XI domenica del tempo ordinario – anno B – 2021

Ez 17,22-24; 2Cor 5,6-10; Mc 4,26-34
“Un ramoscello dalla cima del cedro… lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto imponente… metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno… Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore”.
Il profeta Ezechiele, nel tempo del disastro e della dispersione, cioè in quel passaggio devastante della storia d’Israele che fu l’esilio, indica con un’immagine vegetale la cura continua di Dio per il popolo dell’alleanza proprio nel momento in cui più si sperimenta la fragilità e la piccolezza. La dinastia di Davide è infatti il ramoscello di cedro che Dio stesso prenderà e pianterà sopra un monte alto. E l’agire del Dio che prende le parti di chi è piccolo e vittima genera una storia diversa, una crescita inaudita, una possibilità di accoglienza smisurata per tutti gli uccelli del cielo. Il messaggio che il profeta offre nella desolazione è in linea con l’intero percorso della storia della salvezza. Il Dio dell’alleanza è colui che ascolta il grido dell’oppresso, si è chinato su Israele non perché più forte o privilegiato tra i popoli, ma perché oppresso in Egitto, nella schiavitù, continua a prendersi cura scegliendo i piccoli e il suo rivelarsi è per un progetto di accoglienza e di vita. Così come l’immagine del ramoscello che diviene grande albero esprime. Mentre nessuna speranza appare dal punto di vista umano lo sguardo di Dio si posa sul più piccolo dei ramoscelli per aprire una storia nuova, dove sia possibile trovare dimora per tanti. E’ una promessa di una realtà nuova di ospitalità, di incontro, e in essa, di scoperta del volto di Dio che guarda non alle apparenze ma al cuore e sceglie i piccoli per accompagnare a scoprire che ‘Io sono il Signore’.
Anche Gesù usa riferimenti alla coltivazione per parlare del regno di Dio, cuore del suo annuncio. Le due parabole del vangelo offrono l’indicazione di immagini in cui scoprire da parte di chi ascolta che la propria vita è coinvolta. Innanzitutto l’immagine dell’uomo che getta un seme nel terreno. Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme… dorma o veglia, di notte o di giorno il seme germoglia e cresce”. Gesù esprime la forza dirompente di vita che sta dentro ad un piccolo seme: il gesto del seminare, ben conosciuto da chi l’ascoltava, indica innanzitutto che la presenza di Dio non è lontana ma vicina alla vita. In secondo luogo fa scorgere la sproporzione tra una piccolezza iniziale e l’ampiezza della mietitura. Quel gesto in perdita della semina si apre ad una crescita di vita che Gesù vede in atto nel suo annuncio, negli inizi di una fecondità di vita nuova.
La seconda parabola richiama l’immagine del granello di senapa, il più piccolo di tutti i semi. Questa estrema piccolezza fa da contrasto con ciò che diventa, “più grande di tutte le piante dell’orto”. E su questo albero ancora un’immagine di protezione e di accoglienza: gli uccelli del cielo possono fare il nodo alla sua ombra. Dal piccolo seme all’ombra del grande albero, dall’insignificanza di realtà trascurabile al dono di vita allargato. Con un particolare importante: Gesù indica l’albero che cresce dal granello di senapa come la pianta più grande dell’orto. Non si tratta di qualcosa di lontano ed estraneo alla vita, ma è lì, piccola cosa nell’orto di casa e può diventare grande: è l’appello al cuore della parabola. L’incontro con Dio vicino, la possibilità di entrare nel regno, il suo disegno di vita condivisa e nell’accoglienza ospitale non sta chissà dove, non è realtà di un aldilà che non ha che fare con la terra ma è alla portata di mano, nell’orto di casa, nella zolla di terra di un quotidiano in cui scoprire un dono che genera risposta e responsabilità.
Alessandro Cortesi op

Crisi, catastrofe, riforma: alla ricerca del regno di Dio
La lettera di risposta del papa alle dimissioni presentate dal card. Reihnardt Marx è un testo di grande intensità umana e spirituale. Come del resto la lettera di presentazione di dimissioni di Marx costituisce un documento di grande rilevanza di sincerità, chiarezza e coraggio di fronte alla situazione della chiesa cattolica di questo tempo.
