divengono segni che quel seme sta crescendo ed è nascosto nel terreno quotidiano e ordinario della vita. Come il lievito nella pasta, come un seme nella, terra.
L’annuncio del regno di Dio rinvia quindi ad un aldiqua a cui essere fedeli cercando di lasciare spazio alla forza della risurrezione di colui che ha preso su di sé questa storia e la porta nelle sue ferite. Gesù s’identifica con i crocifissi di questa storia in cui continua la sua passione, presenza che provoca a conversione tutti. Accogliere il suo regno implica accogliere la propria chiamata e responsabilità per trasformare questo mondo scorgendo il volto del crocifisso negli oppressi che chiedono liberazione. Cieli nuovi e terre nuove iniziano ora e quello che sarà, il mondo della risurrezione, non sarà un altro mondo ma questo mondo trasformato nella pienezza di giustizia e di pace, di comunione con il Dio della vita. Orientarsi a questo esige la conversione della chiesa al regno di Dio.
Alessandro Cortesi op