II domenica di Natale – anno A – 2020
Sir 24,1-4.8-12; Efes 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18
Al cuore della prima pagina del IV vangelo sta l’espressione ‘E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi’. Più esattamente si potrebbe tradurre ‘pose la sua tenda in mezzo a noi’.
La tenda, chiamata la ‘dimora’, aveva accompagnato il percorso dell’esodo ed era il luogo in cui risiedeva la ‘gloria’ di Jahwè (cfr. Es 26,1-14): in essa era posta l’arca dell’alleanza con le tavole della legge. Tenda e arca sono simboli che rinviano all’alleanza e all’opera di liberazione di Dio sceso per liberare il suo popolo. Tale luogo era pensato come la sede in cui Dio aveva il suo trono sedendo sopra: “Davide…si alzò e partì con tutta la sua gente… per trasportare di là l’arca di Dio, sulla quale è invocato il suo nome, il nome del Signore degli eserciti, che siede in essa sui cherubini” (2Sam 6,2).
La tenda è vissuta da Israele come ‘luogo dell’incontro’: “a questa tenda del convegno posta fuori dell’accampamento, si recava chiunque volesse consultare il Signore” (Es 33,9). La tenda è segno della presenza di Dio che accompagna il cammino d’Israele dall’Egitto verso la terra promessa. Sopra la tenda sostava la nube simbolo della presenza di Dio. La nube da un lato rivela e dall’altro mantiene velato; con la tenda indica la vicinanza del Dio altissimo che parlava con Mosè ‘come un uomo parla con un altro’.
Dio rimane l’inaccessibile, l’Altro dalla creatura, ma la tenda è luogo segno di incontro con Lui che si rende vicino ogni volta che si ascolta la sua Parola: ‘Io sono il Signore tuo Dio’. “Se due si riuniscono insieme per dedicarsi alle parole della Torah, la shekinah (la dimora) è presente” (Pirkê Abot III 3; cfr. Mt 18,20).
I profeti indicheranno che Dio non abita in qualche luogo particolare, ma abita il suo popolo: Dio sta in mezzo a Israele per adempiere la sua promessa: ‘Io sarò con te’ (Es 3,12) e la sua presenza è per costruire il suo popolo. Anche il tempio, sede dell’arca dell’alleanza nel tempo della stabilità dopo il cammino nel deserto, è solamente un segno. “Gioisci, esulta, figlia di Sion, perché ecco io vengo ad abitare in mezzo a te… nazioni numerose aderiranno in quel giorno al Signore e diverranno suo popolo ed egli dimorerà in mezzo a te” (Zac 2,14).
“il Verbo ha posto la sua tenda in mezzo a noi” è espressione che rinvia a tali riferimenti. La Parola si è resa vicina nella presenza umana di Gesù. “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha raccontato” (Gv 1,18). Nel volto di Gesù il IV vangelo legge il farsi vicino della Parola di Dio: ha posto la sua tenda in mezzo a noi, nella umanità, la carne. Gesù spiega e fa vedere nel suo volto umano la gloria di Dio il Padre.
Il Verbo fatto carne è la nuova tenda di una alleanza, non frutto di opera umana, ma dono da accogliere: “a quanti però l’hanno accolto ha dato il poter di diventare figli di Dio; a quelli che credono nel suo nome, i quali non da volere di carne, né da volere di sangue, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). La nascita di Gesù è vista dal IV vangelo nel mistero profondo della vita di Dio. Quella vita segnata dalla fragilità dell’esistenza umana (la carne) è ‘tenda’ in cui incontrare il volto di Dio, la sua Parola. “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini… e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre” (Gv 1,4.14).
Alessandro Cortesi op
Sguardi di umanità
E’ stata una scoperta particolare qualche anno fa. I restauratori dell’Opificio delle pietre dure di Firenze durante un sopralluogo nel vescovado di Fiesole hanno posto attenzione a quest’opera, una terracotta policroma, modellata nella creta con materiali particolarmente preziosi, indicazione di una ricca committenza. Si tratta di un modello utilizzato poi per altre repliche realizzate da questo prototipo. La Madonna di Fiesole è così stata sottoposta a restauro e presentata nel 2008. E’ apparso come la sua fattura, dipinta a freddo, fosse particolarmente raffinata al punto da condurre ad una attribuzione a Filippo Brunelleschi, il grande architetto fiorentino progettatore della cupola della Cattedrale di s. Maria del Fiore e del portico dell’Ospedale degli Innocenti. Brunelleschi fu anche scultore: si era formato in età giovanile in una bottega di scultori e aveva collaborato all’altare argenteo di san Jacopo di Pistoia. La terracotta è collocabile agli inizi del Quattrocento e risente dello stile di Brunelleschi come appare da un raffronto con il crocifisso di santa Maria Novella. Potrebbe essere un’opera giovanile successiva al concorso del 1401 sulle porte del Battistero e prima delle grandi opere di architettura.
