IV domenica di Pasqua anno C – 2016
(Apocalisse: i martiri ricevono la veste candida – affresco Cattedrale di Anagni cripta)
At 13,14.43-52; Ap 7,9.14b-17; Gv 10,27-30
Il passaggio dell’annuncio del vangelo ai pagani costituisce una svolta epocale nella storia del cristianesimo. La predicazione della prima comunità cristiana restò inizialmente entro i confini di comunità giudaiche, percepita come interna ad un gruppo particolare nel quadro dei diversi giudaismi che popolavano il I secolo. Ad un certo punto l’annuncio della fede in Cristo si apre al mondo dei pagani. E’ una svolta nella storia, un evento complesso, carico di implicazioni sino ad oggi e che continua ad interpellarci in vari modi.
La comprensione della figura di Gesù, del suo agire e della sua morte si apre ad orizzonti nuovi. In tale apertura si attua anche una comprensione nuova del disegno di Dio. In tutto il Primo Testamento, l’alleanza aveva il tratto di dono di salvezza per tutti i popoli attraverso la chiamata unica di Israele. La scelta di Paolo e Barnaba è in continuità con la fede ebraica, ne risulta un approfondimento: è ispirata dal coraggio che la Parola di Dio suscita e sorge dalla fedeltà ad essa. Ma è presente anche un contrasto, una prima rottura che pesa sulla storia successiva.
“Paolo e Barnaba ad Antiochia di Pisidia con franchezza dichiararono: ‘Era necessario che fosse annunziata anche a voi (ebrei) la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani”.
Paolo e Barnaba rivolgono l’annuncio ad Israele che mantiene un ruolo fondamentale nella storia della salvezza. Questa apertura di universalità trae radice nelle benedizioni di Dio non solo per Israele ma per tutte le nazioni. La stessa chiamata fondamentale per Israele è quella di essere il tramite di un dono di salvezza e di vita che progressivamente coinvolga i popoli e le genti straniere. Il popolo d’Israele sorge da una scelta gratuita quando era vittima e oppresso. Vive una elezione originaria finalizzata non ad un privilegio, ma ad un servizio per tutti i popoli. In Isaia la benedizione è rivolta al popolo degli egiziani e degli assiri: “Benedetto sia l’Egiziano, mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità” (Is 19,25). Il salmo 87 invita a vedere tutti i popoli della terra come cittadini a pieno titolo della città santa: “L’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la tiene salda. Il Signore scriverà nel libro dei popoli: Là costui è nato” (Sal 87,4-6).
Ad Antiochia si attua una svolta che trova il suo fondamento nel disegno di Dio richiamato dalla citazione di Is 49,6: ‘Ti ho posto come luce delle nazioni, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra’. La figura del servo di Jahwè è vista come presenza di luce, inviato per un annuncio sino ai confini della terra, oltre i limiti dell’appartenenza ad un popolo o ad una religione.
Le parole di Paolo e Barnaba sono indicazione dell’apertura propria della Parola contro tutte le forme di religiosità che intendono chiuderla. L’incontro con Dio sta oltre le costruzioni e strutture religiose umane.
Paolo e Barnaba ad Antiochia fanno esperienza di come la parola di Dio sia fonte di gioia e di forza. Il loro discorso è compiuto con coraggio, attitudine della libertà del credente anche nelle difficoltà: i pagani si rallegravano e glorificavano la parola di Dio… i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito santo. L’apertura dell’annuncio ai pagani è opera dello Spirito che conduce a vivere la gioia e la serenità profonda anche nelle momento della prova.
Questo itinerario offerto a tutti trova espressione nell’immagine del gregge e del pastore: “le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano”. Nella parte iniziale della similitudine Gesù parla di altre pecore: ‘E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore’ (Gv 10,16-17)
‘Vita eterna’ non è realtà lontana e distante. Indica piuttosto la risposta alla sete più profonda che ogni persona porta nel cuore: il desiderio di essere accolti e amati, di vivere la pace nell’incontro, con Dio fonte della vita.
La pagina dell’Apocalisse presenta la visione di una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare. Il dono di salvezza non è per pochi ma abbraccia ogni nazione, razza popolo e lingua. “Tutti stavano in piedi davanti al trono e all’agnello, avvolti in vesti candide e portavano palme nelle mani”. La moltitudine tiene tra le mani il segno della vittoria: tutti costoro sono i testimoni che hanno vissuto la fatica della prova, la tribolazione, e provengono da ogni direzione. Il testo reinterpreta il salmo 23, canto rivolto a Dio come pastore d’Israele. “L’agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti della vita”. La visione si chiude con una parola di consolazione: “Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi”.
