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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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Domenica di Pentecoste – 2024

At 2,1-11; Gal 5,16-25; Gv 15,26-27;16,12-15

Negi atti degli apostoli la venuta dello Spirito a Pentecoste è presentata con riferimento ai prodigi dell’esodo (cfr. Es 19,3-20): le immagini del vento, imprendibile, e del fuoco che trasforma gli apostoli impauriti e li rende capaci di parola rinviano ai segni dell’esodo.

Lo Spirito genera un percorso contrario a quello di Babele o anche esprime la promessa insita in Babele, cioè il disegno di Dio di una umanità plurale e capace di comunicare: contro la pretesa di avere una sola torre e una sola lingua, a Pentecoste le lingue diverse e la possibilità di intendersi aprono ad una realtà nuova. Contro la pretesa di un unico dominio, la presenza di popoli diversi è un nuovo orizzonte. Babele è simbolo del progetto di potere di chi domina, a Pentecoste si attua invece la profezia di Gioele (3,1-5): ‘io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo…’.

Dio rimane fedele alla sua promessa e il dono dello Spirito per tutti i popoli della terra apre a scoprire nella diversità riconciliata di razze popoli e lingue un dono da accogliere. Ci si può riconoscere partecipi di una medesima famiglia, legati insieme fratelli e sorelle in rapporto al Dio dell’accoglienza e della comunione.

“Quando verrà il Consolatore, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza…” (Gv 15,26-27).

Il consolatore è colui che porta aiuto, sta accanto e sostiene: è ciò che ha compiuto Gesù nella sua vita. Così lo Spirito è presentato come la presenza vicina. Sarà il grande suggeritore e la grande guida: guiderà alla verità tutta intera. Lo Spirito è presentato con il profilo di un ‘tu’ personale: presenza interiore, non racchiudibile, vicina nel momento della prova, compagnia nella testimonianza quotidiana. Darà forza per essere testimoni della presenza di Cristo risorto nella storia. Lo Spirito accompagna ad incontrare il Risorto nei cammini della storia, guida così alla verità tutta intera. Il suo agire apre a comprendere sempre più la ‘verità’ vivente che è lo stesso Gesù Cristo. Nel IV vangelo verità non è infatti una dottrina da conoscere ma una presenza da incontrare. Lo Spirito introduce nel mistero della nascita, morte e risurrezione del Signore Gesù, nelle profondità della sua vita. Lo Spirito è totalmente rivolto a quanto Gesù ha compiuto: “Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve l’annunzierà”. Lo Spirito è anche tutto rivolto al Padre e introduce nella relazione di comunione e di reciprocità: “Tutto quello che il Padre possiede è mio, per questo vi ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà” (Gv 16,15).

Il dono dello Spirito genera una vita nuova: nella sua forza si può camminare secondo la legge dello Spirito, legge di libertà e di dono di sé. Paolo nella lettera ai Galati contrappone  ‘legge della carne’ e legge dello Spirito. Fa così emergere il contrasto tra un modo di intendere la vita secondo un principio egoista, nella preoccupazione ripiegata sul proprio interesse e nella dimenticanza degli altri: è questa la legge della carne. Ad essa si oppone ad un’altra prospettiva. ‘Carne’ in tale contesto significa egoismo. A questo modo di intendere la vita si oppone radicalmente la ‘legge dello Spirito’ e ne sono indicati i suoi frutti: “…amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dono di sé”. Sono questi i segni di una vita disponibile a farsi orientare dalla forza dello Spirito. E’ forza che spinge verso l’altro, al servizio, al dono. Si apre così un camminare nello Spirito. Tale ‘camminare’ investe la quotidianità e si esprime in ‘frutti’ nella vita.

Alessandro Cortesi op

Ascensione del Signore – anno B – 2024

At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mc 16,15-20

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” Gesù tornerà: è questo l’annuncio della prima comunità. Il Risorto che ha vinto la morte non sarà più incontrato tornando al passato, ma viviamo ora nella sua assenza e Lui viene e tornerà   E’ possibile ora vivere l’esperienza d’incontro con lui in modo nuovo, nella comunità, nei segni da lui lasciati in sua memoria, nell’operare dello Spirito che anima la missione dei credenti.

Alla richiesta degli apostoli di ‘conoscere i tempi e i momenti’, cioè prevedere il futuro, Gesù invita a non lasciare spazio a vana curiosità, a non lasciarsi distogliere da ciò che è più  importanti. Sposta la loro attenzione, li invita a guardare il presente sperimentando sin d’ora il suo esserci in modo nuovo, nell’assenza. Chiede così di vivere l’attesa dando fiducia alla promessa del Padre; chiede di prepararsi a ricevere la forza dello Spirito. Lo Spirito scende come dono dall’alto e diviene fonte della testimonianza. La promessa del Padre è che tutti possano avere parte alla morte e risurrezione di Gesù. Lo Spirito è il dono di Gesù risorto e nello Spirito farà sentire la sua presenza. Dopo la Pasqua non sarà più possibile incontrare Gesù come prima, ma sarà possibile in modo nuovo, nella fede, nella forza dello Spirito. La sua presenza è reale tra noi e nel contempo è interiore e coinvolge l’intimo. ‘Una nube lo sottrasse al loro sguardo’: quando ci sono momenti di rivelazione di Dio nella Bibbia si richiama alla nube. Ora lo spazio di Gesù è lo spazio di Dio, una dimensione nuova rispetto allo spazio e al tempo umani che Gesù ha vissuto. La sua presenza continua e segnerà i cuori e si farà vicina nei segni del suo chiamare e passare: lo Spirito è dono che accompagna ad incontrarlo nella fede e rende testimoni della sua risurrezione ‘voi mi sarete testimoni’.

Alla fine del suo racconto Marco riporta un mandato di Gesù ai suoi: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…”. Li invia a continuare quanto egli ha vissuto, l’annuncio della bella notizia del ‘regno’ (cfr Mc 1,12) e la testimonianza di segni di liberazione e di novità di vita (Mc 1,32-34). La Pasqua è evento che ha rivelato la signoria di Cristo sulla storia: è una signoria particolare perché si attua nel dono, nel servizio, nell’amore fino alla fine. I discepoli di Gesù sono ora inviati ad allargare lo sguardo, ad andare, a dare testimonianza di quanto Gesù ha fatto e detto. “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro”.  I segni e la parola sono al centro della testimonianza: la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte è operante nella storia e procede con il corso della parola del vangelo, nonostante le contraddizioni. La testimonianza dei credenti dovrà confrontarsi con la fatica e il buio, ma conoscono la strada che Gesù ha percorso. Nel vangelo di Marco è questa la strada verso Gerusalemme, strada di fedeltà nell’essere uomo-per-gli-altri (Mc 10,45).

La seconda lettura offre un’ulteriore sottolineatura: ascensione è festa della comunità. Gesù non lascia la sua chiesa, ma dona la presenza dello Spirito che conduce nella relazione di amore del Padre e del Figlio. Anche la comunità vive questa fondamentale chiamata, la vocazione ad essere segno della comunione del Padre del Figlio e dello Spirito. Nella comunità che sperimenta e accoglie la molteplicità di doni e di servizi, si può fare esperienza dell’agire dello Spirito; non eliminando le differenze, e non appiattendo le diversità. La chiesa è chiamata ad offrire testimonianza di unità come relazione di scambio e di incontro, divenendo icona della vita trinitaria. L’ascensione è festa della glorificazione di Cristo nella sua umanità e coinvolgimento di noi tutti nella comunione che sgorga dalla sua morte e risurrezione.

Alessandro Cortesi op

Una Dichiarazione del Movimento nonviolento

«Dichiaro fin da questo momento, con atto formale, la mia obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione. Non sono disponibile in alcun modo a nessuna chiamata alle armi».

È questo il cuore della dichiarazione di obiezione di coscienza che il Movimento Nonviolento lancia con la Campagna di Obiezione alla guerra. Una risposta, immediata e convinta, alle dichiarazioni del Capo di Stato maggiore, il generale Masiello: “L’Esercito italiano va potenziato: servono più tecnologie e più soldati”, un chiaro messaggio al governo per avere più fondi per il comparto militare, come se non bastassero i 28 miliardi previsti per il 2024, e un avvertimento per l’opinione pubblica, che si prepari a provvedimenti da mobilitazione pre bellica, come il ripristino della leva. Non solo i militaristi fondamentalisti come Vannacci e Bandecchi si sono subito allineati, ma l’intero coro governativo, in perenne parata militare, intona il ritornello “dobbiamo prepararci al rischio di prossimi conflitti”. Dunque è tempo di rispolverare il motto “né un soldo né un uomo per la guerra”, che va aggiornato con l’aggiunta di “né una donna”, perché la chiamata alle armi riguarda ormai tutti e tutte.

