2Cr 36,14-23; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21
E’ la domenica della gioia nel cammino di quaresima che prepara alla pasqua. Le letture di oggi accompagnano a guardare al dono di salvezza, l’opera di Dio per noi.
Dio non si stanca di riproporre la sua alleanza con l’invio di messaggeri e profeti.: ‘premurosamente e incessantemente’ sono gli avverbi che indicano l’agire di Dio, che continua a riproporre la sua fedeltà senza venir meno. Ma i suoi inviati hanno trovato l’indifferenza e il rifiuto: “Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio”.
L’ira di Dio è attribuzione a Dio stesso di un atteggiamento umano: intende esprimere l’esperienza di incontro nella fede con un volto di Dio appassionato non lontano e distaccato, ma capace di attesa e desiderio. L‘ultima parola non è l’ira e il rigetto. Un rinnovato gesto di fedeltà si fa luce: un re pagano, Ciro di Persia, con il suo editto che pone fine all’esilio, apre al popolo d’Israele la possibilità del ritorno nella terra di Canaan. Per vie nuove e diverse all’interno delle vicende della storia si apre una nuova offerta di alleanza, un tempo nuovo.
Il IV vangelo pone nei capitoli iniziali il dialogo tra Gesù e Nicodemo, maestro ebreo e conoscitore delle Scritture. E’ uno degli incontri di Gesù, con un saggio, un maestro la cui figura diviene paradigma di molti altri che si avvicinano a Gesù con interrogativi e curiosità. A ncodemo Gesù fa scorgere altre dimensioni della sapienza e lo richiama ad un nuovo inizio. Gli parla dell’urgenza di una scelta e di un giudizio che si svolge a partire dal cuore: il cammino del credere non è conquista umana ma come affidamento nel rinascere dallo Spirito.
Gesù è testimone, secondo il IV vangelo, del volto di Dio che ama il mondo. Il suo venire non è per condannare. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui.”
Nicodemo come ogni altro maestro e saggio si trova interpellato al di là del suo preteso sapere. L’incontro con Gesù non lascia indifferenti. La sua parola e il suo agire sono appello a prendere posizione. Si apre così una crisi. La vita può aprirsi ad orizzonti di futuro e di pienezza oppure inoltrarsi nelle tenebre: “la luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno scelto le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage”. Credere in Gesù lui è movimento del cuore, implica orientare la propria esistenza in un affidamento. L’andare verso di lui porta ad una comunione aperta oltre il tempo, nella vita di Dio.
All’anziano maestro ebreo Gesù propone di nascere di nuovo, nascere dall’alto. Nonostante la sua età può nascere ancora: lo può sperimentare nel volgersi a Gesù come nel deserto il popolo d’Israele si rivolgeva al segno del serpente posto sull’asta da Mosè segno di guarigione (Num 21,4-9). “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15).
Innalzamento sta ad indicare la morte della croce. Sulla croce Gesù è l’innalzato. Ricordare la croce è memoria della morte dell’umiliato e schiacciato dal potere. E’ il segno del fallimento. Ma lì sulla croce Gesù manifesta il limite cui giunge l’amore del Dio. Gesù si manifesta come il Figlio. Consegnato dal Padre, nella libertà si consegna. La croce per il IV vangelo è già manifestazione della gloria di Dio, di risurrezione, della forza di vita dell’amore. A chi guarda la croce Gesù pone la questione di affidarsi a lui e percorrere la sua via. Il giudizio si compie nell’accogliere questo invito. Gesù vive l’umiliazione e la condanna, ma sulla croce è già presente l’innalzamento della Pasqua. Lì si manifesta che l’ultima parola è quella dell’amore e del servizio. Sotto la croce inizia un raduno nuovo: “Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Ed è questo movimento che si prolunga nella storia dell’umanità e diviene chiamata.
Alessandro Cortesi op
Morte e speranza
“Sono davanti a voi in nome di un popolo che ha deciso sul suolo dei propri antenati di affermare d’ora in avanti se stesso e farsi carico della propria storia. Oggi vi porto i saluti fraterni di un paese di 274.000 Km2 in cui sette milioni di bambini, donne e uomini si rifiutano di morire di ignoranza, di fame e di sete non riuscendo più a vivere (…) Chi mi ascolta mi permetta di dire che parlo non solo in nome del mio Burkina Faso, tanto amato, ma anche di tutti coloro che soffrono in ogni angolo del mondo. Parlo in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti perché hanno la pelle nera o perché sono di culture diverse, considerati poco più che animali. Soffro in nome degli Indiani d’America che sono stati massacrati, schiacciati, umiliati e confinati per secoli in riserve così che non potessero aspirare ad alcun diritto e la loro cultura non potesse arricchirsi con una benefica unione con le altre, inclusa quella dell’invasore. Parlo in nome di quanti hanno perso il lavoro, in un sistema che è strutturalmente ingiusto e congiunturalmente in crisi, ridotti a percepire della vita solo il riflesso di quella dei più abbienti.”
Con queste parole Thomas Sankara si rivolgeva all’assemblea dell’ONU il 4 ottobre 1984. Il suo fu uno dei degli appassionati discorsi davanti in ambito internazionale che fecero risuonare la voce di un rappresentante dell’Africa della zona del Sahel, la più povera e sottosviluppata nel tempo della decolonizzazione. Un rappresentante di un popolo che condusse avanti un sogno di liberazione e di integrità fino a che le armi fecero tacere la sua voce coraggiosa che aveva aperto speranza e dignità per un Paese tra quelli dimenticati della terra e per tutta l’Africa.
