Es 16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35
“Mosè disse loro ‘E’ il pane che il Signore vi ha dato in cibo’”. Mosè riconosce nel segno della manna, cibo inatteso nel deserto, un intervento del Signore e ne interprete il significato: è pane donato. Il popolo era stanco, logorato dal cammino nel deserto e si era ribellato. La sicurezza di un piatto assicurato era meglio della fatica nel percorso di uscita dall’Egitto. Il bisogno di cibo fa rimpiangere addirittura la situazione della schiavitù. Così il popolo ‘mormorava’: è verbo che dice ribellione e sospetto. E’ rinuncia alle attese più profonde di libertà e ripiegamento nella ricerca di assecondare i bisogni immediati.
Manna e quaglie, cibo che scende dal cielo sono segno di Dio, per mettere alla prova Israele : “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi; il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina secondo la mia legge o no.” (Es 16,4)
La mormorazione del popolo è espressione dell’idolatria perché ricerca solo appagamento della propria fame, e dimentica Dio stesso. E’ questo nella Bibbia il grande peccato: affidare la propria vita a qualcosa che non è Dio. Il segno della manna giunge inatteso di fronte alla ribellione ed al sospetto. E’ sfida per aprire i cuori a scorgere che Dio solo è il Signore. Questo cibo per continuare il cammino potrà essere raccolto solamente per la razione di un giorno: la vita di chi cammina nell’alleanza con Lui trova la sua stabilità solo nell’affidamento. La sua presenza è più preziosa di ogni altra sicurezza.
Nel capitolo 6 Giovanni presenta il dialogo di Gesù con la gente che lo seguiva, nella sinagoga di Cafarnao (cfr. Gv 6,59). Dalle sue parole emerge una profonda incomprensione e distanza rispetto alle attese della folla: “voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà” (Gv 6,26-27)
Le attese della folla sono centrate sui propri bisogni, e la ricerca di Gesù mira a soddisfare la fame. Gesù vede in questo la strumentalizzazione della sua persona. Le sue parole vogliono condurre ad un passaggio, dalle attese immediate ad un altro livello. I pani distribuiti sono un segno che richiede un cambiamento: si tratta di aprirsi ad accogliere il pane che Gesù stesso è, la sua stessa vita. Da ricercare innanzitutto e come prima cosa è il dono dell’incontro con lui, della sua amicizia. E’ il passaggio del credere, affidamento in lui, decentramento dell’esistenza. I segni sono inizio di un cammino per lasciarsi cambiare, per entrare in un incontro. La questione fondamentale riguarda il credere: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?’ Gesù rispose: ‘Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato’” (Gv 6,28-29).
Il segno del pane rinvia al dono della manna, cibo nel deserto, e Gesù parla di un nuovo dono di presenza e di vita: “il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (Gv 6,2-33). La sua vita consiste nel ‘dare’ e nel ‘darsi’. Credere significa allora accoglienza colui che Dio ha mandato, riconoscere in Gesù l’inviato del Padre. La manna era stata sostegno per il cammino nel deserto. Gesù presenta se stesso come pane che fa vivere, nutrimento nel camminare ad un incontro di comunione che è l’autentico senso della vita umana.
Alessandro Cortesi op

Cibo che rimane
Paolo Dall’Oglio è stato rapito cinque anni fa, in Siria, proprio in questi giorni, alla fine di un luglio di guerra, violenze e massacri. Accompagnato da alcuni amici sin nelle vicinanze del palazzo del governatorato di Raqqa dove si erano stabilite le forze dell’Isis, da quel momento di lui non si sono avute più notizie. Era tornato in Siria per richiedere la liberazione di amici musulmani e cristiani che erano stati imprigionati nel disordine siriano del 2013.
Da allora sono trascorsi cinque lunghi anni. I suoi familiari, il suo Ordine – la Compagnia di Gesù – i suoi tanti amici, cristiani e musulmani, lo attendono, ricercano sue notizie. Paolo si definiva un credente in Gesù innamorato dell’Islam. Aveva fondato un monastero a Deir Mar Mousa, restaurando un antico luogo di preghiera bizantino, per vivere lì l’esperienza di una vita semplice, di preghiera, digiuni, capace di ospitalità, tra musulmani, cristiani, persone in cammino o senza fede.
