la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “gennaio, 2023”

IV domenica tempo ordinario – anno A – 2023

Sof 2,3;3,12-13; 1Cor 1,26-31; Mt 5,1-12

Matteo presenta Gesù che si presenta in atto di insegnare, seduto, dal monte. Può essere un riferimento al Sinai ed al ‘monte’ della legge, ma Gesù non indica una nuova legge. Si rivolge a tutti coloro che chiama a seguirlo e indica un compimento, una piena fioritura della legge e ne richiama l’importanza. Da un lato dice “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17). D’altra parte presenta l’orizzonte di una ‘giustizia più grande’: “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20).

La modalità retorica dell’inclusione aiuta a scorgere la struttura del brano delle beatitudini. La prima e l’ottava, ultima, sono infatti unite dal riferimento “perché di essi è il regno dei cieli”. Ed è così richiamato il nucleo dell’annuncio di Gesù. Il regno di Dio è vicinanza nuova ai poveri e agli oppressi da parte di Dio stesso.

Beati (makárioi) – ripetuto nove volte fino al v. 11 – significa ‘felici’, ‘fortunati’, ‘beati’. E’ espressione presente nei salmi, nei libri sapienziali e a Qumran: [Beato chi dice la verità] con cuore puro e non calunnia con la propria lingua. Beati quelli che si attaccano ai suoi decreti e non si attaccano a comportamenti peccaminosi. Beati quelli che gioiscono in essa senza spargersi sulle vie della follia…”. (4Q525 2 II, 1-6)

“Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli”. Matteo indica che sin dal momento presente, da ora, i poveri sono beati. ‘Poveri’ rende l’ebraico ‘anawim: indica coloro che sono privati di ogni appoggio materiale, che non hanno ruolo a livello sociale e sono oppressi, tenuti in disparte. Matteo sottolinea la condizione interiore dei ‘poveri in spirito’ mentre Luca dà accento alla condizione materiale. Sono beati perché Dio sin da ora interviene a loro favore e si pone loro accanto.

“Beati gli afflitti”: Il verbo usato al participio rinvia a chi vive situazioni di sofferenza e di pianto. Sono tutti coloro che soffrono perché le vicende non si svolgono secondo la volontà di Dio; è evocazione del dolore di Gesù che piange su Gerusalemme (cf. Lc 19,4). Il verbo al futuro suggerisce che la consolazione è una promessa che verrà.

“Beati i miti”: il termine al plurale indica coloro che attuano la virtù che vince l’ira ed è vicina alla condizione degli anawim, i poveri di YHWH, che si comportano con umiltà e nonviolenza.

La quarta beatitudine è rivolta “agli affamati e assetati di giustizia”. Fame e sete indicano spesso nella Bibbia la tensione ad accogliere il dono di Dio: “Ecco, verranno giorni, dice il Signore Dio – in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore” (Am 8,11-12).

“Beati i misericordiosi”, come le beatitudini seguenti è propria di Matteo e suggerisce una attitudine morale. Il termine utilizzato (diversamente da Luca che usa un lemma indicante la compassione – come Dio è misericordioso (cf. Os 1,7) – reca un significato fattivo. Il profilo dei misericordiosi è di chi si prende concretamente cura e coltiva uno sguardo di indulgenza (come nella preghiera del Padre nostro).

“Beati i puri di cuore”: è l’unica beatitudine oltre alla prima, costruita in modo analogo (puri di cuore). Nel libro dei Proverbi si legge : “Il Signore ama chi è puro di cuore e chi ha la grazia sulle labbra è amico del re” (Prv 22,11). Nella Bibbia ‘cuore’ è luogo delle scelte e degli orientamenti della vita, è nucleo in cui si prende la decisione di servire il Signore (cf. Dt 6,5: “con tutto il cuore”).

Beati i facitori di pace (eirênopoioi). Sono indicati beati coloro che si impegnano operativamente e lavorano per la pace. Si tratta di una attitudine di coinvolgimento che è tutto il contrario di riposare in una condizione di tranquillità: “Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace” (Gc 3,18). Ad essi è promessa una relazione unica, essere figli del Dio della pace: “Saranno chiamati figli di Dio”.

