XVIII domenica tempo ordinario – anno A – 2020
Is 55,1-3; Rom 8,35.37-39; Mt 14,13-21
“O voi assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente…
Acqua vino e latte sono insieme simboli di nutrimento, ma anche di gioia e di serenità. La terra a cui Israele ritorna dopo l’esilio offre non solo la possibilità di nutrirsi, segno della provvidenza di Dio, ma anche la libertà che apre ad un nuovo inizio in cui si sperimenta da ora il contenuto della promessa. La speranza d’Israele vede nel segno del banchetto la pienezza di vita che vi sarà alla fine nell’incontro con Dio. “Il Signore… preparerà per tutti i popoli su questo monte un banchetto di grasse vivande” (Is 25,6). Il nutrimento diviene simbolo di accoglienza e di incontro, e racchiude in sé il rinvio alla fine della storia, che sarà un incontro dei popoli, e un condividere l’abbondanza di vita dono di Dio.
Matteo nel suo vangelo narra il gesto di Gesù che ha dato da mangiare alle folle, un gesto ricordato in tutti i vangeli. E’ un gesto che parla di attenzione alle attese concrete e dice la compassione di Gesù. E’ poi un gesto carico di simboli: il pane ricorda il percorso dell’esodo, e rinvia all’esperienza d’Israele quando nel deserto accolse la manna come cibo donato da Dio. La manna non poteva essere accumulata, tutti potevano raccoglierla ed era sufficiente per un giorno. Un segno nel cammino verso la libertà che annuncia il banchetto promesso come segno dei tempi ultimi, dell’incontro con il messia.
In particolare Matteo narra il gesto di Gesù, che offre il pane alla folla che aveva fame, facendo riferimento alle parole e ai gesti dell’ultima cena: ‘dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Tutti mangiarono e furono saziati’.
Alzare gli occhi la cielo, pronunziare la benedizione, spezzare i pani sono i gesti di quella cena in cui Gesù donò il pane ai suoi come segno della sua vita donata e spezzata. Matteo riprende qui il riferimento a quei gesti che la sua comunità ripeteva nella memoria di Gesù ed è attento a sottolineare come il dono di Gesù è comunicato attraverso la comunità: ai discepoli infatti vengono dati i pani ed essi sono coinvolti in un gesti di distribuzione e condivisione: devono loro stessi distribuirli alla folla.
La distribuzione dei pani si connota così come gesto carico di significati. Innanzitutto è un gesto che viene incontro alla fame e ad una situazione di sofferenza. Rivela la cura di un Dio che ascolta il desiderio e la sofferenza dei suoi figli. E’ segno della compassione e del guarire i malati, che sono i tratti dell’agire di Gesù in cui si rispecchia l’agire di Dio stesso.
Il disegno di Dio è un mondo in cui il pane venga condiviso e vi sia attenzione per la vita di chi soffre. La lotta per l’equa distribuzione dei beni della terra è opera eucaristica che dovrebbe impegnare la comunità cristiana proprio a partire dall’ascolto della parola nel presente della nostra storia. La distribuzione dei pani indica anche un volto di Dio che ha cura di tutti i suoi figli e figlie: non c’è distinzione tra coloro che erano accorsi ad ascoltare Gesù. Al centro della preoccupazione di Gesù sta l’attenzione a che abbiano da mangiare tutti. La testimonianza della comunità cristiana a questo dovrebbe mirare, a rendere visibile nei suoi gesti la profezia di un mondo di condivisione. L’impegno a fare partecipare ogni persona e ogni popolo al banchetto della vita è traduzione concreta di questa certezza della fede.
Questo racconto manifesta anche che nella comunità di Matteo si rende chiaro come il ripetere i gesti di Gesù nell’ultima cena, cioè celebrare l’eucaristia non può essere un gesto avulso da un’opera concreta di condivisione e distribuzione del pane. In questo agire trova la sua più piena realizzazione il fare memoria del gesto di Gesù e divenire suoi discepoli. Nel segno del pane Gesù ha indicato il senso della sua vita. Accogliere la chiamata a distribuire e condividere la sua vita significa continuare nella propria vita i gesti di lui, impegnarsi perché il pane sia condiviso tra i popoli della terra.
Alessandro Cortesi op
Fame
A metà luglio la FAO, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricol-tura ha pubblicato un rapporto sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo (SOFI). Da esso risulta che quasi 690 milioni di persone durante il 2019 sono state colpite dalla mancanza di cibo e le previsioni sono che nel 2020 d circa 80 milioni di persone a più 130 milioni, potrebbero soffrire la fame per le conseguenze della pandemia sulla vita economica. Questi numeri segnalano come l’obiettivo fame zero, stabilito dall’ONU nel 2030, è messo a rischio e si sta allontanando.
Le cifre indicate nel rapporto indicano peraltro che vi è un aumento di persone che soffrono la fame negli ultimi anni. Vi è poi da considerare tutti coloro che non si possono permettere una dieta sana e adeguata a causa della condizione di povertà divenendo così esposti a soffrire malattie, ad avere una qualità di vita assai fragile e una aspettativa di vita molto limitata.
