Domenica II di Pasqua – anno A – 2020
Miniatura dal codex aureus – Echternach (ca. 1030-50)
At 2,42-47; Sal 117; 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31
I racconti di incontro con Gesù dopo la Pasqua esigono di essere letti non come resoconti cronachistici, ma come narrazioni che esprimono in termini narrativi l’esperienza pasquale dei discepoli, un’esperienza che sorge da un’irruzione inattesa e insperata (il darsi ad incontrare di Gesù) e che peraltro coinvolge in un cammino ineriore personale e collettivo di cambiamento e trasformazione nella fede.
Gesù viene in mezzo ai suoi discepoli ed è riconosciuto come il vivente. E’ sera. Il luogo è la sala in cui i discepoli hanno condiviso con Gesù la cena prima della sua passione. Sono elementi importanti e simbolici: la sera rinvia al buio che accompagna la passione, così pure alla sera della cena, alla memoria vicina del mangiare insieme e dei gesti di Gesù. Ora non c’è più l’intimità e l’amicizia ma la paura e la chiusura delle porte e dei cuori. Il luogo è chiuso e i cuori dei discepoli sono bloccati nel loro disorientamento.
In questo contesto – che parla di una condizione di assenza di prospettiva, di impreparazione e di impotenza – ‘Gesù venne’. Gesù risorto oltrepassa le porte e i cuori chiusi e irrompe inatteso, presenza che si fa vicina in modo totalmente nuovo, inedito, soprendente. Ogni motivo di paura è vinto. Anche la morte non ha più potere. In tutti i racconti di incontro con Gesù dopo la sua morte il suo venire è inatteso e l’iniziativa è sua. La sua presenza non è preparata né programmata. Il suo venire non è costruzione interiore di chi ha elaborato la sua morte, ma è un irrompere fonte di stupore e insieme nuovo percorso esistenziale che coinvolge la fede. Gesù venne e si fermò: il suo ‘venire’ particolare, oltre le barriere. Sta qui un richiamo alla Pasqua ebraica, che secondo la tradizione dell’Esodo fu celebrata dietro le porte segnate dal sangue degli agnelli.
Il suo primo saluto di Gesù è un saluto di pace. E’ il primo dono della Pasqua in stretto legame con le piaghe delle mani e del costato mostrate ai discepoli. Chi ‘venne’ non è un altro: è il crocifisso risorto, con i segni delle ferite nel suo corpo. Offrendo la pace fa un gesto di rivelazione: ‘mostra’ loro le ferite. Nel IV vangelo la pace è connessa alla passione e risurrezione di Gesù (14,27; 16,33; 20,19-26). Non è la pace del mondo, non elimina la morte e la sofferenza. E’ pace dono di Gesù: ‘Io ho vinto il mondo’ (Gv 16,33).
I discepoli ‘gioirono’. Il secondo dono della Pasqua di Gesù è la gioia. E’ una gioia che non dimentica la croce, ma che proprio nella croce legge il manifestarsi di un volto di Dio come amore che si dona. In questo sta la ‘gloria’ di Dio che si comunica sulla croce. Là dove c’è pace e gioia sono presenti i segni del Risorto e vi sono tracce per poterlo incontrare.
Gesù invia i suoi, li rende partecipi di una missione “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi… alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi”. I discepoli sono inviati a continuare l’opera di Gesù, il motivo della sua vita. Gesù dona lo Spirito: la prima comunità è trasformata: è accompagnata a superare la chiusura per portare il perdono di Cristo, dono dello Spirito. Gesù chiede ai suoi, a tutti insieme non solo a qualcuno, di continuare la sua missione, di essere presenza di riconciliazione. E’ lo Spirito il grande protagonista dell’esperienza della fede e della testimonianza che da Pasqua inizia.
Ciò apre a noi una visione di speranza e di fiducia: in ogni percorso umano in cui la pace è ricercata per superare conflitti, laddove c’è gioia che vince chiusure e distanze, laddove c’è opera di riconciliazione lì vi sono tracce della presenza del Risorto che ha consegnato il suo Spirito.
Alessandro Cortesi op
Taddeo Gaddi, armadio della sacrestia di s.Croce, Galleria dell’Accademia Firenze 1335-40
Ricostruire comunità
Gesù stette in mezzo… La prima esperienza della Pasqua per i discepoli fu quella di una ricostituzione della comunità insieme attorno ad una presenza che raduna, raccoglie e genera comunione laddove c’era stata dispersione, paura, disorientamento, chiusura.