L’ultima beatitudine è rivolta ai perseguitati per la giustizia e si ricollega alla prima nell’indicazione ‘ad essi appartiene il regno dei cieli’: sono perseguitati per la fedeltà al vangelo, nella tensione a compiere la volontà di Dio (la giustizia). Essi sono invitati alla gioia facendo propria la via dei profeti. L’esistenza cristiana, annuncia Gesù, è un’esistenza di persone libere, che hanno fiducia in Dio, essenziali, capaci di condividere perché seguono Gesù stesso sulla sua strada. E’ lui il vero ‘beato’ che si è fatto povero ed ha concepito la sua vita come dono.

Alessandro Cortesi op

Beati gli operatori di pace

“Siamo sempre più coinvolti in una guerra, che finanziamo anche a costo di rendere impossibile la vita dei più poveri, una guerra mai avallata, che procede nostro malgrado e che ormai preferiamo quasi dimenticare. Come se fosse letteralmente uscita dalle nostre menti, prese nel vortice di mille problemi e mille sciagure. Crescono perciò l’ansia, il disorientamento e un malinconico senso di impotenza. Eppure, tra le tante ombre minacciose, si stagliano le nubi di questo terribile conflitto che, dopo quasi un anno, appare irreversibile. Le immagini dei bombardamenti a Dnipro, dei combattimenti a Kherson, passano sui nostri schermi quotidianamente. Sembrano parti dello scenario in cui ci è toccato vivere. Siamo ormai arrivati a questo: la guerra si è normalizzata. Non avremmo mai voluto dirlo, né tantomeno scriverlo” (Donatella Di Cesare, Abbiamo normalizzato pure la guerra e le armi, “Il Fatto Quotidiano” 21 gennaio 2023). Donatella Di Cesare mette in guardia dal fenomeno della normalizzazione della, guerra che si è progressivamente attuato in quasi un anno dal 24 febbraio 2022 data dell’invasione russa in Ucraina. E’ questo un dato sconvolgente su cui riflettere a cui aggiungere altre annotazioni preoccupanti: siamo davanti a un’escalation nell’invio di armamenti all’Ucraina che ha raggiunto limiti da considerare con estrema attenzione. L’ultima decisione di questi giorni di invio di carri armati sofisticati e di nuova generazione da parte di USA e Germania è passaggio che acuisce la tensione sul piano della continuazione senza limiti dello scontro armato e non pone alcun elemento per ricondurre le parti ad un cessate il fuoco immediato. In Russia nel frattempo si sta organizzando una nuova mobilitazione di mezzo milione di uomini in vista di una prevedibile nuova offensiva da scatenare nella primavera con l’obiettivo di conquista del territorio dell’intera Ucraina.

Daniela Belliti osserva che “Fuori dalle assemblee delle Nazioni Unite, e di altre agenzie sovranazionali, gli Stati Uniti stanno lavorando per rafforzare la propria egemonia mondiale oltre la Nato (sul piano militare) ‘strumentalizzando’ a questo scopo l’errore strategico, nonché violazione del diritto internazionale, rappresentato dall’invasione russa in Ucraina. Così come ad aprile 2022, la riunione di Ramstein del 20 gennaio scorso è servita per esercitare pressioni più forti sui paesi che hanno avuto posizioni più articolate sulla guerra, a partire dalla Germania” (D.Belliti, Verso un’escalation della guerra?, “Soloriformisti” Newsletter 24 gennaio 2023 ). E’ così proposto un rinnovato protagonismo dei movimenti per la pace: “i movimenti per la pace devono porsi nuovi obiettivi, agire su fronti diversi, rivendicare un ruolo pubblico a livello nazionale ed europeo. L’ ‘arma’ più forte di cui possono dotarsi è quella della verità e del dialogo, libero e incondizionato da interessi di parte, sugli scenari futuri. Mettere i governanti di fronte alle loro responsabilità. Denunciare il confinamento politico delle diplomazie a favore delle strategie militari e di difesa (con tutto il portato di primato economico-industriale che ne consegue). Ripensare l’Europa, in rapporto con gli altri continenti e alle sfide a partire da quella climatica. Mobilitare le opinioni pubbliche internazionali, come fino a qui non è stato possibile fare. La guerra in Ucraina è uno spartiacque per un “nuovo ordine mondiale” che non si è più ridefinito dalla caduta del Muro. Se un pensiero della pace serve, dovrà contrastare il disegno di un ritorno all’ordine della deterrenza…” (ibid.)

