I domenica di avvento – anno C – 2021

Ger 33,14-16; 1 Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36
Inizia un nuovo anno liturgico, un tempo nuovo, nel segno dell’attesa di una venuta. Il Dio di Israele e il Dio di Gesù è presenza che viene incontro. Il primo movimento della fede parte dal Dio che sta in ricerca dell’uomo. E’ Lui per primo che rivolge la sua parola e invita ad incontrarlo. L’avvento richiama ad una promessa e ad un’attesa. C’è un disegno di Dio sulla storia che è disegno di bene. “realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda”. Questa promessa di bene trova concretizzazione in una presenza: “in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra”.
Geremia vede lo sbocciare di un germoglio dall’albero della famiglia di Davide, il re della pace. Il germoglio porterà un tempo nuovo segnato non solo dall’assenza di guerra ma da una condizione di benessere globale che viene indicato come pace. E’ un tempo che vedrà l’intervento di una figura portatrice di giustizia, un messia. Nel linguaggio biblico giustizia è sinonimo di fedeltà. Dio è giusto perché fedele alla sua promessa di vicinanza e di cura. Il Dio fedele viene a prendere la difesa di chi non ha altri sostegni, di chi è lasciato escluso e dimenticato.
“Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia”. Gerusalemme reca in sé la promessa di essere luogo in cui si compie la fedeltà di Dio e l’orizzonte che reca nel suo nome, città della pace, è legato al venire di Dio che compie la sua fedeltà di amore.
“il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi”. La preghiera dell’autore della prima lettera di Giovanni è un’invocazione a crescere e sovrabbondare nell’amore.
L’indicazione della venuta di Cristo sta al cuore della fede delle prime comunità cristiane. Nella sua prima lettera Giovanni parla di una crescita da coltivare nella vita: un amore interno alla comunità dei discepoli e aperto a tutti. Il cammino dei cristiani si pone nella attesa della venuta del Signore. Non è un tempo vuoto ma luogo di un crescere e sovrabbondare nell’amore. La santità è accoglienza del dono di Dio e del suo amore che si è manifestato e donato in Cristo e si esprime in un agire che rifletta le scelte di Gesù. L’orizzonte finale è quello di una comunione con Gesù e con tutti coloro che hanno vissuto l’amore come lui ha indicato.
Luca nel cap. 21 del suo vangelo riprende elementi dello stile apocalittico, un genere letterario per noi difficile da comprendere ricco di simbolismi. Le immagini molto forti intendono indicare l’intervento di Dio che si comunica nella nostra storia (apocalisse significa infatti rivelazione): “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso…”. ‘Quel giorno’ è inteso il ‘giorno del Signore’, giorno del venire di Dio, momento ultimo della storia. L’invito diviene allora: “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo”. Il discepolo è presentato come persona del giorno, non prigioniero della notte e del buio. L’invito è a stare in piedi, con attenzione vivendo il presente in modo attivo, con impegno. Sin da ora è iniziato l’Ultimo: nell’oggi si realizza la visita di Dio. Nel presente viviamo l’attesa di Qualcuno che viene.
Alessandro Cortesi op

Segni del tempo
La parola di Dio ci raggiunge in un presente da ascoltare, in cui rimanere attenti e svegli e in cui esser presenti con impegno responsabile.
In una lettera al Congresso degli USA Amir Khan Muttaqi, ministro degli esteri taleban ha richiesto che i beni della Banca centrale afghana siano sbloccati e le sanzioni contro le banche afghane siano revocate. Tutto questo per fronteggiare una crisi umanitaria che sta già diffondendosi nel Paese. A circa tre mesi dall’abbandono dell’Afghanistan da parte degli Stat Uniti e dei Paesi occidentali il Paese sta precipitando nella fame e nelal mancanza di servizi essenziali: “Secondo l’ultimo rapporto della Croce Rossa, tra novembre e marzo 2022 più di 22 milioni di afghani dovranno affrontare livelli di crisi o emergenza di fame acuta. La disperazione è plastica nelle immagini delle code davanti alle banche alle 5 del mattino nella speranza di poter prelevare un po’ di contanti. E in quelle, assai più tragiche, degli ospedali” (Francesca Mannocchi, Afghanistan, la fame o la fuga, La Stampa 25 novembre 2021)
La malnutrizione dei bambini si è accresciuta nell’ultimo periodo superando abbondantemente il limite dell’emergenza. La gente in Afghanistan muore di fame e la richiesta del primo ministro di un governo talebano che costringe ad un’osservanza rigorosa della legge religiosa, che ha escluso le donne dalla vita pubblica, delinea un sottile ricatto: se non si sbloccheranno gli aiuti si aprirà una crisi migratoria di massa che coinvolgerà non solo la regione ma il mondo.
