I domenica di Quaresima – anno A – 2020
(Duomo di Modena facciata – Wiligelmo, storie della creazione XI sec)
Gen 2,7-9;3,1-7; Rom 5,12-19; Mt 4,1-11
Nel tempo di quaresima di quest’anno (anno A) la prima lettura di ogni domenica accompagna a ripercorrere le tappe principali della storia della salvezza. Dalla creazione alla Pasqua. Quasi una lunga preparazione alla Pasqua come orizzonte ultimo di questo cammino. E tale percorso si rivivrà nella liturgia della parola della veglia pasquale della notte.
Il racconto dei primi capitoli di Genesi presenta in termini mitici una grande riflessione sulla condizione dell’umanità e del cosmo. Il Dio liberatore dell’esodo è il medesimo creatore dell’umanità e del cosmo. E’ unico Dio sorgente di bene. La stessa creazione è evento di dono. All’uomo (adam), plasmato dalla terra (adamah) è donato un respiro di vita. Tuttavia nell’esperienza umana è presente anche un lato oscuro, l’esperienza del male. Dio sorgente di ogni cosa è Dio amante della vita. Il male è forza che gli si oppone, ma non è più grade di Lui, ed è conseguenza di scelte che hanno radice nella libertà dell’uomo. Dio non vuole il male. Da qui l’esigenza di una lotta contro il male e il peccato.
Il capitolo 3 di Genesi in particolare presenta l’attuarsi di diverse fratture: tra l’uomo e la donna, tra gli umani e il creato, tra l’umanità e Dio stesso (‘scoprirono di essere nudi’). La situazione del peccato viene così tratteggiata come rottura di amicizia. Nella sua radice tale processo si connota come mancanza di affidamento. La grande tentazione è porsi davanti a Dio, agli altri, alle cose come antagonisti, come nemici. Dalla pretesa di essere senza limiti sgorga una corrente di incomprensione e di inganno. La radice di ogni male è indicata nel non accogliere il volto di un Dio che crea per comunicare il suo amore.
Nella lettera ai Romani Paolo annuncia che in Gesù Cristo si attua un legame nuovo non solo con Dio ma anche nell’umanità stessa. In Cristo ha inizio una nuova creazione che riprende e rinnova la condizione di Adamo: Gesù con la sua Pasqua rinnova l’essere umano e vince il peccato. In Adamo la disobbedienza, in Cristo l’ascolto pieno del Padre. La nostra condizione è posta in una nuova solidarietà. Solidali in Adamo, ora solidali Cristo. La situazione di Adamo, segnata da miseria e peccato, è definitivamente vinta dalla morte di Gesù Cristo e dalla sua risurrezione che hanno vinto il peccato. Paolo parte da Cristo: “molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti”. Chi accoglie la grazia di Cristo può comprendere la situazione di chiusura propria del peccato e capire quale apertura e liberazione è dono di Gesù e per questo camminare in una vita nuova: è la giustificazione che dà vita. In Gesù Cristo una nuova situazione è donata in una nuova solidarietà.
L’episodio delle tentazioni di Gesù ha una particolare presentazione in Matteo. Per Gesù la prova non fu un momento limitato ma una dimensione della sua vita. Nel suo vangelo Matteo lo ricorda quando ricorda la richiesta di compiere miracoli per far stupire: ‘vogliamo che tu ci faccia vedere un segno miracoloso’ (Mt 12,38), oppure nelle richieste di un ‘messia’ forte come capo politico; si presenta anche in coloro – i più vicini – che cercano di distoglierlo dall’andare verso Gerusalemme dove avrebbe incontrato il rifiuto e la sofferenza (Mt 16,21-23). Gesù si rivolge allora a Pietro dicendo ‘via da me satana, perché non pensi come Dio ma come gli uomini’ (Mt 16,23).