La presenza di Cristo risorto, agnello inerme e donato, apre ad una comunione nuova che si estende a comprendere tutta l’umanità. Per la prima comunità cristiana il vangelo è forza che apre speranza di vita per tutti.
Alessandro Cortesi op
Coraggio
Una notizia di questi ultimi giorni è che la rivista americana ‘Fortune’ ha inserito il nome di Domenico Lucano, sindaco di Riace, tra i 50 leader più influenti del mondo attuale. La presenza di questo nome è dovuta alle scelte politiche e alle attuazioni svolte nel paese di Riace in Calabria, al cuore della Locride, paese colpito dal fenomeno dello spopolamento, in una zona tristemente nota per il controllo delle ‘ndrine della ‘ndrangheta locale. Domenico Lucano ha perseguito un progetto di apertura e di speranza. L’arrivo di stranieri, profughi e rifugiati a causa delle migrazioni non è stato visto come problema da cui difendersi ma come opportunità per pensare un futuro nuovo per un borgo a rischio spopolamento. Su circa duemila residenti la popolazione degli immigrati è divenuta in pochi anni di alcune centinaia di persone.
Il paese luogo di presenza dell’antica cultura greca con i famosi bronzi di Riace – portati anch’essi lontano – si è trasformato negli ultimi quindici anni in un paese di accoglienza di etnie, tradizioni, culture, lingue diverse. Le case lasciate vuote da chi se n’andava trovavano nuova possibilità di utilizzo quale accoglienza per le famiglie di rifugiati.
Alcuni simboli ricordano l’orientamento di fondo di un progetto che mira a dare vita nuova con la valorizzazione dell’artigianato, di forme nuove di lavoro, di valorizzazione del turismo e dell’accoglienza. Nella piazza principale una porta “africana” ricorda il rapporto con l’Africa. In un’aiuola una sagoma nera di donna rinvia alle statuette tribali e indica la speranza.
Riace si è così trasformata in un paese in cui una nuova società è andata formandosi con presenza di attività artigianali di somali, afghani, nigeriani con promozione di lavori sociali, di nuove attività commerciali e con l’arricchimento della scuola per la presenza di nuovi bambini, e nella presenza di volti di origini diverse e di religioni diverse. A Riace l’accoglienza di uomini, donne, famiglie di altri paesi è divenuta così occasione di lotta alle mafie locali e promozione di lavoro e di vita sociale.
La progettualità sostenuta da Mimmo Lucano si pone in una linea di coraggio e di libertà: “questo modello si basa su un’economia solidale, sui valori di sostegno reciproco della civiltà contadina. Inoltre penso che abbiamo una responsabilità verso quei Paesi del sud del mondo a lungo depredati dall’Occidente. Per questo ospitare chi fugge dall’Africa è un dovere”.
L’azione di Domenico Lucano riconosciuta a livello internazionale è una parabola laica del ‘coraggio’ di annunciare la Parola, quel coraggio che portava ad aprire la possibilità che la Parola si diffondesse oltre i confini chiusi di appartenenze, di sistemi culturali o religiosi. La parresia di Paolo e Barnaba è forse riconoscibile oggi in queste scelte di coraggio che aprono possibilità di convivenza nuove, che respirano la libertà di realizzare una società nuova, in contrasto a tanta aria irrespirabile di rifiuto, chiusura e violenza che sta diffondendo. La parresia è la franchezza di scelte di libertà che aprono vie al diffondersi di quella Parola che è per la vita delle persone: ‘Ti ho posto come luce delle nazioni, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra’.
