XV domenica tempo ordinario – anno A – 2014
(fioritura di crochi al disgelo presso rif. Lagonero – Pt – inizio giugno 2014)
Is 55,10-11; Sal 64; Rom 8,18-23; Mt 13,1-23
Come la pioggia e la neve… C’è una fecondità silenziosa e lieve della Parola che scende e penetra, impregna, si mescola facendo tutt’uno con la pasta della vita. E’ la fecondità di un dono come l’agire dell’acqua. Così la parola umana, soffio che passa e penetra e suscita cambimenti. Così la parola che è agire silenzioso di Dio. La parola coma acqua: forza di vita, dono che proviene dall’alto o che gorgoglia fuori dal profondo. Dono diffuso e per tutti, da non rinchiudere e privatizzare nell’egoismo del possesso. Acqua è simbolo in tute le culture della forza misteriosa della vita che si espande e dilaga ed è feconda. E’ la fecondità di parola come pioggia, neve che suscita frutto solo se scende ed entra nel profondo della terra.
La forza della Parola è espressa con uno sguardo alla natura, alle sue manifestazioni primordiali di vita. La pioggia, l’acqua è così vista nel suo ciclo di venire e ritornare, un ciclo che unisce terra e cielo, che copre distanze considerate impercorribili. Ma questo sguardo si fa anche meraviglia di fornte al miracolo quotidiano della vita che trae possibilità da un incontro sempre nuovo, che sgorga da un venire e da altrove. Così la parola scende e non rimane inefficace. L’agire di Dio, il suo comunicarsi vicino, il suo farsi appresso è evocato dalla metafora della parola come pioggia. La nostra esperienza è quella della parola umana che reca in sé la capacità di cambiare, di operare: c’è infatti una potenzialità nascosta, racchiusa nelle parole che recano nuova vita, fanno risuscitare e operano fecondità. Ma anche le parole possono recare in se stesse la violenza per distruggere e annientare la dignità o il futuro di una persona.
Il riferimento all’acqua e alla neve è colta dalla pagina di Isaia in termini positivi, come è possibile laddove l’acqua è bendeizione di vita e fonte di sopravvivenza, per uomini animali e vegetazione: in una terra che conosce il deserto – in Israele la neve è visibile sule pendici del monte Ermon, o sui valichi a Nord – la poggia e la neve sono perceite con una intensità particoalre. In questa pagina la parola di Dio è accostata con lo stupore dei doni preziosi e delle parole rare, quelle che scendono a portare futuro, a dare vita, a fecondare aprendo una novità. Fecondare è azione di incontro, di reciprocità. Se c’è un primato al dono della Parola, c’è anche considerazione dell’incontro con la terra e di un germogliare prodotto prorpio nell’incontro. E’ il mistero dell’incarnazione, la scelta di Dio che prende con sé e si unisce a questa terra. La parola è dono di Dio che non distrugge ma s’incontra e feconda la realtà della terra e genera qualcosa di nuovo.
Tra la casa e il mare Gesù pronuncia una parabola, anzi la ‘parola del regno’ (Mt 13,19). Il regno, questa realtà al cuore della vita di Gesù e al centro della sua predicazione, non torva una definizione, non può essere racchiusa in una nozione, in un dogma fissato, ma troav espressione solamente nello stile del raccontare di Gesù. Gesù racconta parabole che richiamano vicende dlela vita: accosta la quotidianità ad una storia più grande profonda che è la vicinanza inaudita di Dio che sta dalla parte dei poveri. Il regno non è teoria ma esperienza di vita. Può solo essere evocato da parole di racconto, capaci di indicare ma senza trattenere, ricche di invito, ma senza imposizione o codificazioni. Il regno si connota così annuncio, bella notizia, da indagare attraversando le parole di Gesù, mettendole insieme, ma soprattutto lasciandosi coinvolgere nella dinamica di un racconto che parla di cose quotidiane, rivelando, togliendo il velo, sulle profondità della vita in cui è presente una parola nascosta, l’agire amante di Dio, il Padre, che chiama, fa scoprire, invita. Ed è parola che rinvia ai suoi gesti, ai segni della sua ospitalità, al suo stile. La parabola in tale senso non è narrazione allegorica (dove ogni elemento e dettaglio fa riferimento ad altro), è piuttosto racconto che si colloca nel contesto di un coinvolgimento con chi si sente pro-vocato perché è la sua vita: così per i contadini della Galilea ascoltare il racconto di una semina è cosa familiare e apre il cuore. Le parabole spesso vennero trasformate in allegorie. Così la parabola del seminatore, pronunciata per raccontare l’attività del seminatore, diviene poi la parabola dei diversi terreni (che costituisce un’altra narrazione). La parabola del seminatore trova il suo fuoco nella attività di colui che getta i grani ovunque. Nel momento in cui la sua missione trovava opposizione e incomprensione, Gesù pronunciò questa parabola per esprimere la sua lettura di ciò che stava accadendo. Gran parte del racconto descrive la vanità dello sforzo del seminatore. I grani caduti sul sentiero vengono beccati dagli uccelli, quelli