La sua chiamata, è lui stesso a dirlo, era nata tra la collera e la luce. La collera per la reazione ad accettare il mondo com’è, con le ingiustizie profonde. Cresciuto in una famiglia di profonda tradizione cattolica e di impegno sociale, Paolo avvertiva l’urgenza di impiegare la sua vita per qualcosa di importante. Aveva vissuto la sua giovinezza a Roma negli anni di piombo, aveva compiuto scelte diverse da amici che allora avevano scelto la strada del terrorismo delle Brigate Rosse, ma partecipava a quel respiro comune di una generazione che aspirava ad un cambiamento del mondo. Era poi entrato nella Compagnia di Gesù, senza perdere l’esigenza di radicalità di sguardo al mondo che il vangelo reca con sé e la spinta di libertà.
E la sua chiamata a vivere il vangelo era mossa dalla percezione di una luce. Così ne parla lui stesso: “L’altra forza è la luce. Oggi forse parlerei di trasparenza. Potrei dire la fede. Temo però che ci si possa fare l’idea che la mia luce consista in un quadro di riferimento religioso prefissato, che racchiuda il mio pensiero e la mia esistenza. Ebbene, si tratta esattamente del contrario. E’ una luce-fede il più lontano possibile dall’immediato, è il sentire più intimo, la possibilità di porre i miei sforzi all’interno di una prospettiva, di un progetto in cui credo, che sento, decido essere tutt’un col progetto finale del mondo, il desiderio profondo di ogni cosa, l’auspicio, il disegno dell’Autore della vita, Allah, Dio. (…) Scrivo queste righe nel giorno dell’anniversario della nascita del Profeta in una città curda del nord dell’Iraq, che amo perché ha voglia di vivere e non lo nasconde. Ieri era l’ultimo giorno di una festività dei caldei, figli della Mesopotamia. Confesso che queste due feste mi hanno dato gioia. Per me, non è artificioso dire ‘mi sento musulmano’. In effetti ho sempre creduto in Gesù all’interno di quella chiesa che mi ha portato al largo, lontano; perciò l’islam sta nel mio spazio spirituale e culturale. Questo non è in contraddizione con il mio battesimo, anzi lo esprime. Detto più semplicemente, se credi d poter essere esclusivamente cristiano, allora, in qualche modo, sei un cattivo cristiano” (P.Dall’Oglio, Collera e luce. Un prete nella rivoluzione siriana, Emi 2013, 18).
Nel 1976 aveva percepito la chiamata a servire l’incontro islamo-cristiano. Studiò l’arabo, l’ebraico, il siriaco. E aveva scorto nella Siria con sguardo di mistico, il luogo in cui quest’incontro faceva parte della vita, della storia di quel territorio, promessa e sofferenza. La Siria dominata dalla dittatura degli Assad.
Nel 2011, dopo vent’anni di presenza operosa e di fede, Paolo è testimone dei sommovimenti delle rivoluzioni arabe, delle manifestazioni che vedono anche in Siria l’opposizione al regime e la richiesta di libertà. E’ testimone anche della feroce repressione di quei giorni. Del regime di Bashar Assad Paolo fu lucido oppositore, vivendo una profonda lacerazione interiore: “la mia coscienza cristiana è chiaramente lacerata. Da un lato vi è il desiderio radicale di portare fino in fondo la rivoluzione contro questo regime. Dall’altro, poco o tanto questo pare provocherebbe una islamizzazione radicale della Siria e creerebbe le condizioni per una definitiva emarginazione della comunità cristiana. La creazione di uno Stato in cui si giungesse all’incompatibilità culturale, e magari alle persecuzioni dirette di persone, come è avvenuto a Baghdad o a Mossul, farebbe semplicemente scomparire questa chiesa siriana che mi è infinitamente cara. Confesso di provare anche, dentro di me, un desiderio di vendetta contro coloro che ci hanno fatto così tanto male… al momento attuale noi non vogliamo altro che farla finita con il regime, non importa a quale prezzo e non importa con quale silenzio. Secondo ogni evidenza, qualora questo regime potesse riprendere il potere sul paese, la Siria diverrebbe un buco nero” (ibid. 37).
Così scriveva Paolo nel 2013: Sono passati cinque anni e vediamo ora che la Siria è stata ridotta ad un cumulo di macerie, le città distrutte, il regime di Assad sostenuto da Putin e dall’Iran ha fatto il deserto ad Aleppo, a Damasco, nel quartiere della Douma, a Raqqa e l’ha chiamato pace….