Alessandro Cortesi op
IV domenica di Pasqua – anno C – 2022
At 13,14.43-52; Ap 7,9.14b-17; Gv 10,27-30
Ad Antiochia di Pisidia Paolo e Barnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. ». La scelta di Paolo e Barnaba è in continuità con la fede ebraica ed approfondimento di essa: è ispirata dal coraggio che la Parola di Dio suscita e sorge da tale fedeltà. L’annuncio della Parola si apre così al mondo dei pagani. E’ un decisivo punto di svolta. Ad Antiochia tale passaggio trova il suo fondamento nell’annuncio profetico: Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra” (Is 49,6). Il servo di Jahwè è presenza di luce che porta la salvezza oltre i limiti dell’appartenenza ad un popolo o ad una religione. Le parole di Paolo e Barnaba sono dono di un messaggio di salvezza ed insieme critica a tutte le religioni che rinchiudono e non accolgono il disegno di Dio che va oltre le costruzioni e strutture religiose umane. Indicano così l’orizzonte della fede nella promessa di Dio. La scelta di universalità affonda le sue radici nelle benedizioni di Dio per Israele e per tutte le nazioni. Paolo e Barnaba ad Antiochia sperimentano che la parola di Dio è fonte di gioia e di forza. Le loro scelte sono condotte con il coraggio, la franchezza che deriva dalla fede. Pur tra le difficoltà “i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito santo”. L’apertura dell’annuncio ai pagani è opera dello Spirito che conduce a vivere la gioia e la serenità profonda anche nel momento della prova.
L’immagine del gregge e del pastore al cuore della pagina del vangelo offre una declinazione di questo messaggio di apertura. Gesù parla di coloro a cui è inviato con l’immagine delle pecore. C’è un rapporto di ascolto e di intimità unico: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Ma l’orizzonte a cui Gesù guarda è sempre più vasto e va oltre ogni chiusura. Queste parole vanno intatti accostate alla parte iniziale della similitudine del pastore: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore” (Gv 10,16-17)
La cura del pastore sta nel poter dare loro la vita eterna: nel linguaggio giovanneo ‘vita eterna’ non è qualcosa di fumoso ed estraneo all’esistenza ma indica la risposta alla sete più profonda di vita che ogni persona porta nel cuore. Vita eterna significa essere accolti e amati, sperimentare la comunicazione e la pace nell’incontro con Dio – fonte della vita -. Nell’incontro con Gesù questo dono fa sorgere possibilità di rapporti nuovi con gli altri. Per questo la vita eterna inizia sin dal presente di color che accolgono la parola di Gesù, ed accolgono il dono dell’incontro con lui che si attua nel conoscerlo.
La pagina dell’Apocalisse testo profetico di annuncio della fede in un tempo di prova e persecuzione presenta la visione di una moltitudine immensa. Il dono di salvezza abbraccia ogni popolo. “Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani”. E’ questa la moltitudine di coloro che hanno vissuto la prova, provengono da ogni dove e hanno tra le mani i segni della vittoria sul male. Sono volti di una moltitudine che ha sofferto ed è stata vittima della violenza. Segue una reinterpretazione del salmo 23, rivolto a Dio come pastore d’Israele. La visione termina con una parola di speranza e di consolazione: “Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”.
La presenza di Cristo risorto, indicato nella figura dell’agnello ferito e in piedi, è al centro di una comunione che si estende a comprendere tutta l’umanità condotta alle sorgenti della vita, quando Dio stesso asciugherà ogni larcima. La sua presenza apre speranza di vita per tutti.
Alessandro Cortesi op
Ascolto dello Spirito
“La chiesa sinodale è chiesa dell’ascolto”. Si tratta di prestare un ascolto aperto a quello che lo Spirito Santo sta suggerendo alle chiese in questo momento.
In un orizzonte di ascolto la sinodalità non è frutto di una invenzione ma accoglienza di un dono e della dimensione della chiesa come popolo di Dio che proprio lo Spirito fa riscoprire. Ed è popolo di Dio in cammino verso il regno. “La forma e lo stile snodale della chiesa scaturiscono da questo ascolto dello Spirito che passa attraverso l’ascolto reciproco di tutti” (M.Grech, Momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale 9 ottobre 2021). Queste indicazioni sono state presentate da Mario Grech, segretario generale del sinodo, quando ha sottolineato che la fase cosiddetta preparatoria è parte integrante del processo sinodale e non è solo una parte decorativa e accessoria.
Ascoltare lo Spirito: questa è stata l’attitudine dei primi discepoli, capaci di accogliere aperture inedite a fronte di un ascolto dello Spirito nella vicenda storica e umana.