Ricorda Francesco Vignarca (La scelta delle armi a senso unico porta in un vicolo cieco, “Il manifesto” 24 gennaio 2023): “Va ricordato infatti come il terribile conflitto armato in Ucraina è stato fin dal principio sfruttato per giustificare quello che nei fatti potrebbe diventare il più massiccio aumento di spesa militare globale degli ultimi 50 anni. La Germania vuole arrivare a 100 miliardi annui, Macron vuole raddoppiare il budget militare francese dal suo insediamento, il Congresso USA ha appena votato un aumento annuo dell’8% (oltre 50 miliardi di dollari in più di quanto proposto da Biden), la Cina si è da tempo consolidata come secondo investitore armato mondiale. E anche l’Italia irrobustisce il suo percorso verso il fantomatico 2% del PIL, mettendo a budget per il 2023 ben 26,5 miliardi di euro complessivi”.  (…. ) in realtà dopo il summit di Ramstein la strada pare chiaramente tracciata. Washington ha annunciato nuovi aiuti militari per diversi miliardi, mentre il Consiglio degli Esteri UE ha deciso una nuova tranche di 500 milioni per la cosiddetta “Peace Facility” (in realtà lo strumento che copre finanziariamente l’invio di armi) che sale dunque a 3,6 miliardi di euro complessivi. (…) Chiunque non si cibi solo della retorica interessata di chi magnifica l’importanza della guerra standone bene a distanza (tranne quando deve incassare vantaggi) non può che trarre gravi preoccupazioni da questa situazione”.

Papa Francesco all’angelus del 1 gennaio ha detto: “Nel mondo intero, in tutti i popoli sale il grido: no alla guerra! No al riarmo! Le risorse vadano allo sviluppo: salute, alimentazione, educazione, lavoro”. “Celebrando oggi la Giornata Mondiale della Pace, riprendiamo consapevolezza della responsabilità che ci è affidata per costruire il futuro: davanti alle crisi personali e sociali che viviamo, davanti alla tragedia della guerra, «siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione» (Messaggio per la LVI Giornata Mondiale della Pace, 5). E possiamo farlo se ci prendiamo cura gli uni degli altri e se, tutti insieme, ci prendiamo cura della nostra casa comune”.

La parola di Gesù ‘beati gli operatori di pace’, diviene oggi per noi motivo di impegno quotidiano.

Alessandro Cortesi op

III domenica tempo ordinario – anno A – 2022

Is 8,23b.9,1-3; 1Cor 1,10-13.17; Mt 4,12-23

“In passato il Signore umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti. Il popolo che camminava nelle tenebre  ha visto una grande luce…” Così Isaia evoca la vicenda di due tribù del Nord della Palestina. Qui giunse la devastazione degli Assiri e la deportazione nel 732 a.C.

Isaia racchiude tale riferimento sotto il segno delle tenebre. Queste tribù ai margini d’Israele nel ‘territorio dei pagani’ subiscono distruzione e assoggettamento ad un dominio straniero. Ma le tenebre lasciano il posto al sorgere di una luce nuova: “su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete”. Isaia annuncia una liberazione dagli assiri e vede in questo l’agire di Dio che libera e salva: “Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva”. Il profeta annuncia che i deportati saranno liberati e insieme il venire di un regno di pace guidato da un re ancora bambino: “grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine” (Is 9,6).

Questo testo di Isaia è ripreso e citato da Matteo nel suo vangelo, dopo i capitoli dell’infanzia e dopo il racconto del battesimo al Giordano. E’ un testo che introduce l’inizio dell’attività di Gesù che si reca nel territorio del Nord d’Israele, la Galilea. Gesù torna in Galilea, non a Nazareth bensì a Cafarnao. Una luce grande entra nella storia proprio nelle zone di confine, nella terra dei pagani. Matteo scorge nel cammino di Gesù un compimento dell’annuncio di Isaia, come il sorgere di una luce. E’ questo un tema a lui caro: aveva presentato i magi, pagani, come ricercatori e inseguitori della luce della stella giunti sino ad incontrare Gesù, bambino in braccio a sua madre (Mt 2,1-12).

