XXV domenica tempo ordinario – anno B – 2018
Sap 2,12.17-20; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37
La domanda sull’ingiustizia e sul male prodotto dalla malvagità umana attraversa i libri biblici. Il libro della Sapienza ne è testimonianza: si sofferma sull’atteggiamento di chi trama per eliminare il giusto, ne ricerca i motivi che generano opposizione e violenza. Il giusto è di imbarazzo agli empi e si oppone alle loro azioni. La sua vita è un rimprovero manifesto e continuo. In queste parole sta racchiusa insieme e nella contrapposizione la vicenda dei giusti e dei malvagi che cercano di eliminarli: ‘Condanniamolo a una morte infamante’. E’ la storia del tramare degli ingiusti che pretendono di essere padroni della storia e dominatori degli altri uomini. Avvertono come il comportamento di chi cerca un operare nella giustizia sia per loro una denuncia silenziosa: non solo contrasta i loro disegni ma li mette in discussione. La loro sfida è rivolta nei confronti di Dio stesso: ” Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza “.
Nella sua lettera Giacomo denuncia il desiderio scriteriato di possedere e di affermarsi a scapito degli altri: l’altro è visto come un concorrente e nemico. L’invidia e la brama di possesso stanno all’origine di guerre e conflitti: “Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!”. A questo modo di vivere che è disordine di una vita dominata dal desiderio e dall’invidia è contrapposto un altro modo di vivere proveniente da un dono di sapienza: la sapienza che viene dall’alto genera pace, mitezza, capacità di comprensione nel non pretendere di affermare se stessi a scapito degli altri, e misericordia. Avere sapienza per Giacomo non significa sapere tante cose, ma attuare scelte di vita e di relazione seminando la pace. La sapienza è così un modo di guardare se stessi, gli altri le cose e genera uno stile di vita fecondo, di giustizia e di relazioni buone. “Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia”. La giustizia è frutto presente già nell’opera faticosa di chi semina e promuove la pace: proviene da un dono e segue all’opera di chi promuove la pace. La vera sapienza non è di chi vuole imporre con l’aggressivitàe la violenza la sua ragione, ma di chi fa opera di pace. Giacomo indica una via di sapienza che interroga le relazioni tra le persone e i popoli. Proprio di chi ha scoperto il segreto che rende una vita saporosa e capace di frutti sta nel costruire pace, nel tessere scelte che vanno contro ogni soluzione di violenza e di guerra nei rapporti umani.
Marco nel suo vangelo vede Gesù come colui che viene consegnato e ucciso dagli uomini sperimentando umiliazione e solitudine. Ma ‘dopo tre giorni risusciterà’: quella vita che agli occhi degli uomini era inutile e senza realizzazione, trova la conferma del Padre che pronuncia il suo ‘sì’ sulla vita di Gesù, il Figlio, nel risuscitarlo al terzo giorno. Gesù con il suo agire capovolge le attese dei suoi. I suoi non comprendono e le loro preoccupazioni rimangono fisse alla ricerca di affermazione e di superiorità sugli altri. Per la strada si interrogano su chi è il più grande. “Di che cosa stavate discutendo per la strada?. Ed essi tacevano”. Gesù affronta questa incomprensione ponendo un segno e una parola: “Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me”. Nel mezzo pone un bambino e lo abbraccia. Chiede ai suoi quindi di vivere una logica diversa rispetto alle attese che nutrivano: camminare nel farsi servitori degli altri, non superiori e padroni, e richiama all’accoglienza dei piccoli. I bambini sono coloro che hanno bisogno di aiuto e sostegno, paradigma di tutti coloro a cui non sono riconosciuti diritti e tenuti ai margini. Gesù li pone invece al centro. Accogliere Gesù e il Padre sta in relazione al porre nel mezzo e accogliere i piccoli.
Alessandro Cortesi op
Quale vertigine
“I ragazzi che sfidano la morte e troppo spesso restano uccisi ci chiamano in causa. Come se, volendo mostrare a tutti l’ultima impresa da loro compiuta, scalare un centro commerciale, lanciarsi nel vuoto, attraversare i binari della ferrovia, ci chiedessero di essere visti, conosciuti, considerati. Dietro il più temerario degli autoscatti e sotto l’apparente vanagloria di certi gesti estremi, si nasconde una domanda drammatica: io sono qui? E tu, dimmi, dove sei? Per sentirsi accettati questi giovani hanno bisogno di un riscontro collettivo che non trovano né in casa, né a scuola, né in famiglia. Allora ricorrono ai social: senza i selfie scattati insieme agli amici e subito diffusi in Rete, alcuni forse non riuscirebbero neppure a vivere. Cercano un pubblico. In un mondo dove sembra esistere soltanto quello che risulta illuminato dalla luce dei riflettori, pretendono un posto”. Così Eraldo Affinati riflette sulle drammatiche notizie di adolescenti che sfidano in modi diversi la morte rimanendone vittime, alla ricerca di un brivido, di una vertigine o nella distrazione per un selfie in condizioni estreme. Conclude il suo articolo (E.Affinati, Diamogli la vertigine, “Avvenire” 18 settembre 2018) richiamando le parole del papa Francesco: “Purtroppo, nella realtà che abbiamo sotto gli occhi, molti quindicenni trascorrono ore di fronte allo schermo, privi di qualsiasi bussola di orientamento, nel grande mare informatico dove c’è tutto e il suo contrario. Di ben altro essi avrebbero invece bisogno. Ancora una volta è stato papa Francesco a ricordarcelo, poco più di un anno fa, al Convegno della Diocesi di Roma: «I nostri ragazzi cercano in molti modi la ‘vertigine’ che li faccia sentire vivi. Dunque, diamogliela!».”
