II domenica di Pasqua – anno A – 2017
At 2,42-47; 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31
La prima lettera di Pietro parla della Pasqua nel rapporto con la vita dei credenti e suggerisce aspetti fondamentali della fede cristiana. Al centro sta lo sguardo all’opera di Dio. “Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo: nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce”.
Il Padre ha pronunciato l’ultima parola sulla vita di Gesù, ha risollevato la vita del crocifisso e gli ha dato un ‘nome al di sopra di ogni altro nome’. Nella risurrezione ha costituito Gesù come signore. Ha così pronunciato il suo sì definitivo alla vita e alla morte di Gesù vissute nello ‘spendersi fino alla fine’, nell’amare fino al segno supremo.
Al centro della fede sta questo dono per tutti. Nel ‘rialzare’ Gesù dalla morte il Padre ha offerto un dono di rigenerazione per l’umanità. Nella risurrezione di Cristo è donata una vita nuova, opera del Padre. Da qui si apre la speranza dei credenti: è speranza viva, eredità che non si consuma. E’ eredità di incontro che diventa modo nuovo di intendere la vita, i rapporti, ogni cosa sin d’ora.
Da qui l’invito a scorgere questa condizione nuova: una vita rigenerata, nella custodia da parte di Dio che vince le forze di male. La vita e la morte stessa acquistano un senso nuovo dalla parola/azione definitiva della risurrezione. Questa eredità è conservata nei cieli, per chi ‘dalla potenza di Dio è custodito mediante la fede’.
Fede è così fissare lo sguardo su quanto il Padre ha compiuto, è ritrovare la propria eredità più preziosa in questo incontro. E’ anche inizio di una speranza per vivere seguendo Gesù nel cammino da lui percorso. I cristiani vivono – o dovrebbero vivere! – per questo nella provvisorietà, nella dispersione, come stranieri, in condizione di cammino. Non sono ancora giunti a casa, ma sanno che Dio li custodisce: ‘dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede’.
Nella pagina degli Atti degli apostoli l’evento della risurrezione è letto come spartiacque del tempo. Luca nel vangelo aveva narrato il cammino di Gesù fino a Gerusalemme. Ora la bella notizia della risurrezione è annunciata sino agli estremi confini della terra. In brevi sommari sono delineati tratti essenziali della testimonianza delle prime comunità: sono memoria ma anche richiamo ad un ideale da coltivare sempre.
Il primo tratto è la fedeltà all’insegnamento degli apostoli: al centro sta la memoria della vita di Gesù consegnata agli apostoli, il ricordo delle sue parole e gesti. E’ memoria che suscita scelte e impegno nuovi.
Il secondo tratto è la frazione del pane: la vita della comunità trae forza dal ripetere il gesto di Gesù nella cena e attuarlo nella vita. Spezzare il pane è riandare alla sua vita come dono per tutti per vivere scelte di condivisione e accoglienza.
Il terzo tratto è la preghiera: i discepoli di Gesù continuano a vivere la preghiera di Israele. Salgono al tempio, continuano l’invocazione dei salmi e la memoria dell’alleanza di Dio.
Il quarto tratto è la comunione: è innanzitutto dono che sgorga dalla vita di Dio. E’ poi chiamata a condividere i beni, a distribuire a ciascuno secondo il bisogno. Seguire Gesù è movimento che conduce a spostare la domanda: non ‘chi sono io?’ ma ‘per chi sono io?’. Rende responsabili degli altri e chiede scelte concrete.
Alessandro Cortesi op
Spezzare il pane
Sono quasi 9000 i migranti salvati nei giorni della Pasqua di quest’anno. Nel Mediterraneo hanno collaborato la Guardia costiera con dieci unità navali, altrettante quelle delle ONG , due di Frontex, una dell’operazione Sofia. E non sono state sufficienti: vi è stata la richiesta dell’aiuto di più di dieci navi mercantili presenti nelle aree dei salvataggi.