Questo ritorno alla Galilea è ricco di richiami: Gesù si reca nella provincia dei pagani mentre già si delinea l’esito della sua vita. Ha saputo che il Battista è stato arrestato, ‘consegnato’: nella sua vicenda già s’intravede il destino di Gesù nella sua passione e Gesù si reca allora in Galilea. Matteo presenta Gesù come Messia non solo per Israele ma per tutti i popoli. L’intero vangelo è racchiuso in questa grande prospettiva: Gesù è venuto per annunciare il ‘vangelo del regno’ a tutti i popoli della terra: “Questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine” (Mt 24,14).

‘Convertitevi’ è l’appello di Gesù in rapporto alla ‘signoria dei cieli’ vicina. Gesù richiama al cuore della sua missione e chiede un cambiamento di orientamento dell’esistenza. La signoria di Dio è un modo nuovo di vivere, alternativo a quello dei regni del mondo, accogliendo il dono di presenza di Dio. Il regno è dono di una vita diversa, liberazione da ogni dominio, nell’affidamento a Dio che si prende cura dei suoi figli così come vede i gigli del campo, e nella condivisione. Nel suo agire Gesù rende presente un nuovo rapporto possibile con Dio e con gli altri, nella fiducia al Padre e nella fraternità che coinvolge l’intera esistenza.

‘Venite dietro a me’. Il primo gesto di Gesù è un incontro e la chiamata a seguirlo. Vide due fratelli, Simone e Andrea. Il suo ‘vedere’ raggiunge il loro cuore e li chiama nella loro attività quotidiana, nella normalità del loro lavoro mentre gettavano le reti in mare. Li chiama ad essere ancora pescatori, ma in modo nuovo: non per portare morte ma per portare vita. In un rapporto personale e di vicinanza a lui stesso nel seguire i suoi passi. Li chiama ad essere ‘pescatori di uomini’ per portare vita e condividere nel loro cammino la novità del regno cuore del suo annuncio.  

Alessandro Cortesi op

Imparate a fare il bene, cercate la giustizia (Is 1,17)

E’ questo il tema della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani che in questi giorni viviamo. Ogni anno il sussidio con le proposte di preghiera è preparato da un gruppo di lavoro di chiese locali  in varie regioni del mondo. Quest’anno la proposta proviene dal Consiglio dalle chiese del Minnesota (USA). Nell’introdurre i testi di preghiera della settimana si osserva che “Il linguaggio del profeta riguardo la religiosità del tempo è spietato: Le vostre offerte sono inutili. L’incenso che bruciate mi dà nausea. […] Quando alzate le mani per la preghiera, io guardo altrove (Is 1, 13-15)”.

In particolare è notato come anche oggi vi sia ingiustizia e viene focalizzato il peccato di razzismo: “Oggi, la divisione e l’oppressione continuano a manifestarsi quando a un singolo gruppo o classe sociale vengono accordati dei privilegi rispetto ad altri. Il peccato di razzismo è evidente in qualsiasi fede o prassi che distingua o elevi una “razza” rispetto ad un’altra; quando accompagnato o sostenuto da squilibri di potere, il pregiudizio razziale va oltre le relazioni individuali e giunge fino alle strutture stesse della società, divenendo un fenomeno sistemico”. Anche “i cristiani si sono troppo spesso coinvolti in strutture di peccato come la schiavitù, la colonizzazione, la segregazione e l’apartheid, che hanno deprivato gli altri esseri umani della loro dignità, adducendo il falso motivo della razza” (SPUC 2023 p.11).

Vengono ricordate le parole di Martin Luther King che alle undici della domenica mattina si percepisce la disgregazione e la divisione delle chiesa anziché quello che dovrebbe essere la loro unità in riferimento al Signore a cui è dedicato il primo giorno della settimana. E si annota: “Tutte le divisioni affondano le loro radici nel peccato, cioè negli atteggiamenti e nelle azioni che vanno contro l’unità che Dio desidera per tutta la sua creazione. Il razzismo è tragicamente parte del peccato che ha diviso i cristiani gli uni dagli altri, ha fatto sì che i cristiani pregassero in momenti separati, in edifici separati e in alcuni casi ha portato le comunità cristiane a dividersi” (SPUC 2023, 12).