Nel racconto del cap. 4 Gesù è presentato davanti a ‘satana’ il ‘divisore’, figura simbolica di ogni forza che tiene lontano dal progetto di Dio. Le provocazioni riguardano il modo in cui Gesù può intendere i suo essere ‘messia’, inviato mandato da Dio. Vi è la proposta di una religione che risponde solamente al desiderio di benessere immediato, c’è poi la proposta di una religione dei miracoli o del successo. Infine la linea di una religione ricerca del potere e dominio politico. ‘Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto’. Ha i tratti di Mosè che guida verso un esodo nuovo. Vi sono rimandi alle prove di Israele (Dt 8,3; 6,16; 6,13). Là dove Israele ha peccato Gesù si mantiene fedele. Unica sua preoccupazione è l’affidarsi totalmente al Padre, in una obbedienza che è fiducia radicale. E’ un messia che rifiuta le vie del successo del potere e della violenza. Sceglie la via del servizio e della condivisione.
La quaresima è occasione per agire nella linea di una conversione personale, ma anche di una conversione pastorale e missionaria così urgente per le nostre chiese per vivere oggi fedeltà al vangelo ed essere segno capace di indicare Gesù in questo tempo.
Alessandro Cortesi op
(sfollati da Idlib – febbraio 2020)
Conversione
“La gioia del cristiano scaturisce dall’ascolto e dall’accoglienza della Buona Notizia della morte e risurrezione di Gesù: il kerygma. Esso riassume il Mistero di un amore «così reale, così vero, così concreto, che ci offre una relazione piena di dialogo sincero e fecondo » (Esort. ap. Christus vivit,117). Chi crede in questo annuncio respinge la menzogna secondo cui la nostra vita sarebbe originata da noi stessi, mentre in realtà essa nasce dall’amore di Dio Padre, dalla sua volontà di darela vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Se invece si presta ascolto alla voce suadente del “padre della menzogna” (cfr Gv 8,45) si rischia di sprofondare nel baratro del nonsenso, sperimentando l’inferno già qui sulla terra, come testimoniano purtroppo molti eventi drammatici dell’esperienza umana personale e collettiva.” Così scrive papa Francesco nel Messaggio per la Quaresima di quest’anno 2020.
Nel Messaggio si legge anche un richiama ad una concretezza per oggi della conversione: “Anche oggi è importante richiamare gli uomini e le donne di buona volontà alla condivisione dei propri beni con i più bisognosi attraverso l’elemosina, come forma di partecipazione personale all’edificazione di un mondo più equo. La condivisione nella carità rende l’uomo più umano; l’accumulare rischia di abbrutirlo, chiudendolo nel proprio egoismo. Possiamo e dobbiamo spingerci anche oltre, considerando le dimensioni strutturali dell’economia”.
In questo periodo il diffondersi dell’epidemia del coronavirus, partita dalla Cina e giunta velocemente in altri continenti e in Italia, sta generando preoccupazioni e paure. Le nostra società è scossa in modo profondo e questa ansia che determina anche fenomeni di psicosi collettiva si espone ad una lettura attenta. Si possono proporre alcune considerazioni. Una prima considerazione riguarda la capacità di presa della paura: forse a tal proposito si dovrebbe cogliere come certamente i virus delle malattie sono contagiosi, ma anche altri virus che hanno avuto diffusione nel tessuto sociale sono altrettanto pericolosi: il virus dell’odio, della indifferenza, dell’assuefazione alle tragedie che si svolgono a pochi passi da noi. E’ impressionante a tal proposito la sproporzione tra la presenza a livello mediatico delle notizie sul coronavirus rispetto alla tragedia umanitaria che si sta consumando in questi giorni nei pressi di Idlib in Siria settentrionale. Fonti dell’ONU riferiscono che circa 900mila persone, stanno fuggendo dalle loro case di fronte ad un’offensiva portata dall’esercito di Bashar al Assad con il sostegno russo. Le immagini giunte sugli schermi dei nostri computer di un papà che convince la sua bambina a pensare che gli scoppi delle bombe sono fuochi d’artificio di cui ridere e non ordigni devastanti fa riflettere sull’impatto di questa guerra sui bambini e sui tanti bambini che fanno parte delle carovane di profughi. La crisi umanitaria in atto in quella regione giunge dopo nove anni di guerra in Siria. In questa fuga di massa chi sta abbandonando le proprie case non ha peraltro un luogo dove rifugiarsi perché alle spalle c’è l’aviazione russa e l’esercito di Assad e davanti si trova il rifiuto dell’esercito turco di Erdogan che impedisce ingressi alla frontiera. (Pierre Haski, A Idlib è in coso la peggior tragedia umanitaria del secolo, “Internazionale” 19 febbraio 2020).