caduti sul terreno di pietre germogliano subito ma appena giunge il sole appassiscono, quelli caduti sulle spine vengono soffocati appena cresciuti. Ma al cuore sta una lettura di fiducia e di speranza: nonostante l’insuccesso che sembra prevalere nel fallimento della semina su vari terreni, ci sono grani che producono un raccolto abbondante: sulla terra buona fruttificano dove il trenta, dove il sessanta, dove il cento. E’ una parabola sul regno, la vicinanza salvifica del Padre ai piccoli, che Gesù ha inaugurato, è una parabola che parla di quella parabola di Dio che è la vita di Gesù: il seme è gettato, la parola è scesa come pioggia e neve. La missione di Gesù ha dato inizio ad un processo che non si arresta anche se deve confrontarsi con il rifiuto e il fallimento. Ma è semina senza riserve e senza rimpianti, dono abbondante che è anche annuncio di una fecondità paradossale.
“La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio.. e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”. Paolo invita a guardare come le sofferenza del presente sono poca cosa rispetto alla salvezza futura: è una salvezza che va attesa come nella vigilia di un parto. I segni del travaglio che accompagna questo parto sono il gemere dell’umanità ed insieme ad essa il gemere di tutto il creato. Quando nella risurrezione l’uomo sarà rivelato nella sua più profonda identità di figlio di Dio, figlio per adozione, guardato con amore senza limiti, anche la creazione parteciperà a questa trasformazione e a questa liberazione. Ma già nel presente ci sono tre gemiti che segnano la vita. Il gemito della creazione tutta, che attende e vive le doglie di un parto; il gemito dello Spirito presente nei cuori di uomini e donne di ogni provenienza e popolo che attendono liberazione; il gemito dello Spirito che intercede per noi. E’ un respiro, di apertura, di attesa, di sofferenza che coinvolge tutta la realtà.
Alcune brevi riflessioni per noi oggi
La metafora della pioggia e della neve legate alla parola di Dio ci possono condurre a valutare l’importanza della parola. Per accostare la Parola di Dio è necessario conoscere le parole umane, sostare sulla rofondità della parola umana. Le parole umane recano una forza di vita e di relazione. Nella parola si può trovare la dimora di una vita che si consegna e si comunica. Conosciamo oggi la vacuità della parola, ridotta a chiacchera o a vocio disperso e senza interlocutore. Sperimentiamo le parole vuote e la retorica di parole che nascondono l’ ipocrisia e gli infingimenti del potere. Molte parole del nostro discorrere sono cariche di violenza che generano aggressività e conflitto. Ma ci sono anche le parole della mitezza e della cura. Ci sono le parole feconde di futuro, tutte quelle parole che incontrandosi con cuori accolgienti aprono al mistero della gravidanza della comunicazione e dell’amicizia. C’è una terra gravida che attende e la testimonianza oggi di un servizio alla Parola di Dio potrebbe proprio essere nel dare spazio alle parole buone nel valorizzare tutte le parole umane di ogni provenienza, le parole dell’arte, della bellezza, della poesia, delle fedi, dell’amore, ma anche le parole familiari, del quotidiano che recano in sé acqua dche dà vita, come una fontana nell’arsura di un terra deserta, o un bicchiere di acqua fresca nella penombra del pomeriggio di una calda estate.
Gesù ha parlato in parabole, è stato capce di racconti che dicevano riferimento alla vita. E nel suo parlare raccontava qualcosa del regno, e non solo raccontava ma lo rendeva presente. In tale senso la parabola è poesia. Nel momento del rifiuto quella parabola traduce la sua vita ma fa aprire lo sguardo all’oltre di una presenza altra eppure nascosta e vicina. Ci sono gesti nella vita che sono parabole. Un amico mi ha riferito in questi giorni il gesto di chi, da quarant’anni, quando un condannato a morte viene ucciso nelle prigioni degli USA, si reca davanti all’ambasciata a depositare silenziosamente una rosa con su scritto il nome del condannato. Una parola silenziosa, racchiusa in un nome. Un gesto inutile si direbbe, perduto nell’oceano dell’indifferenza, ma, come questo, i gesti di chi con la fedeltà e la continuità non viene meno all’attenzione all’altro, alla tessitura di solidarietà, all’aprire sentieri di pace, sono i gesti fecondi di futuro, parole significative. Sono quella autentica liturgia che non è il rito avulso dalla storia, ma quella che si esplica nei gesti semplici della vita, del servizio, della parola condivisa, della fedeltà quotidiana a ciò che è apparentemete inutile. Come una goccia d’acqua o un fiocco di neve, inutili. Si può passare indifferenti accanto ad essi ma in essi sta racchiusa quella grande bellezza che, come la gratuità dell’amore e del servizio concreto all’altro, quando è ascoltata e accolta da cuori che si lasciano toccare, può far sgorgare la fecondità della meraviglia che sola trasforma e genera nuova vita.
