Gesù Cristo re dell’universo – anno B – 2018
(Ermete Lancini, Gesù e Pilato, 1948 collezione privata)
Dn 7,13-14; Ap 1,5-8; Gv 18,33b-37
Il dialogo di Gesù con Pilato è una disputa drammatica. Si parla del regno innanzitutto e a Gesù è chiesto: ‘Tu sei il re dei Giudei?’
Il potere politico manifesta inquietudine e ansia di fronte a gesti e parole che possono minacciarlo. Gesù nel suo agire aveva risvegliato attese di liberazione e di riscatto. Il suo messaggio e la sua pratica di vita presentava aspetti di critica radicale all’ordine costituito: toccava le attese di spiritualità della gente e la sua testimonianza di vita chiedeva un nuovo modo di pensare i rapporti e la vita sociale. Gesù risponde alla domanda di Pilato indicando i tratti del suo regno: ‘il mio regno non è di questo mondo, se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei’.
Accetta di essere indicato come re ma precisa che il suo regno viene da altrove, non può essere interpretato con le categorie proprie dei regni umani. E’ re diverso, non ha spada per difendersi non cerca un qualche dominio. Il suo regnare si compie nel darsi. Si è liberamente consegnato a chi è venuto per arrestarlo nella notte nell’orto degli Ulivi. L’assenza di spada, la sua inermità sono i segni del suo essere re: accetta di essere ‘consegnato’. Il regno di Gesù racchiude un messaggio nuovo di pace e di nonviolenza.
“Dunque tu sei re? Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. La questione si sposta dall’essere re all’essere testimone della verità. La testimonianza della verità propria dei profeti in Israele è qui riproposta da Gesù. La verità connessa alla fedeltà dell’amore è tratto del volto di Dio amore fedele e saldo, su cui potersi appoggiare. Fede è trovare appiglio nela verità di Dio appoggio sicuro.
Gesù indica così la sua vita. Il regno è offerta di un nuovo rapporto con Dio: se Dio è il fedele ed è lui la verità, allora i rapporti con gli altri devono essere intesi in modo nuovo. Non nel dominio, nel potere, nella disuguaglianza, ma nella responsabilità nella pace e nella giustizia. Rapporti in cui ogni volto è da incontrare come fratello, sorella.
Nel racconto sembra che Pilato il rappresentante dell’imperatore, stia giudicando Gesù: di fatto il IV evangelista presenta un giudizio che si sta compiendo. Ma è Gesù che giudica, o meglio è di fronte a lui che si chiamati a prendere posizione.
“Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: ‘Ecco l’uomo!’. Al vederlo i sommi sacerdoti e le guardie gridarono: ‘Crocifiggilo, crocifiggilo!'”. Gesù è un re che ha inteso la sua vita come servizio fino alla fine. Chiede ai suoi di entrare nel regno facendo della propria vita un cammino di servizio e di attenzione solidale agli altri. ‘Ecco l’uomo’: Nei tratti di quest’uomo umiliato e offeso sta il volto autentico di ogni uomo e donna. Gesù si manifesta re proprio quando è il giudicato e il condannato. Il suo regno è dono di speranza e di pace per tutti coloro che sono vittime e schiacciati dalla storia. D’ora in poi sarà possibile incontrarlo tra i volti delle vittime e dei condannati della storia, perché lì si manifesta la vicinanza del Padre che prende le loro difese per inaugurare una nuova storia. Lo sguardo a Cristo re significa anche pensare alla responsabilità per lasciare spazio e far crescere il regno da lui iniziato nella nostra storia nelle concrete relazioni di ogni giorno.
Alessandro Cortesi op
Quale regno oggi?
Festa di Gesù Cristo re dell’universo… Quale tipo di regno? Cosa significa oggi universo? Per rispondere a queste domande faccio riferimento ad alcune riflessioni raccolte in questi ultimi giorni.
Ernesto Olivero fondatore dell’Arsenale della Pace a Torino, si interroga sul tempo che stiamo vivendo abitato da aggressività, dalla rabbia, dall’odio che si diffonde dai social ai gesti della violenza (La pace è fragile ed è nelle nostre mani, Avvenire 15 novembre 2018).