Un seconda considerazione può sorgere dall’emergenza del coronavirus. A fronte di una tendenza presente nelle nostre società ad un individualismo senza limiti che illude di poter vivere una nuova onnipotenza data dai mezzi della tecnologia, si scopre improvvisamente il legame ineludibile che collega la vicenda dell’umanità in una unica comunità di destino. Ad un’epidemia si può far fronte solamente con atteggiamenti responsabili e attenti che coltivano la dimensione del noi e conducono ad una cura per gli altri, a valorizzare le competenze, a vivere anche il limite coltivando la virtù di prudenza, a scoprire la vita propria connessa a quella di tutti gli altri, in dimensioni globali.
Come osserva Caterina Soffici: “…il coronavirus è il muro contro cui il culto dell’ego dell’uomo moderno si va a schiantare. Ci fa capire che ognuno di noi, preso singolarmente, può soccombere di fronte a un nemico tanto piccolo da essere invisibile. Ci fa capire che ognuno deve prendersi le proprie responsabilità e accettare dei limiti, nel nome del “noi”, parola piuttosto desueta e sconosciuta ai più, ma che grazie al pericolo del contagio siamo costretti a far tornare di moda. L’epidemia è uno di quei casi dove l’interesse del singolo non può essere protetto altro che proteggendo l’intera comunità. E quindi il singolo, anche il più egoista dei singoli, se vuole proteggere se stesso e la propria cerchia di affetti, è costretto a comportarsi in maniera sociale. Prendersi le proprie responsabilità significa per esempio capire che ci sono dei limiti alla propria libertà per proteggere gli altri dal contagio. Capire che non siamo onnipotenti, che talvolta è necessario fermarsi, che non possiamo controllare tutto. E soprattutto che l’unione fa la forza”. (Caterina Soffici, La paura dell’invisibile ci spinge a riscoprire l’importanza del “noi”, “La Stampa” 25 febbraio 2020).
Un’ultima osservazione: in tante diocesi italiane si stanno diramando comunicati che invitano a limitare se non ad annullare celebrazioni comunitarie e liturgiche per evitare occasioni di contagio, e a coltivare la preghiera e l’ascolto della Parola di Dio nella dimensione domestica. E’ forse occasione questa per una riscoperta del significato profondo dell’eucaristia che rinvia sempre alla vita, al fare dei gesti e delle scelte di tutti giorni un pane spezzato e vino versato per gli altri. Questo tipo inatteso di ‘digiuno’ e questo genere di quarantena potrebbe essere motivo per scoprire la nostalgia di una comunità che diviene tale nel riferirsi al Signore Gesù nel quotidiano e nei luoghi della vita aprendosi a condividere e ad accogliere le ricerche di bene e di senso presenti nei cuori.
Questa attenzione al di fuori di noi e la cura per coltivare un noi nella vita ordinaria sono frontiere in cui vivere la conversione a cui la quaresima richiama.
Alessandro Cortesi op
I domenica di Quaresima – anno C – 2022
Dt 26,4-10; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13
“Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero … Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, … il Signore ci fece uscire dall’Egitto … Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele.”
La fede di Israele trova sintesi in queste parole che erano pronunciate ad accompagnare un gesti di offerta: non un elenco di dottrine ma racconto che ripercorre i momenti di una storia in cui il popolo d’Israele ha incontrato Dio come presenza vicina, capace di chinarsi ad accogliere grido degli oppressi. E’ Colui che è sceso a liberare ed ha stretto alleanza con il popolo d’Israele. Il Dio biblico è riconosciuto come il “Dio dei nostri padri” presenza che si rende vicina, attua liberazione ed apre futuro. E’ il Dio ‘totalmente altro’, lontano e diverso dall’uomo, non riducibile ai suoi pensieri, e nel contempo il Dio vicino che si prende cura degli indifesi.
“ci fece uscire dall’Egitto.. ci condusse in questo luogo”: la terra è segno della sua promessa. Quel grido che del popolo d’Israele oppresso nella schiavitù d’Egitto continua oggi nel grido dei popoli oppressi.
