XIV domenica tempo ordinario – anno C – 2022
Is 66,10-14; Gal 6,14-18; Lc 10,1-2.17-20
“quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo”. Il messaggio dello scritto ai Galati è un annuncio della libertà cristiana in contrasto con il rischio, sempre presente, dello svuotamento del vangelo. Paolo affronta la questione delle richieste per seguire Gesù: per stare con lui, non è necessario sottostare alle norme culturali articolate in un sistema religioso ma è esperienza di relazione e di incontro che apre oltre le chiusure e la pretesa di superiorità rispetto agli altri che genera ostilità ed esclusione.
Il dono d’incontro con il Signore Gesù è possibilità di una relazione nuova che coinvolge discepoli che provenivano dal popolo ebraico ma si apre anche al mondo dei ‘pagani’. Paolo aveva comunicato questo nella sua predicazione ai Galati e ora non nasconde la sua delusione: essi avevano accolto il ‘vangelo’ da lui annunciato come forza liberante, ma ben presto si erano volti a chi intendeva riportarli alle strettoie di una legge intesa come elemento di chiusura e di opposizione all’altro. Paolo così reagisce duramente contro chi poneva la condizione seguire l’osservanza della legge giudaica per essere cristiani. Per Paolo rimane fondamentale l’esperienza sulla via di Damasco: lì gli si era reso chiaro che Gesù Cristo gli era venuto incontro per primo donandogli una luce nuova sulla sua vita e sulla sua missione: la salvezza è dono senza alcuna condizione previa, non è conquista di tipo religioso. Il cammino del credere apre alla riconoscenza e alla responsabilità per tale dono, senza erigere barriere, senza esclusioni, testimoniando e ricordando la libertà dono del vangelo. Non si conquista quindi una salvezza attraverso l’obbedienza alla legge. Ma si tratta di accogliere un dono e condividerlo. Da qui sorge la gratitudine. Dal riconoscersi afferrati dell’amore – e per Paolo la croce è evento di amore – sorge la riconoscenza che diventa cammino esistenziale. Se nella vita ci si scopre salvati si apre un modo nuovo di impostare i rapporti e uno sguardo diverso alla vita stessa nella gratuità, nell’accoglienza, nell’orientamento alla pace. Il dono di relazione ricevuto chiede di essere comunicato.
Luca narra l’invio da parte di Gesù dei settantadue discepoli. Sono mandati a raccogliere i frutti di una semina che non viene da loro. Le messi già pronte per la mietitura indicano un’opera dello Spirito già in atto. Ciò che si richiede ai discepoli è capacità di riconoscimento e disponibilità al servizio. Sono inviati a riconoscere la fecondità dell’agire di Dio e ad accogliere.
Gesù non predispone un gruppo specializzato: questo invito è per tutti, discepoli e discepole. Il numero settantadue è simbolico e nella tradizione biblica indicava i popoli dell’umanità originaria (Gen 10). L’invio di Gesù è rivolto così a tutti e riguarda l’invio alle messi. Si tratta di una fecondità già in atto da riconoscere e raccogliere che coinvolge tutti i popoli.
Gli inviati sono chiamati a vivere il loro cammino senza appesantimenti inutili e dannosi – ‘non portate borsa, né bisaccia, né sandali’ e con uno stile che rifiuta violenza ed imposizione – ‘come agnelli’ -. Gesù chiede di portare pace e proprio nella casa cioè nell’incontro nei luoghi della vita inizia a costruirsi la pace: “In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa!”.
Si tratta di una parola importante per noi in questo tempo in cui la mentalità della guerra è pervasiva di ogni settore della vita. E’ un mandato che richiede condivisione, disponibilità ad entrare nelle città, ad accogliere innanzitutto l’ospitalità ed offrire accoglienza, prendersi cura per percorsi di guarigione e liberazione e non stancarsi di indicare l’orizzonte del regno di Dio: “Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”.
Alessandro Cortesi op
Io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace
Riprendo come motivo di riflessione alcune parole di Olga Sedakova, poetessa russa, nella bella intervista a Natalino Valentini, pubblicata da “Il Regno”, 19 giugno 2022 qui consultabile interamente
“– Ol’ga Sedakova, come ha vissuto l’accrescersi delle tensioni che hanno portato al conflitto in atto?
«Devo confessare che per me è molto difficile e doloroso parlare della situazione in cui ci troviamo. In tutta la mia vita non ricordo un periodo peggiore. Il tuo paese sta facendo cose imperdonabili e tu non hai modo di fermarlo o di dichiarare apertamente, pubblicamente, il tuo parere neppure ai tuoi connazionali.
Io, come tutte le persone a me vicine in Russia, fino all’ultimo giorno mai avrei immaginato che una cosa del genere fosse possibile: le truppe russe che bombardano Kharkiv, Odessa, Kiev… Posso dire lo stesso dei miei amici e conoscenti in Ucraina. Nessuno se lo aspettava. Non è stata la tensione tra il popolo ucraino e quello russo di cui si parla. Non ce n’era sostanzialmente nessuna. La propaganda ufficiale stava lavorando per creare un’immagine di “ucraini orribili, neonazisti”. Ma non avrei mai immaginato che questa educazione all’odio avesse una risonanza così pervasiva e diffusa».
