XXX domenica tempo ordinario – anno A – 2020
Es 22,21-27; 1Tess 1,5-10; Mt 22,34-40
Negli ultimi capitoli del suo vangelo, Matteo, dopo aver narrato l’ingresso di Gesù a Gerusalemme (cap. 21) raccoglie una serie di controversie in cui Gesù è interrogato e messo alla prova da diverse categorie di persone che costituiscono le élites religiose e i capi del popolo. Al cap. 22 dopo la questione del tributo a Cesare suscitata da farisei e erodiani e quella sulla risurrezione sulla quale Gesù è provocato dai sadducei, gli viene posta una questione discussa su cui non c’era accordo tra le scuole: quale il più grande comandamento della legge.
La legge era sintetizzata nelle dieci parole dell’alleanza: tuttavia la tradizione aveva aggiunto ai dieci comandamenti centinaia di precetti (613 comandamenti) che costituivano nell’immaginario religioso una sorta di siepe per proteggere l’osservanza del nucleo della legge stessa. Erano norme che regolavano tutti i momenti della vita. Ma varie erano le proposte ad individuare il nucleo della legge stessa: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?» è la domanda che gli viene posta.
Gesù risponde in piena fedeltà al testo biblico e riprende due versetti presenti nei libri della Torah. II primo è un testo tratto dal Deuteronomio che richiama la fondamentale professione di fede che veniva ripetuta più volte al giorno nella preghiera dello Shemà: ‘ascolta Israele… amerai il Signore Dio con tutto il cuore… il Signore è uno’.
“Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore” (Dt 6,4-5).
Si tratta del comandamento che richiama a riferire la vita in tutte le sue dimensioni a Dio quale unico Signore dell’esistenza. E’ il primo comandamento perché richiama l’affidamento al Dio dell’alleanza, e chiede di non avere altri idoli nella vita ma riconoscere un solo Signore a cui affidarsi. E’ un comandamento riconosciuto e su cui si era articolata una vasta tradizione di pratiche e osservanze.
Gesù richiama all’amare Dio che è al cuore di questo comandamento: non sempre amare Dio corrisponde con le forme dei sacrifici, delle offerte delle preghiere e devozione praticati per offrire un culto che può essere scisso dalla vita.
La prassi cultuale e liturgica ha una grande forza nel far sentire a posto con Dio e gratificati nell’aver compiuto opere questo. Spesso è limitata ad aspetti esteriori senza coinvolgimento e può essere una forma di tranquillizzazione della coscienza dal momento che svolgere liturgie, preghiere o devozioni non turba particolarmente la vita e non genera di per sè cambiamenti nelle scelte e nell’operare. Gesù a tal riguardo condivideva la critica aspra dei profeti in Israele: essi sollevavano l’accusa ad un culto vuoto fatto di sacrifici e offerte mentre la vita va in altre direzioni e viene praticata la disonestà, l’ingiustizia andando contro la volontà di Dio.
Gesù per questo aggiunge nella sua risposta il riferimento ad un altro comandamento. E riprende a tal riguardo un altro versetto biblico dal libro del Levitico: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Lev 19,18). Richiama quindi non qualcosa di nuovo, bensì un orientamento che era ben presente nella tradizione biblica: non si può amare Dio se insieme non si vivono relazioni nuove di autentico amore verso il prossimo. I rapporti con gli altri sono il luogo di verifica dell’amore verso Dio.
Gesù, pienamente inserito nella fede d’Israele riconduce alla profondità della alleanza. Questo secondo comandamento, dice Gesù, è simile al primo. Il secondo comandamento è simile al primo in quanto ne è la trasparenza. In tal senso Gesù riporta tutta la questione sul più grande dei comandamenti ad una radicalità che interroga su di una prassi diversa. Gesù non è preoccupato di elaborare una teoria della morale o una costruzione teologica. Piuttosto chiede una prassi coerente in cui l’amore verso Dio si verificato nell’amore verso gli altri, in un unico e inscindibile movimento.
Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti: legge e profeti indicano tutta la Scrittura ebraica che è testimonianza dell’incontro di Dio che ha fatto alleanza con Israele e coinvolge in una storia di libertà.