Paolo come monaco era affascinato dalla forza silenziosa della nonviolenza, tuttavia la sua immersione nella tragedia siriana, la vicinanza a persone e storie gli offriva tuttavia motivi di contraddizione e crisi: “Nel marzo 2011, agli esordi della rivoluzione siriana che seguiva passo passo le primavere arabe, il desiderio di un cambiamento senza spargimento di sangue era molto chiaro: nelle classi popolari e tra l’élite contavano soltanto la forza delle idee e un’autentica convinzione nonviolenta. All’inizio i rivoluzionari dicevano: ‘Ciò che non si può ottenere con la nonviolenza non vale la pena di ottenerlo’. Un giovane di Duma, Ghiyat Matar, andava ad offrire l’acqua fresca ai soldati e porgeva loro dei fiori. Fu torturato e ucciso. Una giovane donna, Caroline Ayoub, era andata a distribuire uova di Pasqua ai figli dei rifugiati con un versetto del Corano a parole del Vangelo. E’ stata arrestata e torturata. Le persone venivano torturate perché il governo non poteva concepire, né teanto meno, accettare la nonviolenza. Il regime ha percepito subito questo rischio: sarebbe stato distrutto se non avesse represso la nonviolenza; non poteva cedere alla libertà d’espressione, forse rimpiangeva già di aver ceduto fino a quel punto” (ibid. 75).
Paolo ha vissuto con coinvolgimento interiore e spirituale una solidarietà di esistenza e una autentica compassione con il popolo della Siria, con la terra di Siria, scorgendovi lì la sorgente della civiltà mediterranea. “Non ho bisogno di ripetere i motivi che fanno sì che io i sia schierato dal parte della rivoluzione, al punto di giustificare ‘autodifesa armata di quel popolo tradito e abbandonato dall’opinione pubblica mondiale. Al di là di tutti gli sforzi impiegati in vent’anni di dialogo, devo confessare il fallimento completo dei miei tentativi di favorire un passaggio nonviolento a una democrazia matura, per il bene dei nostri figli e la riconciliazione. Eppure voglio entrare in Siria per portare una testimonianza e per gettare un seme” (ibid. 152)
La sua azione lo condusse a pellegrinaggi di preghiera, di visita e di pianto nei luoghi delle stragi, incontrando parenti di scomparsi, cercando fosse comuni per potervi pregare e d’altra parte la sua vita spirituale ferita dal fallimento e dalla collera respirava di un soffio profondo: “Nutro la speranza che i mujahidin, questi combattenti dell’islam venuti in Siria sulla spinta di una motivazione religiosa radicale, perfino esclusiva, scoprano nella Damasco degli amici di Dio, la Sham dei santi musulmani, una profondità, un’autenticità, una bellezza autenticamente musulmane, una grazie divina abbondante. Questa grazia è legata alla composizione originaria della Siria, dove il pluralismo religioso non dipende da una mancanza di serietà, di autenticità e di radicamento, ma da una conoscenza spirituale della benevolenza di Dio, il Misericordioso… E questa terra, nella quale apparirà l’atteso Ben Guidato mohammadico e sulla quale discenderà al suo ritorno Gesù il Messia, il figlio di Maria, è proprio la medesima terra su cui hanno vissuto nella pace e nell’armonia ebrei, cristiani e musulmani, essi stessi appartenenti a diversi gruppi e scuole.” (ibid. 113)
Il ricordo di Paolo è tenuto vivo, nell’attesa, da tanti amici. Tra essi Riccardo Cristiano, giornalista attento alle vicende medio-orientali ha scritto un libro in cui offre indicazioni preziose e dolorose su quanto è accaduto in Siria ancora martoriata da violenza. Nel suo Siria. L’ultimo genocidio, (Castelvecchi 2017) non solo ricorda la testimonianza e la visione di Paolo Dall’Oglio, ma richiama anche alla funzione dei cristiani d’Oriente di esser inseriti pienamente nel cultura araba in attitudine di solidarietà e dialogo e di fare da ponte per costruire un avvenire di ospitalità reciproca nell’ottica di una cittadinanza che vada oltre i nazionalismi, nel rispetto dei diritti umani.
“Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà”.
Alessandro Cortesi op
XVIII domenica tempo ordinario – anno A – 2020
“O voi assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente…
Acqua vino e latte sono insieme simboli di nutrimento, ma anche di gioia e di serenità. La terra a cui Israele ritorna dopo l’esilio offre non solo la possibilità di nutrirsi, segno della provvidenza di Dio, ma anche la libertà che apre ad un nuovo inizio in cui si sperimenta da ora il contenuto della promessa. La speranza d’Israele vede nel segno del banchetto la pienezza di vita che vi sarà alla fine nell’incontro con Dio. “Il Signore… preparerà per tutti i popoli su questo monte un banchetto di grasse vivande” (Is 25,6). Il nutrimento diviene simbolo di accoglienza e di incontro, e racchiude in sé il rinvio alla fine della storia, che sarà un incontro dei popoli, e un condividere l’abbondanza di vita dono di Dio.