Dopo secoli di cristianesimo la fatica da intraprendere nuovamente consiste nel lasciare spazio a tale ascolto. Ben altre direzioni hanno segnato i percorsi delle chiese. Ha per lo più dominato l’indirizzo di inseguire le logiche del potere politico e culturale: la sua affermazione con un ruolo di potere ha condotto a privilegiare gli aspetti di stabilizzazione, di strutturarsi quale istituzione guida della società, tralasciando la fatica di un ascolto che sempre pone in movimento, apre all’inquietudine, fa accogliere chi è ai margini, spinge a nuovi passaggi. Si è perduta la consapevolezza e l’esperienza della provvisorietà insieme alla disponbilità a rispondere ad un’azione che viene da Dio stesso:
«Solo Dio può generare qualcuno che possa partecipare alla sua vita. Allora la domanda che dobbiamo farci non è: come farà la Chiesa a suscitare nuovi cristiani? Quali strategie pastorali dovrà essa adottare per diventare più efficace? […] Dobbiamo invece porci su un altro piano: cosa accade fra Dio egli uomini e le donne che vivono all’alba di questo secolo? Quali percorsi prende Dio per incontrarsi con essi e farli nascere alla sua vita? E quindi cosa chiede alla Chiesa di cambiare, trasformare nella sua maniera tradizionale di credere e vivere, per assecondare quell’incontro?» (Henri Derroitte, Iniziazione e rinnovamento catechetico. Criteri per una rifondazione della catechesi parrocchiale, in ID. (ed.), Catechesi e iniziazione cristiana, Elledici, Torino 2006, 53).
Questo passaggio è particolarmente difficile oggi perché siamo eredi di una storia in cui la chiesa è stata portatrice di una situazione del cristianesimo divenuto religione culturale: la condizione di cristianità ha segnato molti secoli in cui il cristianesimo costituiva il quadro di riferimento universale e la chiesa si identificava con l’istituzione alla guida di un mondo culturale religioso e cristiano.
Una religione culturale si connota come unica opzione culturale per una società e non può ammettere la presenza di altre religioni o di altre convinzioni: da qui gli atteggiamenti di discriminazione e persecuzione delle minoranze e delle altre tradizioni religiose.
Tale orientamento ha trovato un primo passaggio di crisi nella rottura della cristianità dopo la riforma protestante: si è manifestata una divisione che poneva diversi riferimenti secondo il principio del cuius regio eius et religio.
Ma soprattutto dopo la rivoluzione francese con la rivendicazione della libertà e la progressiva secolarizzazione della cultura emerge un nuovo tipo di società in cui il cristianesimo non costituisce più la religione culturale ma si delinea un modo di vivere in cui convivono diversi orientamenti religiosi e non, con la presenza di convinzioni non religiosamente ispirate. In Europa particolarmente. Noi siamo posti nel tempo di questa transizione che attraversa i secoli nella storia dell’occidente ed già era stato intravisto nella riflessione dei padri al Concilio Vaticano II quale passaggio storico decisivo da una cultura religiosa ad una cultura secolarizzata.
Come osserva Joseph De Kesel cardinale di Bruxelles nel suo libro Foi et religion dans une société moderne (Salvator, Paris 2021,49): “la cultura moderna offre un quadro che ci consente di vivere insieme nel rispetto della libertà di ciascuno. Se la libertà appartiene ai diritti fondamentali di ogni essere umano e di ogni cittadino, questo diritto vale anche per il mio prossimo e concittadino che è differente da me. In una società moderna e democratica, i poteri pubblici garantiscono questa libertà ad ogni cittadino e ad ogni minoranza. Tutti devono rispettare queste regole. Non sono i precetti religiosi a garantire la vita nella società”.
Benché questa situazione di secolarizzazione non possa divenire una sorta di religione alternativa – che sostituisce e riempie il vuoto del venir meno delle religioni – tuttavia è un quadro culturale nuovo e diverso rispetto a secoli passati. E’ bene infatti a tal proposito distinguere secolarizzazione da secolarismo. La fede cristiana non è più l’opzione della cultura stessa e si pone accento sull’importanza della libertà che è fondamentale anche per l’atto stesso della fede. La condizione di secolarizzazione diviene così occasione per vivere pienamente questa situazione di libertà del credere di uscire dalla condizione in cui la fede veniva identificata con il riferimento culturale unico di una società.
La domanda che si pone quale sfida rilevante oggi è come imparare ad essere chiesa in questa situazione che implica un cambiamento profondo di mentalità ed insieme una riforma che investa i modi di vivere e trasmettere la fede ed anche le strutture di chiesa.
Alessandro Cortesi op