Forse l’opera venne trasferita a Fiesole dopo la cacciata di Piero de’ Medici e della sua famiglia, avvenuta il 9 novembre 1494, a seguito del saccheggio del giardino di San Marco e delle altre proprietà Medicee. Risultano infatti scalpellati gli stemmi medicei alla base. La Madonna potrebbe essere stata recuperata da qualcuno e condotta a Fiesole in tale circostanza.
Nella terracotta Maria è raffigurata con volto giovane e delicato. Il suo sguardo si perde nell’orizzonte ma la sua testa è chinata dolcemente ad incontrare il volto del bambino e a sfiorare con il suo zigomo la fronte riccioluta, su cui scendono capelli dorati, di Gesù. La scultura evoca i pensieri di Maria in rapporto al suo figlio. Gesù è raffigurato nel movimento dello stringersi alla mamma. Anche nel suo sguardo traspare un velo di tristezza, quasi un movimento di ritrarsi. E’ proprio della tradizione iconografica cristiana raffigurare la madre il bambino, con una evocazione degli eventi della morte di Gesù, letta insieme al mistero della risurrezione. Nel suo volto si delinea già l’ombra del dramma della sua vita, ma nel contempo l’abbandono in Dio e la decisione serena che guida la sua esistenza: una tenerezza che racconta la misericordia di cui la croce è segno supremo. Il bambino si stringe alla madre e quasi si rannicchia sotto il manto di lei che lo copre avvolgendone il corpo, non a coprirlo interamente, ma lasciandolo in parte nudo. Le sue gambine scoperte si intrecciano con la mano di Maria che ne tiene una come se stesse accarezzandola mentre l’altra le si appoggia dolcemente. E l’altra mano di Maria sorregge Gesù facendosi arco e appoggio al suo corpo. La nudità del bambino è indicazione della sua umanità, del suo condividere la fragilità di ogni creatura. Gesù si stringe alla mamma quasi aggrappandosi a lei e alla sua veste: una veste particolarmente preziosa, decorata con oro. Maria è raffigurata con sul capo una corona di cui sono andate perdute le punte risultando così come un cerchio che tiene fissato il suo velo. E così il suo volto manifesta i tratti di una giovane donna. Gesù appare nella sua fragilità, nella nudità del suo essere bambino, nella vulnerabilità di chi cerca rifugio e protezione con lo sguardo che sembra esprimere sentimenti diversi: paura, desiderio di sottrarsi al male e ai pericoli, senso di affidamento e ricerca di sicurezza ed anche riposo sereno nelle braccia della madre. Un dialogo silenzioso avvolge la scena di questo stare insieme, intrecciati e facendosi dono di tenerezza e di sostegno l’uno all’altra.
Il gruppo scultoreo è poggiato su una base rettangolare, in cui appaiono archetti intrecciati in stile gotico e sui lati degli stemmi che sono stati cancellati. Ai piedi la scritta ‘O mater Dei memento mei’, ‘Madre di Dio ricordati di me’: una preghiera che sgorga dal soffermarsi ad incontrare lo sguardo del bambino e della giovane madre.
Alessandro Cortesi op
II domenica dopo Natale – 2021
Sir 24,1-4.8-12; Efes 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18
‘E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi’. Questo versetto può essere anche tradotto con l’espressione ‘pose la sua tenda in mezzo a noi’. Si rende così chiara l’evocazione che il testo racchiude alla ‘tenda’.
La tenda, chiamata la ‘dimora’ (shekinah), aveva accompagnato il percorso dell’esodo ed era il luogo in cui risiedeva la ‘gloria’ di Jahwè (cfr. Es 26,1-14): è luogo dell’abitare di Dio: all’interano di essa stava l’arca dell’alleanza custodia delle tavole della legge. Tenda e arca rinviano a quel movimento di incontro fondamento dell’esperienza di fede d’Israele: Dio è sceso per liberare il suo popolo e non viene meno a questo suo patto che vede nella Legge una fissazione.
La tenda viene ad essere il segno della compagnia di Dio che cammina insieme e accanto al popolo nel percorso della liberazione dalla schiavitù. Tenda è ‘luogo dell’incontro’: Mosè vi entrava, durante il cammino dell’esodo, per ascoltare la voce di Dio: “Quando Mosè entrava nella tenda scendeva la colonna di nube e restava all’ingresso della tenda. Allora il Signore parlava con Mosè… Così il Signore parlava con Mosè faccia a faccia come un uomo parla con un altro” (Es 33,7.9.11).