Chi attua gesti di ascolto, accoglienza, cura, accompagnamento verso gli altri attua già in questo l’amore di Dio. E’ liberante ed è l’indicazione di Gesù sapere che dove ‘avete fatto qualcosa ad uno dei fratelli più piccoli’ lì c’è già incontro con Dio e amore per Lui. Questo fa superare la mentalità di chisura e di oppressione della religione per aprirsi all’incontro con Dio che coinvolge la fede e si attua nel rapporto con gli altri. E chi desidera coltivare l’amore di Dio è invitato a porre in pratica scelte di gratuità e attenzione verso gli altri.
In questa sua risposta Gesù pone una critica ad un modo di intendere la fede come legata a tutte quelle tradizioni di uomini che finiscono per oscurare le esigenze prime della fedeltà a Dio. E’ ciò che accadeva ai suoi tempi ed è ciò che accade oggi.
In questo senso Gesù comunica anche una immagine di Dio diversa dal Dio di una religione del culto e dell’appartenenza culturale e ripropone il volto del Dio dell’Esodo e dell’alleanza, il Dio che ascolta il grido dei poveri e delle vittime e scende a liberarli per aprire percorsi di libertà nell’amore che si prende carico dell’altro.
Può essere interessante ricordare a tal proposito quanto Paolo dice nella lettera ai Galati “Voi infatti… siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso”.
Alessandro Cortesi op
Fanatismo e fede
Abbiamo assistito attoniti in questi ultimi giorni all’uccisione compiuta in modo crudele di Samuel Paty professore di storia alla periferia di Parigi, colpevole per il suo assassino di aver mostrato a lezione ai suoi studenti le vignette satiriche su Maometto. Chi ha compiuto quel gesto efferato l’ha accompagnato con l’invocazione al nome di Dio, nella pretesa che la soppressione di una vita fosse un gesto di fedeltà e culto a Dio.
E’ un fatto su cui riflettere: c’è infatti il rischio di indignarsi solo momentaneamente o di derubricare gesti come questo come una radicalizzazione religiosa senza considerare le sue profonde implicazioni e senza porre il problema su cosa fare per contrastare tale violenza che si connette alla religione. Compare benché invano, il nome di Dio. Benché le tradizioni religiose siano fonti di opposizione alla violenza nella storia tuttavia la violenza si è accompagnata alla religione in varie modalità, e ciò va considerato attentamente.
Le osservazioni di un possono essere d’aiuto ad indicare alcune questioni in gioco.
In una recente intervista a Le Monde (19.10.20) Adrien Candiard, domenicano francese autore del testo Comprendre l’islam. Ou plutôt: pourquoi on n’y comprend rien (Flammarion, 2016) ha offerto una serie di interessanti spunti. Osserva come i gesti di fanatismo religioso spesso sono accostati da un punto di vista meramente sociologico e psicologico. In questa linea essi costituirebbero espressioni di un eccesso di religione e la loro cura si porrebbe nella linea di ridurre l’attenzione alla dimensione religiosa nell’educazione e nella vita pubblica.
Candiard critica tale approccio e propone una lettura diversa: “C’è … una diagnosi sbagliata nel fatto di non affrontare il fanatismo come un errore religioso, ma di affrontarlo solo come una devianza sociale o psicologica”. Propone di scorgere nei gesti dei fanatici religiosi un errore che tocca aspetti al cuore dell’esperienza religiosa: “il principale errore teologico del fanatismo è non lasciare spazio alla fede. Dietro il costante riferimento a Dio, c’è una sostituzione di Dio con altri oggetti, come il culto o i comandamenti, che certo fanno parte della pratica religiosa, ma non sono Dio. Questi oggetti finiti e limitati sono pertanto considerati come assoluti e illimitati, e questo è un errore teologico ben conosciuto sotto il nome di idolatria”.