La procedura per dichiararsi obiettori di coscienza è semplice: si compila e si sottoscrive la Dichiarazione di obiezione, che viene mandata ai Presidenti della Repubblica e del Consiglio, al Ministro della Difesa e al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Viene anche chiesto alle autorità competenti che i nomi di coloro che sottoscrivono vengano inclusi in un apposito Albo dove siano elencati tutti gli uomini e tutte le donne che obiettano alla guerra e alla sua preparazione. In pratica si chiede di formalizzare l’elenco di coloro che fin da ora, e in futuro, non sono in alcun modo disponibili all’uso delle armi. Presso il Ministero della Difesa esiste già l’elenco degli obiettori di coscienza che hanno rifiutato il servizio militare dal 1972 in poi, così come presso l’Ufficio nazionale del Servizio Civile esiste l’elenco di tutti i giovani che dal 2001 in poi hanno già svolto il servizio civile.

La Dichiarazione, che può essere sottoscritta da tutti, giovani o adulti, donne e uomini, chiarisce che chi firma ripudia la guerra e vuole ottemperare al dovere di difesa della Patria con le forme di difesa civile e non militare già riconosciute dal nostro ordinamento, in linea con  la Costituzione italiana (articoli 11 e 52). Inoltre chi aderisce a questa forma di obiezione di coscienza dichiara che non vuole sottrarsi al dovere di proteggere la comunità e quindi sollecita il Parlamento all’approvazione di una Legge per l’istituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta.

Ai rumori di guerra sempre più forti, le cancellerie europee, incapaci di prendere iniziative concrete di pace, rispondono spingendo sull’opinione pubblica per far accettare la mobilitazione generale. La Russia ha annunciato il via libera alle esercitazioni con armi atomiche tattiche, dall’altra parte c’è  chi ha già arruolato Dio come proprio alleato, e la Francia preme per l’invio di truppe nel teatro bellico. Gli ingredienti per far mettere l’elmetto e togliere la sicura, ci sono tutti.

La risposta immediata a questa follia in stile futurista, per cui “la guerra è la sola igiene del mondo”, è la fermezza del No, è l’obiezione di coscienza alle chiamata alle armi.

Mao Valpiana – Presidente del Movimento Nonviolento

La Dichiarazione di Obiezione di coscienza è disponibile sul sito del Movimento Nonviolento azionenonviolenta.it e può essere compilata direttamente dal format o scaricata e inviata personalmente. Nei primi giorni di campagna, sono già migliaia le dichiarazioni compilate e raccolte.

Verona, 6 maggio 2024

(Pubblicato su il Manifesto del 7 maggio 2024, p. 5)

VI domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 10,25-48; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17

“In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”

La scoperta di Pietro nella casa di Cornelio, un pagano e un lontano, sorge innanzitutto dall’esperienza. Pietro si è lasciato condurre fuori dalla sua casa dalla forza dello Spirito, da una chiamata dello Spirito espressa nei termini del sogno e della visione, per entrare nella casa dell’altro, in una casa che Pietro poteva ritenere estranea alla possibilità di incontro ma anche dall’esperienza di Dio. Cornelio era un pagano, appartenente ad un mondo guardato come lontano e senza speranza. Per i pagani la possibilità di salvezza era vista solo nei termini di una loro condivisione della religione di Israele, accogliendo tutte le norme e osservanze previste dalla tradizione. Pietro ragionava nei modi di chi considerava innanzitutto con distanza e disprezzo i pagani, gli altri; ma era anche convinto che il mondo dei pagani fosse lontano da Dio.

L’esperienza di uscita dalla sua casa, del lasciarsi accompagnare verso la casa dell’altro, apre a Pietro un orizzonte nuovo. Nell’essere accolto come ospite Pietro vive un incontro umano, in cui scoprirsi nella sua umanità di fronte all’altro, e nell’altro, di fronte al suo volto, riconosce la medesima umanità. Anzi Pietro scopre che quel pagano è un uomo che nutre un senso della presenza di Dio nella sua vita e pratica la giustizia. Lo stile di vita di Cornelio, il suo agire manifestano un cuore aperto ed anche un esempio di ricerca di quanto è autentico nella vita umana e la rende piena. Praticare la giustizia è segno di un’apertura a riconoscere gli altri e di disponibilità a percorrere i sentieri della fraternità. Nella sua ospitalità Cornelio si manifesta uomo aperto all’incontro e capace di riconoscere la preziosità del volto dell’altro.

Pietro scorge tutto questo non in una teoria ma nel concreto dell’esperienza dell’incontro, nella quotidianità di vita di una casa abitata da molte presenze. Quell’incontro diviene per Pietro un passaggio fondamentale per ripensare il suo rapporto con Gesù e con il vangelo. Il Dio di Gesù non fa preferenze, è presenza vivente che si dà ad incontrare – come Gesù aveva raccontato – nelle pieghe della vita, nei cuori aperti alla sua Parola che pervade la realtà, le persone, e si fa percepire nell’incontro, nel dialogo.

Nella casa di Cornelio Pietro vive una delle sue conversioni. Aveva vissuto accanto a Gesù la conversione dalla sua pretesa di grandezza a riconoscere la sua debolezza e incapacità, a lasciarsi prendere dalla grazia di uno sguardo di accoglienza e perdono. Ora vive un altro passaggio: dal Dio delle religioni e delle appartenenze, dal Dio che esclude al Dio che sorprende sempre ed apre strade nuove: strade di incontro, di ospitalità, di giustizia.


“Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola”

E’ lo Spirito santo il grande protagonista nascosto di questa pagina:è lui che spinge Pietro ad uscire, è Lui che spinge Cornelio a cercare e accogliere, è ancora Lui che spalanca nuove vie alla Parola, che fa ardere il cuore di Cornelio al racconto di Pietro che ricorda Gesù, la sua vita, il suo donarsi. E’ lo Spirito che scende come respiro nuovo che conduce a vivere non una religione delle opposizioni e delle esclusioni ma una fede che lascia il primato al Dio accogliente che ha un sogno di pace, al Dio più grande dei nostri pensieri che suscita incontro ed apre novità inedite nei cuori e nelle case.

Lo Spirito guida anche oggi i cammini e attende di essere accolto nella disponibilità ad ascoltare la Parola, ad uscire e allargare gli orizzonti.

Alessandro Cortesi op

VI domenica di Pasqua – anno A – 2023

At 8,5-8.14-17; Sal 65; 1Pt 3,15-18; Gv 14,15-21

“Filippo, sceso in una città della Samaria, cominciò a predicare loro il Cristo…”. La missione di Filippo inizia proprio dalla Samaria, considerata regione abitata da popoli pagani (cfr. 2 Re 17,24-41; cfr. Gv 4,18) e i cui abitanti erano visti con disprezzo (cfr. Sir 50,25-26; Gv 4,9.20). Lì l’annuncio viene accolto tra persone considerate lontane e impure: ‘imponevano loro le mani e ricevevano lo Spirito Santo’. Il primo messaggio di questa pagina riguarda la libertà dello Spirito, l’abbattimento di ogni barriera di tipo culturale e religioso. E’ questa la scoperta di Pietro nella casa del pagano Cornelio: ‘Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto’ (At 10,34)

Filippo ‘cominciò a predicare loro il Cristo’. L’attività dei primi inviati si concentra sull’annuncio di Gesù come messia: attestano che Gesù è il messia atteso, colui che libera la vita dalla paura, dal peccato, da ogni prigionia. Filippo compie tale annuncio con un modo di agire che riprende lo stile di Gesù: continua i suoi gesti di liberazione, di cura.  Con discrezione accompagna nel cammino e aiuta a leggere la Parola di Dio in riferimento a Gesù stesso (cfr. Lc 24,13-35). Filippo scende sulla via, sale sul carro del funzionario etiope, ascolta le sue domande e gli si fa vicino nella sua ricerca (cfr At 8,26-40). In Samaria Filippo ‘recava la buona novella del regno di Dio e del nome di Gesù Cristo’. La bella notizia, il vangelo è dono che conduce a scorgere l’azione dello Spirito che trasforma la vita. Viene in tal modo presentato lo stile di annuncio del vangelo, come cammino di compagnia, di apertura all’incontro con Cristo che conduce alla gioia (At 8,39).

La presenza dello Spirito donato con l’imposizione delle mani si unisce infatti all’esperienza della gioia. ‘E vi fu grande gioia in quella città’ (At 8,8). La predicazione di Filippo e degli altri apostoli genera apertura ad uno sguardo nuovo sulla vita. Negli Atti si ripete con insistenza come anche nei momenti di prova i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito santo (At 13,52). Un’atmosfera di gioia accompagna la predicazione del vangelo ed il percorso della fede. Il regno di Dio è infatti ‘pace e gioia nello Spirito Santo’ (Rom 14,17) e la gioia stessa è frutto dello Spirito (Gal 5,22).