Osserva Francesca Mannocchi: “E quando le guerre finiscono non si abbandonano i vinti, ma non si abbandonano nemmeno i vincitori se stanno patendo la fame. Anche se non ci piacciono. Soprattutto se il sistema economico che oggi è bloccato dalle sanzioni, e si sosteneva su un sistema assistenziale che aveva reso il Paese dipendente dagli aiuti internazionali l’avevamo costruito noi, cioè gli sconfitti”.
Il 25 novembre è giornata dedicata all’eliminazione della violenza sulle donne, un fnomen che registra numeri sconcertanti: solamente nell’anno in corso in Italia sono state 103 le donne uccise e l’uccisione di donne rappresenta il 40 % degli omicidi. La maggiro parte sono state uccise nell’ambito familiare o affettivo. Ma la violenza sule donne è ben più estesa dei casi di uccisione e costituisce un’attitudine che è accettata e non posta in discussione da una parte rilevante degli uomini. Una ricerca condotta su un campione di 800 italiani a fine settembre 2021 e riportata su ‘Domani’ manifesta una attitudine diffusa in modo minoritario ma rilevante tra gli uomini che giustifica la violenza sulle donne nelle forme della violenza fisica e sessuale e una visione di prevaricazione emerge anche nel modo di valutare comportamenti e pratiche che limitano la libertà e autonomia delle donne. La ricerca evidenzia il permanere nel nostro paese di una subcultura machista e patriarcale.
“Emergono i tratti di una società in cui la mercificazione del corpo della donna e il suo essere considerato un oggetto nelle disponibilità dell’uomo, impregnano parte dell’humus relazionale tra i sessi, generando un brodo di cultura pernicioso in cui affondano le radici e di cui si alimentano le espressioni comportamentali violente e i femminicidi” (Enzo Risso, Femminicidi, troppi uomini giustificano le violenze e così le donne muoiono, “Domani” 25 novembre 2021)
Alberto Leiss così scrive su Il manifesto: “Intorno al 25 novembre i media si riempiono di notizie, servizi, interventi che riguardano lo scandalo sempre più insopportabile della violenza agita contro le donne. Rimbalzano i numeri sui femminicidi, le persecuzioni sotto casa, le botte, la violenza psicologica e economica. La furia omicida che si abbatte anche sui figli. La cronaca alimenta questo museo di orrori perpetrati per lo più da mariti, compagni, padri, fratelli, amici di famiglia, e da qualche sconosciuto per la strada… E poi i buoni propositi delle istituzioni, della politica…(…) La violenza contro le donne sarà vinta, o almeno ridotta, solo quando cambierà sul serio la mentalità e la cultura maschile che la produce. Ogni tanto si affaccia la domanda: ma gli uomini dove sono? Che cosa dicono, fanno, pensano a proposito della violenza che agiscono?… «La giornata internazionale contro la violenza sulle donne, afferma il testo (integrale sul sito di Maschile plurale) ci riguarda non solo perché siamo noi maschi a esercitare queste aggressioni – e tutti in qualche modo siamo attraversati dalla cultura patriarcale che produce la violenza – ma perché mettere in discussione questa cultura sarebbe un grande vantaggio per noi stessi e le nostre vite»” (Alberto Leiss, La libertà femminile è un’occasione anche per gli uomini, “Il Manifesto” 25 novembre 2021).
A Trieste Gian Andrea Franchi e la moglie Lorena Fornasir erano accusati di far parte di una rete di trafficanti per aver svolto attività di assistenza e aiuto ai migranti che raggiungevano la città dopo aver superato i rischi del respingimento e le violenze di forze di polizia alla frontiera (Nello Scavo, Archiviate le accuse per i ‘samaritani’ di Trieste, “Avvenire” 23 novembre 2021). L’inchiesta, trasferita a Bologna, in quanto Lorena Fornasir, giudice onorario, doveva essere giudicata lontano dal proprio distretto, è stata sottoposta all’esame del giudice delle indagini preliminari, che è giunto alla decisione di non chiedere il rinvio a giudizio per i due volontari. Il sospetto che aveva generato l’accusa era di aver costruito una rete di “accoglienza a pagamento” per i profughi in arrivo dalla rotta balcanica. Accuse infondate finalizzate a diffondere l’idea che la solidarietà sia reato. Il caso, chiuso con l’archiviazione, ha mostrato che “nonno Andrea” di 81 anni e sua moglie Lorena Fornasir hanno operato solamente per portare solidarietà con bende, farmaci, medicinali e scarpe a coloro che, giunti esausti dalla rotta balcanica, non riescono nemmeno più a camminare. La solidarietà non è reato.