Carlotta Sami, portavoce dell’l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) di fronte a questa situazione ripete: “È essenziale che l’Europa si attivi per aprire corridoi umanitari, rafforzando il dialogo tra le nazioni per avviare una concreta strategia dell’inclusione, o quest’estate i problemi saranno moltiplicati’’ (Giuseppe Lo Bianco, Italia-Libia, così non va. Non è illegale cercare asilo. Intervista a Carlotta Sami, “il Fatto Quotidiano” 19 aprile 2017). La portavoce UNHCR ricorda le statistiche che indicano come vi sia un aumento di arrivi di eritrei, sudanesi, maliani. Sono provenienze da Paesi dilaniati da guerre, o pesantemente segnati dalle carestie, come la Somalia e il Sud Sudan. Carlotta Sami ricorda inoltre che Paesi tra i più poveri del mondo accolgono al loro interno milioni di rifugiati, molti più di quanti siano accolti in Europa: tra di essi l’Etiopia, il Sudan, il Niger. In Libia è in atto una crisi umanitaria devastante. Vi sono centri di detenzione di massa che trattengono centinaia di migliaia di persone. Violenze, torture, abusi sono pratiche ordinarie e non contrastate. La maggior parte delle donne subisce violenze e stupri ripetuti.
In tale quadro il recente accordo Italia-Libia dimostra la sua inadeguatezza e la presenza di elementi inquietanti che contrastano con l’attenzione ai diritti fondamentali. Giancarlo Perego, della Fondazione Migrantes della Caritas – da pochi giorni nominato vescovo di Ferrara – ha posto in luce come tale accordo indebolisca la tutela del diritto d’asilo: «Si è siglato un accordo con un Paese, la Libia, che è al di fuori del contesto europeo come in qualche modo poteva essere la Turchia; che non dà garanzie; che potrebbe semplicemente spostare gli sbarchi da Tripoli a Bengasi, territorio che non è sotto il controllo di Al Sarraj … indebolisce la tutela del diritto d’asilo e scarica ancora una volta la responsabilità nei confronti di persone che sono in fuga da guerre, violenze, fame, povertà e terrorismo» (Daniela Fassini, Caritas: non accettiamo questa politica dello scaricabarile, “Avvenire” 4 febbraio 2017)
Il giornalista e regista Gabriele Del Grande – che sta vivendo momenti drammatici nei giorni scorsi arrestato senza alcuna ragione al confine della Turchia e lì trattenuto – con la consapevolezza di chi da anni ha seguito le vicende dei viaggi dei migranti nel Mediterraneo contando i morti su queste rotte ha postato agli inizi di febbraio una lettera aperta al presidente del consiglio chiedendo per una volta ascolto di voci diverse da quelle della paura o dei sondaggi: “mi permetto di darle un consiglio non richiesto. La rotta va chiusa, concordo. Basta morti, basta miliardi alle mafie libiche e basta miliardi all’assistenzialismo. Tuttavia state andando nella direzione sbagliata…. Riscrivete le regole dei visti Schengen. Allentate le maglie. Fatelo gradualmente. Partite con un pacchetto di cinquanta-centomila visti UE all’anno per l’Africa. (…) Chi oggi investe tre-quattromila euro per il viaggio Lagos-Tripoli-Lampedusa, investirebbe gli stessi soldi per comprare un biglietto aereo, affittarsi una camera e cercare un lavoro. E se non lo trovasse, tornerebbe in patria sapendo che potrebbe ritentare l’anno successivo. (…) Tra la repressione in frontiera e l’assistenzialismo in casa, c’è un terzo modello. È il modello della cittadinanza globale. L’idea che modernità è anche poter scegliere dove inseguire la propria felicità. Ovunque essa sia. Fosse anche una chimera. Sapendo che potrai sempre tornare a casa. Perché c’è una porta girevole. (…) Il flusso non si può fermare. Si può soltanto governare, dirigendolo verso gli uffici consolari e da lì verso gli aeroporti internazionali”.
Tra le voci che ricordano le contraddizioni di scelte politiche che generano illegalità vi è quella di Camillo Ripamonti, , presidente del Centro Astalli di Roma (“l’Huffington Post” 5 gennaio 2017 ) “A oggi l’unico modo per giungere nel nostro Paese è farlo senza documenti, senza permesso. A rendere illegali i migranti siamo noi e le leggi sull’immigrazione in vigore: vecchie e non più in grado di regolamentare un fenomeno profondamente diverso dai tempi della Legge Turco-Napolitano e dalla legge Bossi-Fini che da 20 anni sono le uniche norme in vigore”.
Accanto a queste voci le buone pratiche diffuse e non considerate. Una ringhiera con i colori di tante bandiere è il benvenuto con cui si presenta Sant’Alessio d’Aspromonte, comune che conta circa 400 abitanti nella vallata del Gallico (Marzio Cencioni, Sant’Alessio, il paese che rinasce grazie ai migranti, “L’Unità” 19 aprile 2017).