La promessa dello Spirito da parte di Gesù si situa nel quadro di un dono di speranza: ‘non vi lascerò orfani’. Lo Spirito viene indicato come un altro ‘paraclito’, consolatore, e come Spirito di verità. E’ presenza che si fa accanto e protegge prendendo le difese: nel tempo della storia guida i singoli e le comunità all’incontro con Gesù. E’ il grande suggeritore che ricorda quanto Gesù ha comunicato.  

Alessandro Cortesi op

Ascoltare le vittime

Chi ascoltare, cosa ascoltare? L’ascolto delle vittime oggi è fondamentale per un cammino di chiesa che assuma la responsabilità e sappia guardare con sincerità il male, la violenza e il crimine presenti al suo interno.

Come testimonia suor Véronique Margron, presidente della Conferenza dei religiosi e religiose in Francia (CORREF) in un’intervista a Settimananews: “Senza l’ascolto delle vittime non si va da nessuna parte. Sembra uno slogan dire che «le vittime sono i maestri», ma è la verità. Perché solo loro possono raccontare la realtà del loro trauma; solo loro possono raccontare lo scarto tra il male commesso e il male subito. Il male fatto dall’aggressore può essere stato commesso una sola volta, o anche cento volte, ma è «passato» (ha una data). Ma il male subito dalle vittime è per tutta la vita. Questo scarto solo le vittime lo conoscono e solo loro posso raccontarlo. Noi lo abbiamo studiato e ascoltato; loro lo conoscono nella carne. Anche dal punto di vista teologico, loro sollevano le questioni da affrontare. Non hanno le risposte – come deve cambiare il governo della Chiesa per superare l’omertà, oppure come si deve ripensare la teologia del ministero o la formazione … – ma le domande vere le conoscono «carnalmente»”.

In un libro di testimonianza Patrick Goujon, gesuita del Centre Sèvres di Parigi, racconta la sua esperienza e il suo percorso: vittima di abuso da parte di un prete quando era bambino ripercorre i passaggi che l’hanno condotto ad una faticosa scoperta di quanto recava chiuso e inespresso nella sua memoria. Nel suo cammino di consapevolezza e nell’itinerario di fede che l’ha condotto alla scelta di divenire prete non ha evitato di affrontare domande scomode e dolorose. Qui alcuni squarci della sua testimonianza:

“Ho ritrovato la parola, sebbene ignorassi di esserne stato privato. Da bambino ho subìto per diversi anni abusi da parte di un prete. Un giorno mi è stato concesso di dirlo a me stesso, e poi di parlare. Mai avrei pensato che mi avrebbe fatto così bene (…) Mi ero forse, senza saperlo, domandato: «Ma dov’era il tuo Dio quando sei stato aggredito?». A questa domanda non so rispondere. Non ho mai creduto che Dio metta al riparo gli uomini dalla violenza, e ne ho avuto conferma nella sorte che è toccata al suo Figlio. Ma egli ascolta, ed è questo il suo modo di salvarci. Giobbe supplicava i suoi amici, sempre pronti a catechizzarlo senza mai prestargli ascolto: «Ascoltate bene la mia parola e sia questo almeno il conforto che mi date». Le consolazioni che cercano unicamente di ragionare sulla sofferenza sono illusorie. Siamo sottoposti alla prova del mancato intervento di Dio. Credo sia la faccia oscura della sua attenzione. Non ho mai detto a me stesso che il male che avevo subìto non avrebbe dovuto accadere in chiesa. Ho capito, sin dall’adolescenza, che essa non è esente da nessuno dei mali perpetrati dall’umanità. I suoi crimini mettono a nudo l’unica domanda che abbia un qualche valore porsi: come collocarmi, singolo in mezzo a tutti gli altri, di fronte alla violenza che scopro essere all’opera nell’umanità, dentro di me, e, a fortiori, in quelle donne e in quegli uomini che proferiscono un’etica fondata sull’amore del prossimo? Finché la Chiesa cattolica – per limitare il discorso ad essa – si crederà libera dal male, essa s’incamminerà sulla strada sbagliata. Come credenti, siamo chiamati a riconoscere che il male opera in essa, come in ogni gruppo umano e in ciascuno di noi. È fin troppo chiaro in che modo la coscienza di ciascuno di noi sia divisa. E questa divisione, manifesta nel male scelto deliberatamente, appare già nel momento in cui il nostro giudizio si ripiega nell’ombra e pensa che la sua mancanza di fermezza nello scegliere il bene potrà passare inosservata. La sola speranza è che il male non suggelli la condanna definitiva dell’intera umanità. È questo, credo, che testimonia Dio nella fede dei cristiani. Egli non ci intrappola in un giudizio di condanna, ma lancia un appello affinché ci allontaniamo da ciò che ci impedisce di vivere. Ci rimette così alla nostra propria responsabilità.” (da P.C.Goujon, In memoria di me. Sopravvivere a un abuso, EDB 2023)

Alessandro Cortesi op

Domenica II di Pasqua – anno A – 2023

At 2,42-47; Sal 117; 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31

“mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi'”

Nel racconto del IV vangelo dapprima è narrato il venire di Gesù e l’esperienza del riconoscimento di lui vivente; è poi presentata la missione dei discepoli. Il tutto avviene alla sera e in un luogo in cui i discepoli hanno condiviso la cena prima della passione. Sono questi elementi importanti perché racchiudono un valore simbolico: la sera è momento del buio, l’assenza di luce che accompagna l’intera vicenda della passione. Quando Giuda uscì dal cenacolo, annota il IV vangelo, ‘era buio’, e così pure quando vennero ad arrestarlo con armi e lanterne, uniche luci nelle tenebre. E’ sottolineata poi la realtà di un buio interiore del rifiuto e della disperazione. Per contrasto la vicenda di Gesù è presentata come luce: ‘in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini…”.

Così il luogo dove sono i discepoli richiama quello stesso della cena, al loro mangiare insieme di Gesù e ai suoi gesti di quel momento. Ma ora i discepoli non vivono più i sentimenti di quel momento ma sono presi dalla paura, chiusi come il luogo dove si trovano, bloccati nel timore. In questo contesto di buio e di paura essi fanno esperienza di una novità e di capovolgimento non dovuto alla loro iniziativa ma che li ha coinvolti in un’esperienza inattesa e gratuita. L’incontro con Gesù risorto è presentato come esperienza più forte delle porte chiuse. Essi sperimentano nel loro cuore che la paura è stata vinta. Anche la morte non ha più potere.

Fanno esperienza di un venire loro incontro di Gesù che li raduna ancora attorno a sé stando al centro del loro ritrovarsi: stette in mezzo a loro. Il racconto offre una veste narrativa ad esperienza interiori e profonde. Le narrazioni dette ‘apparizioni’ di Gesù nei vangeli sono il racconto dell’esperienza della prima comunità dopo la Pasqua: i discepoli non attendevano nulla e l’iniziativa di farsi incontro è di Gesù stesso. La sua presenza non è programmata, il suo venire irrompe gratuitamente e suscita stupore. Il suo farsi ‘vedere’ non è riconosciuto ma chiede un percorso di apertura. E’ questa l’indicazione che l’incontro con Gesù risorto si è compiuto nel maturare un’esperienza di affidamento. E quella esperienza di fede della prima comunità è messaggio rivolto a noi, alla nostra esperienza di fede. Siamo invitati a riconoscere Gesù vivo e presente nella nostra vita con uno sguardo trasformato, capace di un vedere nuovo.

Il primo saluto di Gesù risorto è un dono di pace. E’ dono che va letto in rapporto alle ferite delle mani e del costato mostrate ai discepoli. Chi ‘venne’ non è un altro: è il crocifisso risorto. Nell’offrire come dono la pace si attua una rivelazione: ‘mostra’ ai suoi discepoli le ferite. Nei IV vangelo il tema della pace è connesso alla passione e risurrezione di Gesù (14,27; 16,33; 20,19-26). E’ pace diversa da quella del mondo: non elimina morte e sofferenza, ma apre ad accogliere il cammino di Gesù: ‘Io ho vinto il mondo’ (Gv 16,33).

I discepoli riconoscono nei segni delle mani e dei piedi i segni del servo, dell’agnello. E ‘gioirono’. Il secondo dono della Pasqua è la gioia. E’ una gioia particolare: perché apre ad accogliere la gioia del Padre e la gioia di Cristo che si è consegnato. E’ una gioia che non dimentica la croce, ma che proprio nella croce legge il manifestarsi di un volto come amore che si dona. In questo sta la ‘gloria’ di Dio. La’ dove vi sono pace e gioia sono presenti i segni del Risorto e vi sono tracce per poterlo riconoscere presente. In ogni percorso umano in cui la pace è praticata per superare conflitti e laddove c’è apertura alla gioia che conduce a superare paure, lì vi sono tracce della presenza del Risorto.

