IV domenica tempo ordinario – anno B – 2018
Deut 18,15-20; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28
“Il Signore disse: Io susciterò loro un profeta e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò” (Deut 18,16). Profeta è l’uomo della Parola, la cui vita è segnata da un incontro e da una chiamata. Contesta i falsi volti di Dio e la religiosità che si allea con il potere. Richiama al volto di Dio protettore dello straniero, dell’orfano, della vedova e ad un culto che si attua nella vita (Is 1,16-17). Il profeta si contrappone al re sta come voce critica che richiama la Parola nei confronti della tentazione continua di ridurre il rapporto con Dio ad una giustificazione del predominio sugli altri, delle strutture di ingiustizia e della guerra (cfr. Am 5,14-15).
La pagina del vangelo di Marco presenta Gesù come profeta ‘uomo della parola’, dell’insegnamento. Il verbo ‘insegnare’ ritorna con insistenza: “si mise ad insegnare. Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità…”.
Il tempo è il giorno di sabato, memoria del riposo di Dio nella creazione e dell’alleanza nel dono della legge. Il luogo è la sinagoga, uno dei vari luoghi in cui Gesù passa nell’arco della giornata di Cafarnao descritta nel capitolo 1 del vangelo di Marco. Nel luogo della comunità e della Parola Gesù presenta un insegnamento pacato, non gridato, una parola che incontra la vita. Un insegnamento che attira ed affascina perché espressione di una autenticità e libertà, di chi dice una parola che sgorga dall’interiorità della sua esistenza, come testimonianza.
Marco sottolinea la contrapposizione tra l’insegnamento di Gesù e il grido dell’uomo posseduto da uno spirito immondo. Proprio lì al centro del luogo religioso: “si mise a gridare: ‘che c’entri con noi Gesù nazareno? Io so chi tu sei: il santo di Dio!’. E Gesù lo sgridò: ‘Taci, esci da quell’uomo’. E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.”
Una voce grida l’identità di Gesù in modo prepotente. Gesù invita al silenzio: ‘Ammutolisci ed esci da lui’. Al centro del luogo religioso è presente la forza del male come grido violento che contrasta l’insegnamento di Gesù. Il suo insegnare si fa gesto di liberazione e apre il passaggio dal grido all’ascolto. L’ascolto è l’attitudine fondamentale del credente. Non una parola che fa morire, ma una parola che fa vivere.
Quell’uomo gridava, dominato dal male, contro la parola di Gesù: riconosce la sua identità come proveniente da Dio: ‘il santo di Dio’. Eppure Gesù lo sgrida: si contrappone alla violenza che divide (satana) e tiene schiavi. Quell’uomo sembra forte perché grida e s’impone ma è dominato e oppresso. Con la sua parola Gesù restituisce quell’uomo a se stesso, apre ad una libertà nuova.
Marco delinea in Gesù il modello di un educatore. Nella sua opera apre spazi alla crescita, alla vita di ognuno. Ed è sottolineata la meraviglia perché il suo insegnamento era ‘nuovo’, una parola significativa. La parola di Gesù richiama così la promessa annunciata nel Deuteronomio: “All’udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: Questi è davvero il profeta” (Gv 7,40; cfr. Gv 6,14). E’ insegnamento che tocca la vita, che apre rapporti di libertà.
Il dono di essere profeti nel popolo di Dio è dono di ascolto di questa parola che può coinvolgere e trasformare la nostra esistenza.
Alessandro Cortesi op
Milano, Museo della Shoah, Binario 21
Insegnare: coltivare la memoria
«Ho dovuto diventare vecchia per accettare di vedere le cose che mi erano capitate sotto gli occhi e che mi ero limitata a guardare». Con queste parole Liliana Segre sintetizza il suo percorso: lo situa tra “guardare” e “vedere”. Pochi giorni fa ha ricevuto a sorpresa la nomina di senatrice a vita dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quale testimone dello sterminio nazista e delle sofferenze del popolo ebraico e di tutti coloro che furono perseguitati dalle leggi razziali del 1938 in Italia, di cui quest’anno ricorre l’anniversario.
Ha vissuto un lento percorso per poter scorgere in profondità ciò che aveva vissuto e che ha segnato nella sofferenza la sua esistenza. «Io per troppi anni ho guardato senza vedere. Tutto: dai mucchi di cadaveri alle compagne inginocchiate. E quelle che si sono attaccate ai fili elettrici per uscire». Il suo percorso stato quello di una bambina di una famiglia borghese a Milano che ad un certo punto, a seguito delle leggi razziali, avverte gli sguardi insospettiti, percepisce l’emarginazione crescente attorno a sé e attorno alla sua famiglia.