“L’invito di Isaia rivolto a Giuda a ricercare la giustizia (cfr Is 1, 17) implica il riconoscimento dell’ingiustizia e dell’oppressione che segnavano la loro società. Egli implora il popolo di Giuda di rovesciare questo status quo. Ricercare la giustizia ri- chiede di affrontare coloro che infliggono il male agli altri: non è un compito facile e a volte porterà al conflitto, ma Gesù ci assicura che difendere la giustizia di fronte all’oppressione è la strada per il Regno dei cieli: “Beati quelli che sono perseguitati perché fanno la volontà di Dio: Dio dona loro il suo regno” (Mt 5, 10). In molte parti del mondo le chiese devono ammettere che si sono conformate alle norme sociali e sono rimaste in si- lenzio, a volte addirittura complici dell’ingiustizia razziale” (SPUC 2023, 13).

Il richiamo è a volgersi in una direzione diversa, intraprendendo un’opera di giustizia che tenda a costruire rapporti nuovi nei termini della giustizia riparativa:  “Il nostro impegno reciproco ci richiede di coinvolgerci nella Mishpat, termine ebraico che indica la giustizia riparativa, sostenendo coloro le cui voci non sono state ascoltate, smantellando le strutture che creano e sostengono l’ingiustizia e costruendone altre che promuovano e assicurino che tutti ricevano un trattamento equo e siano rispettati nei diritti a loro dovuti”. (SPUC 2023, 15)

Si ricorda che per molto tempo il Minnesota ha costituito uno dei luoghi di maggiore discriminazione razziale negli USA. In particolare è evocato l’evento dell’impiccagione di trentotto indigeni Dakota appartenenti alla grande nazione Sioux il giorno dopo Natale del 1862. Ma ancora recentemente nel marzo 2020 un giovane afro americano George Floyd è stato ucciso da un agente di polizia, a Minneapolis suscitando la reazione di molte parti del mondo quale protesta contro l’ingiustizia al grido “Black lives matter”. “… la storia delle chiese negli Stati Uniti include le questioni razziali come un importante fattore di divisione ecclesiale” (SPUC 2023, 18)

Mentre si preparavano a morire, i trentotto Dakota cantarono l’inno Wakantanka taku nitawa (Molti e grandi). Qui le parole di questo canto:

Di questo cielo, di questa terra (Testo italiano: Carlo Lella)

Di questo cielo, di questa terra, / Tu sei il creatore.
Tu hai donato al cielo le stelle, / poi le hai sparse nell’infinito.

E sulla terra la tua Parola / muove la pioggia, i mari.

Di questo cielo, di questa terra, / Tu sei il creatore.
Tu che unisci il cielo e la terra, / guida le nostre vite disperse.
La vita è il seme che ci hai donato, / vita, con Te, eterna.

Alessandro Cortesi op

Qui si può scaricare il sussidio di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2023)

II domenica tempo ordinario – anno A – 2023

Is 49,3.5-6; 1Cor 1,1-3; Gv 1,29-34

Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra

La figura del profeta delineata nei testi del secondo Isaia detti ‘canti del servo di YHWH’ indica un testimone della Parola di Dio, un uomo di fede che pone tutta la sua esistenza orientata a compiere la missione che da Dio gli viene. La chiamata è quella a vivere un servizio e si precisa nell’invio ad essere luce per i popoli. La luce di Dio si comunica attraverso la luce di un testimone e non può essere racchiusa entro ristretti confini ma è destinata a tutta la terra.

La chiamata di questo profeta reca in sè i tratti di un disegno di vita e di salvezza che comprende non un solo popolo, ma è progetto di incontro e di pace che coinvolge in un orizzonte universale.

… alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata…

Paolo scrivendo alla comunità in cui egli stesso aveva annunciato il vangelo per la prima volta, si rivolge alla chiesa di Dio che è a Corinto. Si trattava di poche decine di persone che si riunivano attorno ad alcune case. Piccoli nuclei di cristiani nel cuore di una città portuale di passaggi e di approdi. Paolo riconosce in quei piccoli nuclei la chiesa di Dio che si rende presente in quel luogo, e diventa segno di un dono di relazione con Dio e con Gesù Cristo. Santificati in Cristo Gesù sono coloro che partecipano alla vita della comunità ed anche santi per chiamata. Responsabili di un dono di vita ricevuto, il vangelo accolto, e chiamati ad essere trasformati nella luce che viene dal vangelo in rapporti nuovi fatti di accoglienza e di attesa reciproca: santi per chiamata.  

Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui

C’è una presenza rilevata dai racconti evangelici al momento del battesimo di Gesù al Giordano.  Il Battista indica Gesù come agnello di Dio e vede lo Spirito discendere su di lui. Sono qui racchiuse le indicazioni dell’intero percorso di vita di Gesù: il suo itinerario sarà quello del dono, simboleggiato dall’agnello inerme che rinvia al profeta presentato da Isaia, mite come un agnello, come il ‘servo’ che non s’impone ma offre la sua vita. Nella lingua aramaica il vocabolo, talya’ indica sia ‘servo’ sia ‘agnello’. E la sua vita è condotta nel rimanere dello Spirito su di lui. Rimanere è verbo caro al IV vangelo e sta ad indicare una relazione profonda, esistenziale, espressa nella metafora dei tralci uniti con la vite: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me”. Dello Spirito Gesù parlerà nei discorsi della cena: lo Spirito consolatore e suggeritore, lo Spirito che conduce alla verità tutta intera, lo Spirito presenza di conforto e vicinanza.

Giovanni Battista è presentato nel IV vangelo come colui che rende testimonianza perché ‘vede’ in modo più profondo, indica Gesù da accostare con occhi nuovi. Egli annuncia: “in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete” ed invita così a conoscere Gesù. “E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio”. Nel IV vangelo il verbo ‘vedere’ ha una particolare importanza: il discepolo è chiamato a ‘vedere’ e a ‘credere’: il credere implica un vedere eppure c’è un credere che si attua senza vedere: “beati coloro che senza aver visto crederanno”.

Alessandro Cortesi op  

Nonviolenza come ‘dire un tu’

L’agnello è immagine che parla di inermità: è il piccolo appena nato, ancora incerto sui suoi passi. E’ facile, preda e non può reagire alla violenza di chi lo vuole prendere.

L’immagine dell’agnello riconduce al profilo di Gesù come nonviolento e a quello di tutti coloro che hanno saputo credere alla nonviolenza come forza che attraversa la storia, realtà profonda, perchè la verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne, ricordava Gandhi.

Aldo Capitini (1899-1968) filosofo di Perugia, nella sua tensione a testimoniare e a pensare la nonviolenza indicava proprio nel “dire un tu” la cellula generatrice di un nuovo modo di concepire la propria vita e quella degli altri. Non si tratta di ‘dare del tu’, che può nascondere anche quella superficiale attitudine oggi così diffusa di non coltivare il rispetto che è anche forma di cortesia e di delicatezza di fronte all’altro. Si tratta invece per Capitini di ‘dire un tu’, cioè di riconoscere nella presenza dell’altro una realtà importante, che esige di essere ascoltata, accolta. E nel dire un tu percepire come l’altro è partecipe della medesima condizione umana. Per Capitini questo disarmo interiore e tale riconoscimento diveniva inizio di una trasformazione possibile e nucleo della più profonda esperienza religiosa che unisce insieme i viventi ed i morti insieme.

“La nonviolenza è, dunque, dire un tu ad un essere concreto e individuato; è avere interessamento, attenzione, rispetto, affetto per lui; è avere gioia che esso esista, che sia nato, e se non fosse nato, noi gli daremmo la nascita: assumiamo su di noi l’atto del suo trovarsi nel mondo, siamo come madri. (…) Con la nonviolenza, dunque, s’impara concretamente che i modi di manifestarsi attuali della realtà (tra cui la separazione, il dolore, la morte) non sono permanenti, ma possono trasformarsi in meglio; è una prova che vale la pena di tentare, e perciò la nonviolenza è appello al mondo per una grande mobilitazione dell’unità amore, con la fede nella trasformazione della realtà stessa. È perciò un errore credere che la nonviolenza si collochi nel mondo lasciandolo com’è; più si pensa alla nonviolenza e si cerca di attuarla, più si vede che essa ha un dinamismo tale che non può accettare il mondo com’è, ma essa porta tutto verso una trasformazione: l’umanità, la società, la realtà. (Da La nonviolenza, oggi, 1962 In Aldo Capitini, Teoria della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Perugia 1980)