Nella seconda parte di questa pagina racconto Gesù compie un invio. Rende partecipi di una missione: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi… alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo “. I discepoli sono inviati a  continuare l’opera di Gesù. Nell’invio Gesù dona lo Spirito: si attua una ricreazione, come quando ad Adamo fu dato lo spirito (Gen 2,7) e come quando al popolo disperso nel deserto di ossa inaridite lo Spirito riportò vita (Ez 37,9). I primi discepoli di Gesù vissero dopo i giorni di Gerusalemme della sua passione una trasformazione che vissero come dono. Da lì ha inizio la missione di portare una corrente di dono. Gesù chiede ai suoi di continuare la sua missione. E’ lo Spirito il grande protagonista dell’esperienza della fede e della testimonianza che da quel momento ha inizio.

Alessandro Cortesi op

Riflettendo sul dono della pace e dello Spirito…

“La pace e la giustizia devono essere comprese e interpretate l’una alla luce dell’altra. L’insistenza dei profeti sulla giustizia ci mette in guardia dall’arrenderci all’ingiustizia e dallo scendere a compromessi con essa, dalla passività che è codardia, dalla complicità o dalla preservazione della nostra propria pace a spese di altri, specialmente dei deboli che non hanno voce e potere per difendere la loro dignità e i loro diritti. Come cristiani, noi crediamo che la vera pace sarà assicurata dalla sequela di Cristo, anche se spesso noi rifuggiamo dal seguirlo fino in fondo. La rinuncia alla violenza scaturisce da quell’amore che si rivolge anche al nemico per trasformarlo e per superare l’inimicizia e la violenza. Questo amore è pronto a soffrire in un modo attivo. Esso smaschera il carattere ingiusto dell’atto violento, rende responsabile chi usa violenza, invita il nemico a una relazione di pace (Mt 5,38-48; Gv 18,23). La via della nonviolenza è contrassegnata dalla promessa di Gesù di una terra di pace (Mt 5,5). Anche nel riconoscere il problema dell’autodifesa e il dovere dello stato di proteggere i suoi cittadini, dobbiamo sempre confrontarci con la vita, con l’insegnamento e l’esempio di Gesù Cristo”.

(…)

il processo ecumenico a favore della giustizia, della pace, della salvaguardia del creato, è, prima di tutto, opera dello Spirito santo. In unione con lo Spirito possiamo continuare a impegnarci con gioia e con coraggio. Crediamo che lo Spirito santo è la più profonda sorgente della vita, della giustizia, della pace, della salvaguardia del creato.

(dal documento finale della Assemblea ecumenica europea ‘Pace nella giustizia’ – Basilea 1989)

VI domenica tempo ordinario – anno A – 2023

Sir 15,6-21; 1Cor 2,6-10; Mt 5,17-37

“Se vuoi osservare i suoi comandamenti, essi ti custodiranno; se hai fiducia in lui, anche tu vivrai…. Grande infatti è la sapienza del Signore”

Il messaggio dei libri sapienziali è indicazione per un cammino di vita. L’incontro con Dio si realizza nell’operare quotidiano, nelle vicende ordinarie della vita, nel fare e nell’agire dei giorni. Anzi, il senso più profondo dell’esistenza, che è orizzonte da condividere con ogni essere umano in ricerca, si apre quando si coltiva la disponibilità ad accogliere un dono, la sapienza, che è modo di leggere le cose,  sguardo alle dimensione essenziali del vivere. I libri sapienziali indicano così l’attitudine di affidamento al Signore, che è sorgente di sapienza, quale via per ritrovare il significato profondo dell’esistere e rispondere ai più profondi interrogativi del cuore. Si pensa che l’uomo religioso debba custodire e osservare una legge. Il saggio Ben Sira indica invece i comandamenti, cioè le parole del Signore saranno loro a custodire la vita. Nella fede si è custoditi da una parola che guida e orienta la vita. I comandamenti sono questo, parola come luce e guida ad un percorso di affidamento e di vita. Grande è la sapienza del Signore e ogni itinerario di ricerca di sapienza è apertura ad incontrare tale sorgente.

“parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo… lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio”.

Anche Paolo parla di sapienza. Dietro alle sue parole sta la sua esperienza di uomo religioso che ad un certo punto ha vissuto l’evento sconvolgente  di essere afferrato dal Signore Gesù Cristo, la scoperta che il suo impegno religioso era sovvertito dalla forza di un dono radicale che gli chiedeva solo affidamento e riconoscimento della gratuità della grazia. Paolo scopre che la sapienza di Dio ha un volto paradossale: si è manifestata in ciò che umanamente è debolezza e follia. Gesù Cristo, e questi crocifisso, è la sapienza di Dio. Paolo si è lasciato cambiare da questa scoperta sconvolgente e su di essa ha impostato tutta la sua vita. E’ una sapienza che non corrisponde ai criteri della forza, della violenza, della ricerca di potere e di grandezza. Non è sapienza come quella di chi domina il mondo in tanti modi. E’ diversa. Paolo scorge la comunicazione dello Spirito santo, che comunica la vita stessa di Dio nella sua profondità. E’ una sapienza che porta a vivere  la follia e la debolezza della croce, nel porre il riferimento a Gesù come criterio decisivo per la vita.

“se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”. Gesù non è venuto per indicare una nuova legge, né ha inteso fondare una nuova religione. Neppure il suo intento è tratteggiare le linee di una nuova etica. La sua preoccupazione fondamentale è richiamare all’incontro con il Dio vicino e liberatore. Non è questione solo di parole ed è incontro che coinvolge la vita e la orienta in rapporti nuovi con gli altri. Così Gesù richiama alla legge di Israele come cammino di vita ma tale riferimento va oltre, con richiami alla radicalità e all’interiorità di tale incontro.

Si tratta di vivere una giustizia, – nel senso di biblico di fedeltà all’alleanza perché Dio stesso è giusto in quanto fedele – nei termini di un’attenzione che giunge alla radice  di quelle parole di Dio che custodiscono la vita. Da qui l’indicazione di un compimento che si attua nell’andare oltre le prescrizioni, ma interroga l’orientamento di fondo del cuore e chiede un cuore rinnovato. Non è sufficiente non uccidere, l’orizzonte che Gesù apre è quello di una scelta di scorgere nell’altro un tu da incontrare . Non basta non commettere adulterio: Gesù richiama ad uno sguardo verso l’altro che riconosca dignità e che non renda le persone strumenti e oggetti da usare e scartare. Non basta non giurare il falso. Si tratta di vivere un orientamento di dirittura, di ricerca della verità e di trasmissione della verità.

Gesù richiama ad una giustizia sovrabbondante che è accoglienza della fedeltà-giustizia di Dio che non viene meno alla sua promessa e alla sua benedizione.

Alessandro Cortesi op

Grande è la sapienza del Signore

La teologia femminista costituisce da tempo un vivace laboratorio di pensiero che propone una conversione nelle modalità di pensare Dio in rapporto all’umanità. A partire dalle esperienze di contrasto della discriminazione e di oppressione delle donne, le teologhe femministe aprono innanzitutto a ad una rilettura degli scritti biblici posti in dialogo con l’esperienza delle donne e questo impegnativo lavoro conduce ad una conversione: può maturare un nuovo modo di guardare alla femminilità, aprendola ad orizzonti di liberazione, ed insieme la necessità di ripensare il linguaggio stesso su Dio.

Intraprendere una ricerca per non rinchiudere Dio entro schemi che sono proiezioni di rapporti di potere umani e giustificazione di meccanismi di oppressione patriarcale è passaggio importante in una ricerca di fede. Ciò conduce a porre in crisi immagini di Dio al maschile formulate nel quadro di culture androcentriche e aprirsi a considerare nuove immagini che rimangono sempre esili tracce per accostarsi al mistero di una presenza ineffabile ma anche vicina e che pervade l’universo. Dio è il vivente, fonte di ogni vita e novità, sorgente di ogni essere.

Rintracciare nella Bibbia i modi in cui si parla di Dio con metafore che non si limitano solo a quelle maschili, che hanno avuto il maggiore uso nelle tradizioni teologiche, apre ad una considerazione nuova del rapporto stesso con Dio, nella sottolineatura della sua alterità radicale e dell’impossibilità di darne una definizione, ed anche nella indicazione di metafore tratte dall’universo femminile. Da qui si apre la possibilità di un linguaggio teologico nuovo che parla di Dio come femmina, Madre, amica, levatrice, sposa. E ciò ha conseguenze importanti sul modo di concepire il rapporto con Dio. Si apre a considerare il volto di Dio come ‘Colei che è’.