Il più alto numero di persone che soffre la fame è in Asia (circa 381 milioni), poi in Africa (250 milioni) e in America Latina e Caraibi (48 milioni). Dal 2014 anziché esservi una diminuzione della sottonutrizione si registra un aumento costante, che segue parallelamente l’aumento della popolazione mondiale.
La sottoalimentazione e la mancanza di una alimentazione sana sono i due ambiti in cui si renderebbe urgente una serie di scelte politiche ben diverse da quelle in atto. I cam-biamenti richiesti per garantire una alimentazione sufficiente e sana andrebbero a limitare molto le spese sanitarie che attualmente sono dedicate alle conseguenze negative della sottoalimentazione.
Se guardiamo alla situazione italiana un approfondimento del Censis per Confcooperative offre alcuni dati su cui riflettere: a causa della pandemia 3,3 milioni di lavoratori irregolari e 2,9 milioni di working poor sono stati posti sulla soglia della povertà. Oltre a questo altre 2,1 milioni di famiglie che in Italia sono sul baratro della povertà: sono le famiglie in cu si mangia perché qualcuno pratica lavori irregolari. Il periodo della chiusura delle attività ha infatti avuto pesanti conseguenze soprattutto sulle persone che si mantenevano con lavori precari, sfruttati o mal pagati.
Persone che fino a qualche mese fa riuscivano a sostenere le spese indispensabili oggi si vedono costrette a rivolgersi alle mense o alla distribuzione dei pacchi alimentari. Colpisce il titolo di una recente inchiesta di Francesca Mannocchi: ‘Anche nella ricca Milano la gente ha fame’ (L’Espresso, 3 luglio 2020). E’ questo un titolo che fotografa la situazione di un mondo ricco in cui è tuttavia presente, e non senza responsabilità, lo spettro della fame. E la fame è condizione di vulnerabilità che da un lato implora solidarietà, dall’altro apre a tutte le vie per uscire da questo tunnel. “La disperazione della fame può rovesciare le logiche del buon senso e i volontari delle organizzazioni caritatevoli oggi sono chiamati anche a questo: arginare la vulnerabilità prima che diventi devianza” (ibid.).
Questo stato di cose richiederebbe una trasformazione delle scelte politiche globali. I dati rivelano il fallimento di un sistema economico che mantiene i ricchi sempre più ricchi e aumenta le condizioni della povertà globale. Ma questo dovrebbe interpellare profondamente le comunità cristiane. E’ vero che ci sono tante iniziative e tanti gesti di solidarietà ma appare anche una certa assuefazione ad un mondo dominato da una logica di potere che mantiene queste dinamiche di impoverimento, di ingiustizia, di fame. La domanda che emerge infatti è: che cosa i cristiani dovrebbero oggi testimoniare in tale situazione in cui grande parte della popolazione mondiale non ha neppure da mangiare?
Accosterei così alcune osservazioni di José Castillo in questo tempo di pandemia relative alla chiesa. Egli osserva “c’è un fatto indiscutibile: i problemi che ci minacciano e ci opprimono sono in aumento, fino al punto di vedere il futuro dell’umanità, della terra e della vita ogni giorno più incerto e opprimente. Stando così le cose, qual è l’apporto della religione e degli uomini di religione in risposta alle molte domande che le persone sentono nella loro vita ed alle quali non trovano soluzione?” E richiama ad una situazione per cui
“La confusione è consistita nel fatto che ha mescolato e fuso il Vangelo di Gesù con la religione che proveniva dal giudaismo e come si viveva nell’impero. Ebbene, questa fusione di ‘religione’ e di ‘Vangelo’ non è stata ancora risolta. Ecco perché la Chiesa in modo del tutto naturale vive un gran numero di cose che sono fondamentali. E sono cose che contraddicono ciò che Gesù, la Parola di Dio e il Figlio di Dio, ha detto e fatto. Dando loro tanta importanza – a queste cose – da costargli la vita. A cosa sto facendo riferimento? Al “potere” ed alla sua maniera concreta di esercitarlo. Al “denaro” e ai rapporti oscuri che la Chiesa ha con questa questione capitale. E alle “relazioni umane” che la Chiesa consente e mantiene, che non sono proprio relazioni di “uguaglianza” e “bontà” nell’amore reciproco, e che la Chiesa non risolve.
Prima delle decisioni ecclesiastiche c’è il Vangelo, nel quale Dio si è rivelato a noi. Finché la Chiesa non porrà il Vangelo al centro della vita, il cristianesimo non sarà in grado di fornire la soluzione di cui questo mondo e in questo momento ha bisogno” (José María Castillo, Il disinteresse per l’elemento religioso, “Religión Digital (www.religiondigital.com) 25 luglio 2020).
