Testimoni di una profezia di amicizia: la luce di Orano
In una giornata luminosa, piena della luce che il Mediterraneo sa donare nella limpidezza di un inizio di inverno tiepido, in questo 8 dicembre, festa di Maria, a Orano, in Algeria, si è svolta la Messa in cui i 19 martiri di Algeria sono stati dichiarati beati.
Dal momento della loro morte, tra il 1993 e il 1996 il loro ricordo e la loro presenza sono stati punti di riferimento e di benedizione per la piccola chiesa di Algeria, ma non solo per essa. La loro scelta di restare a fianco del popolo algerino che stava vivendo uno dei periodi più tragici della sua storia, segnato da una violenza inaudita condotta contro tutti coloro che percorrevano le vie del dialogo, che credevano all’incontro delle diversità, che affermavano la possibilità di una convivenza pacifica tra uomini e donne di diverse religioni e culture, nel riconoscimento della diversità, è stata una scelta coraggiosa, faticosa, a prezzo della vita, ma che ha seminato semi che non potranno andare perduti di pace e riconciliazione.
Uno dei momenti più intensi della celebrazione è stato quando il vescovo di Orano Jean-Paul Vesco ha abbracciato al momento della pace la mamma di Mohamed Bouchikhi, l’autista musulmano di Pierre Claverie che fu ucciso con lui nell’attentato del 1 agosto 1996. Vicino alla mamma di Mohamed stava la sorella di Pierre.
E’ lei che ha custodito la memoria del fratello domenicano, con l’affetto indicibile di una sorella che con lui ha condiviso ore e momenti della vita d’infanzia e della giovinezza, che con lui è cresciuta in una famiglia serena e ricca di legami, e che quando parla di lui lo descrive nei tratti di ragazzo del sud che amava il sole, la vita, l’amicizia, che era aperto all’incontro, capace di tenerezza e di innamorarsi per tutte le cose belle della vita.
Nelle preghiere dei fedeli durante la messa è stata ricordata la testimonianza dei tanti imam musulmani, più di cento, uccisi in quel periodo e dei giornalisti e intellettuali, come anche degli operai croati trucidati nei pressi del monastero di Tibhirine. Una schiera di uomini e donne che nel tempo della devastazione, insieme ai 19 martiri, hanno mescolato il loro sangue a quello di coloro che vivevano il mistero della visitazione in terra algerina rimanendo aacanto ad un popolo che soffriva come tenendo la mano di un amico al suo capezzale, nella sofferenza.
La messa si è svolta sulla spianata del santuario che sovrasta Orano, con una vista che si allargava sul complesso della città da un lato e sul porto e il mare dall’altro lato. Un panorama largo e luminoso che richiamava al senso delle vite spese in terre lontane nella scoperta della debolezza di una presenza che si apriva a scorgere il volto di Dio nell’incontro e nella apertura a lasciarsi cambiare dall’altro. Il senso di vite leggere come quelle di uccelli che possono partire e d’altra parte esili come i rami che offrono appoggio e sicurezza nella tempesta. “Nessuno può prenderci la vita perché l’abbiamo già donata”: una sintesi della spiritualità di semplicità e di compagnia che animava il quotidiano di questi uomni e donne non eccezionali, ma immersi profondamente nel mistero dell’incarnazione e della ricerca di Dio, spossessati di se stessi per seguire le vie di un amore che chiama all’amicizia aperta a tutti.
Sullo sfondo del presbiterio un pannello raccoglieva insieme i volti dei 19 testimoni. tra di essi il profilo esile e smagrito di Christian De Chergé, uno dei sette monaci trappisti di Tibhirine. Era lui che riflettendo sul mistero della visitazione di Maria a Elisabetta diceva: “La mia chiesa non mi dice qual è il legame tra il Cristo e l’islam. E vado verso i musulmani senza sapere qual è questo legame. Ed ecco, che quando Maria arriva, è Elisabetta che parla per prima. Ma non è completamente esatto perché Maria ha detto ‘As salam alaikum!’. E questa è una cosa che possiamo fare! Diciamo la pace : la pace sia con voi! E questo semplice saluto ha fatto vibrare qualcosa, qualcuno in Elisabetta. E nella sua vibrazione, qualcosa si è detto.. che era la buona novella….”