Il fanatismo costituisce quindi un orientamento idolatrico. Si oppone radicalmente ad un accostamento sincero al volto di Dio perché opera una sostituzione: Dio diventa un idolo. Si può pensare al vitello d’oro, ma anche a tutte le immagini di Dio elaborate da uomini in costruzioni teologiche considerate assolute, oppure l’idolatria per un sistema sacrale e religioso di cui si pretende di essere detentori.
Candiard preferisce utilizzare il termine fanatismo rispetto ad altri (come fondamentalismo o integralismo) spiegando che non indica una radicalità. Chi uccide o mette le bombe non è un religioso radicale ma qualcuno che ha sostituito Dio con una costruzione religiosa umana di cui si titiene detentore e possessore: “La caratteristica del fanatismo non è andare fino in fondo nelle cose, ma deviarle”.
Per contrastare tale fanatismo suggerisce di intraprendere nuove vie che tengano conto di questioni specificamente teologiche: “bisogna smetterla di fare come se la religione non esistesse… Bisogna riaffermare che le religioni portano, anch’esse, delle riflessioni razionali e che, quando si formano delle menti al pensiero critico, esse non possono essere escluse dall’insegnamento. Bisogna preparare gli alunni ad affrontare e a prendere sul serio i discorsi teologici”.
Sono temi che andrebbero affrontati anche in una considerazione nella educazione scolastica a livello pubblico per poter contribuire alla formazione di un pensiero critico e di comprensione seria dell’esperienza religiosa e – aggiungerei – della distinzione fondamentale tra religione e fede su cui oggi si può notare una incomprensione generalizzata. La violenza in nome di Dio che è idolatria provoca a riflettere su come estirparla senza entrare nella medesima logica di aggressione, di intolleranza e di repressione cieca rispetto alle esigenze educative.
Smettere di essere proprietari di Dio, accettare di disfarsi delle difese armate e di un’attitudine aggressiva, aprirsi alla sfida del dialogo, riconoscere la dignità dell’altro: è questo un orizzonte di impegno che rimane aperto e richiama a quell’unico e più grande comandamento “Amerai Dio… amerai il prossimo tuo…”.
Alessandro Cortesi op
SPUNTI PER UN APPROFONDIMENTO: Ma chi sono i farisei?
“Se riconosciamo che gli ebrei di oggi si sentono discendenti dei farisei allora dobbiamo capire che non possiamo parlare male dei progenitori dei nostri amici. Noi vogliamo poterne parlare su una base più veritiera e con un amore vero per l’altro”. (Joseph Sievers, docente di storia e letteratura giudaica al Pontificio Istituto Biblico)
Qui di seguito una parte del testo del saluto di papa Francesco ad un convegno internazionale tenutosi nel 2019 promosso dal Pontificio Istituto Biblico sul tema Gesù ed i farisei. Un riesame interdisciplinare
(…) Do il benvenuto ai partecipanti al Convegno su “Gesù e i Farisei. Un riesame interdisciplinare”, che intende affrontare una domanda specifica e importante per il nostro tempo e si presenta come un risultato diretto della Dichiarazione Nostra aetate. Esso si propone di capire i racconti, a volte polemici, riguardanti i Farisei nel Nuovo Testamento e in altre fonti antiche. Inoltre, affronta la storia delle interpretazioni erudite e popolari tra ebrei e cristiani. Tra i cristiani e nella società secolare, in diverse lingue la parola “fariseo” spesso significa “persona ipocrita” o “presuntuoso”. Per molti ebrei, tuttavia, i Farisei sono i fondatori del giudaismo rabbinico e quindi i loro antenati spirituali.
La storia dell’interpretazione ha favorito immagini negative dei Farisei, anche senza una base concreta nei resoconti evangelici. E spesso, nel corso del tempo, tale visione è stata attribuita dai cristiani agli ebrei in generale. Nel nostro mondo, tali stereotipi negativi sono diventati purtroppo molto comuni. Uno degli stereotipi più antichi e più dannosi è proprio quello di “fariseo”, specialmente se usato per mettere gli ebrei in una luce negativa.