Matteo nel suo vangelo narra il gesto di Gesù che ha dato da mangiare alle folle, un gesto ricordato in tutti i vangeli. E’ un gesto che parla di attenzione alle attese concrete e dice la compassione di Gesù. E’ poi un gesto carico di simboli: il pane ricorda il percorso dell’esodo, e rinvia all’esperienza d’Israele quando nel deserto accolse la manna come cibo donato da Dio. La manna non poteva essere accumulata, tutti potevano raccoglierla ed era sufficiente per un giorno. Un segno nel cammino verso la libertà che annuncia il banchetto promesso come segno dei tempi ultimi, dell’incontro con il messia.
In particolare Matteo narra il gesto di Gesù, che offre il pane alla folla che aveva fame, facendo riferimento alle parole e ai gesti dell’ultima cena: ‘dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Tutti mangiarono e furono saziati’.
Alzare gli occhi la cielo, pronunziare la benedizione, spezzare i pani sono i gesti di quella cena in cui Gesù donò il pane ai suoi come segno della sua vita donata e spezzata. Matteo riprende qui il riferimento a quei gesti che la sua comunità ripeteva nella memoria di Gesù ed è attento a sottolineare come il dono di Gesù è comunicato attraverso la comunità: ai discepoli infatti vengono dati i pani ed essi sono coinvolti in un gesti di distribuzione e condivisione: devono loro stessi distribuirli alla folla.
La distribuzione dei pani si connota così come gesto carico di significati. Innanzitutto è un gesto che viene incontro alla fame e ad una situazione di sofferenza. Rivela la cura di un Dio che ascolta il desiderio e la sofferenza dei suoi figli. E’ segno della compassione e del guarire i malati, che sono i tratti dell’agire di Gesù in cui si rispecchia l’agire di Dio stesso.
Il disegno di Dio è un mondo in cui il pane venga condiviso e vi sia attenzione per la vita di chi soffre. La lotta per l’equa distribuzione dei beni della terra è opera eucaristica che dovrebbe impegnare la comunità cristiana proprio a partire dall’ascolto della parola nel presente della nostra storia. La distribuzione dei pani indica anche un volto di Dio che ha cura di tutti i suoi figli e figlie: non c’è distinzione tra coloro che erano accorsi ad ascoltare Gesù. Al centro della preoccupazione di Gesù sta l’attenzione a che abbiano da mangiare tutti. La testimonianza della comunità cristiana a questo dovrebbe mirare, a rendere visibile nei suoi gesti la profezia di un mondo di condivisione. L’impegno a fare partecipare ogni persona e ogni popolo al banchetto della vita è traduzione concreta di questa certezza della fede.
Questo racconto manifesta anche che nella comunità di Matteo si rende chiaro come il ripetere i gesti di Gesù nell’ultima cena, cioè celebrare l’eucaristia non può essere un gesto avulso da un’opera concreta di condivisione e distribuzione del pane. In questo agire trova la sua più piena realizzazione il fare memoria del gesto di Gesù e divenire suoi discepoli. Nel segno del pane Gesù ha indicato il senso della sua vita. Accogliere la chiamata a distribuire e condividere la sua vita significa continuare nella propria vita i gesti di lui, impegnarsi perché il pane sia condiviso tra i popoli della terra.
Alessandro Cortesi op
Fame
A metà luglio la FAO, Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricol-tura ha pubblicato un rapporto sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo (SOFI). Da esso risulta che quasi 690 milioni di persone durante il 2019 sono state colpite dalla mancanza di cibo e le previsioni sono che nel 2020 d circa 80 milioni di persone a più 130 milioni, potrebbero soffrire la fame per le conseguenze della pandemia sulla vita economica. Questi numeri segnalano come l’obiettivo fame zero, stabilito dall’ONU nel 2030, è messo a rischio e si sta allontanando.
Le cifre indicate nel rapporto indicano peraltro che vi è un aumento di persone che soffrono la fame negli ultimi anni. Vi è poi da considerare tutti coloro che non si possono permettere una dieta sana e adeguata a causa della condizione di povertà divenendo così esposti a soffrire malattie, ad avere una qualità di vita assai fragile e una aspettativa di vita molto limitata.
Il più alto numero di persone che soffre la fame è in Asia (circa 381 milioni), poi in Africa (250 milioni) e in America Latina e Caraibi (48 milioni). Dal 2014 anziché esservi una diminuzione della sottonutrizione si registra un aumento costante, che segue parallelamente l’aumento della popolazione mondiale.