Riprendere alcuni passaggi di questo dialogo può essere importante per cogliere come la crisi che attraversa la chiesa è oggi luogo che interpella profondamente a ripensare modi di annuncio del vangelo, la strutturazione della vita comunitaria, itinerari di formazione personale e comunitaria. Più profondamente è provocazione a cambiare e ripensare la forma dell’essere chiesa quale testimonianza del vangelo in questo tempo, riconoscendo errori, autentici reati e scandali, complicità e connivienze con situazioni di peccato, ed anche scorgendo le vie per lasciar crescere la realtà del regno presente già e all’opera. Le scandalose contraddizioni vanno denunciate e si deve fare di tutto per eliminarle, aprendosi ad una storia di salvezza che non si esaurisce entro i confini stabiliti delle istituzioni ecclesiali riconoscibili.
Si deve ricordare che il sinodo tedesco è stato indetto al seguito di una situazione di profonda crisi generata dallo scandalo degli abusi perpetrati da chierici nei confronti dei minori. Lo scandalo vide il suo momento eclatante nel 2010, e da qui è maturata l’idea della convocazione di un sinodo. La conferenza episcopale ha affidato a ricercatori di tre diverse università un’inchiesta sugli abusi perpetrati in ambienti ecclesiali ed essa ha avuto quale esito la rilevazione di 3677 vittime e di 1670 abusatori preti o religiosi tra il 1996 e il 2014 equivalenti al 4,4% dei chierici (Vatican insider, Germania, uno studio rivela: oltre 3mila casi di abusi nella Chiesa in settant’anni, 12 settembre 2018 in: https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2018/09/12/news/germania-uno-studio-rivela-oltre-3mila-casi-di-abusi-nella-chiesa-in-settant-anni-1.34044482).
Ludwig Schick, dal 2002 arcivescovo di Bamberga, relatore alla prima assemblea sinodale sul tema degli abusi ha delineato la situazione del presente in questi termini: “La differenza fondamentale è su quali siano le cause della crisi. Alcuni dicono che la radice è interna alla Chiesa: il celibato, il non accesso delle donne al diaconato e al sacerdozio, lo scandalo degli abusi sessuali e finanziari. Altri invece affermano: no, le cause sono la secolarizzazione, il consumismo, l’individualismo, le scienze che mettono in discussione la nostra dottrina. Gli esponenti di questa opinione sostengono che quindi è necessaria una nuova evangelizzazione, un nuovo modo di annunciare il Vangelo, un nuovo dialogo con il mondo scientifico, forse una differente forma della Chiesa, ma in senso tradizionale, ottimizzando le strutture che ci sono. Gli altri invece ritengono che per uscire dalla crisi va introdotta una nuova forma della Chiesa con, ad esempio, il sacerdozio femminile, la democrazia nel governo della Chiesa con un maggior controllo del potere dei sacerdoti. Ci sono poi posizioni più sfumate, ma sostanzialmente sono queste le due dominanti, che propongono soluzioni differenti. E al momento non so come possiamo uscire da questa situazione” (intervista a Avvenire del 2 febbraio 2020 https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/non-siamo-rivoluzionari-vogliamo-vincere-la-crisi).
Il periodo della pandemia ha costretto a far procedere i lavori a distanza nella struttura<ione di quattro Forum tematici (potere e divisione dei poteri nella Chiesa; la vita del prete oggi; le donne nei ministeri e nelle funzioni della Chiesa; vivere in relazioni riuscite: vivere l’amore nella sessualità e nella vita di coppia) e nell’Assemblea plenaria. Vi è stata possibilità per manifestare e dare rappresentanza ad espressioni diverse talvolta conflittuali sui temi oggetto di discussione. Tra i Forum quello sul potere e la divisione dei poteri nella Chiesa ha già presentato un testo durante la Conferenza online dei delegati al Cammino Sinodale tenutasi nel mese di febbraio 2021 in sostituzione della prevista Assemblea plenaria spostata all’autunno. Ogni gruppo per quella data dovrà presentare un testo base su cui prendere decisioni condivise. Nella conferenza vi è stata la possibilità di ascoltare la voce dei rappresentanti del Consiglio delle vittime che accompagna la Conferenza episcopale tedesca nell’elaborazione dei casi di violenza e abuso, un contributo molto forte che ha suscitato grande impressione. Uno dei nodi in discussione è la proposta di introdurre procedure democratiche per la gestione del potere nella chiesa locale: su questo osserva il teologo Marcello Neri “la riserva va piuttosto cercata nella crisi contemporanea della democrazia, ossia nei suoi stessi limiti procedurali mediante i quali essa può arrivare a negarsi. In questo momento la democrazia potrebbe ancora offrire forme e regole per un esercizio non abusivo del potere, ma non ha più la forza per garantire tutto ciò – o, almeno, non sembra di essere in grado di farlo da sé a prescindere dalle persone che ne fanno uso” (Il cammino sinodale della chiesa tedesca, “Settimananews” 9 febbraio 2021 http://www.settimananews.it/chiesa/il-cammino-sinodale-della-chiesa-tedesca/).