Ci si può chiedere se questa esperienza non possa essere luce per ciò che stiamo vivendo nella crisi globale della pandemia: la domanda che si pone nel momento in cui si affaccia la possibilità sperata di un ripartire dovrebbe far riflettere sul fatto che non si può ripartire come se nulla fosse accaduto. E sarebbe prezioso far tesoro di quanto tale emergenza ci sta insegnando.
Il futuro dovrà vedere un comune impegno per una ricostruzione di un con-vivere universale che abbia chiara la consapevolezza della dimensione comunitaria del nostro vivere. Il mondo si è rivelato in questo frangente come un mondo collegato: persone e popoli diversi siamo interrelati, tutte e tutti partecipi di una medesima vicenda dell’unica famiglia umana. Ed insieme parte dell’unica casa comune dell’ambiente naturale.
Questa epidemia si è caratterizzata nella sua aggressività e letalità per il fatto di essere una malattia collettiva. E questo dato, nella sua evidenza quasi elementare tuttavia ha posto in discussione le modalità in cui è stata impostata la stessa struttura della sanità. Una sanità pensata in modo individualizzato per operare di fronte alla malattia pensata come condizione individuale si è trovata in grave difficoltà laddove la malattia ha invece presentato i connotati di un evento pubblico e collettivo. E’ stata questa la differenza di reazione nei modelli di sanità dei diversi Paesi ed anche in diverse regioni italiane. Una struttura concepita in modo privatistico non solo per il taglio delle risorse alla struttura pubblica e al privilegio offerto negli anni alla dimensione privata ma anche per la modalità di approccio alla malattia stessa si è trovata pur con il suo alto livello di qualità di fronte ad un’incapacità e ad un limite (in particolare nel rapporto tra assistenza ospedaliera, cura sul territorio e strutture di assistenza sanitaria non ospedaliere). Pensare la salute nei termini collettivi e di interrelazione implica una considerazione e scelte conseguenti sul piano della costruzione di una sanità orientata non al singolo ma alla comunità senza discriminazioni, privilegi ed esclusioni. Questa è una sfida aperta a diversi livelli per un possibile futuro.
Quattro proposte concrete in questi giorni sono state sollevate nella prospettiva di pensare ad un futuro nei termini di una tessitura di più profondi legami di comunità tra le persone.
La prima viene dal card. Tagle che ha proposto l’annullamento del debito dei paesi poveri. Il tempo che viviamo richiede una soluzione straordinaria di fronte alla condizione dei popoli più poveri del pianeta. Così ha detto in una sua omelia del 29 marzo u.s. commentando il brano evangelico della risurrezione di Lazzaro e prendendo spunto dalle parole di Gesù che inviata slegare e liberare Lazzaro facendolo uscire dalla tomba:
“Facciamo appello ai paesi ricchi: in questo momento potete rimettere i debiti dei paesi poveri, perché possano usare le loro scarse risorse per sostenere le loro comunità, invece che pagare gli interessi che voi imponete ai paesi poveri? Potrebbe la crisi del coronavirus portare a un giubileo, alla remissione del debito, perché quanti si trovano nelle tombe dell’indebitamento possano trovare vita? Slegateli, liberateli. Un’altra tomba: molti paesi spendono tanto in armamenti, in armi, per la sicurezza nazionale. Possiamo fermare le guerre? Possiamo smettere di produrre armi? Possiamo uscire da queste tombe e spendere questo denaro per una vera sicurezza? Ora ci rendiamo conto che non abbiamo abbastanza maschere, mentre ci sono pallottole in abbondanza. Non abbiamo abbastanza ventilatori, ma abbiamo milioni di pesos, dollari, euro spesi in un solo aeroplano per attaccare. Possiamo avere un cessate il fuoco permanente, e nel nome dei poveri, liberare risorse per la vera sicurezza, l’educazione, l’abitazione, l’alimentazione?”