Recenti studi riconoscono che oggi sappiamo meno dei Farisei di quanto pensassero le generazioni precedenti. Siamo meno certi delle loro origini e di molti dei loro insegnamenti e delle loro pratiche. Pertanto, la ricerca interdisciplinare su questioni letterarie e storiche riguardanti i Farisei affrontate da questo convegno aiuterà ad acquisire una visione più veritiera di questo gruppo religioso, contribuendo anche a combattere l’antisemitismo.
Se prendiamo in considerazione il Nuovo Testamento, vediamo che San Paolo annovera tra quelli che una volta, prima di incontrare il Signore Gesù, erano i suoi motivi di vanto anche il fatto di essere «quanto alla Legge, fariseo» (Fil 3, 5).
Gesù ha avuto molte discussioni con i Farisei su preoccupazioni comuni. Ha condiviso con loro la fede nella risurrezione (cfr. Mc 12, 18-27) e ha accettato altri aspetti della loro interpretazione della Torah. Se il libro degli Atti degli Apostoli asserisce che alcuni Farisei si unirono ai seguaci di Gesù a Gerusalemme (cfr. 15, 5), significa che doveva esserci molto in comune tra Gesù e i Farisei. Lo stesso libro presenta Gamaliele, un leaderdei Farisei, che difende Pietro e Giovanni (cfr. 5, 34-39).
Tra i momenti più significativi del Vangelo di Giovanni c’è l’incontro di Gesù con un fariseo di nome Nicodemo, uno dei capi dei Giudei (cfr. 3, 1). È a Nicodemo che Gesù spiega: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna (3, 16). E Nicodemo difenderà Gesù prima di un’assemblea (cfr. Gv 7, 50-51) e assisterà alla sua sepoltura (cfr. Gv 19, 39). Comunque si consideri Nicodemo, è chiaro che i vari stereotipi sui Farisei non si applicano a lui, né trovano conferma altrove nel Vangelo di Giovanni.
Un altro incontro tra Gesù e i capi religiosi del suo tempo è riportato in modi diversi nei Vangeli sinottici. Ciò riguarda la questione del “grande” o “primo comandamento”. Nel Vangelo di Marco (cfr. 12, 28-34) la domanda viene posta da uno scriba, non diversamente identificato, che instaura un dialogo rispettoso con un insegnante. Secondo Matteo, lo scriba diventa un fariseo che stava cercando di mettere alla prova Gesù (cfr. 22, 34-35). Secondo Marco, Gesù conclude dicendo: «Non sei lontano dal regno di Dio» (12, 34), indicando così l’alta stima che Gesù ha avuto per quei capi religiosi che erano davvero “vicini al regno di Dio”.
Rabbi Aqiba, uno dei rabbini più famosi del secondo secolo, erede dell’insegnamento dei Farisei (S. Eusebii Hieronymi, Commentarii in Isaiam, III, 8: pl 24, 119.), indicava il passo di Lv 19, 18: «amerai il tuo prossimo come te stesso» come un grande principio della Torah (Sifra su Levitico 19, 18; Genesi Rabba 24, 7 su Gen 5, 1). Secondo la tradizione, egli morì come martire con sulle labbra lo Shemà, che include il comandamento di amare il Signore con tutto il cuore, l’anima e la forza (cfr. Dt 6, 4-5. Testo originale e versione italiana in Talmud Babilonese, Trattato Berakhòt, 61 b, Tomo ii, a cura di D. G. Di Segni, Giuntina, Firenze 2017, pp. 326-327). Pertanto, per quanto possiamo sapere, egli sarebbe stato in sostanziale sintonia con Gesù e il suo interlocutore scriba o fariseo. Allo stesso modo, la cosiddetta regola d’oro (cfr. Mt 7, 12), anche se in diverse formulazioni, è attribuita non solo a Gesù, ma anche al suo contemporaneo più anziano Hillel, di solito considerato uno dei principali Farisei del suo tempo. Tale regola è già presente nel libro deuterocanonico di Tobia (cfr. 4, 15).
Quindi, l’amore per il prossimo costituisce un indicatore significativo per riconoscere le affinità tra Gesù e i suoi interlocutori Farisei. Esso costituisce certamente una base importante per qualsiasi dialogo, specialmente tra ebrei e cristiani, anche oggi.