Il giovane sindaco Stefano Ioli Calabrò è animatore di un progetto insieme a Luigi De Filippis, un medico che si è dedicato all’attenzione ai migranti con attenzione precipua ai più vulnerabili. Quest’ultimo presenta le linee di un progetto che potrebbe costituire un orizzonte di impegno a più ampio raggio nelle politiche dell’immigrazione: “Parliamo di soggetti che vivono, nel dramma del loro viaggio verso una vita migliore, particolari condizioni personali, donne, soprattutto singole, in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori, persone sottoposte a torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale. Ma anche soggetti che necessitano di assistenza sanitaria e domiciliare specialistica più o meno prolungata e coloro che presentano una disabilità anche temporanea, e, infine, le famiglie con minori. Il nostro è un progetto che prevede un processo programmato di inserimento nel tessuto sociale. Punto centrale di questa integrazione, che avviene per gradi, non invasiva per la comunità locale, è la reciproca convenienza e sulle opportunità economiche che questa presenza offre al Paese. Obiettivo è riportare queste persone all’autonomia, fornendo loro strumenti e competenze per farle diventare parte attiva della società italiana”.
Il sindaco osserva che “alcuni migranti sono stati inseriti in servizi di pulizia delle aiuole, recupero floreale, ed altri, impegnati nei laboratori di falegnameria, stanno recuperando le panchine in legno degli spazi pubblici». Il Progetto ha portato nuova vita ad un paese che viveva il processo di spopolamento e di mancanza di lavoro per i giovani. Ha portato anche occasioni nuove per i giovani per mettere a frutto le loro competenze professionali.
Spezzare il pane oggi si concretizza in scelte di giustizia e di ospitalità che aprono a scorgere nuovi orizzonti di senso anche per la vita di paesi, città. Per una convivenza giusta e umana.
Alessandro Cortesi op
III domenica di Pasqua – anno A – 2017
(He Qi – Emmaus)
At 2,14.22-33; 1Pt 1,17-21; Lc 24,13-35
“Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo lo ha effuso come voi stessi potete vedere e udire”
Nel discorso di Pietro a pentecoste, si specchiano alcuni tratti della prima predicazione cristiana. Pietro parla di Gesù come uomo che nel suo agire diceva la presenza di Dio. I suoi segni sono indicazione e traccia.
E poi parla della sua risurrezione come evento che compie un grande disegno di salvezza. I salmi ne avevano parlato, e ricorda le parole di fede del salmo 16. Davide – dice Pietro – morì e fu sepolto e la sua tomba è ancora oggi tra noi’. Dio, il Padre, invece ha costituito Signore Cristo il Gesù crocifisso. Pietro legge così l’annuncio della risurrezione di Gesù nei salmi di Davide dove si legge: ‘questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide corruzione’ (cfr. Sal 16,10).
La vita di Gesù è così presentata innalzamento. Dio Padre che ha costituito Gesù ‘signore’ dando a lui le prerogative della vita divina. Come il re quando veniva accolto sul trono: ‘Disse il Signore al mio Signore, siedi alla mia destra, finché io ponga i miei nemici come sgabello ai tuoi piedi’. E’ quindi Gesù il ‘signore’ di cui parla il salmo 110 e il ‘messia’ che parla nel salmo 16.
Le parole finali del salmo sono così riferite a Gesù: ‘tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi né permetterai che il tuo santo veda la corruzione. Mi hai fatto conoscere le vie della vita mi colmerai di gioia con la tua presenza’. Gesù è stato innalzato in questi ultimi tempi (con riferimento a Gioele 3,1-5) e ha avuto un nome che è il nome stesso di Dio: ‘Signore’. Chiunque invocherà quel ‘nome’ sarà salvato.
Il racconto dell’incontro di Emmaus è una bellissima pagina di Luca, una catechesi che risponde alla domanda: come incontrare Gesù risorto? La strada da Gerusalemme a Emmaus è simbolo del cammino dei discepoli e della comunità in cui l’incontro con Cristo si rinnova. Luca indica così ‘luoghi’ in cui egli si fa vicino a noi.