Luca nel suo vangelo presenta con accenti propri l’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto. In particolare Luca situa il momento conclusivo di un confronto drammatico tra Gesù e il ‘divisore’ (il diabolos) non su di un alto monte (come in Matteo) ma sul pinnacolo del Tempio di Gerusalemme, al cuore della città santa. Gerusalemme nel vangelo di Luca ha un’importanza particolare: da lì tutto ha inizio e lì si compie il cammino di Gesù che proprio a Gerusalemme è condotto a morte. Luca intende indicare che la prova non è un momento passeggero o limitabile ad un evento, ma attraversa l’intera vita di Gesù e vede il suo culmine a Gerusalemme. Gesù risponde alle provocazioni con il rinvio alla Scrittura, all’esperienza della fede di Israele e di fronte alle tre prove la sua risposta è sempre rinvio alla fiducia in Dio Padre: “Solo al Signore tuo Dio ti prostrerai Lui solo adorerai”. E sulla croce, a Gerusalemme, Gesù vive l’affidamento ultimo al Padre con le parole ‘nelle tue mani affido il mio spirito’.
Le prove che Gesù deve affrontare riguardano il modo di essere messia. Innanzitutto non risponde alle attese di chi da lui attendeva facili risposte alle proprie esigenze con attenzione ai bisogni immediati: ‘Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane’. ‘Figlio di Dio’ era il titolo riferito al Messia (unto, consacrato) atteso come colui che avrebbe portato la signoria di Dio sulla terra. Gesù non intende la sua missione di messia in termini sacrali o miracolistici.
Egli non risponde neppure risponde alle attese di potere, tema della seconda provocazione: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo”. Gesù rifiuta la logica del potere e non intende essere un messia di tipo politico sul modello di coloro che sulla terra detengono il potere e impongono il loro dominio: ai suoi dirà “tra voi non è così”.
La terza tentazione riguarda un messianismo di tipo spettacolare: “Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: ‘Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano’”. Gesù respinge anche questa provocazione. Le sue opere di potenza non sono gesti spettacolari ma atti finalizzati a guarire, sanare, ridare speranza. Sono gesti che Gesù compie per lo più nella distanza dalla folla che ricerca prodigi e miracoli. L’orientamento della sua vita è nella scelta di povertà.
Luca colloca il racconto delle tentazioni di Gesù subito dopo la genealogia: in lui l’intera storia dell’umanità trova una risposta. Gesù la indica nell’affidamento a Dio, Padre misericordioso che scende a liberare i suoi figli. La quaresima ripropone un cammino di fede che ponga al centro l’accoglienza dell’agire di Dio che scende a liberarci.
Alessandro Cortesi op
No alla guerra
Alcune voci possono essere raccolte per guardare in faccia che cosa è la guerra, che cosa porta nella vita delle persone: desolazione, disastro, dolore, morte. Null’altro. Le persone, i popoli, le città non volgiono la guerra perché sanno tutto questo. Ascoltare alcune voci può essere improtante per far tesoro dello sguardo di chi la guerra l’ha vista non lasciandosi condizionare dalla mentalità di militarizzazione che prende i cuori e si concretizza nell’uso delle armi produttrici di morte e distruzione. La testimonianza di Francesca Mannocchi inviata a Dnipro in questi giorni ricorda io dramma e il dolore sordo delle famiglie spezzate:
“Dnipro. ‘Posso raccontare come ho combattuto e sparato, ma raccontare quanto e come ho pianto non posso. Questo resterà non detto. So solo una cosa: in guerra l’uomo si trasforma in un essere spaventoso e oscuro’ (Svetlana Aleksievic).