La tenda è segno della presenza di Dio che accompagna e guida il faticoso cammino d’Israele verso la libertà. Sopra la tenda stava la nube, segno che indica una presenza e nello stesso tempo un nascondimento. Dio non può essere visto, ma è una presenza vicina. Così la tenda è luogo di un meraviglioso dialogo in cui Dio parlava con Mosè ‘come un uomo parla con un altro’.
I rabbini commentavano che proprio nell’ascolto della Torah (la legge) si rendeva possibile un’esperienza di incontro: “Se due si riuniscono insieme per dedicarsi alle parole della Torah, la shekinah (la dimora) è presente” (Pirkê Abot III 3; cfr. Mt 18,20).
I profeti rileggono questa presenza di Dio che abita nel tempio. Natan proporrà a Davide l’annuncio che Dio non abita in qualche luogo particolare, ma Dio abita il suo popolo: Dio sta in mezzo a Israele per adempiere la sua parola: ‘Io sarò con te’ (Es 3,12) e la sua presenza starà in una discendenza vivente. Anche il tempio, sede dell’arca dell’alleanza nel tempo della stabilità dopo il cammino nel deserto, è solamente un segno e i profeti richiamano al dimorare di Dio in Sion (Gl 4,17.21; Ez 43,7).
Zaccaria annuncia la promessa di un abitare di Dio in mezzo al suo popolo fonte di gioia per tutti in un orizzonte che si allarga a comprendere nazioni e popoli chiamati da lontano: “Gioisci, esulta, figlia di Sion, perché ecco io vengo ad abitare in mezzo a te… nazioni numerose aderiranno in quel giorno al Signore e diverranno suo popolo ed egli dimorerà in mezzo a te” (Zac 2,14).
‘Il Verbo ha posto la sua tenda in mezzo a noi’: è la Parola il nuovo luogo di una presenza di Dio invisibile, ora resosi vicino in colui che è l’unico esegeta del Padre: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito che nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Il Verbo nella sua umanità, ponendo la sua tenda tra le nostre, è colui che spiega e fa vedere la gloria di Dio il Padre.
Il Verbo è la Parola che dal principio è ‘rivolta verso’ il Padre (Gv 1,1): dal Padre tutto riceve e tutto fa tornare a lui in un dinamismo di accoglienza e di risposta. Il Verbo fatto carne è la nuova tenda di una alleanza, dono da accogliere con stupore nella fede, dono di una vita nuova nella relazione con Dio amore: “a quanti però l’hanno accolto ha dato il poter di diventare figli di Dio; a quelli che credono nel suo nome, i quali non da volere di carne, né da volere di sangue, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13).
Il IV vangelo legge nel mistero della vita di Dio il senso profondo della nascita di Gesù. La vita di un bambino segnato dalla debolezza e la vicenda umana di Gesù è la nuova ‘tenda’. Gesù è il figlio, esegeta del Padre che fa vedere la gloria di Dio nella sua vita. “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini… e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre” (Gv 1,4.14).
La luce di Dio, la sua vita, illumini gli occhi della nostra mente “per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati” (Efes 1,18).
Alessandro Cortesi op
Dal Messaggio di papa Francesco per la LIV Giornata mondiale della pace 1 gennaio 2021
La cultura della cura come percorso di pace
“(…) La cura del bene comune Ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica trova il suo compimento quando si pone al servizio del bene comune, ossia dell’«insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente». Pertanto, i nostri piani e sforzi devono sempre tenere conto degli effetti sull’intera famiglia umana, ponderando le conseguenze per il momento presente e per le generazioni future. Quanto ciò sia vero e attuale ce lo mostra la pandemia del Covid-19, davanti alla quale «ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme», perché «nessuno si salva da solo»e nessuno Stato nazionale isolato può assicurare il bene comune della propria popolazione.
La cura mediante la solidarietà. La solidarietà esprime concretamente l’amore per l’altro, non come un sentimento vago, ma come«determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti». La solidarietà ci aiuta a vedere l’altro – sia come persona sia, in senso lato, come popolo o nazione – non come un dato statistico, o un mezzo da sfruttare e poi scartare quando non più utile, ma come nostro prossimo, compagno di strada, chiamato a partecipare, alla pari di noi, al banchetto della vita a cui tutti sono ugualmente invitati da Dio.
La cura e la salvaguardia del creato. L’Enciclica Laudato si’ prende atto pienamente dell’interconnessione di tutta la realtà creata e pone in risalto l’esigenza di ascoltare nello stesso tempo il grido dei bisognosi e quello del creato. Da questo ascolto attento e costante può nascere un’efficace cura della terra, nostra casa comune, e dei poveri. A questo proposito, desidero ribadire che «non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani»…”