I due di Emmaus sono fissati mentre si stanno allontanando da Gerusalemme. I loro sentimenti sono di desolazione e delusione. Nel cuore hanno solo fallimento e desiderio di prendere le distanze. Ma nel parlare e discorrere tra loro uno sconosciuto si affianca. Luca suggerisce che uno dei primi luoghi d’incontro col Risorto è proprio il dialogo, anche quello fatto di domande e di sconforto, e l’incontro con lo straniero, l’altro.
I due discepoli sono provocati dagli interrogativi dello straniero e ritornano ai giorni di Gerusalemme. Sono accompagnati a ricomporre passo dopo passo tutti i tasselli di un mosaico di eventi di cui sono stati protagonisti.
Luca descrive con parole lievi lo stile del farsi accanto di Gesù, la sua pazienza nel domandare, la sua cura nel suscitare un percorso personale e condiviso. I due erano tristi, ma colloquiavano e si confrontavano insieme sui fatti accaduti: Gesù pone domande, accompagna ad andare al fondo del loro dolore, non offre risposte facili. Non li rimprovera.
Come pellegrino che cammina insieme, si fa aiuto, dal basso, nella condivisione, per ricomporre il quadro della loro esperienza. I due hanno tutti gli elementi, ma non sono in grado di leggere i segni. I loro occhi erano incapaci di riconoscere Gesù che camminava con loro, così il loro sguardo era incapace di leggere dentro agli eventi vissuti. ‘tu solo dei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?’
Lo sconosciuto porta i due a scoprirsi essi stessi forestieri e li conduce anche ad una ricerca più profonda. Al centro della narrazione sta la testimonianza delle donne: ‘ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di avere avuto una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo’. I due si rendono così testimoni della risurrezione. egli è il vivente e ha vinto la morte. Ma è un riferire freddo senza partecipazione del cuore e della vita.
Gesù li accompagna allora a rileggere le Scritture. Indica un luogo d’incontro con la sua presenza come vivente. Poi cede al loro invito mentre si fa buio: ‘resta con noi perché si fa sera’. Si ferma e nella locanda, a tavola, spezza il pane per mangiare con loro. Allora ai due si aprono gli occhi: quel gesto, un gesto di tutti i giorni, vissuto insieme rinvia al gesto dell’ultima sera con Gesù. E’ il gesto simbolo della sua vita. I due di Emmaus si aprono ad un vedere nuovo, il vedere della fede.
Non vi sono stati miracoli: hanno appreso scorgere i segni. In quel gesto c’è anche il riferimento alla possibilità di incontrare il risorto in ogni gesto dello spezzare il ‘pane della propria esistenza’. Lì si rende presente e si fa ‘vedere’ Gesù risorto. I due poi si recano dagli altri e lì scoprono che Gesù è possibile incontrarlo proprio lì, da dove si erano allontanati delusi. ‘davvero il Signore è risorto e si è fatto vedere’ non è più parola vuota ma esperienza possibile.
Alessandro Cortesi op
La profezia di un maestro
Ci sono maestri che sono tali non per l’accumulo di titoli o di riconoscimenti, e nemmeno perché hanno occupato posti di ruolo, ma perché le loro parole seminate sono state accompagnamento di esistenza, i loro gesti recano lo spessore delle scelte faticose e maturate. E la loro vita è eredità che si consegna accendendo fuochi e aprendo strade nei cuori di chi li ha incontrati.
In questi giorni il coro de I crodaioli di Bepi De Marzi insieme al coro Monte Pizzo a Lizzano Belvedere nella manifestazione Lizzano è In…Canto (22 aprile 2017) hanno ricordato la figura di un maestro, il ‘capitano con gli occhi da bambino’, il capitano Toni, Antonio Giuriolo.
Originario della provincia di Vicenza, nato ad Arzignano nel 1912, il capitano Toni è stato ucciso in un scontro tra le truppe tedesche e la sua formazione partigiana il 12 dicembre 1944 sulle pendici dell’Appennino emiliano nel versante bolognese del Corno alle Scale, dopo che nei mesi del 1944 aveva contribuito alla liberazione di vari paesi della montagna.
Nato ad Arzignano aveva condotto i suoi studi a Vicenza al liceo Pigafetta e si era poi laureato in lettere a Padova nel 1935, in anni in cui il peso della propaganda fascista e la violenza del regime si faceva pesantemente sentire anche nella sua famiglia. Rifiutò la tessera del regime fascista e condusse attività di insegnante in modo precario. Fu a contatto con Norberto Bobbio, poi con Aldo Capitini leggendo i suoi testi e condividendo gli orientamenti di nonviolenza e pace.