Di fronte a queste notizie che ci parlano di violenza, di ingiustizia, è presente, proprio nella contraddizione, una promessa da accogliere per fare spazio e coltivare i semi di un mondo nuovo.
Alessandro Cortesi op
IV domenica di Avvento anno C
Mi 5,1-4; Eb 10,5-10; Lc 1,39-48
L’immagine di un arrivo imminente, una nascita, di una figura portatrice di speranza, di salvezza, in modi diversi, è al cuore delle letture: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele… Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele”. Da uno sconosciuto villaggio di Giuda sta per nascere un nuovo re. Porterà la giustizia e la pace. E’ annuncio di una pace nuova, possibile, portata da qualcuno che avrà funzioni di guida e testimone. Non si attuerà con mezzi di potenza o con la forza, ma nella debolezza, a partire dai margini. Da Betlemme, la casa del pane, uscirà un ‘dominatore’ senz’armi e senza potere. Questo annuncio è speranza per i poveri e apertura ad un futuro nuovo.
Così due donne incinte sono al centro della pagina di Luca, fissate nel momento del loro incontrarsi gioioso: Maria porta in grembo Gesù e Elisabetta porta Giovanni. Nelle parole di Elisabetta a Maria si può trovare traccia di un antico inno di benedizione: “benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! …. Beata colei che ha creduto all’adempimento delle parole del Signore”.
Maria è presentata come la ‘credente’: ha accolto la parola di Dio ed ha intrapreso nella sua esistenza il cammino che è il credere: è beata non solo perché reca in grembo Gesù, ma perché ha accolto nel suo cuore la Parola di Dio e segue Gesù: prima discepola, apre il cammino a tutti i discepoli e discepole che lo seguiranno. E’ figura di chi si affida: ‘Beato chi teme il Signore e cammina nella sue vie’ (Sal 128,1-2). Gesù, rispondendo a chi gli diceva: ‘Beato il grembo che ti ha portato’, risponde “beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 11,27-28). Maria ha ascoltato la Parola e ha inteso la sua esistenza in riferimento alla Parola accolta, attuandola nei passi del suo cammino.
Nelle parole di Elisabetta a Maria ‘a che debbo che la madre del mio Signore venga a me?’ è rievocato sottilmente l’episodio del trasporto dell’arca dell’alleanza: “Davide in quel giorno ebbe paura e disse: come potrà venire da me l’arca del Signore?” (2Sam 6,9). Al passaggio dell’arca, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, il re Davide danzò in modo sfrenato senza vergognarsi, colmo di gioia per tale vicinanza.
Nell’incontro tra Maria e Elisabetta quel ricordo ritorna ed ora è Maria la nuova ‘arca dell’alleanza’, luogo d’incontro tra Dio che visita e l’umanità abitata dalla sua presenza. Dio si rende vicino nel venire di Gesù. In questa visita che sta dentro e oltre l’incontro delle due donne una gioia nuova può sorgere. La storia umana è storia visitata, abitata da una presenza che reca futuro e salvezza: si apre una speranza nuova. E’ venuta dell’atteso, del messia che porta liberazione. Luca presenta nella danza di Giovanni nel grembo di Elisabetta l’espressione di questa gioia: “appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo”.
L’incontro di Maria e Elisabetta racconta una visita e la gioia di un riconoscimento di fede. Dio visita l’umanità e si rende vicino in una presenza vivente. Da qui la gioia: la vita umana e la storia sono visitate da Dio ed ogni incontro umano può essere spazio di questo venire che genera un nascere nuovo.