In effetti, per amare meglio i nostri vicini, abbiamo bisogno di conoscerli, e per sapere chi sono spesso dobbiamo trovare il modo di superare antichi pregiudizi. Per questo, il vostro convegno, mettendo in relazione fedi e discipline nel suo intento di giungere a una comprensione più matura e accurata dei Farisei, permetterà di presentarli in modo più appropriato nell’insegnamento e nella predicazione. Sono sicuro che tali studi, e le nuove vie che apriranno, contribuiranno positivamente alle relazioni tra ebrei e cristiani, in vista di un dialogo sempre più profondo e fraterno. Possa trovare un’ampia risonanza dentro e fuori la Chiesa Cattolica, e al vostro lavoro possano essere concesse abbondanti benedizioni dall’Altissimo o, come direbbero molti dei nostri fratelli e sorelle ebrei, da Hashèm. Grazie”.
XXXI domenica tempo ordinario – anno B – 2021
Dt. 6,2-6; Eb 7,23-28; Mc 12,28-34
“Qual è il primo di tutti i comandamenti?” Gesù risponde richiamandosi alla Torah e rinviando a due passi della Scrittura. Il primo testo è dal Deuteronomio: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore” (Dt 6,4-9)
Questo testo sta all’origine della preghiera che nella tradizione ebraica è ripetuta al mattino e alla sera, scandendo la giornata. E queste parole sono riportate su rotoli contenuti in piccole teche di cuoio da legare alla fronte e al braccio per la preghiera, segno di un fissare nel cuore l’ascolto a cui esse richiamano. Invitano infatti a porre Dio al primo posto nella vita come spesso i profeti ricordano: “poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti.” (Os 6,6).
E’ un appello all’importanza essenziale dell’ascolto per sfuggire al grande peccato dell’idolatria che è inseguire riferimenti vani, scambiati per assoluti ma che non hanno consistenza. Ascoltare significa porsi in relazione con Dio che si rende vicino e chiama Israele ad incontrarlo nella vita: ‘Io sarò colui che sarò… sarò con te’ (cfr. Es 3,14) è il nome consegnato a Mosè e indica un cammino in cui accogliere una presenza vicina. Ascoltare è attitudine del cuore, che nel linguaggio biblico costituisce il centro della sensibilità ma anche dell’intelligenza e delle decisioni-. Ascoltare genera un affidamento ed implica riconoscere Dio come unico riferimento assoluto nell’esistenza. Per questo la preghiera dello Shemà è sintesi della spiritualità dell’esodo: il Dio che ha liberato Israele non prende il posto del faraone, paradigma di ogni potere che genera oppressione e ingiustizia, ma dona liberazione e vita anche nel deserto e chiama a rimanere nell’ascolto per rispondere alla sua Parola.
Gesù poi riprende un secondo testo, tratto dal libro Levitico, dal codice di santità: “Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lev 19,2; cfr. Lev 20,8). “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Lev 19,18).
Gesù richiama così il cuore della legge e accompagna a recuperarne le radici: non entra nel dibattito di scuola sulla questione di quale precetto sia il più importante che conduce alla fine a svuotare il richiamo di fondo di questi testi e a perdere di vista il centro. Gesù non rinvia ad una serie di norme o di espressioni cultuali. Richiama all’esperienza dell’Esodo. Ascolto di Dio e amore per l’altro costituiscono il cardine della legge.
Proprio in questi giorni papa Francesco durante l’udienza del 27 ottobre us ha ricordato: “Ancora oggi, molti sono alla ricerca di sicurezze religiose prima che del Dio vivo e vero, concentrandosi su rituali e precetti piuttosto che abbracciare con tutto sé stessi il Dio dell’amore. E questa è la tentazione dei nuovi fondamentalisti, di coloro ai quali sembra la strada da percorrere faccia paura e non vanno avanti ma indietro perché si sentono più sicuri: cercano la sicurezza di Dio e non il Dio della sicurezza”.