La seconda proposta viene da papa Francesco in una sua lettera indirizzata ai movimenti popolari del 12 aprile 2020. Così egli scrive: “So che siete stati esclusi dai benefici della globalizzazione. Non godete di quei piaceri superficiali che anestetizzano tante coscienze. Ciononostante ne dovete subire sempre i danni. I mali che affliggono tutti, vi colpiscono doppiamente. Molti di voi vivono alla giornata, senza alcun tipo di tutela legale a proteggervi. I venditori ambulanti, i riciclatori, i giostrai, i piccoli agricoltori, gli operai, i sarti, quanti svolgono attività di assistenza. Voi, lavoratori informali, indipendenti o dell’economia popolare, non avete un salario stabile per far fronte a questo momento… E le quarantene sono per voi insostenibili. Forse è giunto il momento di pensare a un salario universale che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili lavori che svolgete; capace di garantire e trasformare in realtà questa parola d’ordine tanto umana e tanto cristiana: nessun lavoratore senza diritti. Vorrei anche invitarvi a pensare al “poi”, perché questa tormenta finirà e le sue gravi conseguenze già si sentono. Non siete degli sprovveduti, avete la cultura, la metodologia, ma soprattutto la saggezza che s’impasta con il lievito di sentire il dolore dell’altro come proprio. Pensiamo al progetto di sviluppo umano a cui aneliamo, incentrato sul protagonismo dei Popoli in tutta la loro diversità e sull’accesso universale a quelle tre T che voi difendete: tierra, techo y trabajo, terra, tetto e lavoro”.
Il papa propone in questo frangente una misura concreta quale un reddito universale che sia riconoscimento per chi lavora in tante forme che non consentono uno stipendio e che non ha riconosciuti diritti fondamentali nell’ottica che sia garantito per tutti accesso alla terra, ad una casa e al lavoro.
La terza proposta è la regolarizzazione di tutti gli immigrati che lavorano in Italia ma non hanno una situazione regolare. E’ idea sostenuta in questi giorni da Tito Boeri: “ora se vogliamo davvero liberarci di questo maledetto virus, dobbiamo, volenti o nolenti, regolarizzare gli immigrati illegali che vivono nel nostro Paese. Tutti. Non solo quelli che devono lavorare in agricoltura. E non per ragioni umanitarie, ma per una pura e semplice questione di controllo del territorio e di sopravvivenza (…) Gli immigrati irregolari sono ormai più di 650 mila dato che prima la paura dei populisti e poi i populisti in carne e ossa hanno impedito per più di 10 anni che arrivassero regolarmente le persone di cui le famiglie e le imprese italiane avevano bisogno” (Tito Boeri, Per liberarci dal virus dobbiamo regolarizzare gli immigrati, “La Repubblica” 16 arile 2020).
La quarta è una proposta a livello italiano promossa da un gruppo di personalità il 7 aprile u.s. e ripresa da Livia Turco, già ministra e parlametare, che individua la possibilità di istituire un servizio civile pubblico di cura obbligatorio per essere preparati a fronte di emergenze che toccano così profondamente la vita sociale e di fronte alle quali nulla serve un approccio di tipo militaristico, ma in cui risulterebbe assai proficua una preparazione di tipo civile.
“La pandemia ha dimostrato la necessità di grandi competenze per il bene comune. Di qui la proposta di rilanciare e ripensare il Servizio Civile come una forza nazionale giovanile con la missione di aiutare le fasce deboli della popolazione a fianco della Protezione Civile e di altre organizzazioni. Una forza dotata di una adeguata formazione. E costruita pensando anche alla fragilità del pianeta. In futuro altre emergenze economiche, ambientali e sanitarie saranno inevitabili. (…)non basta attribuire al meraviglioso volontariato, alla capacità di dedizione dei cittadini, alle organizzazioni del Terzo settore il compito di sollecitare in tale direzione. Bisogna mettere in discussione, scardinare, anche attraverso un dibattito pubblico, la scansione del tempo che caratterizza la nostra società e la considerazione pubblica riconosciuta ai vari lavori e alle forme di impegno sociale. Oggi abbiamo una scansione del tempo che considera la cura delle persone un tempo privato, il lavoro retribuito il tempo pubblico che fonda diritti e cittadinanza ed alimenta la nostra democrazia, il tempo della gratuità e del dono come tempo onorato e anche riconosciuto nella Costituzione nella sua funzione di sussidiarietà rispetto al pubblico e in talune leggi e politiche (La legge 328/2000 sulle politiche sociali con la pratica della co-progettazione e le recente riforma del Terzo Settore), ma confinato in un cono d’ombra affidato al buon cuore dei cittadini. Se, dunque, il tema cruciale oggi è promuovere la ‘comunità competente’ per la realizzazione dei beni comuni, il tempo della cura delle persone, il prendersi cura delle persone deve essere riconosciuto anche come tempo pubblico, ingrediente della democrazia e motore della cittadinanza. (…) Il Servizio Civile Universale e obbligatorio sarebbe una grande politica che aiuta la promozione delle competenze dei giovani nei beni comuni, a costruire concretamente la comunità e il welfare universalistico e comunitario”. (Livia Turco, Costruire la “comunità competente”. Sì all’obbligatorietà del servizio civile, “Avvenire” 16 aprile 2020).