“E un giorno… un giorno ecco che la neve ha cominciato a cadere e dopo tutte quelle ricerche (…) ecco che un giorno, raccogliendo un fiocco di neve, vedendo la sua perfezione, la sua bellezza, la differenza con tutti gli altri ho avuto (oh, non è un ragionamento) ma ho avuto come un’intuizione che c’era qualcuno dietro il più piccolo fiocco di neve. (…) C’era tanta bellezza, grandezza e tanta diversità nello stesso tempo per una cosa così effimera che bisognava bene che ci fosse una intelligenza, un pensiero, un amore anche dietro quel piccolo fiocco di neve, che si era fuso appena lo avevo preso in mano” (J.Loeuw, Se conosceste il dono di Dio, Città nuova 1975,11).
Alessandro Cortesi op
(tratto da: http://www.linkiesta.it/fiocchi-neve)
XXIV domenica tempo ordinario – anno C – 2019
“Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: ‘Costui riceve i peccatori e mangia con loro’. Allora egli disse loro questa parabola…”
Dopo questa introduzione seguono tre parabole che compongono la sola e unica parabola annunciata: colui che va in cerca della pecora perduta, la donna che cerca la moneta perduta e il padre che attende e va incontro ai figli perduti. In tutte c’è una perdita, un’attesa o una ricerca ed un ritrovamento.
Farisei e scribi sono ‘coloro che mormoravano’: era questo l’atteggiamento del popolo d’Israele nel deserto (Es 16,2-3.7.12; Num 16,11): il lamento deluso di chi nel deserto perde fiducia nella vicinanza di Dio e giunge ad avere nostalgia della schiavitù d’Egitto, dove almeno ‘eravamo seduti presso la pentola della carne’. E’ la risentita espressione della mancanza di fede e del rifiuto ad affidarsi alle promesse del Dio liberatore.
Un altro tipo di persone sta di fronte a Gesù: chi ‘si avvicinava per ascoltarlo’. L’ascolto in Luca è l’attitudine propria del discepolo: sono i pubblicani e i peccatori, gli irregolari dal punto di vista religioso. Per loro le parabole acquistano un significato particolare perchè sono accolte in un ascolto della vita.
Le prime due insistono sulla ricerca, della pecora e della moneta. Per chi si pone alla ricerca ciò che è perduto vale più di tutto il resto. Si delinea un messaggio centrale: Gesù annuncia il volto di Dio Padre, un padre dal volto materno, tenero, che si pone alla ricerca dell’uomo.Un Dio dal volto di donna che si china a cercare nella penombra una moneta rotolata via. E che così può essere riconosciuto al cuore dell’esperienza quotidiana di chi era escluso dai circuiti principali della religione.
Segue la parabola più lunga costituita di tre grandi movimenti: il primo è la richiesta del figlio minore di essere autonomo e di andarsene dalla casa del padre. E’ allontanamento per avere autonomia, ma poi si delinea come fallimento e si interrompe in quella decisione di ‘ritornare’. Tuttavia le ragioni di questo ritorno sono ancora il desiderio di avere una sicurezza quotidiana, di poter trovare da mangiare almeno come i salariati nella casa del padre. Il punto di svolta sta qui, non tanto la delusione per una felicità lontano dalla casa, ma la consapevolezza di aver sbagliato percorso e la decisione di tornare indietro: una ‘conversione’ che lo riconduce dove era partito. Tuttavia egli si aspetta ancora quella che può esser definita la soluzione del buon senso: la richiesta al padre è ‘trattami d’ora in poi come uno dei tuoi garzoni’.