“C’è tanta rabbia in giro, non siamo capaci di cogliere le sfumature della realtà, puntiamo il dito, cerchiamo un nemico facile. In fondo tutto questo ci rassicura, ci fa stare tranquilli nelle nostre certezze, ma alla fine ci blocca. Mai come oggi, ho capito che il male che vive dentro e fuori di noi può vincere. Il male che passa per bene, che può andare in prima pagina e affascinare. Il male che ti fa credere che ci siano condottieri capaci di risolvere ogni problema. Ma il male, cari amici, resta male e resta sulla coscienza di chi lo causa e di chi lo alimenta. E questo riguarda ognuno di noi. Mi chiedo in momenti così particolari che ruolo possiamo svolgere noi che, senza sentirci migliori degli altri, da tanto tempo stiamo provando a vivere la bontà come scelta del cuore e dell’intelligenza. Abbiamo scelto, anche tra le lacrime, di essere una porta aperta, per poter fasciare le mille situazioni di fatica, di disagio, di solitudine che ci hanno interpellato”.
(…) L’accoglienza non può essere improvvisata. Ha senso solo se amata, pensata, costruita insieme, governata. Ma è ciò che deve continuare a contraddistinguerci. Un Paese che costruisce muri è un Paese che soffoca, che non ha respiro, che chiude mente e cuore. Questa è una responsabilità di tutti. Chi non l’accetta si mette fuori da solo e rischia di creare i presupposti per un futuro terribile, di odio, di conflitto”.
Parlare di regno può significare allora guardare a questo tipo di rapporti nuovi in cui alla chiusura e al male si contrappone una ostinata testimonianza di uno stile alternativo, come ancora Olivero lo descrive: “Vorrei in modo semplice che ognuno di noi potesse testimoniare questo stile, per portare dialogo dove c’è contrapposizione, pacatezza dove c’è rabbia, braccia aperte dove ci sono pugni chiusi, disponibilità dove c’è insofferenza”.
In un’intervista la sociologa Danièele Hervieu-Léger (intervista di Olivier Pascal-Moussellard Pédophilie dans l’Eglise : “C’est tout le système clérical qu’il faut déconstruire” pleinjour.wordpress.com; traduzione http://www.finesettimana.org) partendo dalla considerazioen dello scandalo pedofilia nella chiesa parla della sfida che la chiesa si trova ad affrontare in una crisi, quella del tempo presente, paragonabile a passaggi epocali di secoli passati. Così la descrive:
“È gravissima. Di un’ampiezza paragonabile secondo me a quella che ha dato luogo alla Riforma nel XVI secolo o a quella che è stata indotta dalla Costituzione civile del clero nel 1790. Per comprenderla, bisogna riconsiderare la sua evoluzione nel tempo: risalire al XIX secolo, alla Rivoluzione, e allo scontro della Chiesa con lo sconvolgimento costituito dall’affermazione del diritto degli individui all’autonomia, che è il cuore della nostra modernità. Quest’ultima si è imposta prima di tutto sul terreno politico. La modernità con cui si scontrava la Chiesa allora era il riconoscimento dell’autonomia dei cittadini che faceva sì che la società sfuggisse alla regìa della religione. Questa rivendicazione di autonomia non ha mai smesso di ampliarsi e abbraccia oggi tanto la sfera intima che la vita morale e spirituale degli uomini e delle donne che, senza tuttavia necessariamente smettere di essere credenti, rifiutano la legittimità della Chiesa a dare norme in registri che ritengono debbano essere di competenza solo della loro coscienza personale”.
La sociologa individua due questioni fondamentali che richiedono una attenta revisione a fronte della crisi in atto:
“Il XIX secolo è il secolo in cui si inventa il modello familiare che conosciamo: quello della famiglia borghese centrata sulla coppia e sulla sua progenitura. È su questa cellula familiare eretta a “cellula di Chiesa”, che la Chiesa concentrerà al massimo i suoi sforzi di controllo. In che modo lo fa? Attraverso il controllo del corpo delle donne da un lato e l’esaltazione della figura del prete come uomo del sacro dall’altro”.