Proprio Francesco incontrando i giovani a Palermo, il 15 settembre u.s. nella sua visita ha ricordato la figura di 3P, padre Pino Puglisi, ucciso dalla mafia perchè ricercava la giustizia e richiamava i giovani alla vertigine di una vita vissuta nel servizio e nell’onestà: “Camminare, cercare, sognare… Un ultimo verbo che aiuta per ascoltare la voce del Signore è servire, fare qualcosa per gli altri. Sempre verso gli altri, non ripiegato su te stesso, come quelli che hanno per nome “io, me, con me, per me”, quella gente che vive per sé stessa ma alla fine finisce come l’aceto, così cattivo…”
“Noi siamo bravi a fare distinzioni, anche giuste e fini, ma a volte dimentichiamo la semplicità della fede. E cosa ci dice la fede? «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Amore e gioia: questo è accoglienza. Per vivere non si può solo distinguere, spesso per giustificarsi; bisogna coinvolgersi. Lo dico in dialetto? In dialetto umano: bisogna sporcarsi le mani! Avete capito? Se voi non siete capaci di sporcarvi le mani, mai sarete accoglienti, mai penserete all’altro, ai bisogni altrui. Cari, «la vita non si spiega, si vive!». Lasciamo le spiegazioni per dopo; ma vivere la vita. La vita si vive. Questo non è mio, l’ha detto un grande autore di questa terra. Vale ancora di più per la vita cristiana: la vita cristiana si vive. La prima domanda da farsi è: metto le mie capacità, i miei talenti, tutto quello che io so fare, a disposizione? Ho tempo per gli altri? Sono accogliente con gli altri? Attivo un po’ di amore concreto nelle mie giornate?
Oggi sembra tutto collegato, ma in realtà ci sentiamo troppo isolati, distanti. Adesso vi faccio pensare, ognuno di voi, alla solitudine che avete nel cuore: quante volte vi trovate soli con quella tristezza, con quella solitudine? Questo è il termometro che ti indica che la temperatura dell’accoglienza, dello sporcarsi le mani, del servire gli altri è troppo bassa. La tristezza è un indice della mancanza di impegno [dice compromesso”], e senza impegno voi non potrete mai essere costruttori di futuro! Voi dovete essere costruttori del futuro, il futuro è nelle vostre mani! Pensate bene questo: il futuro è nelle vostre mani. Voi non potete prendere il telefonino e chiamare una ditta che vi faccia il futuro: il futuro devi farlo tu, con le tue mani, con il tuo cuore, con il tuo amore, con le tue passioni, con i tuoi sogni. Con gli altri. Accogliente e al servizio degli altri”.
Significative infine le parole di Francesco a conclusione, quando, rivolgendosi ai presenti e tenedo presente che davanti a lui erano molti giovani cristiani ma anche giovani di altre religioni e agnostici, ha detto: “chiederò a Dio che benedica quel seme di inquietudine che è nel vostro cuore”.
Alessandro Cortesi op
Immacolata Concezione – anno A – 2019
Gen 3,9-15.20; Ef 1,3-12; Lc 1,26-38
“Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te”. In queste poche parole, in un saluto, è racchiusa l’esperienza di Maria, donna capace di responsabilità e impegno perché segnata da un amore ricevuto e accolto.
“Rallegrati” non esprime riconoscimento di una sorta di grandezza o di virtù da parte di Maria: è piuttosto espressione di un amore immeritato che ha avvolto la sua vitae di cui lei si rende consapevole. E’ indicazione di un’esperienza di grazia che genera stupore e ringraziamento. Ed insieme senso di restituzione di tutto a Dio. La vita di Maria è posta nel segno di una gratuità che lei in modo adulto accoglie responsabilmente facendone orizzonte di sequela di Gesù e di servizio. Non nella logica dell’assoggettamento e di una femminilità vissuta nei termini di sottomissione e rassegnazione, ma con il coraggio proprio dei poveri di Jahwè che percorrono e accompagnano cammini di liberazione. Maria si scopre amata e per questo inviata ad essere testimone di un amore che guarda ai piccoli, che rovescia i potenti dai troni, che innalza gli umili, che ribalta una storia dominata dai violenti e dai prepotenti e inaugura una storia nuova. E’ l’amore di Dio.
