Lettere… e musica di pace nell’incendio della violenza
Trovo questa notizia nel sito http://frontierenews.it/2012/10/non-lascero-la-musica-per-imbracciare-il-fucile-contro-i-miei-fratelli-arabi/
E’ una lettera di un giovane musicista druso di un villaggio della Galilea che scrive al ministro della Difesa di Israele rifiutandosi di ripsondere alla chimata all’arruolamento.Tracce di pace che attraversa le parole e la musica di questo ragazzo mentre attorno imperversa la guerra. Parole ragionevoli e che parlano della realtà di sofferenza. (a.c.)
“Non lascerò la musica per combattere i miei fratelli arabi” 28 ottobre 2012 di Omar Zahr Al-deen Mohammad Saad
Omar Saad, un giovane musicista di al-Mughar – un villaggio in Galilea – ha ricevuto una lettera di arruolamento nell’esercito israeliano. Sì, perché a differenza degli altri palestinesi, i drusi hanno l’obbligo – pena il carcere – di prestare il servizio militare (dopo che, nel 1956, la legge sulla coscrizione obbligatoria è stata resa applicabile anche a questa categoria di persone). Recenti ricerche hanno dimostrato che circa i due terzi della popolazione drusa in Israele preferirebbe non prendere le armi, se ne avesse la possibilità. Omar è uno di loro; nella lettera seguente, inviata al ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, spiega le proprie motivazioni (qui il sito di supporto a Omar). Traduzione di Valerio Evangelista
“Gentile Ministro della Difesa di Israele,
Io sono Omar Zahr Al-deen Saad, dal villaggio di al-Maghar, Galilea.
Ho ricevuto l’ordine di presentarmi il prossimo 31 ottobre all’ufficio arruolamento dell’esercito, a norma dell’obbligo di coscrizione per la comunità drusa; a proposito di ciò vorrei chiarire alcune cose:
Rifiuto di presentarmi all’ufficio arruolamento perché non accetto la legge che prevede l’arruolamento obbligatorio per la comunità drusa. Lo rifiuto perché sono un pacifista e odio ogni tipo di violenza e perché credo che questo esercito sia basato sulla violenza fisica e psicologica. Da quando ho ricevuto l’ordine di iniziare le procedure per l’arruolamento la mia vita è cambiata completamente. Sono diventato molto nervoso e con una grande confusione in testa. Mi sono figurato in mente molte situazioni dure e non riesco a immaginarmi con l’uniforme addosso che contribuisco alla repressione che Israele compie verso il popolo palestinese e non combatterò i miei fratelli arabi e le mie sorelle arabe;
Rifiuto di diventare un soldato israeliano o di andarmi ad arruolare, anche in qualsiasi altro esercito, per ragioni morali e nazionaliste;
Odio l’ingiustizia, la disuguaglianza, l’occupazione e odio il razzismo e le restrizioni sulla libertà;
Odio chi arresta bambini, uomini e donne.
Sono un suonatore di viola, ho suonato in molti posti e ho amici musicisti da Ramallah, Gerico, Gerusalemme, Hebron, Nablus, Jenin, Shafa’amr, Elaboun, Roma, Atene, Amman, Beirut, Damasco, Oslo ed tutti noi suoniamo i nostri strumenti per la libertà, umanità e pace. La nostra arma è la musica.
Faccio parte di un gruppo religioso che è stato, e continua a esserlo tutt’ora, oppresso. Quindi… come posso combattere contro la mia famiglia, i miei fratelli e le mie sorelle in Palestina, Siria, Giordania e Libano? Come posso imbracciare un’arma contro i miei fratelli e le mie sorelle in Palestina? Come posso lavorare come soldato al check-point di Qalandiya o in qualsiasi altro posto di blocco? Io sono una di quelle persone che ha subito l’ingiustizia nei check-point e nei posti di blocco. Come posso impedire a un mio fratello di Ramallah di visitare la sua casa a Gerusalemme? Come posso fare la guardia al muro dell’apartheid? Come posso fare da carceriere contro il mio popolo? E so che i detenuti (palestinesi, ndt) nelle carceri israeliane sono combattenti della libertà.
Suono per divertimento, per la libertà e per quella pace giusta che si basa sul fermare gli insediamenti e l’occupazione israeliana della Palestina. Quella pace giusta che si basa sull’istituzione di uno stato palestinese indipendente che abbia Gerusalemme come capitale, sulla scarcerazione dei detenuti e sul il ritorno in patria di tutti i rifugiati.
Molti dei nostri giovani hanno prestato servizio nell’esercito israeliano, ma cosa hanno ottenuto? Sono forse speciali? I nostri villaggi sono quelli più poveri, le nostre terre sono state espropriate e lo sono rimaste tutt’ora; non ci sono mappe strutturate né aree industriali. Il numero di laureati nei nostri villaggi è il più basso della regione e il tasso di disoccupazione tra i più alti.