Danièle Hervieu-Léger delinea gli ambiti di un cambiamento avvertito con sempre più urgenza soprattutto nel superamento del sistema clericale e affrontando la questione femminile. In gioco è un modo nuovo di essere chiesa basato sul sacerdozio comune di tutti i fedeli:
“Il sistema clericale, a cui si imputano ormai le gravissime derive che esplodono oggi, non è riformabile. È questo stesso sistema che bisogna smantellare se si vuole inventare, se possibile, un’altra maniera di fare Chiesa. Quest’ultima non può più separare la ridefinizione radicale del sacerdozio come servizio della comunità e il riconoscimento pieno dell’uguaglianza delle donne in tutte le dimensioni, della vita della Chiesa, comprese quelle sacramentali. L’invito fatto ai preti di essere vicini ai loro fedeli, la nomina di qualche donna negli organismi del potere e perfino l’apertura dell’ordinazione ad alcuni uomini sposati debitamente selezionati non scongiureranno il disastro. Il problema che è sul tavolo è quello del sacerdozio di tutti i laici, uomini e donne, sposati o celibi a loro scelta. Una sola cosa è certa: la rivoluziona sarà globale o non sarà, e deve passare da una rifondazione completa del regime del potere nell’istituzione”.
Parlare di regno implica così anche affrontare la questione della riforma della chiesa che la situazione del presente sollecita in modo pressante.
Infine parlare di regno di Gesù Cristo oggi implica un riflettere sull’universo. In questi giorni si sta svolgendo a Milano un convegno nazionale promosso dall’Ufficio CEI per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso sul tema «Un creato da custodire, da credenti responsabili, in risposta alla parola di Dio». L’orizzonte del regno è quello di un creato di cui scoprirsi parte e in cui scorgere che il grido dei poveri è indissolubilmente legato al grido della terra. Jürgen Moltmann in un suo messaggio al convegno ha scritto: «abbiamo bisogno di una nuova teologia della terra… la terra è nostra madre » e il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo ha ricordato «il manipolare e il controllare le limitate risorse umane del pianeta e la nostra avidità ci hanno alienato dal proposito iniziale della creazione».
Sono queste alcune implicazioni per riflettere oggi su come intendere che Gesù Cristo è re, non del dominio, ma che ha donato la sua vita nel servizio sino alla fine e chiama discepoli e discepole a scorgere come essere nel tempo responsabili del vangelo del regno.
Alessandro Cortesi op
Ascensione del Signore – anno A – 2020
Nella risurrezione Gesù è ‘innalzato’: dopo la risurrezione è in una vicinanza nuova e piena con il Padre. Nel racconto di Atti la presenza del Padre è evocata dall’immagine della ‘nube’ che ‘lo sottrasse’ allo sguardo dei discepoli. La nube è segno della presenza nascosta di Dio, inafferrabile e ricorda che Dio rimane velato e al di là della nostra portata.
L’umanità di Gesù è coinvolta in questa comunione nuova. Nella sua vita è stato uomo che ha vissuto per gli altri. Con la risurrezione il Padre conferma che la vita spesa per gli altri di Gesù è manifestazione del volto dell’Amore che vince la morte. Gesù è preso dal Padre e condotto ad essere ‘signore’.
Il movimento della salita richiama il salire al trono del re cantata nel salmo: ‘applaudite popoli tutti… ascende Dio tra le acclamazioni…Dio è re di tutta la terra… Dio siede sul suo trono santo’ (Sal 46): Jahwè che si innalza su tutti i popoli, unifica tutti. L’innalzamento di Gesù è visto come attuarsi del regno di Dio. la sua esperienza è movimento di discesa nel farsi servo. Nel suo scendere si rende visibile il volto di Dio dell’amore. Per questo ‘Dio l’ha innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome’ (Fil 2,9).
Al momento di essere elevato Gesù benedice i suoi discepoli. C’è un rapporto profondo tra l’essere elevato di Gesù e la benedizione che è rivolta ai suoi discepoli.
Gesù richiama i suoi a non lasciarsi prendere da vane curiosità sui tempi e sui momenti in cui si costituirà il ‘regno di Israele’. Piuttosto chiede loro di attendere rimanendo in ascolto della promessa del Padre, quella di essere battezzati in Spirito Santo.