I temi che vedono una apertura ed un consenso vasto riguardano il sacerdozio femminile, la introduzione di maggiore democrazia nel governo della Chiesa con forme di controllo del potere dei preti, la questione delle benedizioni alle coppie omosessuali, l’ospitalità eucaristica.
In tale quadro interessante è lo scambio delle lettere tra il cardinale Reinhardt Marx del 21 maggio 2021 (https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/germania-cardinale-marx-presenta-le-dimissioni-al-papa) e papa Francesco: Reinhardt Marx rileva una situazione di crisi che interpella e non può essere nascosta e coperta, ma esige scelte di riforma: scrive Marx: Mi pare – e questa è la mia impressione – di essere giunti ad un ‘punto morto’ che, però, potrebbe diventare anche un punto di svolta secondo la mia speranza pasquale” E ancora: Sostanzialmente per me si tratta di assumersi la corresponsabilità relativa alla catastrofe dell’abuso sessuale perpetrato dai rappresentanti della Chiesa negli ultimi decenni. Le indagini e le perizie degli ultimi dieci anni mi dimostrano costantemente che ci sono sati sia dei fallimenti a livello personale che errori amministrativi, ma anche un fallimento istituzionale e ‘sistematico’. Le polemiche e discussioni più recenti hanno dimostrato che alcuni rappresentanti della Chiesa non vogliono accettare questa corresponsabilità e pertanto anche la co-colpa dell’Istituzione. Di conseguenza rifiutano qualsiasi tipo di riforma e innovazione per quanto riguarda la crisi legata all’abuso sessuale”. Dopo aver detto che l’unica via per uscire dalla crisi è quella di tipo sinodale così scrive: “Personalmente avverto la mia colpa e la corresponsabilità anche attraverso il silenzio, le omissioni e al troppo peso dato al prestigio dell’Istituzione (…) A seguito del progetto scientifico (studio MHG) sull’abuso sessuale sui minori commissionato dalla Conferenza Episcopale Tedesca nel duomo di Monaco ho affermato che abbiamo fallito, ma chi è questo ‘noi’? Certamente vi faccio parte anch’io. E questo significa che devo trarre delle conseguenze personali”.
Nella sua risposta Francesco (testo della lettera in traduzione italiana in http://www.settimananews.it/chiesa/lettera-marx-dimissioni-rifiutate/) ha respinto questa rinuncia ma lo ha fatto con toni di profonda sintonia e percezione della crisi. Egli scrive: “grazie per il tuo coraggio. È un coraggio cristiano che non teme la croce (…) Sono d’accordo con te nel definire catastrofe la triste storia degli abusi sessuali e il modo di affrontarlo che ha adottato la Chiesa fino a poco tempo fa. Rendersi conto di questa ipocrisia nel modo di vivere la fede è una grazia, è un primo passo che dobbiamo compiere. Dobbiamo farci carico della storia, sia personalmente sia comunitariamente. Non si può rimanere indifferenti dinanzi a questo crimine. Accettarlo presuppone entrare in crisi”.
E continua richiamando al tema dell’esigenza ineludibile di una riforma e d’altra parte seguendo Gesù: “Ci viene chiesta una riforma, che – in questo caso – non consiste in parole, ma in atteggiamenti che abbiano il coraggio di entrare in crisi, di accettare la realtà qualunque sia la conseguenza. E ogni riforma comincia da sé stessi. La riforma nella Chiesa l’hanno fatto uomini e donne che non hanno avuto paura di entrare in crisi e lasciarsi riformare dal Signore. È l’unico cammino, altrimenti non saremo altro che “ideologi di riforme” che non mettono in gioco la propria carne. Il Signore non ha mai accettato di fare “la riforma” (mi si permetta l’espressione) né con il progetto fariseo, né con quello sadduceo o zelota o esseno. Ma l’ha fatta con la sua vita, con la sua storia, con la sua carne sulla croce. E questo è il cammino, quello che tu, caro fratello, accetti nel presentare la rinuncia”.