In tale ricerca una attenzione particolare è stata rivolta alla nozione di Sapienza. Sapienza nel Primo Testamento è utilizzata per indicare il mistero di Dio nel suo rapporto di creazione e di salvezza con il mondo. Le azioni della Sapienza descritte nei libri sapienziali coincidono con l’azione di Dio stesso. La fede monoteistica di Israele concepisce tale azione della Sapienza/ Sophía non come una presenza che si affianca all’unico Dio ma quale modo per indicare il comunicarsi e il relazionarsi di Dio con il mondo: la Sapienza è quindi un modo per esprimere che Dio si rivela al cosmo e all’umanità, dona la sua presenza e comunica la salvezza. In qualche modo la figura femminile della Sapienza indica la presenza dell’unico Dio nel mondo. Nella teologia femminista si è così articolata, a partire da una rilettura di tali riferimenti biblici una ricerca sul mistero di Dio come Sophía che, nella prospettiva cristiana, conduce a ripensare il modo di parlare su Dio anche in rapporto a Gesù ed allo Spirito. 

“Sophía-Spirito, amica, sorella, madre e nonna del mondo costruisce relazioni di solidarietà, e non antitesi, tra Dio e gli esseri umani tra di loro e con la terra. Conservati nel suo affetto, gli esseri umani sono chiamati a essere compagni autentici di tutte le creature, promuovendo la giustizia e una vita solidale, mentre non vengono sminuiti o indeboliti da una volontà dominante. Come per l’amore e il dono, queste concise metafore indicano lo Spirito di Dio dialetticamente presente e attivo nel mondo, che fortifica la prassi umana nell’alleanza con il suo proposito di vita piena per tutti. Parlare dello Spirito con i nomi di processione d’amore, amore mutuo, dono dato liberamente, e con le immagini di amica, sorella, madre e nonna indica un programma per la vita umana: siamo amati affinché amiamo; riceviamo per donare; siamo resi amici per poterci rivolgere al mondo come sorelle e fratelli in un’amicizia redentrice e liberante” (Elizabeth Johnson, Colei che è. Il mistero di Dio nel discorso teologico femminista, Queriniana, Brescia 1999, 294-295)

Alessandro Cortesi op

IV domenica di Pasqua – anno C – 2022

At 13,14.43-52; Ap 7,9.14b-17; Gv 10,27-30

Ad Antiochia di Pisidia Paolo e Barnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. ». La scelta di Paolo e Barnaba è in continuità con la fede ebraica ed approfondimento di essa: è ispirata dal coraggio che la Parola di Dio suscita e sorge da tale fedeltà. L’annuncio della Parola si apre così al mondo dei pagani. E’ un decisivo punto di svolta. Ad Antiochia tale passaggio trova il suo fondamento nell’annuncio profetico: Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra” (Is 49,6). Il servo di Jahwè è presenza di luce che porta la salvezza oltre i limiti dell’appartenenza ad un popolo o ad una religione. Le parole di Paolo e Barnaba sono dono di un messaggio di salvezza ed insieme critica a tutte le religioni che rinchiudono e non accolgono il disegno di Dio che va oltre le costruzioni e strutture religiose umane. Indicano così l’orizzonte della fede nella promessa di Dio. La scelta di universalità affonda le sue radici nelle benedizioni di Dio per Israele e per tutte le nazioni. Paolo e Barnaba ad Antiochia sperimentano che la parola di Dio è fonte di gioia e di forza. Le loro scelte sono condotte con il coraggio, la franchezza che deriva dalla fede. Pur tra le difficoltà “i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito santo”. L’apertura dell’annuncio ai pagani è opera dello Spirito che conduce a vivere la gioia e la serenità profonda anche nel momento della prova.

L’immagine del gregge e del pastore al cuore della pagina del vangelo offre una declinazione di questo messaggio di apertura. Gesù parla di coloro a cui è inviato con l’immagine delle pecore. C’è un rapporto di ascolto e di intimità unico: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Ma l’orizzonte a cui Gesù guarda è sempre più vasto e va oltre ogni chiusura. Queste parole vanno intatti accostate alla parte iniziale della similitudine del pastore: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore” (Gv 10,16-17)

La cura del pastore sta nel poter dare loro la vita eterna: nel linguaggio giovanneo ‘vita eterna’ non è qualcosa di fumoso ed estraneo all’esistenza ma indica la risposta alla sete più profonda di vita che ogni persona porta nel cuore. Vita eterna significa essere accolti e amati, sperimentare la comunicazione e la pace nell’incontro con Dio – fonte della vita -. Nell’incontro con Gesù questo dono fa sorgere possibilità di rapporti nuovi con gli altri. Per questo la vita eterna inizia sin dal presente di color che accolgono la parola di Gesù, ed accolgono il dono dell’incontro con lui che si attua nel conoscerlo.

La pagina dell’Apocalisse testo profetico di annuncio della fede in un tempo di prova e persecuzione presenta la visione di una moltitudine immensa. Il dono di salvezza abbraccia ogni popolo. “Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani”. E’ questa la moltitudine di coloro che hanno vissuto la prova, provengono da ogni dove e hanno tra le mani i segni della vittoria sul male. Sono volti di una moltitudine che ha sofferto ed è stata vittima della violenza. Segue una reinterpretazione del salmo 23, rivolto a Dio come pastore d’Israele. La visione termina con una parola di speranza e di consolazione: “Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”.

La presenza di Cristo risorto, indicato nella figura dell’agnello ferito e in piedi, è al centro di una comunione che si estende a comprendere tutta l’umanità condotta alle sorgenti della vita, quando Dio stesso asciugherà ogni larcima. La sua presenza apre speranza di vita per tutti.

Alessandro Cortesi op

Ascolto dello Spirito

“La chiesa sinodale è chiesa dell’ascolto”. Si tratta di prestare un ascolto aperto a quello che lo Spirito Santo sta suggerendo alle chiese in questo momento.

In un orizzonte di ascolto la sinodalità non è frutto di una invenzione ma accoglienza di un dono e della dimensione della chiesa come popolo di Dio che proprio lo Spirito fa riscoprire. Ed è popolo di Dio in cammino verso il regno. “La forma e lo stile snodale della chiesa scaturiscono da questo ascolto dello Spirito che passa attraverso l’ascolto reciproco di tutti” (M.Grech, Momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale 9 ottobre 2021). Queste indicazioni sono state presentate da Mario Grech, segretario generale del sinodo, quando ha sottolineato che la fase cosiddetta preparatoria è parte integrante del processo sinodale e non è solo una parte decorativa e accessoria.

Ascoltare lo Spirito: questa è stata l’attitudine dei primi discepoli, capaci di accogliere aperture inedite a fronte di un ascolto dello Spirito nella vicenda storica e umana. 

Dopo secoli di cristianesimo la fatica da intraprendere nuovamente consiste nel lasciare spazio a tale ascolto. Ben altre direzioni hanno segnato i percorsi delle chiese. Ha per lo più dominato l’indirizzo di inseguire le logiche del potere politico e culturale: la sua affermazione con un ruolo di potere ha condotto a privilegiare gli aspetti di stabilizzazione, di strutturarsi quale istituzione guida della società, tralasciando la fatica di un ascolto che sempre pone in movimento, apre all’inquietudine, fa accogliere chi è ai margini, spinge a nuovi passaggi. Si è perduta la consapevolezza e l’esperienza della provvisorietà insieme alla disponbilità a rispondere ad un’azione che viene da Dio stesso:

«Solo Dio può generare qualcuno che possa partecipare alla sua vita. Allora la domanda che dobbiamo farci non è: come farà la Chiesa a suscitare nuovi cristiani? Quali strategie pastorali dovrà essa adottare per diventare più efficace? […] Dobbiamo invece porci su un altro piano: cosa accade fra Dio egli uomini e le donne che vivono all’alba di questo secolo? Quali percorsi prende Dio per incontrarsi con essi e farli nascere alla sua vita? E quindi cosa chiede alla Chiesa di cambiare, trasformare nella sua maniera tradizionale di credere e vivere, per assecondare quell’incontro?» (Henri Derroitte, Iniziazione e rinnovamento catechetico. Criteri per una rifondazione della catechesi parrocchiale, in ID. (ed.), Catechesi e iniziazione cristiana, Elledici, Torino 2006, 53).

Questo passaggio è particolarmente difficile oggi perché siamo eredi di una storia in cui la chiesa è stata portatrice di una situazione del cristianesimo divenuto religione culturale: la condizione di cristianità ha segnato molti secoli in cui  il cristianesimo costituiva il quadro di riferimento universale e la chiesa si identificava con l’istituzione alla guida di un mondo culturale religioso e cristiano.

Una religione culturale si connota come unica opzione culturale per una società e non può ammettere la presenza di altre religioni o di altre convinzioni: da qui gli atteggiamenti di discriminazione e persecuzione delle minoranze e delle altre tradizioni religiose.

Tale orientamento ha trovato un primo passaggio di crisi nella rottura della cristianità dopo la riforma protestante: si è manifestata una divisione che poneva diversi riferimenti secondo il principio del cuius regio eius et religio.