Per Capitini l’esperienza religiosa – che egli intende come «religione aperta» in distanza dalle istituzioni religiose in rapporto ad un Dio dell’amore i cui tratti sono quelli dell’intimità e della vicinanza con lo sguardo rivolto agli «ultimi» – è atto che conduce ad andare oltre il limite dell’individualita’, a rinunciare ad ogni violenza e ad avere passione per il tu. In tal modo si rende possibile una trasformazione ed una nuova realta’. «La religione è farsi vicino infinitamente ai drammi delle persone, interiorizzare. Essa è spontanea aggiunta, è un darsi dal di dentro e perciò libero incremento e pura offerta, non sostituzione violenta» (Vita religiosa, cit., pp. 69-70)

In un tempo in cui prevale la logica della aggressività e della necessità delle armi, riandare a questi pensieri può essere orientamento di autentica novità che fa uscire dalla spirale della violenza, della costruzione del nemico e dell’odio.

Alessandro Cortesi op

Battesimo del Signore – anno A – 2023

Is 42,1-4.6-7; At 10,34-38; Mt 3,13-17

“Ecco il mio servo che io sostengo, … Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità”.

La figura di un profeta è indicata dal secondo Isaia come riferimento di uno stile di fedeltà a Dio e di attuazione del suo disegno di benedizione sulla terra. E’ presenza discreta, mite che non s’impone. Non alza la voce perché il suo parlare è amichevole e si rende presente in gesti di attenzione, di cura. Non s’impone con modi autoritari ma si fa compagnia prendendosi cura: non spegne nemmeno una piccola fiamma che può ancora riprendere luce e vita. E la sua dedizione è per stabilire il diritto sulla terra. La sua fedeltà a Dio in quanto eletto si realizza nel promuovere rapporti nuovi di giustizia tra le persone. Per questo è figura di alleanza, che tiene insieme, apre legami e si rende presenza di liberazione e di apertura.       

“Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli … Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento»”

La figura del servo di YHWH è presente in filigrana nella narrazione del momento in cui Gesù viene battezzato da Giovanni. Questo passaggio decisivo è letto da Matteo come momento in cui rivela l’identità di Gesù e la sua missione. I cieli aperti sono metafora di una relazione. E Gesù in quel momento accoglie la missione del ‘servo’. Esce dalle acque e in questo uscire riprende il passaggio delle acque del popolo dell’esodo. Gesù annuncia la Parola del Padre. La voce dal cielo lo indica infatti come il Figlio mio, l’amato. Ed è sottolineato che è venuto per compiere – portare a compimento – ogni giustizia, come si ricorda nel breve dialogo con Giovanni. Nel vangelo di Matteo compiere la giustizia significa attuare quella fedeltà che è propria di Dio ed è accostato alla attuazione del regno di Dio: è questa la fedeltà di un amore che non viene meno e mantiene la promessa di vicinanza e di salvezza. 

“Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga…”

Nella casa del pagano Cornelio, Pietro, spinto dallo Spirito ad andare e ad entrarvi, fa una scoperta che lo conduce ad una nuova apertura della sua vita: nella via di Cornelio è già all’opera lo Spirito e quindi il dono di Dio è per tutti, al di fuori di ogni appartenenza culturale, religiosa o etnica. Scopre che questo dono lo precede e a lui richiede di riconoscerlo e di attestarlo con il segno del battesimo. “Questa è la Parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, annunciando la pace per mezzo di Gesù Cristo”. Veramente la pace è annuncio al cuore dell’esperienza di Gesù che attende testimoni che sappiano renderla presente nel praticare la giustizia.

Alessandro Cortesi op 

Sentieri di pace

Il battesimo di Gesù è sintesi del percorso della sua vita: ‘un passare beneficando e risanando…’. Ma il suo è un passare di chi discende e passa nelle acque, ripercorrendo le vie dell’esodo, facendosi solidale con tutti gli esodi della storia, con tutti i cammini alla ricerca di liberazione e di accoglienza. Il suo discendere non ha i tratti della conquista ma della vicinanza, non quelli del dominio e dell’autoaffermazione ma i segni della condivisione e della piccolezza, dalla parte degli esclusi, dalla parte delle vittime. Partecipe di umanità, insieme nel cammino a cui Giovanni chiamava. E’ quello del battesimo di Gesù un sentiero di pace.  Può aiutare il pensiero di un grande autore spirituale:

«Se per noi l’esperienza dell’infanzia è cosa difficile, per te non lo è, Figlio di Dio. Se inciampiamo sulla via che porta alla comunione con te secondo questa piccola statura, tu sei capace di togliere tutti gli ostacoli che ci impediscono di fare questo. Sappiamo che non avrai pace finché non ci troverai secondo la tua somiglianza e con questa statura. Permettici oggi, Figlio di Dio, di avvicinarci al tuo cuore. Donaci di non crederci grandi nelle nostre esperienze. Donaci, invece, di diventare piccoli come te affinché possiamo esserti vicini e ricevere da te umiltà e mitezza in abbondanza. Non ci privare della tua rivelazione, l’epifania della tua infanzia nei nostri cuori, affinché con essa possiamo curare ogni orgoglio e ogni arroganza. Abbiamo estremo bisogno […] che tu riveli in noi la tua semplicità avvicinando noi, anzi la chiesa e il mondo tutto, a te. Il mondo è stanco e sfinito perché fa a gara a chi è il più grande. C’è una concorrenza spietata tra governi, tra Chiese, tra popoli, all’interno delle famiglie, tra una parrocchia e un’altra: chi è il più grande tra di noi? Il mondo è piagato da ferite dolorose perché il suo grande morbo è: chi è il più grande? Ma oggi abbiamo trovato in te il nostro unico medicamento, Figlio di Dio. Noi e il mondo tutto non troveremo né salvezza né pace, se non torniamo a incontrarti di nuovo nella mangiatoia di Betlemme. Amen». (Matta el Meskin, L’umanità di Dio, Qiqajon, Magnano 2015, 183-184).

Alessandro Cortesi op

Epifania del Signore – anno A – 2023

Lorenzo Monaco. Adorazione dei magi, Galleria degli Uffizi Firenze,1420-22

Is 60,1-6; Ef 3,2-3.5-6; Mt 2,1-12

La festa dell’Epifania è festa di luce che si manifesta: “nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore… Cammineranno le genti alla tua luce”. Il profeta annuncia una luce che avvolge: è la luce del Signore che libera e viene ed apre un futuro inatteso. Non solo ma quella luce accolta e riflessa diviene orientamento per un cammino dei popoli nell’orizzonte dell’incontro e della pace. E l’invito del profeta è ad alzarsi e rivestirsi della luce del Signore. E’ un movimento che accompagna una nuova aurora: le tenebre ricoprono la terra ma la luce del Signore si dona e trasforma: fa risplendere. Nel tempo di buio e barbarie di questo presente l’invito è ad accogliere la luce, presenza di Dio vicina.

Epifania è festa di cammino e di domande: alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». Il cammino dei magi viene da lontano e inizia da una domanda. Quelle figure di sapienti o cercatori si lasciano porre in crisi dalla domanda, non rimangono chiusi e fermi nel loro sapere acquisito, e si mettono in cammino insieme. Il loro uscire, il loro andare è grande immagine del cammino di chi crede, chiamato a percorrere la strada della vita, a sperimentare rischi e inganni, ad affrontare le interruzioni.       

Epifania è festa di una stella che guida: “la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva”. Quella piccola luce di una stella orienta il cammino dei magi, diviene per loro bussola e conforto. Quella stella orienta fino al volto del bambino in braccio a sua madre. E’ indicazione delle piccole luci che nella vita aprono all’incontro con il Signore Gesù. La stella è una luce nascosta nel profondo del cuore che richiama alle più profonde ricerche, al proprio volto da scoprire nei sentieri dell’esistenza. La stella è luce che sfocia nel volto di quel bambino che fa risplendere la luce di Dio: un Dio inedito che chiede cammino e cambiamento per incontrarlo. Non sta nelle proiezioni umane o nella violenza di un re impaurito, ma nell’abbraccio di una casa, il luogo della ferialità, il luogo dell’incontro, del manifestarsi dell’amore, lì nascosto tra le pieghe dell’umano. E’ luce che apre alla grande speranza di essere accolti e amati. Il bambino Gesù è tra le braccia della madre ma sono le sue braccia aperte che accolgono e si fanno ospitali di ogni ricerca e attesa.

Alessandro Cortesi op

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