Nel testo originale in lingua spagnola (https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2021/06/10/0372/00815.html) la parola ‘riforma’ risulta sottolineata. La conclusione della lettera è un appello peno di affetto a continuare nella sua difficile missione: “se ti viene la tentazione di pensare che, nel confermare la tua missione e nel non accettare la tua rinuncia, questo vescovo di Roma (fratello tuo che ti vuole bene) non ti capisce, pensa a quello che sentì Pietro davanti al Signore quando, a modo suo, gli presentò la rinuncia: “allontanati da me che sono un peccatore”, e ascolta la risposta: “Pasci i miei agnelli”.
Alessandro Cortesi op
XXV domenica del tempo ordinario – anno B – 2021
Sap 2,12.17-20; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37
La vita del giusto costituisce un impedimento e silenziosa denuncia dell’ingiustizia e della disonestà degli empi. Per questo c’è chi trama per eliminarlo “perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni”. Il libro della Sapienza fissa questa vicenda che non è solo quella osservata dall’autore di questo libro biblico nel I secolo a.C., ma costituisce la vicenda di sempre, dell’opposizione da parte di chi detiene poteri e privilegi a chi lotta per la giustizia. La sfida è radicale: “vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio egli l’assisterà, e lo libererà dalle mani dei suoi avversari”.
Nella lettera di Giacomo la sapienza è contrapposta alle guerre e alle liti generate dalla brama di possesso, dalla ricerca di dominio e dall’invidia. Per contro la sapienza che viene dall’alto ha caratteri diversi e contrari: costruisce pace, è mite, non è aggressiva. Questo genere di sapienza non si limita ad una dimensione intellettuale ma si traduce in scelte di vita, in uno stile che porta a costruire la pace. La giustizia è come un frutto che sorge dall’albero buono della vita di chi promuove la pace. Via della sapienza – dice la lettera di Giacomo – è tessere riconciliazione, lottare contro ogni soluzione di violenza e di guerra per aprire vie diverse del convivere umano.
Nel vangelo Marco presenta Gesù nel suo cammino verso la croce, nel suo essere ‘consegnato’, e subire umiliazione e condanna rimanendo solo. Ma ‘dopo tre giorni risusciterà’: quella vita che agli occhi degli uomini è fallimentare, trova la conferma del Padre che lo risuscita al terzo giorno. Sulla strada Gesù accompagna i suoi a comprendere il senso del suo cammino. Ai dodici chiede chi è il più grande ed spiega il suo modo di comprendere i rapporti e la vita : “se uno vuol essere il primo sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti. E preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: ‘Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.
Gesù ribalta le prospettive sul ‘più grande’. Non intende la grandezza secondo le logiche del potere, del denaro, dei ruoli ma indica il criterio decisivo dell’accoglienza: chi accoglie il più piccolo e si pone a servizio è grande agli occhi del Padre. Il bambino che Gesù pone in mezzo, al centro, è figura paradigma per tutti coloro a cui non sono riconosciuti diritti e sono ritenuti piccoli, senza importanza. Gesù pone al centro i senza diritti, le vittime di un sistema sociale che scarta ed elimina i più deboli e indica che solo nell’esperienza concreta dell’accogliere si può comprendere chi è il più importante allo sguardo di Dio. Chiede così ai suoi di seguire lui, il figlio, che si è fatto servo, sulla via della croce. E così indica che accogliere i piccoli e le vittime è entrare nel cammino per incontrare il Padre.
Alessandro Cortesi op
Chi accoglie uno di questi bambini…
Raccolgo alcune parole che papa Francesco ha pronunziato nel suo recente breve viaggio in Ungheria e Slovacchia, carico di simboli sia per i luoghi visitati, sia per i gruppi e le persone a cui ha dato spazio nei suoi incontri.