Nel volto di Maria si può scorgere la bellezza di chi è amato da Dio e accoglie questo dono con senso di gratitudine e con creatività e decisione, facendosi terreno di accoglienza e dando spazio alla fecondità di questo amore. Una zolla di terra capace di dare spazio ad un seme di vita.
“Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo…” La nudità di Adamo nel giardino è il segno di uno stare di fronte nella sincerità e nella trasparenza. Di fronte al suo ‘tu’, Adam, l’umano fatto di terra, si scopre nudo, scoperto, capace di gioire della trasparenza di corpi che s’incontrano senza nascondimenti. La nudità esprime la bellezza dell’amore in cui proprio l’incontro dei corpi manifesta il desiderio di consegna del proprio io ad un ‘tu’ che sta di fronte, incontrato come presenza che accoglie vicina e diversa. E’ esperienza di trasparenza nell’intimità della vita. Nella loro nudità Adamo e Eva scoprono di potersi affidare reciprocamente e di poter consegnare l’un l’altra la propria fragilità senza paure, senza riserve. E’ la bellezza dell’amore che sulla terra è traccia ineludibile di Dio.
Tuttavia la nudità diviene un ostacolo, elemento che genera paura quando il rapporto s’incrina con falsità, sospetto e tradimento. Quando non è trasparente, quando si vuole nascondere qualcosa: nell’immagine di Adamo che di fronte a Dio ha paura perché si trova ad essere nudo sta racchiuso il messaggio su di una rottura del rapporto. E’ un atteggiamento di insincerità, tentativo di nascondere un sospetto. E’ ricerca di coprirsi e di mascherare nel trovarsi a disagio con la propria fragilità, nel voler nascondere una distanza ed una rottura.
Ad Adamo ed Eva, padre e madre dei viventi, nudi, narra Genesi, Dio procurerà delle tuniche di pelle per coprirsi: il Dio che vuole la vita e l’amore, nonostante l’insincerità dell’uomo, nonostante l’incapacità ad accogliere con fiducia il suo dono, apre cammini in cui poter recuperare sincerità e amore di fronte all’altro.
“In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”. C’è un disegno di benedizione sulla vita umana e sul cosmo. L’inno agli Efesini ricorda che c’è un sogno di Dio su ogni volto: ed è un sogno di benedizione, di partecipazione alla sua vita, di santità. Sta qui la radice per scorgere in ogni volto un luogo di benedizione e per chiedere al Signore di essere strumenti perché ogni persona possa scoprire questo sguardo di amore nel cuore della sua esistenza, nonostante ogni contraddizione, ogni abbandono, ogni sofferenza per non essere amati. In lui, in Cristo che si è dato per tutti, Dio ci ha scelti. Siamo inseriti in una corrente di sguardo benevolente e amoroso che solo fa sorgere vita e vita per altri.
Alessandro Cortesi op
Violenza, sfruttamento, individualismo
Leggendo i quotidiani degli ultimi giorni non si può non sostare con preoccupazione a fronte a due fenomeni che si presentano con drammatica evidenza: il dato sulla violenza contro le donne in Italia e il fenomeno dello sfruttamento del lavoro che continua e alimenta gli affari delle grandi marche della moda.
Sono novantacinque le donne uccise in Italia dall’inizio dell’anno. Nel 2018 le vittime sono state 142. Dal 2000 ad oggi sono state 3.230. Circa la metà per mano del proprio compagno o ex compagno, in un contesto quindi familiare. Manifestazioni di violenza si accompagnano a maltrattamenti, ad oppressioni e umiliazioni, a stalking, e sono condotte in modo trasversale senza differenze tra Nord centro e Sud Italia. Le vittime e gli aggressori provengono da tutte le classi sociali e dalle più diverse condizioni economiche. La rete dei centri anti-violenza, in una sua analisi comparando i dati Istat e quelli raccolti direttamente, ha evidenziato che la percentuale più alta delle forme di violenza subita dalle donne ascoltate presenta situazioni di violenza psicologica (73,6 per cento). Le denunce sono aumentate ma non sono sufficienti le misure di tutela. I Centri antiviolenza non hanno sostegni adeguati. Avanzamenti nella legislazione come la legge sullo stalking del 2009, e quella sul femminicidio del 2013 non hanno portato ad una decisa diminuzione della violenza.