Alle parole di Gesù lo scriba reagisce dicendo che questo vale più di tutte le pratiche religiose. E Gesù gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. L’esperienza dell’ascolto e dell’amore per Dio nella proposta di Gesù si attua solamente nell’apertura all’incontro con gli altri. Mettendo insieme queste due parole della Legge Gesù richiama ad un incontro di Dio da vivere nelle relazioni concrete con gli altri. L’altro è prossimo da riconoscere come tale, da vedere e da incontrare. La vita di chi segue Gesù deve essere intesa ‘mai senza l’altro’.
Alessandro Cortesi op
Tutti i santi – anno B – 2021
Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a
“Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”
Apocalisse non è ‘fine del mondo’ ma rivelazione: l’ultimo libro del Nuovo testamento è un testo profetico, lettura della storia alla luce del vangelo. Nelle prove del presente viene indicato il cammino orientato ad un incontro con Dio che salva. Gesù Cristo è presentato con l’immagine dell’agnello ferito, ma che sta in piedi. Ferito perché reca i segni della passione ed è il Gesù crocifisso. In piedi perché è risorto e ha vinto la morte. Così la sua comunità nel tempo vive la prova e la sofferenza ma sa anche che Gesù Cristo è colui che può sciogliere i nodi che tengono chiuso il libro della vita e della storia.
Apocalisse presenta una grande liturgia in cui chi partecipa è coinvolto con gioia e non c’è solitudine. E’ così vista una moltitudine immensa oltre ogni possibilità di misurazione (nessuno la poteva contare). E’ la moltitudine di tanti testimoni del vangelo. La palma è simbolo della testimonianza in rapporto al dono della fede e del battesimo: chi ha cercato di vivere la sua fede fino alla fine è testimone: tutta la sua vita è stata orientata all’incontro con Dio e ha percorso la strada di Gesù.
“noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui”
La prima lettera di Giovanni richiama l’itinerario della fede, tra un ‘già’ che sperimentiamo nel presente e un ‘non ancora’ da attendere ma anche da affrettare. Sin d’ora siamo figli di Dio, partecipi di una relazione di vita. Siamo chiamati con il nome unico che Dio ha pronunciato chiamando alla vita. Ma questo nome è anche un seme che per crescere richiede cura, nutrimento, luce e spazio: è chiamata perché possa svilupparsi una crescita. Una chiamata fondamentale è per tutti e si differenzia nelle varie tappe e circostanze della vita: diventare simili al volto di Gesù stesso che ha fatto della sua vita un dono. Nell’incontro con lui si attua una somiglianza. La vita dei cristiani si colloca in una attesa in cui sono presenti fatica e dolore, ma anche speranza e responsabilità. Appoggiandoci sui segni dell’amore di Dio possiamo aprirci alla speranza: la nostra vita va verso una comunione tra di noi e con Lui. Lo vedremo così come egli è, ma questo incontro è già iniziato in quel vedere che è lo sguardo del credere che si lascia formare nell’affidamento.
“Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”.
I poveri in spirito, quelli che sono nel pianto, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia, tutti voi quando vi insulteranno… sono chiamati a rallegrarsi. Ma di che cosa ci si deve rallegrare? Gesù non vuole per i suoi la povertà, la persecuzione, l’ingiustizia. Piuttosto annuncia che Dio sta dalla parte di tutti coloro che vivono in queste situazioni, e si fa loro vicino, per liberarli, prende le loro parti. Dio ‘ha guardato alla condizione umile dei suoi servi’, di tutti coloro che si affidano a lui e non hanno potenza e ricchezza e strumenti di affermazione umani. Questa è la ragione del rallegrarsi: chi vive questo stile anche se non occupa i primi posti, anche se ritenuto fallito o perdente, anche se l’impegno per la giustizia e per il riconoscimento dei diritti dei più fragili è denigrato, è sulla strada di Gesù. Gesù nella sua vita è stato povero, mite, puro di cuore. In lui e nel suo stile si può trovare il senso della propria esistenza quale vita bella: una vita non da schiavi sotto i ‘comandamenti’ ma da persone libere secondo la libertà gioiosa delle beatitudini.
Alessandro Cortesi op