La visita è iniziata con l’incontro con il presidente a Budapest e con il premier Orbàn, fautore di una chiusura sovranista, teorizzatore di una democrazia illiberale che rifiuta principi fondamentali dello stato diritto, assertore di posizioni razziste e difensore di un cristianesimo scambiato come appartenenza culturale, a cui si riferisce in modo identitario per giustificare il rifiuto dei migranti. Lo stesso premier ha regalato al papa copia di una lettera del re Bela IV a Papa Innocenzo IV (1250), in cui chiedeva aiuto per respingere la minaccia dei tartari che da Oriente minacciavano l’Ungheria cristiana e gli ha chiesto “di non lasciare che l’Ungheria cristiana perisca”. E’ da tener presente che in Ungheria le poltiiche di Orbàn di rifiuto dei rifugiati e di chiusura ai migranti è condivisa da alcuni vescovi.
Parlando ai vescovi il 12 settembre Francesco ha offerto elementi di una risposta alle sollecitazioni ricevute dal premier Orban e riprendendo il tema delle radici ha detto: “custodire le nostre radici religiose, custodire la storia da cui proveniamo, senza però restare con lo sguardo rivolto indietro: guardare al futuro, guardare avanti e trovare nuove vie per annunciare il Vangelo (…) Il vostro Paese è luogo in cui convivono da tempo persone provenienti da altri popoli. Varie etnie, minoranze, confessioni religiose e migranti hanno trasformato anche questo Paese in un ambiente multiculturale. Questa realtà è nuova e, almeno in un primo momento, spaventa. La diversità fa sempre un po’ paura perché mette a rischio le sicurezze acquisite e provoca la stabilità raggiunta. Tuttavia, è una grande opportunità per aprire il cuore al messaggio evangelico: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Davanti alle diversità culturali, etniche, politiche e religiose, possiamo avere due atteggiamenti: chiuderci in una rigida difesa della nostra cosiddetta identità oppure aprirci all’incontro con l’altro e coltivare insieme il sogno di una società fraterna”.
L’appello finale è stato centrato sull’invito a costruire ponti di dialogo in questo tempo e coltivare accoglienza:
“Sopra il grande fiume che attraversa questa città si staglia l’imponente Ponte delle Catene: sostituì un fragile ponte di legno e servì a unire Buda e Pest. Se vogliamo che il fiume del Vangelo raggiunga la vita delle persone, facendo germogliare anche qui in Ungheria una società più fraterna e solidale, abbiamo bisogno che la Chiesa costruisca nuovi ponti di dialogo. Come Vescovi, vi chiedo di mostrare sempre, insieme ai sacerdoti e ai collaboratori pastorali, il volto vero della Chiesa: è madre. È madre! Un volto accogliente verso tutti, anche verso chi proviene da fuori, un volto fraterno, aperto al dialogo.”
Nell’incontro ecumenico a Bratislava la sera di domenica 12 settembre, in un discorso in cui ha richiamato Dostojevski e la leggenda del grande inquisitore ed una poesia che viene imparata nelle scuole, Francesco ha invitato a condividere la carità: “Condividere la carità apre orizzonti più ampi e aiuta a camminare più spediti, superando pregiudizi e fraintendimenti. Ed è anch’esso un tratto che trova genuina accoglienza in questo Paese, dove a scuola s’impara a memoria una poesia, che contiene, tra gli altri, un passaggio molto bello: «Quando alla nostra porta bussa la mano straniera con sincera fiducia: chiunque sia, se viene da vicino oppure da lontano, di giorno o di notte, sul nostro tavolo ci sarà il dono di Dio ad attenderlo» (Samo Chalupka, Mor ho!, 1864). Il dono di Dio sia presente sulle tavole di ciascuno perché, mentre ancora non siamo in grado di condividere la stessa mensa eucaristica, possiamo ospitare insieme Gesù servendolo nei poveri. Sarà un segno più evocativo di molte parole, che aiuterà la società civile a comprendere, specialmente in questo periodo sofferto, che solo stando dalla parte dei più deboli usciremo davvero tutti insieme dalla pandemia”.