Costruire comunità solidali è un orizzonte che ora più che mai si rende presente come chiamata di questo tempo.
Alessandro Cortesi op
XIV domenica tempo ordinario – anno A – 2020
“… a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino”. Zaccaria, profeta del VI secolo invita a guardare al futuro di Israele. Dopo la drammatica esperienza dell’esilio si apre un tempo nuovo. Il suo sguardo si spinge ancor più lontano fondandosi sulle promesse di Dio. Il futuro sarà segnato da una presenza: il venire del messia. Il presente va letto allora quale tempo della benevolenza del Signore.
Il tempio sta per essere ricostruito, Gerusalemme ed altre città vengono riedificate: il popolo d’Israele disprezzato e oppresso può ora restaurare antiche rovine. Ma questo è segno di un’altra ricostruzione ancor più importante: una ricostruzione interiore, spirituale. Il tempo della prova apre una chiamata a scorgere che non sono da inseguire progetti di affermazione politica, ma la testimonianza della fede nel Dio dell’alleanza.
Zaccaria presenta l’urgenza di una rinascita spirituale a partire dai cuori e invita a gioire perché sta giungendo un re giusto e salvatore. La sua grandezza non sta nelle sue capacità ma nella fiducia solo in Dio. E’ un re mite: non viene con gli strumenti della violenza e della guerra ma disarmato, e così costruisce la pace. È a capo di una comunità di umili, i poveri di Jahweh, coloro che non hanno altre sicurezze, si appoggiano su Dio, in Lui ripongono la loro fiducia.
Il brano del vangelo riporta una preghiera di Gesù ed apre uno squarcio sulla preghiera di Gesù: per lui è innanzitutto dire grazie, è esperienza di gratitudine e gioia. E’ comunione con Dio l’Abbà. Gesù si lascia sorprendere ed è contento perché l’Abbà sceglie gli esclusi e quelli che non contano. Ringrazia così il Padre perché ha rivelato queste cose ai piccoli e ai poveri. Il vangelo che Gesù è venuto portare è bella notizia per i poveri. Sono loro che non hanno altri sostegni e scoprono che Dio prende le loro parti.
Gesù utilizza lo stile ebraico della preghiera: la benedizione, che è dire il bene e ringraziare Dioper come agisce; parla poi del suo rapporto come Figlio al Padre e della conoscenza tra il Padre e il Figlio; infine invita a seguirlo. E’ Gesù il messia mite e povero e chiede ai piccoli ‘prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore’.
E’ Gesù il ‘piccolo’ che vive nell’abbandono fiducioso al Padre. L’immagine del giogo era utilizzata dai maestri ebrei per parlare della legge (Sof 3,9); Gesù toglie ogni senso di pesantezza e di insopportabilità: ‘il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero’. Incoraggia dicendo: ‘venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi’ – propone una via di incontro con il Padre nell’affidamento.
“Lo Spirito di Dio abita in voi” è il messaggio di Paolo alla comunità di Roma. E’ un annuncio che cambia la vita. Lo Spirito stesso non solo è donato ma abita dentro i cuori. C’è una presenza di Dio da accogliere e da riconoscere in tutti, oltre ogni pretesa di essere in qualche modo detentori esclusivi, perché lo Spirito soffia oltre ogni confine. Opera dello Spirito è dare respiro di vita. Nella risurrezione di Gesù e nella vita nuova di chiunque scopre questa sorgente di vita nell’interiorità.