Jean-Paul Vesco ha regalato al cardinale Becciu che ha presieduto la celebrazione una stola banca con una scritta in rosso ricamata. Ha spiegato che era il simbolo tessuto su una stola che stava particolarmente a cuore a Pierre Claverie, dove stava scritto in arabo ‘Allah u merkhaba’, cioè, Dio è amore.
Christian ancrora parlando della visitazione pensava alla chiesa e al cuore della chiamata evamgelica all’ospitalità: “Questo mistero (della visitazione) è quello della più completa ospitalità reciproca. E’ bene che la Chiesa lo metta sempre più nel cuore della ‘premura’ che la porta verso l’altro. Essa scopre allora la sua ‘missione’, quella che spiegava il nostro fratello e nostro padre Jean-Marie Rimbaud vescovo del Sahara (…): ‘La missione sotto l’azione dello Spirito santo è la confluenza di due grazie, una data all’inviato, l’altra al chiamato (…). Il cristiano si sforza di leggere quello che Dio gli dice mediante la persona (…) del non cristiano; si sforza anche di essere lui stesso con la sua comunità un segno visibile, una parola la più chiara possibile di Dio, Padre, Figlio e Spirito’”.
E Pierre richiamava il cuore del suo percorso interiore che lo condusse fino alla fine a restare, contro ogni logica e calcolo umano, rimanendo fedele a quell’amicizia che costituiva l’intuizione centrale della sua esistenza: “La parola chiave della mia fede (…) è dunque il dialogo. Non per tattica od opportunità, ma perché il dialogo è costitutivo della relazione di Dio con l’umanità e degli uomini tra di loro. Apprendo con Gesù che Dio stesso, per farsi conoscere e per manifestare la sua volontà, ha preso in prestito dall’umanità le sue parole, fino alla sua carne…”.
“Noi siamo lì (in terra di Algeria) a causa di questo Messia crocifisso (…) Noi non siamo spinti da chissà quale perversioen masochista o suicida (…) A causa di Gesù perché è lui che soffre l’, in questa violenza che non risparmia nessuno, crocifisso di nuovo nella carne di migliaia di innocenti”.
Nella Messa a Orano i canti sono stati animati da una corale formata da giovani donne e uomini provenienti dalla zona del Sahara del Sud: è stato cantato l’Alleluia di Haendel con la direzione di una direttrice di coro europea. Un incontro di pluralità capaci di accordare voci e suoni sotto il cielo di Orano, in una giornata di luce.
Una luce che segnava i volti dei parenti di coloro che sono state vittime della violenza ma che in primo luogo sono testimoni di vite donate e spese nell’incontro e nel servizio. Quei volti lasciavano scorgere la gioia sofferta di sapere che quelle vite donate sono seme di pace e profezia di un cammino che oggi si fa riferiemnto oltre i confini dell’Algeria, per la chiesa, additando uno stile e una spiritualità di semplicità e di povertà, e per il mondo indicando le vie della pace.
Un clima di amicizia: questo è quanto si è respirato nei gesti, nei canti, nell’essere insieme di musulmani e cristiani nella memoria dei 19 testimoni di Algeria. Quel respiro di incontro a cui diede voce una testimonianza Oum El Kheir il giorno dei funerali di Pierre: “Amici miei sto per farvi una confifdenza: mio padre, mio fratello, il mio amico Pierre mi ha insegnato ad amare l’islam, mi ha insegnato ad essere musulmana, amica dei cristiani di Algeria. Ho imparato con Pierre che l’amicizia è prima di tutto la credenza in Dio, è l’amore dell’altro, è la solidarietà umana. Essere cristiano o musulmano veniva dopo, il problema non si poneva alla scuola di Claverie, inq uesta scuola dove s’imparava ad ascoltarsi, a dialogare, molto semplicemente ad amare…”
Ad Orano, in una giornata di luce, perdendo lo sguardo verso il mare, nella luce calda del Mediterraneo, inseguendo un sogno di amicizia e di convivenza dei popoli nella pluralità e nel dialogo, nella memoria di chi ha donato la sua vita come seme di amicizia e semplicità.
Alessandro Cortesi op
* le citazioni sono tratte dal libro di C.Monge, G.Routhier, Il martirio dell’ospitalità. La testimonianza di Christian de Chergé e Pierre Claverie, EDB, Bologna 2018.