Appare come il femminicidio sia una piaga in particolare del nostro Paese che denota non più una situazione di emergenza ma un fenomeno continuativo. La violenza esercitata sulle donne non può essere relegata ad una vicenda privata, ma assume una valenza sociale. L’intera società deve sentirsi interpellata e individuare misure per reagire e predisporre itinerari educativi. Alla base del fenomeno sta una idea malata di possesso dell’altro, la dipendenza da una comprensione androcentrica e patriarcale della vita, una comprensione narcisistica della personalità, l’incapacità di rispettare l’autonomia e la libertà dell’altro, il rifiuto di affrontare la fatica nel costruire giorno per giorno relazioni adulte. Le questioni in gioco sono l’educazione alla parità, al rispetto dell’altro, l’accettazione della differenza, la capacità di confronto e dialogo, soprattutto una comprensione nuova della propria identità in relazione e poi il superamento di visioni discriminatorie, di stereotipi e pregiudizi. La violenza sulle donne è uno dei versanti dell’affermarsi della violenza in un contesto in cui si esalta il ripiegamento su un proprio io incapace di guardare all’altro e di lasciarsi porre in discussione dalle diversità dell’altro.
Proprio in considerazione di tale questione di un ‘io’ incapace di aprirsi alla considerazione dell’altro da sé, Matteo Zuppi, cardinale di Bologna, osserva: “Oggi le appartenenze sono piuttosto digitali, comunque più individualistiche e frammentarie, condizionate da opportunità, affinità iniziali e non verificate, oppure contingenze. Cosa diventa un individualismo di questo genere se non crescono parimenti la responsabilità, la capacità di discernimento e di visione che sono possibili solo in un rapporto con il prossimo?”
Un egocentrismo che si connota come aspirazione senza limiti porta a drammatiche conseguenze nella vita sociale: “L’egocentrismo – io penso – ha pretese senza limite, perché il vero limite, che non riesco mai a superare da solo, sono io stesso: quell’io su cui punto tutte le mie risorse. L’egocentrismo ci persuade che staremo bene solo assecondando il nostro io, anche a costo di rovinare i rapporti con le persone più care. Così finiamo per scegliere la parte e non il tutto, lo spazio e non il tempo, la difesa delle cose piuttosto che la costruzione dei rapporti” (Matteo Maria Zuppi con Lorenzo Fazzini, Odierai il prossimo tuo. Perché abbiamo dimenticato la fraternità. Riflessioni sulle paure del tempo presente, Piemme 2019)
C’è anche un egocentrismo di un mondo che alimenta il suo produrre nello sfruttamento degli altri: “L’Italia fonda una parte rilevante della sua qualità manifatturiera sul lavoro schiavizzato in distretti industriali che, per tradizione ormai di oltre mezzo secolo, si occupano di realizzare in nero e in condizioni spesso disumane confezioni, cuciture, rifiniture, ma anche scarpe, abiti, cinture, prodotti dell’alta moda”. Così Roberto Saviano introduce un suo articolo in cui denuncia la situazione diffusa a nord al centro e al sud dello sfruttamento di lavoro schiavizzato che alimenta l’industria dell’alta moda, delle grandi marche che esportano in tutto il mondo (Quegli operai sfruttati nella fabbrica ‘grandi firme’, “La Repubblica” 18 novembre 2019) .
Dopo aver fatto riferimento a recenti situazioni concrete in cui sono stati scoperti lavoratori in nero che lavoravano in condizioni di sfruttamento per due/tre euro l’ora osserva: “Il lavoro italiano schiavizzato è stato totalmente rimosso dal dibattito pubblico sovranista perché andrebbe a smontare il suo principale cavallo di battaglia ideologico, svelando che non sono gli immigrati clandestini che arrivano in Italia a far abbassare il prezzo del lavoro e quindi a reintrodurre la schiavitù. Da più di cinquant’anni in molte zone del Meridione d’Italia (ma anche in Veneto) esiste un sistematico sfruttamento della manodopera di qualità da parte di tutto il sistema della moda, ma nonostante articoli, reportage, denunce e impegno dei sindacati, non si riesce in alcun modo a mutare la situazione”.
“la responsabilità di molte aziende dell’alta moda è totale: sono consapevoli — anche se legalmente al riparo — che la qualità della loro merce è frutto di condizioni di lavoro terribili e di uno sfruttamento costante. Solo da loro possono venire scelte in grado di cambiare questa situazione. Il populismo tace per convenienza, i riformisti temono di far scappare le aziende, quindi i salari, quindi i voti. Insomma, la solita verità italiana”.
Forme diverse di violenza e sfruttamento sono presenti in un contesto in cui sarebbe indispensabili maturare la consapevolezza della dignità di ogni volto perché in esso sta una benedizione originaria ed una chiamata fondamentale alla relazione.
Alessandro Cortesi op