La seconda scena vede al centro la figura del padre: il figlio che torna è atteso e viene anticipato nel suo desiderio di presentarsi a lui chiedendo di poter ritornare. Il volto del padre è segnato da uno sguardo che attende da lontano e non lascia spazio alle parole ma solo a gesti: l’abbraccio che fa ricominciare una storia di incontro. Per primo, con l’affetto che non fa calcoli e non pone condizioni si getta al collo e lo baciò. I segni della gioia sono l’abito più bello, l’anello al dito, i calzari ai piedi, la festa.
L’amore di questo padre trasforma una storia di morte in una storia di vita: ‘mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’. Il padre buono pone la fretta nel lasciare alle spalle la situazione passata per lasciare spazio solo alla gioia di ritrovarsi.
La terza scena è anche questa volta occupata dal padre, dal suo uscire verso il figlio maggiore. Anche quel figlio viveva nella casa ma da estraneo, come uno schiavo. Non aveva compreso la cosa più importante, la gioia del rapporto. Anche verso di lui vi sono parole di misericordia e di invito. Per vivere un modo nuovo di stare in quella casa ma anche per scoprire cosa significhi essere fratelli: ‘figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’.
La parabola propone un itinerario di scoperta del volto di Dio padre che non viene meno nella ricerca e nell’attesa di cammini di incontro e di riconoscimento dell’altro come fratello.
Alessandro Cortesi op
Padre/madre
Le figure della madre e del padre in questo tempo hanno visto in Massimo Recalcati un profondo interprete da un punto di vista psicanalitico che ha sondato le attuali tendenze, limiti e aperture (Cosa resta del padre, Cortina 2011; Le mani della madre, Feltrinelli 2015)
Il primo volto della madre – dice Recalcati – sono le sue mani. La madre è colei che risponde al grido di aiuto del bambino, la sua prima soccorritrice. Dove una vita inerme trova accoglienza lì c’è una madre. La madre offre poi al figlio uno sguardo: immergendosi in esso e riflettendosi, un bambino incontra il mondo: gli orizzonti possono aprirsi e dilatarsi. Il desiderio della madre è il lievito che fa crescere e accompagna. Un terzo elemento è il seno, che la madre offre al bambino rispondendo al bisogno di cure che le sono richieste.
Madre è nome di cura particolare e nella cura è anche trasmissione del desiderio che apre strade ai figli, apprendendo nel tempo la faticosa attitudine del lasciarli andare. In una visione patriarcale della maternità quando una donna diventa madre smette di essere donna. Ma è proprio questo un movimento da contrastare: anche i figli hanno bisogno che le madri restino donne. Nel tempo dell’incuria, il nostro tempo segnato da disprezzo e indifferenza, occorre lasciare nuovo spazio alla dimensione dell’attenzione: un amore che unisce desiderio, accoglienza ma anche capacità di distacco e autonomia.
Perché si possa parlare di padre – ancora secondo Recalcati – è necessario non solo guardare a un atto biologico. Ma il divenire padre si compie in un complesso processo di adozione della vita del figlio. Il passaggio indispensabile sta nel gesto di un riconoscimento nel rivolgersi a lui dicendogli “tu sei mio figlio“, e nell’assumere una responsabilità senza limiti “perché la tua venuta al mondo ha reso il mondo diverso“. Recalcati riprendendo Lacan afferma che la figura del padre sta nel tenere unite insieme legge e desiderio. Ma egli osserva che “Il problema del nostro tempo è che l’alleanza tra legge e desiderio si è interrotta: siamo infatti nel tempo del desiderio impazzito, dissipativo. Per dirlo con le parole di Lacan, il nostro tempo è il tempo dell’evaporazione del padre”. Si è passati da modelli di paternità come il padre padrone che domina e s’impone con autorità all’emergere di modelli diversi e possibilità nuove. Recalcati indica la figura del padre testimone: “padre è testimone e la sua testimonianza viene data attraverso la sua vita: il padre non deve spiegare il senso della vita, ma deve mostrare attraverso la sua che la vita, con i dovuti limiti, può avere un senso, animando così la vita del figlio con la speranza”. La parola del padre non ha forza e capacità per guidare la vita del figlio ma di proteggerla: e facendo questo può portare nel cuore dei figli l’esperienza dell’impossibile…
Fulvio De Giorgi, nel suo libro Il figliol prodigo. Parabola dell’educazione, (Scholè, 2018) presenta e discute varie interpretazioni, teologiche e non solo, della parabola nelle diverse epoche. Vi legge la presenza delle forme di educazione presenti anche nel tempo contemporaneo: l’educazione autoritaria, quella permissiva e quella liberatrice.