La guerra è un affare di chi muore o di chi resta? La risposta a questa domanda si consuma sui binari delle stazioni ucraine che stanno separando le famiglie. Stazioni come quella di Dnipro, ieri mattina: da una parte gli uomini che restano a combattere, dall’altra le donne e i bambini che vanno via, ammassati prima sulle scale, in attesa, poi sul binario, col treno che si avvicina, e da ultimo confusi in un groviglio di corpi che si spingono, allontanano le persone vicine dalle porte di ingresso, cercando di salire per primi, con una mano tenendo i figli, con l’altra una busta di viveri. La lotta a conquistare un posto che porti via dalla guerra, l’immagine di un’umanità sradicata dai suoi istinti primitivi. Il primo: sopravvivere. In questo conflitto che ha il suono delle sirene degli allarmi aerei e il colore dell’inverno a Est, si va a tentoni, smarriti. È smarrito chi osserva e fatica a orientare il tempo della guerra nello spazio che sembra appartenerci più degli altri scenari di battaglia (ma è un’illusione, le guerre, si è già detto, si somigliano tutte). È smarrita la politica che tenta ma non sa ancora come uscire dalla nebbia, fitta, di una minaccia che ha già cambiato tutto. E sono perdute le esistenze, trasformate in meno di una settimana in una formula che le accomuna tutte: la vita di prima. Nessuno sa come comportarsi, né cosa sia meglio fare, nessuno pare sicuro del senso del suo agire. (…)
Come si fa a raccontare ai bambini che si parte per una vacanza, mentre le donne intorno gridano, salutando gli uomini che restano a combattere, consumando un congedo di necessità. Donne che si guardano, chiedendosi chi sarà la prima a trasformarsi da moglie in vedova. La guerra è separazione. Padri, figli. Mariti, mogli. Misha è qui ad accompagnare le donne della sua famiglia. Ha settant’anni e sul binario uno della stazione di Dnipro ci sono le due figlie, i quattro nipoti. Le figlie non riescono a parlare, la più giovane si allontana una decina di passi ogni volta che le scende una lacrima. Poi lo prende per mano e gli chiede di salutarsi prima che arrivi il treno. Abbracciami qui, papà, non dal finestrino, non piangendo. E lui si allontana con i bambini, compra loro due pacchetti di caramelle, come avrebbe fatto una settimana fa, all’edicola della stazione, un giornale per lui, le figurine dei calciatori, un album. Il leccalecca. E prende i più grandi per mano, torna dalle figlie le bacia, con la delicatezza frettolosa di chi è sicuro di rivedersi presto, come quando si consuma un addio volendolo mascherare da arrivederci.
Il treno arriva dopo un’ora. E sono lì, centinaia più dei passeggeri che le carrozze potrebbero trasportare, a tessere la storia parallela, quella che non fanno i titoli dei grandi avvenimenti, quella che non fanno i numeri, e quella che si perde più velocemente: la storia delle vite umane, che non riescono a trovare le parole per dire perché si va via. Perché ci hanno fatto questo.
La storia della guerra è fatta dalle vita di prima attraversata da crepe. Dai volti degli uomini che restano fermi sui binari a guardare il treno che scompare, non trattengono più le lacrime perché non c’è più nessuno a cui nasconderle, stringono le spalle nelle loro giacche per proteggersi dal freddo e tornano nelle case vuote di una città che si prepara alla guerra. E dai volti delle donne ucraine che vanno via, con le lacrime trattenute da nascondere ai figli e un bagaglio di solitudine paziente”. (F.Mannocchi, Famiglie spezzate, “La Stampa” 2 marzo 2022)
Nel libro postumo di Gino Strada che sarà pubblicato a breve ed ha come titolo Non arrendimaoci alle guerre, è riportata la domanda di Einstein nel 1955: «Questo è dunque il dilemma che vi sottoponiamo, crudo, spaventoso e ineludibile. Dobbiamo porre fine alla razza umana, o deve l’umanità rinunciare alla guerra?». E ricorda il progetto di scienziati riuniti in quel tempo.