V domenica del tempo ordinario – anno B – 2018
Gb 7,1-7; Sal 146; 1Cor 9,16-23; Mc 1,29-39
La protesta di Giobbe é una inquietante domanda al cuore della Bibbia, sulla condizione umana e sul volto di Dio stesso. E’ provocazione che guarda in faccia la negatività della sofferenza, l’assurdità del dolore dell’innocente e la fatica di vivere: ‘Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra e i suoi giorni non solo come quelli d’un mercenario?… I miei giorni… sono finiti senza speranza’.
Giobbe richiama il dramma dei sofferenti che contesta ogni facile risposta e rimane domanda aperta. Ogni teologia che pretenda di avere spiegazioni esaustive e tranquillizzanti è sfidata e provocata. La radicale contraddizione del vivere non può essere facilmente risolta in un semplice ragionamento consolatorio. C’è un paradosso del credere che si esprime nei termini del grido, della domanda rivolta a Dio e che rimane sospesa, della preghiera che rimane nell’attesa e non ottiene risposta.
Gesù, nella sua vicenda storica, è venuto a contatto in modo drammatico con il male e il dolore. Marco nel suo vangelo riporta vari incontri di Gesù con persone segnate dal male nelle sue diverse forme. Gesù è presentato in uno dei tratti propri della sua vita: si fa vicino e va incontro a persone malate e sofferenti, ed anche a chi è oppresso dal male in tanti modi: ‘Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni”.
Tre scene compongono la pagina del vangelo, e sono situate nell’arco della giornata di Gesù a Cafarnao narrata nel primo capitolo, in tre luoghi diversi: la prima nella casa di Simone e di Andrea, la seconda davanti alla porta, all’esterno dopo il tramonto del sole, la terza al mattino quando era ancor buio, in un luogo deserto.
La prima scena è nella casa ed è il racconto di una guarigione: la suocera di Simone è ammalata, a letto con la febbre. La descrizione è presentata in modo asciutto, con poche parole. Da un lato esse sono cariche di quel ricordo vivo di Gesù che si faceva incontro ai malati, al suo non aver paura, al suo sguardo che scorgeva in loro prima di tutto volti e persone da incontrare e accogliere. Gesù non aveva paura del contatto: il suo prendere per mano è gesto quotidiano e dice tenerezza e vicinanza.
Se queste parole delineano il riferimento alla memoria storica di Gesù nel contempo sono anche cariche di una lettura compiuta dopo la Pasqua nel ritornare a quello che Gesù faceva. Marco vede nell’incontro con Gesù della suocera di Pietro, nella quotidianità dei rapporti familiari, quasi un riassunto del percorso di ogni discepolo: ‘Egli, accostatosi, la sollevò prendendola per mano; la febbre la lasciò ed essa si mise a servirli’. I verbi utilizzati sono significativi. Così pure l’insistenza sull’avverbio ‘subito’ ripetuto con insistenza nel vangelo. Gesù si fa vicino alla suocera di Simone malata: l’incontro avviene perché gli parlarono di lei, si compie nel tessuto del quotidiano dei rapporti umani. Gesù si accosta e la rialza: è questo il verbo della risurrezione (‘risorgere’ si può anche dire ‘rialzarsi’) e si apre qui una fessura di luce.
Nel gesto del rialzare è visto ciò che si compie nella vita del discepolo che incontra Gesù. La forza di Gesù lo fa guarire e gli comunica vita, aprendolo ad un cammino. E’ il risorto che solleva tutti coloro che sono oppressi dal male e dalla morte. Gesù non è presentato come un guaritore o un taumaturgo che opera in modo sorprendente e fascinoso. Piuttosto la semplicità dei suoi gesti fa trasparire una comunicazione di vita, una corrente di partecipazione che ‘solleva’ la vita di chi lo incontra.