Alessandro Cortesi op
XV domenica tempo ordinario – anno B – 2021
Am 7,12-15; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13
“Ed essi partiti … ungevano di olio molti infermi e li guarivano”
I dodici sono convocati insieme innanzitutto per ‘stare con Gesù’: “ne costituì dodici che stessero con lui”. Marco nel suo vangelo indica così il primo ed essenziale momento di un’esistenza di chi è inviato: è scoperta che tutto nasce dalla sua chiamata, da un incontro. Stare con lui è la prima missione a cui Gesù chiama i dodici, un passaggio non del fare ma del lasciarsi prendere da un dono di presenza e di comunità. Nello stare con lui i suoi amici scoprono poi quale è la strada su cui Gesù li precede e sono provocati a cambiare il loro modo di pensare. I dodici rinviano al numero delle tribù del popolo d’Israele. E’ il numero simbolo di una comunità che si allarga a comprendere un popolo vasto, il popolo di Dio aperto a tutti i popoli della terra. Soprattutto rinvia a scorgere la continuità con la vicenda del popolo d’Israele. Gesù non costituisce un gruppo che sostituisce il popolo d’Israele, popolo della chiamata e della promessa di Dio che permangono. Il grande raduno, sognato dai profeti, di cui il popolo d’Israele è primizia, è aperto a coinvolgere tutti i popoli della terra.
C’è poi un secondo movimento della vita degli apostoli: ‘chiamati per stare con Gesù’ ma anche “prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri”. La parola e l’operare per portare vita, liberazione, per vincere il male sono i due ambiti di azione degli inviati.
‘Stare per andare’. Tale invio è per tutti nella comunità che Gesù voleva: non ha un termine, non trova conclusione e lo stile della missione è la povertà. “ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche”. Non è solo richiamo a comportamenti sobri, più in radice esprime la scelta di seguire Cristo che si è fatto povero per noi. Gesù richiama ad affidarsi al Padre che non fa mancare ai suoi figli la sua cura.
Al cuore dell’esistenza nel seguire Gesù sta non un progetto di dominio, ma un movimento di lasciare spazio all’altro, di spogliarsi di tutto ciò che appesantisce e non apre ad accogliere la cura del Padre. L’invio di Gesù non è per una conquista ma per una testimonianza del suo vangelo, bella notizia che libera e guarisce l’esistenza per ogni uomo e donna.
Alessandro Cortesi op
Direzioni della missione
Un breve testo tratto dall’opera di David Bosch, Transforming mission:
“La proclamazione del regno di Dio è il centro di tutto il ministero di Gesù. Nel suo tempo, periodo di dominazione straniera, prevaleva la concezione del Regno di Dio come una realtà totalmente futura, che avrebbe capovolto la situazione e dato il dominio a Israele. Gesù, invece, sottolinea due elementi. Primo, il Regno di Dio riguardava non solo il futuro, ma anche già il presente, si era reso vicino; qualcosa di totalmente nuovo stava avvenendo; la speranza di liberazione si faceva vicina, il futuro era già entrato nel presente. Secondo, il Regno di Dio giungeva dovunque Gesù vinceva il potere del male. Siccome il male assume forme diverse – malattia, morte, possesso del demonio, peccato, privilegi dei gruppi, emarginazioni, vendette – anche il potere di Dio assume forme diverse.
Non si comprende l’azione di Gesù verso gli emarginati se non si coglie ciò che per Gesù è il Regno di Dio. È soprattutto a quanti sono messi ai margini della società che Gesù offre la possibilità di una nuova vita, basata sulla realtà dell’amore di Dio: possono stare a testa alta, sono figli del suo Regno, Dio si prende cura di loro. Agli occhi dei contemporanei di Gesù, Satana mostrava sugli impossessati la sua capacità di spadroneggiare. L’attacco del Regno di Dio contro il male si manifesta, allora, particolarmente con le guarigioni e la cacciata dei demoni: se Gesù caccia i demoni “con il dito di Dio”, “è segno che il Regno di Dio vi ha raggiunti” (Lc 11,20).
Va notata la natura inglobante del Regno di Dio: Gesù tocca tutte le forme di alienazione e tutti i muri dell’inimicizia e dell’esclusione. Per lui non c’è opposizione tra salvare dal peccato e salvare da una malattia fisica: per noi salvare è diventato un termine esclusivamente religioso, mentre nei Vangeli è usato almeno 18 volte nel caso di guarigione delle malattie. Anche il termine perdono comporta significati che vanno dalla liberazione degli schiavi al condono dei debiti, alla liberazione escatologica e alla remissione dei peccati.
La manifestazione del Regno di Dio nell’azione di Gesù è politica, anche se non nel senso moderno del termine. Dichiarare “figli del Regno di Dio” i poveri, era esprimere un profondo scontento della situazione e un forte desiderio di cambiamento. Per le vittime della società, la fede nella realtà del Regno di Dio risultava come un movimento di resistenza al fatalismo e all’emarginazione. Il venga il tuo Regno doveva suonare alle autorità come un proclama chiaramente politico. Hanno, infatti, ritenuto sovversiva l’azione di Gesù e l’hanno eliminato”.