Ma soprattutto dopo la rivoluzione francese con la rivendicazione della libertà e la progressiva secolarizzazione della cultura emerge un nuovo tipo di società in cui il cristianesimo non costituisce più la religione culturale ma si delinea un modo di vivere in cui convivono diversi orientamenti religiosi e non, con la presenza di convinzioni non religiosamente ispirate. In Europa particolarmente. Noi siamo posti nel tempo di questa transizione che attraversa i secoli nella storia dell’occidente ed già era stato intravisto nella riflessione dei padri al Concilio Vaticano II quale passaggio storico decisivo da una cultura religiosa ad una cultura secolarizzata.    

Come osserva Joseph De Kesel cardinale di Bruxelles nel suo libro Foi et religion dans une société moderne (Salvator, Paris 2021,49): “la cultura moderna offre un quadro che ci consente di vivere insieme nel rispetto della libertà di ciascuno. Se la libertà appartiene ai diritti fondamentali di ogni essere umano e di ogni cittadino, questo diritto vale anche per il mio prossimo e concittadino che è differente da me. In una società moderna e democratica, i poteri pubblici garantiscono questa libertà ad ogni cittadino e ad ogni minoranza. Tutti devono rispettare queste regole. Non sono i precetti religiosi a garantire la vita nella società”.

Benché questa situazione di secolarizzazione non possa divenire una sorta di religione alternativa – che sostituisce e riempie il vuoto del venir meno delle religioni – tuttavia è un quadro culturale nuovo e diverso rispetto a secoli passati. E’ bene infatti a tal proposito distinguere secolarizzazione da secolarismo. La fede cristiana non è più l’opzione della cultura stessa e si pone accento sull’importanza della libertà che è fondamentale anche per l’atto stesso della fede. La condizione di secolarizzazione diviene così occasione per vivere pienamente questa situazione di libertà del credere di uscire dalla condizione in cui la fede veniva identificata con il riferimento culturale unico di una società.

La domanda che si pone quale sfida rilevante oggi è come imparare ad essere chiesa in questa situazione che implica un cambiamento profondo di mentalità ed insieme una riforma che investa i modi di vivere e trasmettere la fede ed anche le strutture di chiesa.

Alessandro Cortesi op

XXVI domenica del tempo ordinario – anno B – 2021

Nm 11,25-29; Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48

Nel deserto, nel cammino dell’Esodo Mosè sceglie settanta fra gli anziani di Israele quale aiuto per guidare il popolo. Ricevono il dono dello spirito di profezia. Ma improvvisamente Eldad e Medad, che non erano tra quelli prescelti ed erano rimasto nell’accampamento furono investiti dallo spirito e ‘si misero a profetizzare’. Tale evento suscita sorpresa e disorienta perché qualcuno esterno al gruppo istituito ha ricevuto un dono particolare e si fa portatore della parola di Dio – vive il compito di profeta – senza essere istituito tale. Mosè a fronte delle rimostranze risponde: “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!”.

Queste parole manifestano lo sguardo lungo di Mosè, il suo essere uomo di Dio, capace di scorgere che Dio va al di là delle gabbie religiose in cui l’istituzione racchiude la sua parola e il suo dono. Invita ad accogliere la libertà dello Spirito che non può essere racchiuso nei progetti e nelle strutture umane. Mosè suggerisce di accogliere con disponibilità quanto lo Spirito suscita anche al di fuori delle appartenenze costituite. E indica anche un orizzonte di promessa: è il sogno che tutti siano profeti nel popolo del Signore, testimoni del suo agire. Nella profezia di Eldad e Medad si rende presente l’azione dello Spirito che soffia dove vuole. C’è una profezia da ascoltare e accogliere al di fuori e oltre ogni barriera e sistema religioso. Sta in questa apertura il segreto che rende disponibili

La pagina del vangelo raccoglie alcuni brevi insegnamenti di Gesù che rinviano al suo stile. Di fronte a qualcuno fuori del gruppo dei discepoli che opera miracoli come segni di liberazione i discepoli reagiscono dicendo che non è ‘uno dei nostri’. Ancora si manifesta la mentalità di chiusura e di incapacità a scorgere il soffio di Dio al di fuori dei confini stabiliti. Gesù per contro invita a riconoscere i segni della presenza dello Spirito e non vivere nella chiusura, nell’autoreferenzialità e nell’atteggiamento di chi sempre vede negli altri un pericolo. “non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi”.

La vita al seguito di Gesù si riconosce non per atti di religiosità e di culto, ma per un operare quotidiano nei gesti più semplici: sono i gesti della accoglienza della cura, del conforto. “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa”.

Anche un bicchiere d’acqua offerto, un gesto quotidiano e quasi insignificante, è invece importante agli occhi di Gesù e lui indica che non andrà perduto. In ogni gesto che esprime un dono si rende presente la comunicazione di Dio stesso che è Dio della gratuità e della misericordia. Le parole di Gesù sono dure a fronte di chi offende i piccoli: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare”. Segue un forte invito a tagliare tutto ciò che può essere di impedimento e di inciampo (scandalo) a chi è più debole nella fede. Rompere con ogni occasione di male e di peccato è esigenza chiara di Gesù a chi desidera seguirlo. In queste parole emerge un forte appello a considerare il proprio cammino sempre in rapporto agli altri e a vivere un impegno di responsabilità che coinvolge tutta l’esistenza rifuggendo senza riserve ogni ipocrisia e doppiezza.  Le dure parole della lettera di Giacomo rivolte ai ricchi che opprimono il giusto si pongono in questa linea: non si può vivere rimanendo indifferenti alla sofferenza degli altri. Ogni tesoro diverrà ruggine, cioè rivelerà la propria inconsistenza e giungerà alla rovina se non è inteso secondo la logica della condivisione con i poveri. Nell’uso dei beni si attua una scelta di accoglienza o rifiuto del volto stesso di Dio.

Alessandro Cortesi

Responsabilità

“La vera emergenza migranti non è quella di cui parla la propaganda populista, ma quella che potrebbe abbattersi sull’Europa se non verranno governati gli sconvolgimenti meteo-climatici che già oggi attraversano il pianeta. E che domani rischiano di capovolgere gli equilibri geopolitici della comunità internazionale e i rapporti sociali ed economici dei Paesi occidentali. Stando ai dati presentati nell’ultimo rapporto della Banca Mondiale Growndshell entro il 2050 almeno 216 milioni di persone saranno costrette a migrare a causa del cambiamento climatico e delle sue conseguenze” (Francesca Santolini, La Stampa 23 settembre 2021).

Nella giornata mondiale del migrante e del rifugiato in questo tempo segnato dal perdurare della pandemia e dal maturare della consapevolezza dei danni arrecato dall’agire umano sull’ambiente si pone sempre più urgente la questione di tenere unita la considerazione della crisi ecologica e della questione climatica con la questione sociale. Il periodo della pandemia ha visto lo spropositato arricchirsi di pochi miliardari e l’impoverimento di intere popolazioni sul pianeta. Nel suo primo discorso al Congresso degli USA nell’aprile scorso Joe Biden ha indicato come 650 miliardari americani hanno aumentato il loro patrimonio netto di tremila miliardi di dollari in questo periodo. Mentre nel frattempo solamente negli USA venti milioni di persone perdevano il lavoro.

Alcuni esempi possono essere significativi: secondo la rivista Forbes Jeff Bezos risulta essere la persona più ricca del mondo nel 2021 con un patrimonio di 177 miliardi di dollari, con un incremento di 64 miliardi rispetto allo scorso anno per la crescita delle azioni di Amazon. Elon Musk è al secondo posto con 151 miliardi di dollari: ha aumentato il suo patrimonio di 126,4 miliardi in un anno dovuto all’aumento delle azioni di Tesla del 705%. Il francese Bernard Arnault ha quasi raddoppiato la sua fortuna, da 76 a 150 miliardi di dollari per l’aumento delle azioni di marchi come Louis Vuitton e Christian Dior. Seguono Bill Gates e Mark Zuckerberg con una crescita dell’80% delle azioni di Facebook.

Questi dati  lasciano senza parole pensando alla condizione di impoverimento che la pandemia ha aggravato per gran parte dell’umanità nel mondo: a titolo di esempio, e per richimaare attenzione nel disinteresse generale, si può menzionare la situazione del Libano in cui vi è mancanza di combustibile per le auto, la fornitura di energia elettrica è limitata e razionata durante il giorno impedendo le normali attività di ospedali e aziende, e gli stessi medicinali sono di difficile reperibilità nelle farmacie. E’ sconvolgente la situazione di ingiustizia globale che vede l’arricchimento dei super-ricchi mentre i poveri sendono sempre più in condizioni di indigenza. E tale arricchimento si attua in un fondamentale disinteresse verso la condizione globale del clima e dell’ambiente: si tocca quindi con mano l’insipienza del ricco che non si rende conto che i beni che possiede hanno un riferimento sociale ineludibile e che pensa di poter godere da solo la propria ricchezza disinteressandosi di una casa comune. L’impatto della crisi climatica non colpisce solamente le aree più povere del pianeta ma si sta già rendendo visibile nei suoi effetti disastrosi e nel generare spostamenti di popolazioni per fuggire dalle zone colpite da eventi estremi e calamità naturali e dal progressivo innalzamento delle acque.