Alessandro Cortesi op
Ricostruzione
“Non è una parentesi”. E’ titolo che incuriosisce quello di questo libro da poco uscito (Non è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, ed. Effata 2020), una raccolta di riflessioni attuate a partire da una richiesta del vescovo di Pinerolo Derio Olivero. Di origini cuneesi, prete a Fossano e dal 2017 vescovo di Pinerolo è stato contagiato dal Covid nel mese di marzo. la malattia si è aggravata fino a rendersi necessario il ricovero nel reparto di terapia intensiva. E’ rimasto sospeso per giorni tra la vita e la morte. E’ uscito da quel tunnel accompagnato dalle cure di medici e infermieri ed è guarito. Per altri, per molti, per la medesima malattia in questo tempo c’è stata la morte. Si può comprendere che chi ha vissuto concretamente tale esperienza di prova, di stare tra vita e morte, maturi una sensibilità nuova.
Derio Olivero è convinto che non stata una parentesi. Il tempo dell’epidemia Covid è per lui un’esperienza che ha parlato e continua a parlare, con richieste pressanti per un cambiamento della nostra vita sociale.
“La pandemia ci ha messo di fronte a due dimensioni: l’imprevedibile e il tragico. Noi ci pensavamo al sicuro. Il virus ci ha messo di fronte ad una situazione inedita: l’imprevedibile ovvero non sapere come muoversi e reagire, e il tragico, ovvero la possibilità di morire. Il limite, la fragilità sono sempre presenti e la morte è nostra compagna. Questa non è stata dunque una parentesi ma un invito a modificare profondamente il nostro vivere”. (Intervista Il Covid non è una parentesi, ma un invito a modificare il nostro vivere, “Il Corriere della sera” – Torino 15 giugno 2020)
Nelle sue prime testimonianze dopo essere uscito dall’ospedale ha ricordato di aver vissuto una inattesa serenità nei momenti dell’isolamento e della crisi. Ricorda di aver chiaramente percepito come in lui rimanevano solo l’affidamento a Dio e le relazioni (intervista a “La Repubblica” 27 aprile 2020). La pandemia parla e urla proprio riguardo alle relazioni e chiede un nuovo modo di ricostruire rapporti tra le persone e i popoli:
“Il virus ci ha insegnato che il fratello e la sorella sono la nostra fortuna, non un peso ma un dono. Stare chiusi in casa o lottare contro una malattia, ci ha fatto comprendere che senza l’altro non c’è vita. L’altro ci manca come l’aria. Noi siamo relazione, dialogo, incontro. Non solo le relazioni familiari, ma con tutti gli uomini e le donne del mondo. Oggi abbiamo bisogno di un abbraccio fisico, di una relazione che ritrovi la corporeità, per questo sono necessari tempo, spazio e gesti. La dimensione virtuale e digitale ci ha permesso di rimanere uniti, ma dobbiamo fare un passo avanti”
La sua analisi scorge anche come questo tempo pone anche provocazioni al modo di vivere la fede, a come si attua l’esperienza di chiesa. Invita a superare forme di linguaggioe e di proposta dell’esperienza cristiana che si sono allontanate dal vangelo e non ascoltano le domande del vivere umano:
“Anche la nostra fede è andata in crisi, ci siamo resi conto che le parole del cristianesimo erano diventate logore. Di fronte all’imprevedibile e al tragico, come Chiesa, con l’eccezione di papa Francesco, siamo entrati in crisi. Si è pensato di più al rispetto delle norme, soffermandoci troppo poco sulle risposte da dare alle grandi domande antropologiche e spirituali che la pandemia ci ha posto”.
E’ chiaro per Derio che di fronte quanto questo tempo di prova ci ha portato non è possibile pensare di tornare alla situazione di prima, alla società e alla chiesa di prima. C’è una ricostruzione da attuare, che deve partire dalle fondamenta. Per questo invita a ricostruire, anzi «costruire sognando», una nuova società e una nuova chiesa, a partire non da modelli precostituiti o normativi, ma nella relazione con le vite delle persone, attuando così un ascolto nuovo del vangelo in questo tempo.
“Credo che la questione più importante sia la capacità di parlare alla concretezza della vita e non per dottrine e norme. Il cristianesimo deve entrare nelle esistenze degli uomini di oggi. Tutto questo si può fare tornando al vangelo, ma non semplicemente per rileggerlo ma cogliendone la sua portata vitale. La sfida è dunque interrogare le coscienze di ogni persona sulle grandi domande della vita”.
Alessandro Cortesi op