Ciò che colpisce nella parabola è l’assenza della madre. David Maria Turoldo leggeva tale assenza come necessaria: a suo avviso l’insegnamento di fondo si focalizza nella accettarsi reciprocamente: «O Dio quando impareremo a sopportarci, a comprenderci: appunto a tollerarci come tu ci tolleri? Vera tolleranza è di sentire tutti uguali. È ammettere che anche il fratello ha una sua verità” (Anche Dio è infelice).
De Giorgi osserva come la parabola potrebbe anche intitolarsi la parabola della madre assente: «Manca la donna, manca la madre: manca l’afflato femminile materno. C’è l’ordine, ci sono le norme. Ma non ci sono la protezione e i permessi, il nutrimento del cuore». E osserva: «Siamo di fronte a un fallimento educativo completo, con un figlio che esce da casa e uno che non vuole entrare».
Enzo Bianchi, rimarcando la finale aperta della parabola che fa divenire protagonistie coinvolti in una storia la cui finale non fa restare indifferenti, afferma: «Tu che chiami Dio padre, che immagine di Dio hai? L’immagine di un padre padrone? Di un padre giusto, dotato di giustizia retributiva? O di un padre che ama senza porre condizioni? Un padre che perdona sempre? Gesù ci interpella! A ciascuno di noi la risposta nel nostro cuore» (Ma l’altro figlio fu ‘prodigo’?, “Avvenire” 11 marzo 2010)
Vent’anni fa Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, iniziava con queste parole la sua lettera pastorale intitolata ‘Ritorno al Padre’ strutturata attorno al commento della parabola del padre e dei due figli:
“Mi alzerò e andrò da mio Padre” (Lc 15,18) Vi sono molti modi di rifiutare il Padre e il cammino verso di lui. Il più comune (e il più nascosto nell’inconscio) è di rifiutare la morte. Eppure tutti, senza distinzione, siamo incamminati in un viaggio, breve o lungo, che inesorabilmente ci porta verso di essa. Vivere è anche convivere con l’idea che tutto prima o poi finirà. V’è chi si consola pensando che quando ci sarà la morte noi non ci saremo più e che finché ci siamo essa non c’è. Ma si tratta di una consolazione fragile. In realtà la morte incombe su ogni istante della nostra vita, incombe nella forma della domanda: che sarà di me dopo la morte? che senso ha per me la vita? dove vado con tutto il bagaglio dei miei sforzi, delle mie pene, delle mie magre consolazioni?
In tali domande la morte appare come una sfida radicale al pensare umano, una sfida da cui nasce una riflessione seria. E’ come una sentinella che fa la guardia al mistero. E’ come la roccia dura che ci impedisce di affondare nella superficialità. E’ un segnale a cui non si sfugge e che ci costringe a cercare una meta per cui valga la pena di vivere. E’ il “vallo estremo” (E. Montale) da cui ci viene, come un contraccolpo, il bisogno di lottare contro l’apparente trionfo della morte e un’esigenza profonda di cercare il senso della vita, di giustificare la fatica dei giorni.
Sento che alcuni leggendo queste parole saranno tentati di rifiutarle: perché cominciare con un argomento così serio e troppo poco pervaso dalla speranza delle Scritture? Eppure non ho fatto altro che richiamare la vicenda narrata da Gesù nella parabola dei due figli. E’ quando il minore, che ha voluto andarsene da casa e ha sperperato i suoi beni, si trova a toccare il fondo (“avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava”, Lc 15,16) che, quasi per contraccolpo, si ricorda che c’è una casa del padre, dove anche i servi hanno vita, dignità e “pane in abbondanza” (Lc 15,17). L’esperienza della miseria gli consente di guardare in faccia la via della morte che sta percorrendo e di ribellarsi. Quando ci sentiamo soli, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo ragioni per disprezzarci o essere scontenti di noi, quando la prospettiva della morte o di una perdita grave ci spaventa e ci getta nella depressione, ecco che dal profondo del cuore riemerge il presentimento e la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentire amati, al di là di tutto e nonostante tutto.
Il Padre è in questo senso – se si vuole un senso ancora laico e mondano – l’immagine di qualcuno a cui affidarci senza riserve, il porto dove far riposare le nostre stanchezze, sicuri di non essere respinti. La sua figura ha al tempo stesso tratti paterni e materni: se ne può parlare come del Padre nelle cui braccia si è sicuri e come della Madre a cui ancorare la vita che da essa riconosciamo. E’ pertanto evocazione dell’origine, del grembo, della patria, della casa, del focolare, del cuore a cui rimettere tutto ciò che siamo, del volto a cui guardare senza timore. Il bisogno del Padre è quindi equiparabile al bisogno di un riferimento e di un rifugio paterno e materno e può essere espresso indifferentemente con metafore maschili e femminili”.
Alessandro Cortesi op