La sottoalimentazione e la mancanza di una alimentazione sana sono i due ambiti in cui si renderebbe urgente una serie di scelte politiche ben diverse da quelle in atto. I cam-biamenti richiesti per garantire una alimentazione sufficiente e sana andrebbero a limitare molto le spese sanitarie che attualmente sono dedicate alle conseguenze negative della sottoalimentazione.
Se guardiamo alla situazione italiana un approfondimento del Censis per Confcooperative offre alcuni dati su cui riflettere: a causa della pandemia 3,3 milioni di lavoratori irregolari e 2,9 milioni di working poor sono stati posti sulla soglia della povertà. Oltre a questo altre 2,1 milioni di famiglie che in Italia sono sul baratro della povertà: sono le famiglie in cu si mangia perché qualcuno pratica lavori irregolari. Il periodo della chiusura delle attività ha infatti avuto pesanti conseguenze soprattutto sulle persone che si mantenevano con lavori precari, sfruttati o mal pagati.
Persone che fino a qualche mese fa riuscivano a sostenere le spese indispensabili oggi si vedono costrette a rivolgersi alle mense o alla distribuzione dei pacchi alimentari. Colpisce il titolo di una recente inchiesta di Francesca Mannocchi: ‘Anche nella ricca Milano la gente ha fame’ (L’Espresso, 3 luglio 2020). E’ questo un titolo che fotografa la situazione di un mondo ricco in cui è tuttavia presente, e non senza responsabilità, lo spettro della fame. E la fame è condizione di vulnerabilità che da un lato implora solidarietà, dall’altro apre a tutte le vie per uscire da questo tunnel. “La disperazione della fame può rovesciare le logiche del buon senso e i volontari delle organizzazioni caritatevoli oggi sono chiamati anche a questo: arginare la vulnerabilità prima che diventi devianza” (ibid.).
Questo stato di cose richiederebbe una trasformazione delle scelte politiche globali. I dati rivelano il fallimento di un sistema economico che mantiene i ricchi sempre più ricchi e aumenta le condizioni della povertà globale. Ma questo dovrebbe interpellare profondamente le comunità cristiane. E’ vero che ci sono tante iniziative e tanti gesti di solidarietà ma appare anche una certa assuefazione ad un mondo dominato da una logica di potere che mantiene queste dinamiche di impoverimento, di ingiustizia, di fame. La domanda che emerge infatti è: che cosa i cristiani dovrebbero oggi testimoniare in tale situazione in cui grande parte della popolazione mondiale non ha neppure da mangiare?
Accosterei così alcune osservazioni di José Castillo in questo tempo di pandemia relative alla chiesa. Egli osserva “c’è un fatto indiscutibile: i problemi che ci minacciano e ci opprimono sono in aumento, fino al punto di vedere il futuro dell’umanità, della terra e della vita ogni giorno più incerto e opprimente. Stando così le cose, qual è l’apporto della religione e degli uomini di religione in risposta alle molte domande che le persone sentono nella loro vita ed alle quali non trovano soluzione?” E richiama ad una situazione per cui
“La confusione è consistita nel fatto che ha mescolato e fuso il Vangelo di Gesù con la religione che proveniva dal giudaismo e come si viveva nell’impero. Ebbene, questa fusione di ‘religione’ e di ‘Vangelo’ non è stata ancora risolta. Ecco perché la Chiesa in modo del tutto naturale vive un gran numero di cose che sono fondamentali. E sono cose che contraddicono ciò che Gesù, la Parola di Dio e il Figlio di Dio, ha detto e fatto. Dando loro tanta importanza – a queste cose – da costargli la vita. A cosa sto facendo riferimento? Al “potere” ed alla sua maniera concreta di esercitarlo. Al “denaro” e ai rapporti oscuri che la Chiesa ha con questa questione capitale. E alle “relazioni umane” che la Chiesa consente e mantiene, che non sono proprio relazioni di “uguaglianza” e “bontà” nell’amore reciproco, e che la Chiesa non risolve.
Prima delle decisioni ecclesiastiche c’è il Vangelo, nel quale Dio si è rivelato a noi. Finché la Chiesa non porrà il Vangelo al centro della vita, il cristianesimo non sarà in grado di fornire la soluzione di cui questo mondo e in questo momento ha bisogno” (José María Castillo, Il disinteresse per l’elemento religioso, “Religión Digital (www.religiondigital.com) 25 luglio 2020).
Alessandro Cortesi op