Maturò la scelta di salire in montagna dopo l’8 settembre 1943, quando si pose la necessità di una scelta tra l’indifferenza, il silenzio di adesione al fascismo e l’accettazione di essere arruolati nella Repubblica di Salò, e la scelta alternativa di battersi per porre fine al fascismo, condividendo la lotta partigiana. Morì sull’Appennino, mentre guidava operazioni di resistenza contro l’esercito tedesco, colpito sul Belvedere sotto il Corno alle Scale. Il suo ricordo unisce la pianura veneta e le valli dell’Appennino e il suo nome rimane inciso nel cippo al Belvedere, nelle scuole a lui intitolate ad Arzignano, Vicenza e a Porretta, così come nel rifugio nelle Piccole Dolomiti a Campogrosso.
Norberto Bobbio lo ricordò a Vicenza alla Biblioteca Bertoliana, luogo dei suoi studi, il 26 settembre 1948: “Toni Giuriolo fu un nobilissimo esempio di educatore senza cattedra; e siete voi stessi, giovani amici di lui, che lo avete così definito e consegnato alla storia della vostra vita spirituale come il maestro che vi ha educati non nell’aula, ma per le strade della vostra Vicenza, per i sentieri delle vostre campagne, camminando, discorrendo, discutendo, e vi ha insegnato più di tutti i maestri della scuola, anche di quella universitaria (…)
E così continuava: “Se ora dovessi racchiudere in una formula il significato della sua vita, direi che egli rappresentò l’incarnazione più perfetta che mai io abbia vista realizzata in un giovane della nostra generazione dell’unione di cultura e di vita morale” (N. Bobbio, L’uomo e il partigiano, in Per Antonio Giuriolo. Scritti di Antonio Barolini, Norberto Bobbio, Enzo Enriques Agnoletti, Luigi Meneghello, Vicenza 1966).
Un ritratto della sua vita con la profondità della memoria sofferta e personale è quello uscito dalla penna di Luigi Meneghello, nel racconto dell’esperienza del gruppo dei giovani che prima negli anni universitari e poi al tempo della guerra si unì a lui salendo sulle montagne per vivere in quella scelta il rifiuto della dittatura fascista e per aprire strade nuove di libertà. Il libro che è puntuale ricostruzione storica, scritto e riscritto, e sofferta testimonianza s’intitola I piccoli maestri (1 edizione 1964). Un libro che cerca di “esprimere un modo di vedere la Resistenza che differisce radicalmente da quello divulgato (e non penso solo ai discorsi e alle celebrazioni) – e cioè in chiave anti-eroica” (L.Meneghello, I piccoli maestri, nota alla II^ edizione, 1976).
Meneghello ne suggerisce la forza interiore che si comunicava nell’incontro: “non era solo un uomo più autorevole, dieci anni più vecchio di noi; era un anello della catena apostolica, quasi un uomo santo” (da I piccoli maestri). Un ‘eroe senza gesti’ – come lo definì Bobbio – un ‘uomo santo’, anche un ‘oppositore totale’ capace di andare contro la corrente nell’atmosfera di un orientamento comune e pervasivo nella società vicentina del tempo del ventennio fascista da cui era difficile staccarsi, capace di autonomia di riflessione e di coerenza nelle scelte di vita. (Cfr. E.Pellegrini, Un oppositore totale. Immagini di Antonio Giuriolo nell’opera di Luigi Meneghello)
“’L’Italia vera, dicevo a Lelio nelle secche del nostro esilio militare è rinchiusa nell’animo degli oppositori totali, come Giuriolo. E’ uno di Vicenza, avrà trent’anni; è un professore, ma non fa scuola perché non ha voluto prendere la tessera’. ‘Credevo che non ce ne fossero più’, diceva Lelio. ‘C’è lui’, dicevo io. ‘E si può dire che noi siamo suoi discepoli’. ‘Cosa vuoi discepolare?’, diceva Lelio; ma io gli spiegavo che chi frequentava Toni Giuriolo diventava fatalmente suo discepolo, e in fondo anche chi frequentava i suoi discepoli. ‘Ormai sei un discepolo anche tu’, gli dicevo. ‘Quanti ce n’è di questi discepoli?’. ‘Saremo una dozzina’. ‘Come quelli di Cristo’. ‘Quelli erano gli apostoli’” (da I piccoli maestri).