“Il progetto a breve termine era procedere verso un disarmo nucleare, riportando la distruttività dei conflitti almeno ai livelli precedenti a Hiroshima. «Dobbiamo cominciare a pensare in una nuova maniera. Dobbiamo imparare a chiederci non che mosse intraprendere per offrire la vittoria militare al proprio gruppo preferito, perché non ci saranno poi ulteriori mosse di questo tipo; la domanda che dobbiamo farci è: che passi fare per prevenire uno scontro militare il cui risultato sarà inevitabilmente disastroso per entrambe le parti?». Gli scienziati non usavano mezze misure, in gioco c’era la distruzione totale del pianeta. E allora, perché giocare? Sarebbe stato come organizzare consapevolmente l’Apocalisse: ce l’eravamo costruita in laboratorio quella possibilità. (…)
«Se un dittatore opprime il suo popolo dobbiamo lasciarlo fare?», «Ma se c’è un genocidio non dobbiamo intervenire anche con la forza per fermarlo?». Potrei continuare con il repertorio di chi si è arreso all’idea della guerra, di chi la difende la invoca la giustifica, di chi la decide e di chi la fa. Queste domande, però, hanno già ricevuto una risposta. Sappiamo esattamente che cosa è stato fatto finora, quale scelta è stata compiuta, molte volte, negli ultimi decenni. La risposta è stata quasi sempre la guerra. In un Paese, l’Afghanistan, si nasconde un terrorista di nome Osama bin Laden, mandante degli attacchi dell’11 settembre 2001: si bombarda il Paese, si radono al suolo villaggi, lo si occupa militarmente per 20 anni, spendendo miliardi di euro per fare «la guerra al terrorismo». Saddam Hussein non è più un alleato affidabile? Si inventano le prove che lo identificano come un pericolo, il Segretario Usa agita provette per l’esame urine al palazzo dell’Onu spacciandole per armi chimiche. Infine si bombarda l’Iraq, lo si occupa militarmente. Muhammar Gheddafi in Libia non è più l’amico che fornisce petrolio a mezza Europa? Nessun problema. Si bombarda, si forniscono armi ai suoi nemici, nuova benzina sul fuoco della guerra. Ogni volta la stessa risposta, la stessa scelta. Chi ha deriso il movimento per la pace, accusandolo di non sapere offrire alternative, non si è mai fermato a riflettere sulle conseguenze delle sue scelte. E allora, verrebbe da chiedere: come è andata con la scelta ripetuta della guerra in tutti questi anni? Come vivono oggi le persone in Afghanistan e Iraq, in Libia e in Siria e in tutti gli altri luoghi devastati dalla violenza? Che cosa hanno da mangiare, possono studiare, ricevono le cure di cui hanno bisogno? Quanti morti hanno dovuto piangere, quante sofferenze sopportare, quanto orrore hanno dovuto vedere? Non ne ho mai sentito parlare, da politici e militari. La vita, la dignità, la libertà, la sofferenza e la morte delle persone sembrano argomenti minori, anche rispettabili ma sostanzialmente marginali per chi si sente sulle spalle l’arduo compito di sovrintendere i destini del mondo. Dopo tutti questi anni di guerra, la sola realtà, la sola verità inoppugnabile è che quello strumento, quella scelta ancora una volta non ha funzionato. Non c’è bisogno di avere principi etici intransigenti, né ideologie particolari, per capire che la guerra come strumento non funziona. Basta un minimo di intelligenza, basta solo guardare le cose in modo obiettivo e senza pregiudizi. Chi ricorda «la guerra per far finire tutte le guerre» del presidente americano Thomas Woodrow Wilson? Era il 1916.La guerra, anche quella che si invoca o si fa per porre fine ad altre atrocità, «per far finire tutte le guerre», non può funzionare perché è di per sé antitetica alle ragioni che la sostengono: la guerra è la negazione di ogni diritto” (Gino Strada, Non arrendiamoci alle guerre, “La Stampa” 3 marzo 2022).
All’Angelus del 27 febbraio papa Francesco ha richiamato che chi fa la guerra dimentica l’umanità e si affida alla logica perversa delle armi, ha ricordato la povera gente vittima di ogni conflitto, della follia della guerra, ed ha citato l’articolo 11 della Costituzione italiana: “Chi fa la guerra dimentica l’umanità. Non parte dalla gente, non guarda alla vita concreta delle persone, ma mette davanti a tutto interessi di parte e di potere. Si affida alla logica diabolica e perversa delle armi, che è la più lontana dalla volontà di Dio. E si distanzia dalla gente comune, che vuole la pace; e che in ogni conflitto è la vera vittima, che paga sulla propria pelle le follie della guerra. Penso agli anziani, a quanti in queste ore cercano rifugio, alle mamme in fuga con i loro bambini… Sono fratelli e sorelle per i quali è urgente aprire corridoi umanitari e che vanno accolti. Con il cuore straziato per quanto accade in Ucraina – e non dimentichiamo le guerre in altre parti del mondo, come nello Yemen, in Siria, in Etiopia… –, ripeto: tacciano le armi! Dio sta con gli operatori di pace, non con chi usa la violenza. Perché chi ama la pace, come recita la Costituzione Italiana, «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (Art. 11)”.
Alessandro Cortesi op