Aveva otto anni quando le impedirono di recarsi a scuola. In un lento e progressivo percorso di rifiuto l’allontanamento e l’emarginazione divengono sempre più sensibili e conducono in modo repentino da una vita agiata e felice ad una condizione di incertezza e incredulità: molte famiglie ebree fuggono, altre sono incerte ed incredule di fronte al male di cui non si percepiscono i confini. I Segre attendono, fino agli inizi di dicembre del 1943 quando tentano anch’essi di fuggire in Svizzera ma vengono fermati. Riportati a Milano, incarcerati a san Vittore, saranno deportati ad Auschwitz. Dal binario 21 a fine gennaio parte il treno con i vagoni piombati della deportazione. All’arrivo nel lager Liliana è separata dal padre che non rivedrà più e condotta ai lavori forzati. Sopravvive allo sterminio, alla fame e alla marcia del ritorno dopo la liberazione del campo alla fine di aprile 1945. Ma molti anni seguiranno prima che possa passare dall’aver guardato al vedere e a maturare la capacità di raccontare e ricordare.
“Liliana Segre riconquista il diritto a vedere. Comincia a parlare della Shoah nelle scuole di Milano, e da allora non smette più. Parla ai giovani studenti, affinché sappiano. Perché una cosa è leggere un libro di storia, e tutt’altra emozione è sentire la voce e osservare gli occhi e i gesti di che “là” c’è stato. Non è vero che con la generazione dei testimoni, che inesorabilmente ci lascia, anche il ricordo sia destinato ad affievolirsi. Perché chi ha voluto e saputo parlare, come Liliana Segre, ha riacceso la fiamma della memoria. Il ricordo è una cosa viva, che passa da una generazione all’altra, come una candela serve ad accenderne un’altra – l’immagine è di Dina Wardi. Chi la guarda, non può non vederla, la fiamma. Per quanto buio abbia fatto, allora. E per quante ombre possano ancora scendere, ora”. (Giulio Busi, Memoria e testimonianza, Liliana Segre senatrice a vita, “Il Sole 24 Ore” del 20 gennaio 2018)
Dopo aver ricevuto la nomina a senatrice Liliana Segre ha detto “Salvare quelle storie, coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza. E la può usare… Porterò al Senato la voce di chi subì le leggi razziali…». Parole che sono state pronunciate mentre messaggi e proclami di esclusione e gesti di razzismo si diffondono per l’Europa, si fanno slogan di campagne elettorali nel nostro paese, e il buio dell’odio si presenta ancora con le sue ombre.
Alessandro Cortesi op
Domenica delle Palme – anno C – 2022
Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56
Il racconto della passione secondo Luca è una rilettura degli eventi storici degli ultimi giorni di Gesù, profeta della Galilea, compiuta alla luce dell’incontro con il Risorto, in cui traspaiono elementi propri della sensibilità di Luca e della sua comunità. Si può quindi leggere la lunga narrazione della passione, comune a tutti i vangeli, tentando di cogliere i tratti propri della versione lucana.
Il primo elemento caro a Luca è quello della via: la via della croce percorsa da Gesù fino a Gerusalemme è la medesima via che anche il discepolo è chiamato a percorrere nel seguire l’esempio di Gesù: lo stesso Gesù è infatti presentato come il ‘grande testimone’. Sulla via, verso il luogo della crocifissione, Simone di Cirene viene richiesto di prendere la croce di Gesù ed egli si trova a portarla dietro a lui (23,26): è questa una sottolineatura tipicamente lucana sul cammino di chi segue Gesù. Luca infatti sottolinea l’aspetto della quotidianità nella sequela: ‘Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua’ (9,23). La croce non racchiude un significato di sofferenza, tanto meno di sofferenza ricercata, ma è indicazione della scelta maturata da Gesù di vivere fino infondo la sua vita per annunciare la bella notizia per i poveri, come servo di tutti.
Luca insiste poi particolarmente sui tratti di mitezza e fedeltà di Gesù: è infatti ritratto nel suo rifuggire dalla violenza mentre attorno a lui si addensano scelte di ingiustizia e di violenza. Gesù è presentato nei tratti del ‘servo di Jahwè’ perseguitato ingiustamente e fino alla fine mantiene la solidarietà con tutti, donando il perdono anche nel momento estremo della sua vita (23,34).
Gesù comunica l’abbraccio di misericordia del Padre anche quando, guardando Pietro, lo accompagna a ‘ricordare le parole’ da lui dette (22,54-61): gli apre un futuro di perdono e gli dà coraggio rinviandolo alle sue parole.
L’intera narrazione è situata nel contesto della Pasqua: “Si avvicinava la festa degli azzimi, chiamata Pasqua…” (22,1.7). La festa di Pasqua non è importante solamente per la cronologia, ma quale grande riferimento che aiuta a comprendere il senso degli avvenimenti: l’agnello era elemento centrale della celebrazione ebraica di Pesah. Luca pone al centro la presenza di Gesù con rinvio all’agnello. Pesah recava inoltre il significato memoriale di liberazione che portava a rivivere il passaggio di Dio e il passaggio del popolo dalla schiavitù alla libertà (cfr. 22,15-20).