Indica di rimanere a Gerusalemme, luogo della passione morte e risurrezione e di attendere al promessa del Padre. Li invita ad impegnarsi nella testimonianza fino agli estremi confini della terra. Il salire di Gesù rinvia al tempo della comunità, chiamata ad incontrarlo in modo nuovo: è il tempo dell’attesa ma anche tempo in cui lo Spirito verrà come ‘forza che li investe dall’alto’.
Nel racconto di Matteo gli undici videro Gesù si prostrarono ma alcuni dubitavano. Gesù affida ad una comunità fragile ila sua promessa e l’invio. Dice loro: “Andate… fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli”. Gesù invia ad immergere la propria vita e quella dei popoli nella vita di Dio che ha il volto della comunione dell’ospitalità e dell’amicizia. L’invio a fare discepoli non sorge da una istanza ad aumentare il numero degli appartenenti al gruppo, ma richiama al seguire il cammino seguito da Gesù stesso, camino di dono e servizio.
Spinge fuori la comunità in una responsabilità di incontro, di relazione nel quaggiù: ‘perché state a guardare il cielo?’. La promessa è una vicinanza nuova che si apre nel vuoto di una assenza: ‘ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo’.
Alessandro Cortesi op
Dopo la fine dell’emergenza stanno riprendendo le celebrazioni delle messe nelle chiese. In questo periodo molte sono state le esperienze nuove che sono state attuate. Il fatto che nel periodo del lockdown siano venute meno le attività pastorali e le celebrazioni comunitarie in particolare l’eucaristia, ha prodotto una serie di reazioni diverse.
Talvolta ha regnato lo smarrimento evidenziatosi in molti modi. Si sono da un lato sviluppate nuove forme di preghiera e celebrazione nell’ambito domestico o tentativi di creare nuove modalità comunitarie di condivisione a distanza, d’altro lato si è assistito ad una sorta di rincorsa a riempire spazi percepiti troppo vuoti utilizzando i mezzi della comunicazione (TV, dirette facebook, registrazione di celebrazioni poi inviate) forse non accettando il messaggio dell’interruzione e del sostare che il tempo del confinamento ha proposto.
Proprio tali modalità hanno accentuato la differenza tra i presbiteri che continuavano a celebrare la messa e una comunità che, pur coinvolta, viveva nella condizione di assistere. E’ apparsa anche chiara la difficoltà delle comunità di individuare altre forme di celebrazione che non fossero la messa.
Nella diversità delle esperienze e dei tentativi si è assistito da un lato al riemergere di un vocabolario (ad esempio la ‘messa privata’ – ved. riflessione di Andrea Grillo al proposito) e di forme che fanno riferimento a mentalità preconciliari con tendenze di forte clericalizzazione e con accento sulla dimensione sacrale. D’altra parte è stato anche un periodo di creatività, di esperimenti attuati con spirito di disponibilità nell’attenzione del legame profondo tra celebrazione e vissuto personale e comunitario.
Raccolgo in questo momento di passaggio tre voci, tra le tante possibili, che offrono diversi spunti e domande proprio in questa fase in cui si attua un prudente nuovo inizio. In esse si può scorgere da un lato il richiamo a lasciarsi interrogare profondamente dai segni del tempo che abbiamo vissuto e stiamo vivendo (Mario Menin), la provocazione a scorgere dimensioni inedite della vita di fede in un tempo nuovo (René Poujol) e la proposta di un futuro che non potrà essere un ritorno a ciò che era prima (Derio Olivero).