(…)
– In uno splendido suo saggio sul Dottor Živago ha magnificamente affermato: «La compassione come dono dello Spirito Santo è la versione russa dell’Amore». Che ne è oggi di questa «compassione»?
«Queste mie parole, e in realtà tutto ciò che ho scritto, ora sono come cancellate, messe in discussione. Non si tratta solo delle mie parole, ovviamente. Tutto ciò che di solito s’associa alla cultura russa: il suo particolare umanesimo, la compassione che riserva alle creature più sgradevoli e insignificanti, la sua grande empatia: dov’è tutto questo se i compatrioti di Leone Tolstoj e di Puškin commettono crudeltà inaudite, tali da essere definite “subumane” da chi le ha viste? (…) Come dice Anna Achmatova, “il debole in Puškin ha sempre ragione”.
E allora dov’è ora questo senso di “giustizia verso il debole”? Perché non ferma gli stupratori e coloro che danno ordine di bombardare civili nelle città? Dove trovarla in coloro che si rifiutano di provare compassione per le vittime? (…) Su queste domande e possibili risposte i nostri intellettuali stanno discutendo per ora on-line.
Posso solo rispondere che né Alexander Puškin, né Lev Tolstoj, né Boris Pasternak hanno inventato quello che hanno detto. Era nell’aria in cui sono cresciuti, nell’acqua – per dirla con Dante – che hanno bevuto, nella lingua in cui hanno ascoltato le ninna nanna da piccoli. Tutto questo rimane oggi, dopo la scuola di crudeltà e disumanità che il nostro paese ha attraversato nel XX secolo? Penso di sì e ne vedo gli esempi.
La catastrofe è che molte persone in Russia non hanno nulla a che fare con la cultura russa. Non ne conoscono il sapore. La cosa terribile è che proprio coloro che sono “fuori dalla cultura”, che credono solo nella violenza, che disprezzano l’uomo, ora in Russia hanno il diritto assoluto di prendere decisioni statali da cui dipende il destino del mondo e il destino di ognuno di noi»”.
XI domenica tempo ordinario anno A – 2023
Es 19,2-6; Rom 5,6-11; Mt 9,36-10,8
“Voi stessi avete visto … come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatto venire fino a me”. L’esperienza di Mosè sul Sinai è accoglienza di un annuncio che apre il senso dell’intero cammino dell’esodo. Il profilo di Dio appare accostato ad un a figura femminile, l’aquila che tiene i suoi piccoli sopra le ali e li conduce lontano dai pericoli. E Dio chiede di dare ascolto alla sua voce e di essere popolo coinvolto nella sua stessa vita: la santità di Dio diviene tratto proprio della nazione santa chiamata per essere testimone.
Entrare nella terra viene a coincidere con l’accostarsi a Dio stesso: “voi stessi avete visto come vi ho fatti venire fino a me”. Israele incontra Dio come presenza operante nella storia e che sempre chiama ed apre cammino. Da qui nasce un’esperienza collettiva di un popolo nuovo: santità non indica il tratto eccezionale di un singolo ma è attributo collettivo (nazione santa) e segno della relazione con l’Unico santo, Dio stesso. La santità di Dio si rende presente quando Dio salva. La chiamata ad essere ‘popolo di sacerdoti’ e ‘nazione santa’ indica una via per attuare la giustizia e portare salvezza come Dio stesso ha manifestato il suo agire nel percorso dell’esodo.
Nella lettera ai Romani Paolo, dopo aver delineato la condizione umana segnata dal peso del peccato e dall’incapacità di salvarsi con le proprie forze indica in Gesù Cristo colui che solo può salvarci con la sua morte e risurrezione. La salvezza è dono da accogliere nel rapporto con Lui: “Se, infatti , quando eravano nemici siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita”.
Nell pagina del vangelo di Matteo in primo piano è la compassione di Gesù. Nel suo modo di guardare e nel suo agire Gesù vive una tenerezza unica, si lascia toccare dalla vita degli altri. Ai discepoli parla della messe abbondante: li chiama ad un’opera di raccolta, a scorgere già in atto l’agire del Padre. E chiama poi i dodici e Matteo elenca i loro nomi. Dodici è numero simbolico che rinvia ad una convocazione di tutto il popolo d’Israele composto di dodici tribù. Gesù si muove così nel quadro di un raduno che raccolga una comunità accogliente di ogni pecora perduta della casa d’Israele. E invia i dodici chiedendo loro poche attitudini fondamentali. Li manda ad annunciare che il regno di Dio è vicino. Non devono essere preoccupati di aver successo o potere politico: a loro spetta annunciare il regno quale realtà di rapporti nuovi in una comunità di uguali, nella fraternità, nell’accogliersi reciproco. Gesù chiede ai suoi lo stile della povertà. Essere poveri per poter condividere e per essere disponibili a cogliere le cose essenziali della vita senza legarsi a ricchezze di tipo diverso. Guardare il mondo dalla prospettiva degli impoveriti apre allo sguardo di Dio. Agli apostoli lascia l’invio: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. La scoperta di aver ricevuto un grande dono nella propria vita apre al desiderio di farsene portatori e testimoni. Sta qui la radice della missione dei discepoli di Gesù.
Alessandro Cortesi op