Alessandro Cortesi op
Natale: incontro e volti
“Dio che ci viene incontro, significa Dio che siamo chiamati a nostra volta ad incontrare, affinché anche di noi non si dica: “Egli era la luce, ma le tenebre non l’hanno accolta”. Perciò siamo chiamati alla vigilanza, a quella dei poveri e degli umili che stanno alla soglia aspettando chi li ama nonostante non siano sempre amabili. Non esiste alcun Natale dove non vi sia un incontro, e nessun incontro vive di un solo volto sempre i volti che si guardano sono almeno due. E uno dei due domanda all’altro qualcosa; e l’altro risponde donando e chiedendo a sua volta” Così scriveva Carlo Maria Martini in una meditazione in preparazione al Natale (Verso il Natale, san Paolo 2018, 57) ricordando che Natale rinvia all’incontro e ai volti. E richiamando alla vigilanza.
In questo natale alcuni volti richiamano la vigilanza di tutti coloro che cerano di scorgere il farsi incontro di Dio che ascolta il grido del povero.
In questi giorni le prime pagine dei quotidiani pongono in risalto l’aumento del PIL nell’anno in corso e la diminuzione dei tassi di disoccupazione e di inattività nel nostro Paese. Tuttavia l’aumento dell’occupazione risulta assai limitato e si riferisce soprattutto a lavoro dipendente e con contratti a termine, quindi forme di lavoro precario e senza prospettiva di continuità. E’ peraltro diminuito il lavoro autonomo. La crisi della pandemia ha accentuato un fenomeno in atto da tempo, ossia lo scollamento tra aumento del PIL e andamento della domanda lavoro che appare non offrire prospettive di durata e concentrarsi su forme di lavoro dipendente e precario, spesso sottopagato. La cosiddetta ripresa dell’economia, da varie parti annunciata, appare segnata dall’aumento delle disuguaglianze e da un modello di lavoro basato sulla precarietà. (cfr. P.Raitano, La precarietà del lavoro non crea occupazione. Una ricerca sfata il mito della flessibilità, “Altreconomia” 8 giugno 2020).
La ‘ripresa’ reca con sé un altro fenomeno drammatico e sconcertante, quello delle morti sul lavoro, spesso causate dalla inosservanza delle misure di sicurezza, da mancanza di vigilanza e da irregolarità e attività in nero attuate da parte delle aziende. Non raramente sono conseguenza di sfruttamento dei lavoratori oltre che alla mancanza di controlli e ispezioni a causa dell’insufficienza di personale.
I volti a cui guardare in questo Natale sono tutti coloro che sono sottoposti ad accettare il lavoro peggiore con salari bassi, ad impegno intermittente e dovendo soggiacere a part time non scelti.
In questi giorni è stata notizia della continuazione delle indagini sulle violenze attuate nel carcere di santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020: per venti agenti della Polizia penitenziaria è stata decisa la proroga del regime di custodia cautelare nel loro domicilio mentre per 108 indagati è stato richiesto dalla procura di santa Maria Capua Vetere (Caserta) il rinvio a giudizio. Le accuse nei loro confronti sono: tortura, lesioni, abuso di autorità e falso in atto pubblico. Vi è anche chi è indagato per l’omicidio colposo di Lakimi Hamine, detenuto algerino che morì in cella isolamento, lì trattenuto dopo le violenze.
A questa notizia si aggiunge il grido di sofferenza che proviene dai Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) – dieci in Italia con circa 1100 posti (fonte Buchi neri) – dove aumentano i casi di autolesionismo e di tentati suicidi di coloro che vi sono trattenuti. Nel CPR di corso Brunelleschi a Torino, area Ospedaletto, Mamadou Moussa Balde, di origini dalla Guinea, si è tolto la vita il 22 maggio 2021. Era stato trasferito in quel Centro dopo aver subito una aggressione di stampo razzista a Ventimiglia, ad opera di tre italiani. Atti di autolesionismo e tentativi di suicidio sono manifestazione di sofferenze e del percepirsi senza possibilità di appoggio e senza futuro in centri in cui nessun visita è permessa e nessun diritto garantito. E ciò è dovuto anche alle condizioni di effettiva carcerazione imposta a chi non ha compiuto reati ma è privo di documenti validi per ingresso e soggiorno in Italia. Negli ultimi giorni Wissem Ben Abdellatif, proveniente dalla Tunisia, è morto per infarto nell’Ospedale San Camillo di Roma dopo essere stato sottoposto a misure di contenimento nel CPR di Ponte Galeria. Ed è del 7 dicembre la notizia che nel CPR di Gradisca d’Isonzo un giovane di origini marocchine di cui non è noto il nome, si è suicidato. Sono questi i volti, con i loro nomi, a cui dare attenzione e per cui essere vigilanti in questo Natale.
Alessandro Cortesi op