Per quest’anno ho intenzione di continuare il liceo con la prospettiva di poter andare all’università. Sono certo che lei farà di tutto per fermare la mia umana ambizione, ma l’ho dichiarato a voce alta: “Sono Omar Zahr Al-deen Mohammad Saad, non sarò la benzina che incendierà la sua guerra e non sarò un soldato del vostro esercito”.
Firmato: Omar Saad
XXXIV domenica del tempo ordinario – anno B – 2012
Dan 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Gv 18,33-37
La pagina del vangelo presenta il confronto tra Gesù e Pilato. Gesù è stato consegnato dai sommi sacerdoti, dal potere religioso e ora si trova davanti al rappresentante dell’imperatore di Roma. La questione è sul regno di cui Gesù è riconosciuto come re. Egli stesso aveva compiuto gesti che evocavano un significato regale e rispondevano ad attese di un re giusto: si era presentato come re, nel suo entrare a Gerusalemme cavalcando un asino, ed era stato acclamato da folle che avevano steso i mantelli al suo passare. Riponevano in lui la speranza che proveniva dalla promessa di Davide. Eppure Gesù davanti a Pilato dice: “il mio regno non è – letteralmente – da questo luogo”, cioè non è di qui. C’è una differenza ed una distanza incolmabile. E’ re ma in un modo che mette in crisi ogni attesa radicata in un modo di concepire l’essere re come esercizio del potere e della supremazia sugli altri. Chi è re esercita un dominio, ha un esercito, impone la sua forza, e per questo il potere politico, rappresentato da Pilato, lo guarda con sospetto ed è preso da timore. Ed è anche per questo che il potere religioso, il sinedrio, teme che le proprie prerogative siano minacciate di fronte alla parola e ai gesti del profeta di Nazareth.
Gesù davanti a Pilato parla sì di un regno, ma di un regno che ‘non è di questo luogo’. Si tratta forse di un regno che non è della terra ma si colloca in un’altra dimensione, quella dei cieli e nulla ha che fare con la terra? Questa linea di interpretazione apre le porte a tutte le letture spiritualizzanti che relegano il regno di Gesù in un ‘altrove’ che nulla ha che fare con la terra, per cui non è importante la dimensione del quaggiù, di questo luogo dove viviamo. E quindi la testimonianza di Gesù non avrebbe alcun impatto concreto nel modo di vivere la responsabilità politica e sociale ma sarebbe unicamente un messaggio intimistico e di deresponsabilizzazione nei confronti della storia.
Eppure quell’espressione ‘il mio regno non è di questo luogo’ trova luce in un passo vicino del IV vangelo: quando Gesù fu crocifisso due malfattori furono crocifissi accanto a lui ‘uno su un lato’ e ‘l’altro sull’altro lato’. Su un lato e sull’altro, su ambedue i lati, è l’indicazione racchiusa in quell’avverbio utilizzato per affermare che il suo regno non è ‘di qui’. Una allusione precisa e radicale al fatto che il regno di Gesù non è ‘da questo mondo’: non si colloca laddove si tratta di pensarlo secondo le logiche del dominio e della forza che s’impone e dispone delle persone. Tuttavia è proprio in questo mondo, si fa carne in questa terra, ha modi concreti di compiersi e di trasformare questa terra laddove la vita concepita come Gesù l’ha vissuta; ed il luogo in cui si manifesta il regno, il suo luogo, è sulla croce, lì in mezzo ai due malfattori, nel dono e nella consegna di sé all’altro, nella nonviolenza attiva che pone in primo piano la libertà della coscienza e non si lascia imprigionare nelle logiche del dominio e dello sfruttamento degli altri.
Nella consegna di tutta la vita a Dio e agli altri, Gesù manifesta il senso profondo di un regno che non segue le logiche della sopraffazione, ma il suo regno si compie ed il suo luogo si manifesta quando muore crocifisso tra i due malfattori. Un regno quindi che ha modo di cambiare le modalità dei rapporti e ha attuazione quaggiù, non un regno celeste che porterebbe ad una fuga dal mondo. Nell’immagine del ‘re’ sta il profilo di colui che dice il senso profondo della storia. Gesù è re non perché dominatore ma in quanto ricapitola la storia. La sua vita vissuta nel segno della consegna e del dono indica e compie il senso profondo della storia. Un regno diverso, che ha a che fare con questa terra e che ha il suo luogo laddove il dominio è capovolto in servizio e dove la vita è data per…: il senso stesso della storia sta nell’orizzonte del dono.
Alessandro Cortesi op