Mario Menin, missionario saveriano, nel suo articolo ‘Chiese vuote. Per chi suona la campana?’ s’interroga sulle chiese vuote e legge quanto sta avvenendo come un segno che dovrebbe interrogare per un cambiamento della vita della chiesa. L’emergenza della pandemia ha solamente reso più evidente un processo già in atto da tempo:
“Perché non riconoscere allora nelle chiese vuote un segno di quanto potrà succedere in un futuro non molto lontano, se non riformeremo – più evangelicamente – le nostre comunità? E perché prendersela con il coronavirus, che ha soltanto evidenziato – in modo certamente disgraziato – lo svuotamento già in corso? Eppure di segnali d’allarme ne avevamo ricevuti dal Concilio Vaticano II in poi, specialmente in Europa e in gran parte dell’Occidente, dove molte chiese, monasteri e seminari si sono svuotati o chiusi. Li abbiamo snobbati come non rivolti a noi e alle nostre comunità. Ci siamo, invece, ostinati ad attribuire lo svuotamento a cause esterne, soprattutto al fenomeno della secolarizzazione – nelle sue varie dimensioni e tappe –, senza renderci conto, come recentemente asserito da papa Francesco, che ‘non siamo più in un regime di cristianità…’. Forse questo tempo di chiese vuote può aiutarci a far emergere il vuoto nascosto nelle nostre comunità, le nostalgie liturgiche tridentine, che rendono più problematico il riaggancio della Chiesa alla società di oggi e il recupero del ritardo “di duecento anni” denunciato dal card. Martini”.
L’analisi di Menin suggerisce di maturare consapevolezza di un cambiamento d’epoca che pur vede una forte resistenza in quanti cercano di mantenere i caratteri di una chiesa che si concepisce nel quadro di un regime di cristianità, preoccupata di potere, di privilegi, dell’inseguire un modello di comunità centrato sui preti secondo la visione tridentina, anziché coltivare una disponibilità ad una riforma. Indica concretamente la via di un riconoscimento di ministerialità diffusa:
“Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Esse ci insegnano che i problemi delle nostre comunità non sono tanto la mancanza di vocazioni o la scarsità di preti, quanto un nuovo modo di essere Chiesa, dove la ministerialità dei laici, delle donne e delle famiglie, sia riconosciuta come costitutiva della Chiesa stessa. Per questo dovremmo prendere più sul serio, anche in Italia, le proposte del Sinodo Panamazzonico”.
René Poujol, giornalista francese, in un aritcolo nel suo blog dal titolo ‘E se qualcuno preferisse altro alla messa?’, facendo riferimento alla situazione del suo Paese ne delinea i tratti e traendo spunto dalle parole del filosofo Denis Moreau prosegue la riflessione invitando a laciarsi interrogare profondamente dal’esperienza in atto (riprendo la traduzione dal sito http://www.finesettimana.org:
“Il 26 aprile, sul suo profilo Facebook, il filosofo Denis Moreau, di cui avevo accolto con favore il libro “Comment peut-on être catholique?” pubblicato nel 2018, pubblicava una strana confessione. Cito: ‘Dall’inizio del confinamento, da semplice fedele quale sono, non posso più assistere alla messa domenicale, esattamente come chiunque altro. Non ho mai perso una messa della domenica da più di 30 anni. Ma, onestamente, devo proprio ammettere che non mi manca poi così tanto non poter assistere alla messa di persona e fare la comunione’. Siamo onesti: prosegue affermando di dover, per il futuro, imparare ‘a desiderare e amare un po’ di più la messa domenicale’. Ma lo dice per meglio sottolineare quanto gli paia essenziale che la Chiesa sappia trarre tutte le conseguenze da quanto molti cattolici stanno vivendo durante queste settimane di confinamento.
(…) La diminuzione – per non dire il crollo – della pratica per quanto riguarda la messa domenicale, nel nostro paese, non è più da dimostrare. Sono colpito dal numero dei giovani cattolici, che pure sono credenti, che riconoscono, in privato, di annoiarsi alla messa e di andarci talvolta solo per dovere. (…)
Le settimane di confinamento che abbiamo vissuto sono state segnate, per molti cattolici, da una fioritura di pratiche spirituali, a volte nuove nella loro vita: preghiera personale, riscoperta delle Scritture, in particolare del Vangelo, liturgie familiari, partecipazione a reti “spi” [Software in the Public Interest] via internet, creazione di comunità “virtuali” magari effimere, il seguire le messe alla televisione, su internet o sulle reti sociali, relazioni multiple non esclusivamente di tipo liturgico mantenute con preti o diaconi della parrocchia, riflessioni condivise sul ‘dopo’… Di che alimentare, per alcuni, il desiderio di prolungare o di approfondire, in futuro, delle esperienze che si sono rivelate ricche di senso. Al punto da trascurare domani la messa domenicale? Non necessariamente, ma forse di comprendere, di sentire nel più profondo di se stessi, che la ‘mancanza’ provata era innanzitutto di natura comunitaria più che sacramentale nel senso classico del termine. Di che alimentare molti interrogativi – temibili – nelle diocesi dove la diminuzione drastica del clero è ormai evidente. Ma perché non delineare anche delle piste di ripresa? (…) Questo confinamento ci obbliga in qualche modo ad immaginare ciò che sarà la Chiesa del dopo, quella che dovrà imparare a vivere con pochi preti, meno eucaristie, sacramenti meno accessibili e più raramente dispensati. E con mia grande sorpresa, io che sono piuttosto pessimista per natura, trovo che ciò che sta succedendo nella Chiesa di Francia dia piuttosto ragioni di speranza. È in questo senso che bisogna intendere il titolo di un mio precedente post: Déconfiner les églises ou déconfiner l’Eglise? (Por fine alla chiusura delle chiese o alla chiusura della Chiesa?). Forse i nostri vescovi e i nostri preti potrebbero, a partire dal 2 giugno, l’indomani della Pentecoste, invitarci a discuterne!”.