Marco conclude questa scena dicendo ‘la febbre la lascio ed ella li serviva’. Ed ancora qui può esserci il ricordo di chi serviva Gesù, quelle donne che lo seguirono tra i discepoli fino a Gerusalemme, fino al momento della croce (Mc 15,41). ma è anche una indicazione del profilo di tutti coloro che hanno incontrato Gesù: chiamati ad attuare un servizio che si prolunga nel tempo che si fa storia. Porre la propria vita al servizio di tutti è il percorso del figlio dell’uomo (Mc 10,45): la suocera di Pietro, liberata dalla febbre nell’essere stata sollevata dal gesto di Gesù accostatosi a lei diviene paradigma, all’inizio del vangelo, del cammino che ogni discepolo sarà chiamato a compiere: essere liberato, dalla cecità, dal male, dalla morte per mettersi a servire, non solo per un momento, per lo spazio di un entusiasmo, ma come attitudine fondamentale della sua esistenza: ‘ella si mise a servirli’.
La seconda scena è ‘davanti alla porta’ dopo il tramonto del sole: ‘gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era davanti alla porta’. La vita di Gesù non fu estranea al contatto doloroso e confuso con i volti, le invocazioni, le storie di tanti segnati dal male, esponendosi alle piaghe presenti nella città. Cafarnao è luogo di incroci e di incontri, città del passaggio e delle diversità. Gesù si immerge e non fugge in questa umanità che si raccoglie. Entra e si fa resposnabile della città.
Di fronte alla ricerca di lui come guaritore e taumaturgo, Gesù ‘non permetteva ai demoni di parlare’. Chiede il silenzio sulla sua identità nel momento in cui più forte è la ricerca e l’esaltazione di lui da parte di una folla desiderosa di risposte immediate ai propri bisogni. E’ proprio di Marco accentuare in qual modo Gesù rifugga da una ricerca di utilità. Il suo silenzio rinvia ad una proposta, è segno di un percorso che Gesù esige per i suoi ma anche per chi legge il vangelo per liberarlo da false idee circa il Messia: solamente sotto la croce sarà un pagano, il centurione romano che dirà, senza essere zittito: ‘Veramente quest’uomo era figlio di Dio’ (Mc 15,39). Solo a conclusione della sua strada Gesù potrà essere riconosciuto da una voce umana nella sua identità di messia non della gloria ma che percorre la via del dono di sé e del servizio, il Figlio (cfr. Mc 1,9-11; 9,28).
Può essere riconosciuto solo da chi si mette a seguirlo sulla stessa via della croce. Egli ha preso su di sè la sofferenza rendendola luogo di rivelazione dell’amore del Padre e di salvezza per tutti. Sulla croce Gesù fa propria la sofferenza e la domanda lacerante di Giobbe e manifesta la solidarietà dell’amore fino alla fine.
La terza scena è posta in un luogo deserto: è la preghiera di Gesù, presentata come momento del rapporto intimo, unico con il Padre, ricerca di solitudine per non farsi prendere da tutto ciò che rischia d far dimenticare l’essenziale, per accogliere la missione affidatagli del Padre: ‘per questo sono venuto’. Il suo ‘venire’ ha origine nell’invio del Padre. Per questo nonostante tutti lo cerchino Gesù risponde ‘Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là’. Gesù è venuto per andare oltre e per farci passare oltre scoprendo che il suo annuncio va oltre ogni possibile chiusura e ogni irrigidimento entro i ristretti confini.
Alessandro Cortesi op
Tenere la mano…
Il 26 gennaio u.s. papa Francesco ha autorizzato la beatificazione di 19 cristiani, uomini e donne, che hanno speso la loro vita in Algeria e sono stati uccisi negli anni della guerra civile che ha attraversato quel paese nel periodo tra il 1994 e il 1996.
Tra di essi ci sono i monaci della comunità di Tibhirine e Pierre Claverie, domenicano, vescovo di Orano. Sono essi le figure più conosciute di questi 19. Con loro vi sono altri uomini che hanno vissuto con umiltà nella preghiera e nel servizio e donne che hanno vissuto il loro darsi nella discrezione dell’impegno quotidiano. Ma la testimonianza è stata la medesima.
Sia dei monaci di Tibhirine sia di Pierre si conoscono gli scritti che hanno lasciato. Testimonianze che parlano della loro scelta, dell’interrogarsi su quanto stava accadendo, della scelta di rimanere accanto al popolo algerino nel tempo della violenza e del disorientamento come accanto ad un amico malato tenendogli la mano rimanendo vicino nel tempo della sofferenza.