Nell’incontro con la comunità ebraica a Bratislava il papa ha iniziato la riflessione a partire dal luogo in cui trovavano, la piazza sede del quartiere ebraico e memoria delle persecuzioni “La piazza dove ci troviamo è molto significativa per la vostra comunità. Mantiene vivo il ricordo di un ricco passato: è stata per secoli parte del quartiere ebraico; qui ha lavorato il celebre rabbino Chatam Sofer. (…) In seguito, però, il nome di Dio è stato disonorato: nella follia dell’odio, durante la seconda guerra mondiale, più di centomila ebrei slovacchi furono uccisi. E quando poi si vollero cancellare le tracce della comunità, qui la sinagoga fu demolita. Sta scritto: «Non pronuncerai invano il nome del Signore» (Es 20,7). Il nome divino, cioè la sua stessa realtà personale, è nominata invano quando si viola la dignità unica e irripetibile dell’uomo, creato a sua immagine. Qui il nome di Dio è stato disonorato, perché la blasfemia peggiore che gli si può arrecare è quella di usarlo per i propri scopi, anziché per rispettare e amare gli altri. Qui, davanti alla storia del popolo ebraico, segnata da questo affronto tragico e inenarrabile, ci vergogniamo ad ammetterlo: quante volte il nome ineffabile dell’Altissimo è stato usato per indicibili atti di disumanità! Quanti oppressori hanno dichiarato: “Dio è con noi”; ma erano loro a non essere con Dio”.
Questo riferimento al luogo simbolico della piazza e a momenti in cui il nome di Dio è stato disonorato andavano alle vicende storiche della seconda guerra mondiale quando, dopo il patto di Monaco nel 1938, fu istituito sotto stretto controllo del regime di Hitler uno Stato slovacco autonomo alleato della Germania nazista e da essa dipendente. Un vescovo cattolico mons. Tiso ne fu presidente e ne divenne successivamente il duce, e fu egli stesso in accordo con i tedeschi per attuare le deportazioni di circa 100.000 ebrei slovacchi.
Dietro a queste parole del papa è da scorgere non solo la vergogna e la condanna per l’azione di mons. Tiso al tempo del nazismo ma anche la logica che presiede alla logiche sovraniste affermate oggi in queste regioni. E ha concluso con parole di speranza richiamando al bisogno di porte aperte: “Il mondo ha bisogno di porte aperte. Sono segni di benedizione per l’umanità. Al padre Abramo Dio disse: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3). È un ritornello che scandisce le vite dei padri (cfr Gen 18,18; 22,18; 26,4). A Giacobbe, cioè Israele, Dio disse: «La tua discendenza sarà innumerevole come la polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E si diranno benedette, in te e nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra» (Gen 28,14). Qui, in questa terra slovacca, terra d’incontro tra est e ovest, tra nord e sud, la famiglia dei figli di Israele continui a coltivare questa vocazione, la chiamata a essere segno di benedizione per tutte le famiglie della terra.”
Nella divina liturgia bizantina presieduta nella festa dell’esaltazione della croce il 14 settembre ha ricondotto al significato della croce per Gesù e per i suoi discepoli:
“La croce esige … una testimonianza limpida. Perché la croce non vuol essere una bandiera da innalzare, ma la sorgente pura di un modo nuovo di vivere. Quale? Quello del Vangelo, quello delle Beatitudini. Il testimone che ha la croce nel cuore e non soltanto al collo non vede nessuno come nemico, ma tutti come fratelli e sorelle per cui Gesù ha dato la vita. Il testimone della croce non ricorda i torti del passato e non si lamenta del presente. Il testimone della croce non usa le vie dell’inganno e della potenza mondana: non vuole imporre sé stesso e i suoi, ma dare la propria vita per gli altri. Non ricerca i propri vantaggi per poi mostrarsi devoto: questa sarebbe una religione della doppiezza, non la testimonianza del Dio crocifisso. Il testimone della croce persegue una sola strategia, quella del Maestro: l’amore umile. Non attende trionfi quaggiù, perché sa che l’amore di Cristo è fecondo nella quotidianità e fa nuove tutte le cose dal di dentro, come seme caduto in terra, che muore e produce frutto”.