Una terza voce in questo dibattito proviene dalle parole appassionate del vescovo Derio Olivero di Pinerolo, che ha vissuto personalmente la malattia del Covid-19 passando attraverso le diverse fasi della cura fino ad essere ricoverato nel reparto di terapia intensiva e vivendo momenti drammatici che egli stesso ha raccontato dopo la guarigione.
Tornato alla sua diocesi ha scritto una lettera in cui invita ad un ritorno a celebrare che non potrà essere come prima, ma che auspica come un momento di ripensamento e rinnovamento radicale, con una attenzione nuova alle relazioni e a costruire tessuto di apertura, attenzione e cura per le persone superando barriere e confini:
“Non basta tornare a celebrare per pensare di aver risolto tutto. “Non è una parentesi”. Non dobbiamo tornare alla Chiesa di prima. O iniziamo a cambiare la Chiesa in questi mesi o resterà invariata per i prossimi 20 anni. (…) in modo netto e chiaro vi dico che non voglio più una Chiesa che si limiti a dire cosa dovete fare, cosa dovete credere e cosa dovete celebrare, dimenticando la cura le relazioni all’interno e all’esterno. Abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza delle relazioni all’interno, tra catechisti, animatori, collaboratori e praticanti. Abbiamo bisogno di creare in parrocchia un luogo dove sia bello trovarsi, dove si possa dire: ‘Qui si respira un clima di comunità, che bello trovarci!’. E all’esterno, con quelli che non frequentano o compaiono qualche volta per “far dire una messa”, far celebrare un battesimo o un funerale. Sogno cristiani che amano i non praticanti, gli agnostici, gli atei, i credenti di altre confessioni e di altre religioni. Questo è il vero cristiano. Sogno cristiani che non si ritengono tali perché vanno a Messa tutte le domeniche (cosa ottima), ma cristiani che sanno nutrire la propria spiritualità con momenti di riflessione sulla Parola, con attimi di silenzio, momenti di stupore di fronte alla bellezza delle montagne o di un fiore, momenti di preghiera in famiglia, un caffè offerto con gentilezza. Non cristiani ‘devoti’ (in modo individualistico, intimistico, astratto, ideologico), ma credenti che credono in Dio per nutrire la propria vita e per riuscire a credere alla vita nella buona e nella cattiva sorte. Non comunità chiuse, ripiegate su se stesse e sulla propria organizzazione, ma comunità aperte, umili, cariche di speranza; comunità che contagiano con propria passione e fiducia. Non una Chiesa che va in chiesa, ma una Chiesa che va a tutti. Carica di entusiasmo, passione, speranza, affetto. Credenti così riprenderanno voglia di andare in chiesa. Di andare a Messa, per nutrirsi. Altrimenti si continuerà a sprecare il cibo nutriente dell’Eucarestia. Guai a chi spreca il pane quotidiano (lo dicevano già i nostri nonni). Guai a chi spreca il ‘cibo’ dell’Eucarestia.”
Riflessioni importanti per vivere con consapevolezza il momento che stiamo vivendo.
Alessandro Cortesi op