In Fiori italiani, libro che racconta il tipo di educazione impartita al tempo del fascismo, Luigi Meneghello ricorda il momento della nascita di quel libro: “Ho pensato per la prima volta in confuso a questo libro nell’estate del 1944 sdraiato per terra all’imboccatura di una grotta in Valsugana, guardando le coste del Grappa lì di fronte. (…) Che cos’è un’educazione? Avevo il senso di sapere soltanto il negativo della risposta, che cos’è una diseducazione”. Ricorda l’impatto decisivo con Antonio Giuriolo come presenza che invitava a pensare :“Per la prima volta gli pareva di pensare, e si sentiva pensare. Se in principio gli avrebbe fatto spavento e ribrezzo l’idea di poter diventare “antifascista”, ora quel sentimento s’invertiva, e alla fine sarebbe inorridito di essere ancora fascista. Fu un processo esaltante e lacerante insieme: un po’ come venire in vita, e nello stesso tempo morire”.
Il capitano Toni aveva la statura propria del maestro: “l’influenza di Antonio, pur avendo per oggetto la mente dei suoi discepoli, investiva tutta la loro personalità e la cambiava…” (da Fiori italiani).
E suggerisce la concretezza quale caratteristica dell’ insegnamento del maestro antifascista, che gli aveva aperto mente e cuore e che si potrebbe anche indicare come capacità di unire finezza intellettuale con attenzione ad un impegno di responsabilità etica: “Spiccavano certi tratti di metodo. Anzitutto la concretezza. Antonio si rivolgeva sempre a una persona precisa: questo libro, questo passo, questo concetto. Additava, citava (non a memoria come un retore, ma aprendo e cercando); brani segnati a matita, sottolineati. (…) Antonio non pareva certo un raffinato del gusto, pure nelle sue interpretazioni c’era una sorprendente finezza, che armonizzava col suo modo di sentire energico e virile. Il punto d’arrivo non era estetico, ma morale”.
Il suo essere maestro non nella scuola ma sulla strada, nella quotidianità, suscitava in chi gli stava accanto la percezione di qualcosa di profondo e inedito che accadeva nell’incontro. Ancora Luigi Meneghello dà voce ai sentimenti dei giovani che furono a contatto con il capitano Toni: “L’incontro con lui ci è sempre parso la cosa più importante che ci sia capitata nella vita: fu la svolta decisiva della nostra storia personale, e inoltre (con un drammatico effetto di rovesciamento) la conclusione della nostra educazione… L’impronta che ha lasciato in noi è dello stesso stampo di quella che lasciano le esperienze che condizionano per sempre il nostro modo di pensare, di vivere e, se scriviamo, di scrivere” (da Fiori italiani).
Da dove proveniva questa forza? Bobbio nella commemorazione del 1948 riporta un brano da una sua lettera: “Non basta occuparsi del proprio perfezionamento individuale; bisogna dare anche il proprio contributo, per quanto modesto esso sia, all’umanità…: l’uomo di cultura non può starsene appartato, deve assumersi degli impegni nella società degli uomini, deve sentire la grande responsabilità che grava sulle sue spalle: difendere e custodire quello senza cui né cultura né moralità possono vivere: la libertà” (N. Bobbio, L’uomo e il partigiano, 24).
Il capitano Toni è stato maestro, capace di passare una corrente di vita, di testimonianza ad altri piccoli maestri.
Il canto dei cori alpini nella valle di Lizzano in questi giorni che ricordano la liberazione è soffio che ci riporta questa eredità di piccoli grandi maestri, e ci chiede di farla nostra. Anche oggi nella responsabilità e nel coinvolgimento del cammino è possibile aprire nuovi percorsi di libertà.
Alessandro Cortesi op
Per approfondire:
Antonio Trentin, Toni Giuriolo. Un maestro di libertà, Sommacampagna, Cierre-Istrevi, 2012.
Antonio Giuriolo, Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo, a cura di Renato Camurri, Venezia, Marsilio 2016.
Piero Casentini «Il maestro di S., mio, e dei nostri compagni». Note da un taccuino di Antonio Giuriolo, in http://storiamestre.it/2016/11/il-maestro-di-s/