In Fratelli tutti (2020) Francesco ha scritto: “in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso” (FT 123) E in Laudato sì (2015) ha ricordato che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata» (LS 93).

Una redistribuzione delle ricchezze attraverso una tassazione dei patrimoni e un deciso orientamento a impiegare risorse in scelte economiche di sincero rispetto dell’ambiente sono due sfide che l’attuale momento storico pone all’umanità intera.

Alessandro Cortesi op

XXI domenica ordinario – anno B – 2021

Gs 24,1-2a.15-17.18b; Ef 5,21-32; Gv 6,60-69

A Sichem Giosuè chiede alle tribù che avevano compiuto l’esodo e a quelle ritrovate nella terra di Canaan, una radicale decisione. A chi riferirsi come senso della propria esistenza? «Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore». E’ un passaggio decisivo che si pone continuamente nella storia biblica, di scelta di relazione con il Dio dell’alleanza oppure a favore di altri dèi a cui asservire la vita.

E’ domanda che conclude un lungo discorso in cui sono ricordate le tappe dl cammino nel deserto, gli interventi di Dio, la sua vicinanza. Giosuè chiede di scegliere chi servire e il popolo esprime la sua decisione: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto…”

La risposta non è di individui isolati ma di un popolo che dicendo ‘noi’ scopre che la sua identità trova radice in un rapporto vivente. Il Dio dell’esodo è presenza di ascolto, di vicinanza, di compassione, un Tu che ha camminato e accompagnato il faticoso cammino verso la libertà.  In questa storia di liberazione Dio è il primo protagonista. Conseguenza di servire a lui sarà anche quella di assumere una responsabilità di liberazione per tutti i popoli. Il passaggio dell’assemblea di Sichem è scelta di affidamento e di servire il Signore, il Dio santo, il Dio geloso. Egli è un Tu vivente, che ha manifestato la sua vicinanza nella storia.

La pagina del vangelo di Giovanni è conclusione del lungo capitolo 6 sul segno del pane. Le parole di Gesù lasciano interdetti, il suo linguaggio è duro. Il dono del pane se da un lato risponde alle attese e alla fame delle persone, d’altra parte rinvia anche ad un rapporto con lui che va oltre le attese, si fa esigenza di affidamento, di condivisione di vita, di seguirlo  attuando le scelte proprie del suo cammino. E Gesù si scontra con la durezza nell’aprirsi alla sua parola, con l’incredulità nei suoi confronti.

“È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita”. Gesù chiede ai suoi discepoli di passare ad un modo di conoscere nuovo affidandosi allo Spirito. Non è questione di capacità e di sforzo umano ma disponibilità ad accogliere un dono che viene da Dio, lo Spirito, che trasforma: significa rinascere dall’alto, lasciarsi cambiare per intendere le cose e la vita non secondo le forze e l’intelligenza umana, ma affidandosi alle parole di Gesù. Lo Spirito è dono per vivere in tale orizzonte: “lo Spirito santo, che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che io vi ho detto” (Gv 14,26)

La parola di Gesù rinvia al segno del pane, come dono della sua vita donata per tutti. Di fronte a queste parole anche i suoi più vicini cambiano atteggiamento: “Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”. Nelle parole di Pietro è racchiuso l’atteggiamento del credere come affidamento alle parole di Gesù, abbandono allo Spirito, e scorgono il tesoro della relazione con Gesù. Pietro si fa voce della scelta e dell’orientamento die discepoli: “noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». Nell’incontro con lui si apre la luce di un orizzonte nuovo per la vita, un senso profondo che non è solo attesa di un aldilà futuro: le parole di vita eterna che Pietro riconosce a Gesù aprono un nuovo modo di vivere sin dal presente nel condividere i suoi passi.

Alessandro Cortesi op

Siate sottomessi gli uni agli altri

La coincidenza tra l’annuncio della morte di Gino Strada e le notizie che giungono dall’Afghanistan è un dato su cui sostare. Dopo vent’anni, l’esito fallimentare di una guerra che ha prodotto cinque milioni di sfollati nel Paese, 241 mila morti, di cui circa 29 mila bambini, con una spesa per le armi con cifre inimmaginabili appare davanti agli occhi del mondo. La pretesa di ‘esportare la democrazia’ con i mezzi delle armi, ma di fatto coltivando solamente i propri interessi si sta sgretolando come una enorme costruzione di sabbia. La fuga da Kabul degli americani è esito di accordi siglati da tempo con i talebani e condotti senza considerazione della vita della popolazione che dimostra un fallimento non solo della logica della guerra ma anche l’ipocrisia di progetti di dominio che si infrangono nel pantano della corruzione da essi stessi generata.

“Non mi sorprende questa situazione, come non dovrebbe sorprendere nessuno che abbia una discreta conoscenza dell’Afghanistan o almeno buona memoria. Mi sembra che manchino – meglio: che siano sempre mancate – entrambe” (Gino Strada, Così ho visto morire Kabul, La Stampa 13 agosto 2021).

L’ultimo articolo scritto da Gino Strada è una triste riflessione che si accompagna, con il suo stile, ad una lucida analisi nella memoria – e a tal proposito ricorda come “Il 7 novembre 2001, il 92 per cento circa dei parlamentari italiani approvò una risoluzione a favore della guerra. Chi allora si opponeva alla partecipazione dell’Italia alla missione militare, contraria alla Costituzione oltre che a qualunque logica, veniva accusato pubblicamente di essere un traditore dell’Occidente, un amico dei terroristi, un’anima bella nel migliore dei casi” – e nella denuncia: “Le grandi industrie di armi ringraziano: alla fine sono solo loro a trarre un bilancio positivo da questa guerra. Se quel fiume di denaro fosse andato all’Afghanistan, adesso il Paese sarebbe una grande Svizzera. E peraltro, alla fine, forse gli occidentali sarebbero riusciti ad averne così un qualche controllo, mentre ora sono costretti a fuggire con la coda fra le gambe” (Gino Strada, Così ho visto morire Kabul, La Stampa 13 agosto 2021).

E’ riflessione da parte di chi ha condotto fino in fondo la scelta di stare accanto alle vittime e di soccorrere chi ha bisogno di cura, contrastando con l’inermità delle cure mediche il dolore e le ferite portate dalle guerre.

La sua morte, proprio nei giorni in cui si assiste allo sfaldarsi di un progetto di guerra durato vent’anni, è segno di una testimonianza capace di guardare oltre e di suggerire altre vie, in deciso contrasto con la logica del dominio con mezzi militari e nella chiara determinazione a spendere la vita nel soccorrere le vittime della violenza umana. 

“Cosa ci ha trasmesso la luminosa vicenda terrena di Gino Strada? Una consapevolezza che ha nutrito il nostro rapporto facendoci vivere anche momenti d’intensa condivisione. La consapevolezza che il male e l’ingiustizia si nutrono di passività, indifferenza, irresponsabilità. Che il male prospera laddove le coscienze sono troppo quiete o distratte” (Luigi Ciotti, Da sempre contro ogni ingiustizia, La Stampa 14 agosto 2021).

Alessandro Cortesi op

Ascensione del Signore – anno B – 2021

Ascensione, dai Vangeli di Rabbula, VI sec. d.C. Miniatura su pergamena, 34 x 27 cm. Folio 13v. Firenze, Biblioteca Laurenziana

At 1,1-11; Ef 1,17-23; Mc 16,15-20

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,11)

La narrazione dell’ascensione è un altro modo per esprimere l’evento della Pasqua. Il crocifisso non è rimasto rinchiuso nel buio della morte ma ha vinto la morte con il suo amore ed è vivente in modo nuovo.

La comunità dei suoi discepoli è chiamata a vivere nell’assenza di Gesù, in un vuoto che tuttavia è abitato dalla promessa di un incontro.  Verrà: l’umiliato nella morte, tornerà nella gloria. Ma la sua presenza non è solo attesa in vista del ritorno. Si apre sin d’ora la possibilità di vivere un incontro con lui in modo nuovo, nella comunità, nei segni da lui lasciati in sua memoria, nell’operare dello Spirito che anima la missione dei credenti.

Di fronte alle richieste degli apostoli di ‘conoscere i tempi e i momenti’, ossia di dominare il futuro, Gesù invita a non lasciare spazio ad una curiosità che impedisce di guardare al presente e di aprirsi a lui in modo nuovo. Invita per questo ad attendere: è attesa fondata sulla promessa del Padre, sulla sua fedeltà. Ed è attesa di ricevere la forza dello Spirito, fonte della testimonianza. Lo Spirito è il dono di Cristo risorto: il suo agire nella comunità continua per mezzo dello Spirito. Dopo la Pasqua non sarà più possibile incontrare Gesù come prima, ma nella forza dello Spirito.