Pierre Claverie ha speso la sua vita orientando tutte le sue forze all’incontro con l’altro. Lui stesso parla della sua giovinezza come di un periodo in cui aveva vissuto come in una bolla. Figlio di francesi che da generazioni risiedevano in terra d’Algeria così ricorda: “non eravamo razzisti, ma solamente indifferenti, ignorando la maggioranza degli abitanti di questa regione… Vissi circa vent’anni in quella che ora chiamo la ‘bolla coloniale’, senza vedere l’altro”. La sua analisi è lucida e così sintetizza l’atteggiamento suo e della comunità francese in terra algerina.
Da quando uscì dalla ‘bolla coloniale’ intese tutta la sua vita come via per approfondire il senso dell’incontro, abitato da una autentica ‘passione per l’altro’: entrato nell’Ordine domenicano e tornato in Algeria apprese la lingua araba per poter comunicare. Desiderava ‘imparare l’Algeria’.
Partecipò attivamente al camino della chiesa in Algeria, una chiesa in terra di Islam, che visse un profondo cambiamento di attitudine nel periodo che seguì alla indipendenza politica nel 1962. Una chiesa che aveva un numero esiguo di fedeli ma che intese la sua missione nel porsi al servizio del popolo algerino, nell’essere ‘una chiesa per i musulmani’.
“La parola chiave della mia fede oggi è dialogo; non per tattica né per opportunismo, ma perché il dialogo è costituivo della relazione di Dio con l’umanità e delle persone tra di loro”. Pierre non apprezzava un dialogo superficiale per interesse o convenienza, ma s’impegnò in un dialogo profondo e sincero. Autentico dialogo richiede il riconoscimento della singolarità dell’altro e disponibilità a lasciarsi arricchire dalla differenza, senza facili unanimismi. La sua passione stava nell’apprendere ciò che il suo prossimo, le persone algerine, i ricercatori, gli intellettuali e le persone indotte, quelle semplici e tutti coloro che incontrava nel quotidiano, potevano insegnargli. Il calore del suo temperamento mediterraneo lo rendeva sensibile all’amicizia e desideroso di creare luoghi di incontro e di uno scambio che giungeva fino ad affrontare il dialogo sulla ricerca di Dio.
La passione della sua vita è stata quella dell’incontro. Mise i suoi doni al servizio dello sviluppo che seguì gli anni dell’indipendenza del Paese, ma rimase fedele anche negli anni in cui si fece strada la violenza e le forze di coloro che si opponevano a quella che egli definiva una ‘umanità plurale e non esclusiva’.
Oggi viviamo il diffondersi della paura in particolare nei confronti dei musulmani. Sono varie le ragioni talvolta anche comprensibili per questo timore, alimentato dalla violenza perpetrata dall’Islam politico, dal fondamentalismo che ha visto l’espandersi di Daesh ma oggi si vive anche l’intolleranza volgare ed il sospetto senza ragione.
La beatificazione di questi testimoni non ha il senso di affermare la presenza dei cristiani in una vicenda tragica di violenza che ha segnato la storia dell’Algeria negli anni ’90 ed ha visto decine di migliaia di morti. E’ piuttosto un segno per riconoscere la fedeltà di una chiesa che ha inteso la sua presenza anche nel tempo della violenza, come testimonianza di amicizia e fedeltà al popolo algerino.
Questi uomini e queste donne hanno cercato di scorgere la chiamata di Dio nella terra dell’altro. Una scelta di solidarietà sino alla fine in nome del vangelo. Hanno orientato la loro vita nella ricerca di un’umanità plurale in cui riconoscere l’altro come fratello.
L’importanza del riconoscimento che è la beatificazione in questo momento storico non sta tanto nel fatto che questi cristiani furono uccisi, ma sta nel sottolineare l’orientamento che li ha guidati: essi decisero, nel tempo della prova, di rimanere solidali con il popolo algerino, partecipi delle sofferenze. Si sono spesi per il dialogo e per l’incontro anche nel buio e tra le difficoltà per non lsciare soli quei musulmani loro fratelli e sorelle nel tempo della prova, per camminare con essi nell’attesa di Dio. Come accanto ad un amico malato “tenendogli la mano, e asciugando la sua fronte con un panno”: con queste parole Pierre parlò dopo l’uccisione dei monaci di Tibhirine. In un tempo di paura dell’altro la loro testimonianza è benedizione.
Alessandro Cortesi op