Incontrando la comunità rom nel Quartiere Luník IX a Košice – comunità che nel passato hanno subito situazioni di discriminazione e che recentemente dal premier Orban sono stati individuati come categorie da emarginare e individuate come ‘nemico interno’ – ascoltando storie di integrazione ha così dialogato con i presenti: “Quante volte i giudizi sono in realtà pregiudizi, quante volte aggettiviamo! È sfigurare con le parole la bellezza dei figli di Dio, che sono nostri fratelli. Non si può ridurre la realtà dell’altro ai propri modelli preconfezionati, non si possono schematizzare le persone. Anzitutto, per conoscerle veramente, bisogna riconoscerle: riconoscere che ciascuno porta in sé la bellezza insopprimibile di figlio di Dio, in cui il Creatore si rispecchia. (…) Così ci avete dato un messaggio prezioso: dove c’è cura della persona, dove c’è lavoro pastorale, dove c’è pazienza e concretezza i frutti arrivano. Non subito, col tempo, ma arrivano. Giudizi e pregiudizi aumentano solo le distanze. Contrasti e parole forti non aiutano. Ghettizzare le persone non risolve nulla. Quando si alimenta la chiusura prima o poi divampa la rabbia. La via per una convivenza pacifica è l’integrazione. È un processo organico, un processo lento e vitale, che inizia con la conoscenza reciproca, va avanti con pazienza e guarda al futuro. E a chi appartiene il futuro? Possiamo domandarci: a chi appartiene il futuro? Ai bambini. Sono loro a orientarci: i loro grandi sogni non possono infrangersi contro le nostre barriere. (…) Ringrazio chi porta avanti questo lavoro di integrazione che, oltre a comportare non poche fatiche, a volte riceve pure incomprensione e ingratitudine, magari persino nella Chiesa. (…) Andate avanti su questa strada, che non illude di poter dare tutto e subito, ma è profetica, perché include gli ultimi, costruisce la fraternità, semina la pace. Non abbiate paura di uscire incontro a chi è emarginato. Vi accorgerete di uscire incontro a Gesù. Egli vi attende là dove c’è fragilità, non comodità; dove c’è servizio, non potere; dove c’è da incarnarsi, non da compiacersi. Lì è Lui”.
Tali parole di apertura all’incontro divengono rilevanti anche per la chiesa per un cambiamento da attuare. Parlando nella cattedrale di san Martino a Bratislava Francesco ha detto: “La Chiesa non è una fortezza, non è un potentato, un castello situato in alto che guarda il mondo con distanza e sufficienza. Qui a Bratislava il castello già c’è ed è molto bello! Ma la Chiesa è la comunità che desidera attirare a Cristo con la gioia del Vangelo – non il castello! –, è il lievito che fa fermentare il Regno dell’amore e della pace dentro la pasta del mondo (…) Ecco, è bella una Chiesa umile che non si separa dal mondo e non guarda con distacco la vita, ma la abita dentro. Abitare dentro, non dimentichiamolo: condividere, camminare insieme, accogliere le domande e le attese della gente. Questo ci aiuta a uscire dall’autoreferenzialità: il centro della Chiesa… Chi è il centro della Chiesa? Non è la Chiesa! E quando la Chiesa guarda sé stessa, finisce come la donna del Vangelo: curvata su sé stessa, guardandosi l’ombelico (cfr Lc 13,10-13). Il centro della Chiesa non è se stessa.”.
“non abbiate timore di formare le persone a un rapporto maturo e libero con Dio. Importante è questo rapporto. Questo forse ci darà l’impressione di non poter controllare tutto, di perdere forza e autorità; ma la Chiesa di Cristo non vuole dominare le coscienze e occupare gli spazi, vuole essere una “fontana” di speranza nella vita delle persone. È un rischio. È una sfida”.
“La gioia del Vangelo è sempre Cristo, ma le vie perché questa buona notizia possa farsi strada nel tempo e nella storia sono diverse. Le vie sono tutte diverse. Cirillo e Metodio percorsero insieme questa parte del continente europeo e, ardenti di passione per l’annuncio del Vangelo, arrivarono a inventare un nuovo alfabeto per la traduzione della Bibbia, dei testi liturgici e della dottrina cristiana. Fu così che divennero apostoli dell’inculturazione della fede presso di voi. Furono inventori di nuovi linguaggi per trasmettere il Vangelo, furono creativi nel tradurre il messaggio cristiano, furono così vicini alla storia dei popoli che incontravano da parlarne la loro lingua e assimilarne la cultura. Non ha bisogno di questo anche oggi la Slovacchia? Mi domando. Non è forse questo il compito più urgente della Chiesa presso i popoli dell’Europa: trovare nuovi “alfabeti” per annunciare la fede?”.
Nelle sue parole e nella geografia della sua visita Francesco ha mostrato come oggi l’annuncio del vangelo implichi anche una chiara presa di posizione insieme ad un impegno in contrasto ad orientamenti che svuotano l’annuncio cristiano e lo riducono a elemento identitario: con la libertà di chi non ricerca di dominare e occupare spazi oggi la sfida sta nel ricercare vie concrete di accoglienza, apertura alle diversità, incontro nella solidarietà con l’altro.
Alessandro Cortesi op