‘Una nube lo sottrasse al loro sguardo’: la nube nella Bibbia rinvia alle teofanie. La sua presenza è quella di Dio che si fa vicino e chiede uno sguardo rinnovato capace di scorgere i segni che ci ha lasciato: lo Spirito guida nell’esperienza dell’incontro con lui nella fede e rende testimoni della sua risurrezione: ‘voi mi sarete testimoni’.

Ascensione è festa della comunità. Gesù non lascia la sua chiesa, ma dona lo Spirito, presenza-dono che conduce ad entrare nella relazione di amore del Padre e del Figlio. La comunità è coinvolta in questa chiamata ad essere segno della comunione del Padre del Figlio e dello Spirito. Nella chiesa si attua allora una molteplicità di doni e una diversità di servizi, frutto dell’azione dello Spirito; nell’accogliere molteplicità e varietà, la chiesa è chiamata ad offrire testimonianza di unità come comunione:

“Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo” (Ef 4,11-12).

Gesù affida ai suoi il mandato: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura…”. Li invia a continuare quanto egli ha vissuto, l’annuncio della bella notizia del ‘regno’ (cfr Mc 1,12) e la testimonianza di segni di liberazione e di novità di vita (Mc 1,32-34). La Pasqua è evento che compie la signoria di Cristo sulla storia e sul mondo, una signoria particolare perché signoria del servizio e dell’amore fino alla fine. I discepoli sono inviati ad un camminare e operare che li supera e sta dentro a quanto essi vivono: “Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni che l’accompagnavano” (Mc 16,20).

Alessandro Cortesi op

Non dimenticare Gerusalemme

“Con tutti i Capi delle Chiese, siamo “profondamente scoraggiati e preoccupati per i recenti episodi di violenza a Gerusalemme Est, sia alla Moschea di Al Aqsa che a Sheikh Jarrah, che violano la santità del popolo di Gerusalemme e quella di Gerusalemme come Città della Pace,” e richiedono un intervento urgente. La violenza usata contro i fedelimina la loro sicurezza e il loro diritto di avere accesso ai Luoghi Santi e di pregare liberamente. Lo sgombero forzato dei palestinesi dalle loro case a Sheikh Jarrah è un’altra inaccettabile violazione dei diritti umani fondamentali, quello del diritto a una casa. È una questione di giustizia per gli abitanti della città vivere, pregare e lavorare, ciascuno secondo la propria dignità; una dignità conferita all’umanità da Dio stesso”.

Così si esprime la dichiarazione del patriarcato latino di Gerusalemme del 9 maggio 2021 (riportata integralmente dal sito www.oasiscenter (https://www.oasiscenter.eu/it/dichiarazione-patriarcato-latino-gerusalemme-violenze-gerusalemme)  

La dichiarazione riprende le affermazioni dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani secondo cui con tali determinazioni  lo stato di diritto viene “applicato in modo intrinsecamente discriminatorio”. La questione del quartiere di Sheikh Jarrah non è una disputa tra privati ma è denunciato nei termini di “un tentativo ispirato da un’ideologia estremista che nega il diritto di esistere a chi abita nella propria casa”.

La dichiarazione ricorda anche il diritto di accesso ai Luoghi santi e denuncia le manifestazioni di forza con cui è stato negato tale diritto ai palestinesi proprio durante il mese di preghiera di Ramadan alla moschea di Al Aqsa.

“Queste manifestazioni di forza feriscono lo spirito e l’anima della Città Santa, la cui vocazione è quella di essere aperta e accogliente; di essere una casa per tutti i credenti, con pari diritti, dignità e doveri. La posizione storica delle Chiese di Gerusalemme è chiara circa la denuncia di ogni tentativo inteso a rendere Gerusalemme una città esclusiva per chiunque.”

Viene richiamato il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite che se fossero attuate costituirebbero una via di soluzione al conflitto in atto e potrebbero aprire la via per un riconoscimento di due Stati e per porre fine alle politiche di discriminazione di violazione continua e quotidiana di diritti umani fondamentali perseguite dall’amministrazione di Israele nei confronti dei palestinesi. La dichiarazione ricorda che Gerusalemme è città sacra alle tre religioni monoteiste “in cui il popolo palestinese, composto da cristiani e musulmani, ha lo stesso diritto di costruirsi un futuro basato sulla libertà, l’uguaglianza e la pace”.

E’ poi richiamato che la costruzione della pace richiede innanzitutto l’attuazione di rapporti di giustizia e riconociemnto dei diritti umani. Sulla base dell’ingiustizia nessuna pace sarà possibile: “Nella misura in cui i diritti di tutti, israeliani e palestinesi, non saranno sostenuti e rispettati, non ci sarà giustizia e quindi nessuna pace nella città. È nostro dovere non ignorare l’ingiustizia né alcuna aggressione contro la dignità umana, indipendentemente da chi le commette. Chiediamo alla Comunità Internazionale, alle Chiese e a tutte le persone di buona volontà di intervenire per porre fine a queste azioni provocatorie e di continuare a pregare per la pace di Gerusalemme”.

“Siamo sull’orlo di un baratro. Scene da buio della specie, con linciaggi da una parte e dall’altra, assalto a sinagoghe e moschee, vanno condannate e fermate. Non è questo odio tra i popoli che serve anche e soprattutto alla parte infinitamente più debole, quella palestinese, come dimostra la sproporzione delle vittime. Questo odio ci ripugna e probabilmente chiama in causa le tre religioni monoteiste che sul Medio Oriente qualche responsabilità nel conflitto ce l’hanno. Ora occorrerebbe invece una vera mobilitazione democratica, consapevole del precipizio rappresentato da un’altra guerra in Medio Oriente e nel già mortale Mediterraneo, perché la crisi di Gerusalemme è il cuore della crisi internazionale”. Così scrive Tommaso Di Francesco (Un silenzio complice dell’orrore, “il manifesto” 14 maggio 2021) osservando: “E insieme servirebbe una vera iniziativa diplomatica internazionale per fermare la crisi arrivata sull’orlo del baratro. Purtroppo in verità, guardando quel che accade e ai veti nel Consiglio di sicurezza Onu, non c’è né l’una né l’altra (…) Del resto di che sorprendersi, così si porta a termine l’espulsione definitiva anche nel luogo più simbolico, dove i militari israeliani sparano, in pieno Ramadan, come in un tiro segno. Infatti nella Cisgiordania occupata centinaia di insediamenti dei coloni integralisti hanno espulso così tanti palestinesi dalla loro terra che non esiste più la continuità territoriale perché nasca uno Stato palestinese – senza dimenticare il Muro, lo sradicamento violento delle colture, l’abbattimento delle case, i posti di blocco che spezzano la vita, la repressione quotidiana con uccisioni che non fanno notizia nei media occidentali, le migliaia di detenzioni arbitrarie”.

Così in un’intervista all’agenzia AdnKronos ha affermato Moni Ovadia, artista musicista e scrittore di origine ebraica: “La politica di questo governo israeliano è il peggio del peggio. Non ha giustificazioni, è infame e senza pari. Vogliono cacciare i palestinesi da Gerusalemme est, ci provano in tutti i modi e con ogni sorta di trucco, di arbitrio, di manipolazione della legge. (…) Io sono ebreo, anch’io vengo da quel popolo. Ma la risposta all’orrore dello sterminio invece che quella di cercare a pace, la convivenza, l’accoglienza reciproca, è questa? Dove porta tutto questo? Il popolo palestinese esiste, che piaccia o non piaccia a Netanyahu. C’è una gente che ha diritto ad avere la propria terra e la propria dignità, e i bambini hanno diritto ad avere il loro futuro, e invece sono trattati come nemici”. (intervista adnkronos 11.05.21 https://www.adnkronos.com/moni-ovadia-politica-israele-infame-e-senza-pari-strumentalizza-shoah_3151RAi6zwnLmC7HGWrGLY)

Il pensiero di questi giorni pasquali corre a Gerusalemme, città che reca in sé una chiamata e un sogno di pace ma in cui ancora in questi giorni si rendono presenti i gesti della sopraffazione, dell’ingiustizia e della violenza. L’attenzione a quanto sta avvenendo a Gerusalemme e in Palestina riporta alle parole di Gesù  “ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme ma di attendere l’adempimento delle promesse del Padre” (At 1,4) e all’impegno a pregare e operare perché non sia lasciato spazio a ideologie estremiste che negano possibilità di vivere al popolo palestinese  e perché l’orientamento a percorrere sentieri di giustizia applicando le risoluzioni dell’ONU possa aprire a nuova stagione di pace e non di guerra.

“Se mi dimentico di te, Gerusalemme, / si dimentichi di me la mia destra; / mi si attacchi la lingua al palato / se lascio cadere il tuo ricordo, / se non innalzo Gerusalemme / al di sopra di ogni mia gioia” (Sal 137,4-6).

Alessandro Cortesi op  

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