Anche il complotto per uccidere Gesù è letto da Luca secondo un’interpretazione teologica: potere religioso e potere politico si accordano per eliminare Gesù. E’ un complotto che usa un tradimento: “…egli (Giuda) andò a discutere con i sommi sacerdoti e i capi delle guardie sul modo di consegnarlo nelle loro mani” (22,4). Luca legge questi eventi cogliendo come l’intera passione di Gesù è una consegna libera agli uomini. E nel contempo è consegna fiduciosa nelle mani del Padre proprio nel momento della condanna e della morte: “questo è il mio corpo dato per voi” (22,19), “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (23,46).
Gli eventi dell’arresto, il processo davanti al sinedrio, a Erode e a Pilato, sono proposti come rinnovato scontro tra Gesù e le forze del male: ‘colui che separa’, satana, ritorna nel ‘tempo stabilito’ per lo scontro definitivo (cfr. 4,11). L’intera esistenza di Gesù è vista quindi da Luca come una lotta del servo mandato per rimettere in libertà gli oppressi e per inaugurare un tempo di liberazione da ogni male (cfr. 4,18-19).
Davanti al sinedrio le accuse sono di tipo religioso e compare il titolo dato a Gesù di ‘Figlio dell’uomo’, titolo riferito al messia, con la citazione del salmo 110. Davanti ai capi del sinedrio Gesù si presenta con i tratti del Messia fedele alla sua missione: già in questo momento si sta compiendo una ‘salita’ continuazione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme: “da questo momento sarà innalzato il figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio” (22,69).
Nell’interrogatorio davanti a Pilato la questione posta riguarda la pretesa di Gesù di essere re: il gesto del suo ingresso a Gerusalemme aveva i tratti di un corteo regale (19,20-40), accompagnato dal saluto dei presenti: “benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore! Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli” (19,40).
Gesù di fronte alla domanda di Pilato racchiude nel silenzio della sua risposta una distanza profonda: il suo essere re è di tipo diverso dal potere di chi lo accusa. Così pure sta in silenzio davanti a Erode.
Gesù è re che non salva se stesso ma è venuto per dare la sua vita: al momento della crocifissione si compie l‘oggi’ di salvezza che attraversa l’intero vangelo. Le ultime parole sulla croce sono di accoglienza e salvezza: “Oggi sarai con me in paradiso” (23,43). Sono ripresa di parole che attraversano il vangelo: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato…” (4,21)… “Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (19,9).
“Stare nelle cose del Padre” (2,49) è la prima parola posta in bocca a Gesù nel vangelo ed è anche l’ultima prima della morte: essa racchiude l’abbandono fiducioso al padre di misericordia che ha compassione e va in cerca di ciò che è perduto (Lc 15). Sulla croce Luca scorge sul volto di Gesù il profilo del giusto che dona salvezza, non cerca di salvare se stesso, ma offre vita per tutti. I testimoni davanti al sepolcro vuoto nel mattino di Pasqua di lui diranno: “Non è qui” perché è il Vivente. Questo l’annuncio accolto dalle donne al sepolcro nel mattino del primo giorno dopo il sabato (24,5; cfr 24,23).
Ma di fronte alla morte di Gesù tutti i personaggi che Luca presenta stanno pensosi, osservando (23,35) e per tutti c’è possibilità di una storia nuova di fronte a lui: è questa l’attitudine richiesta anche a noi in questi giorni verso la Pasqua.
Alessandro Cortesi op
La fatica della responsabilità in un tempo difficile
Oggi 9 aprile è anniversario dell’uccisione di Dietrich Bonhoeffer, cristiano contemporaneo, pastore della chiesa confessante, teologo, testimone, nel lager di Flossenbürg (9 aprile 1945), pochi giorni prima della liberazione. La sua testimonianza e le sue parole sono guida in questo tempo oscuro:
“L’essenza dell’ottimismo non è guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tener alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, ma lo rivendica per sé.
Esiste certamente anche un ottimismo stupido, vile, che deve essere bandito. Ma nessuno deve disprezzare l’ottimismo inteso come volontà di futuro, anche quando dovesse condurre cento volte all’errore; perché esso è la salute della vita, che non deve essere compromessa da chi è malato.
Ci sono uomini che ritengono poco serio, e cristiani che ritengono poco pio, sperare in un futuro terreno migliore e prepararsi ad esso. Essi credono che il senso dei presenti accadimenti sia il caos, il disordine, la catastrofe, e si sottraggono, nella rassegnazione o in una pia fuga dal mondo, alla responsabilità per la continuazione della vita, per la ricostruzione, per le generazioni future. Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore”.
(Dietrich Bonhoeffer, Bilancio sulla soglia del 1943. Dieci anni dopo, in Id., Resistenza e resa, OBD 8, 38).