Prima di lui il paese da cui proveniva era denominato Alto Volta, ed era stato l’esito della divisione territoriale seguita alla fine della colonizzazione che aveva smembrato appartenenze culturali, gruppi e tradizioni. Con lui il paese cambiò nome: si chiamò Burkina Faso. Il termine mette insieme le due principali lingue del paese e significa: ‘paese degli uomini integri’. Burkina, in lingua moré indica ‘uomini di valore’, Faso nella lingua dioula significa ‘patria’.
In questo cambiamento di nome è in qualche modo riassunto il progetto politico e il sogno ideale che animò l’impegno di Thomas Sankara. Nato nel 1949 in una famiglia in cui il padre era stato militare per l’esercito francese, aveva potuto accedere alla scuola, poi al liceo cattolico. La sua famiglia ebbe i mezzi per farlo entrare nell’esercito e durante la sua formazione militare Sankara maturò la convinzione che i militari dovessero essere formati ed educati per divenire cittadini ma anche per essere una forza promotrice di emancipazione e sviluppo della popolazione. In Madagascar all’Accademia militare maturò le idee di una rivoluzione democratica e popolare. Giunse ad essere ufficiale con grande autorevolezza. Ai suoi soldati chiese di promuovere servizi di pubblica utilità come lo scavo di pozzi per l’acqua e il rimboschimento contro l’avanzata del deserto.
Il governo del Paese dopo la fine della colonizzazione francese aveva visto vari cambiamenti con colpi di stato. Dal 1970 i protagonisti erano quadri militari. Dopo un periodo di scioperi nel novembre 1980 un colpo di Stato militare del colonnello Sayé-Zerbo rovesciò il governo ma presto la situazione di corruzione si affermò nuovamente. Nel 1982 un altro colpo di Stato porta Sankara ad essere nominato primo ministro nel governo di Jean-Baptiste Ouedraogo. Ma nel 1983 a causa delle sue posizioni e per l’affermarsi della sua fama fu arrestato. Tuttavia tale scelta coagulò la solidarietà attorno a lui e una rivolta popolare e dei militari lo condusse ad essere presidente del Paese il 4 agosto 1983. Il suo progetto da presidente è così sintetizzato: “Democratizzare la nostra società, aprire gli animi ad un universo di responsabilità collettiva per osare inventare il futuro”.
Egli ha chiaro l’obiettivo di realizzare una liberazione dall’imperialismo occidentale che dopo la fine del colonialismo si è affermato in modi più pervasivi in ciò che egli definisce ‘la colonizzazione delle mentalità’. Il suo impegno va nella direzione di promuovere una autonomia dei paesi dell’Africa rispetto agli aiuti internazionali che in qualche modo sono un ricatto e una nuova forma di oppressione. “Ne abbiamo davvero abbastanza di questi aiuti alimentari, che immettono nelle nostre menti riflessi da mendicante, da assistito bisogna produrre, produrre di più perché è normale che chi vi dà da mangiare vi detti anche le sue volontà”.
Con il recupero della tradizione locale nella coltivazione e nella produzione di tessuti mira ad affermare che è possibile emanciparsi dalla miseria anche da parte di Stati poveri come il Burkina. Il suo progetto politico si concentra sull’agricoltura per permettere a tutti una sufficiente alimentazione quotidiana e il superamento della fame. L’industria viene orientata a produzione di beni di prima necessità in contrasto con forme di dipendenza dalle importazioni e dagli aiuti.
“La nostra rivoluzione avrà valore solo se, guardando intorno a noi, potremo dire che i Burkinabé sono un po’ più felici grazie a essa. Perché hanno acqua potabile e cibo abbondante e sufficiente, sono in splendida salute, perché hanno scuola e case decenti, perché sono meglio vestiti, perché hanno diritto al tempo libero; perché hanno l’occasione di godere di più libertà, più democrazia, più dignità. La rivoluzione è la felicità. Senza felicità, non possiamo parlare di successo” (Discorso a Tenkodogo 2 ottobre 1987).
Perseguì anche una politica di rigore morale porta all’eliminazione di privilegi della classe politica e dei ministri a cui impose di usare semplici Renault 5. Viene attuato un progetto di rimboschimento per contrastare la desertificazione di ampie aree del Paese. Lo sforzo per la promozione della scolarizzazione vede in pochi anni esiti importanti così come le campagne di vaccinazione contro le malattie e l’attenzione ai diritti delle donne.
“Parlo in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti perché hanno la pelle nera o sono di culture diverse, considerati da tutti poco più che animali. Parlo in nome di quelli che hanno perso il lavoro in un sistema che è strutturalmente ingiusto e congiunturalmente in crisi, ridotti a percepire della vita solo il riflesso di quella dei più abbienti. Parlo in nome delle donne del mondo intero che soffrono in nome di un sistema maschilista che le sfrutta. Le donne che vogliono cambiare hanno capito e urlano a gran voce che lo schiavo che non organizza la propria ribellione non merita compassione per la sua sorte. Questo schiavo è responsabile della sua sfortuna se nutre qualche illusione quando il padrone gli promette libertà”. (Discorso all’ONU, 4 ottobre 1984).
La linea di produrre e consumare burkinabé evitando importazioni di frutta verdura che annullano il mercato e la produzione locale apre a un nuovo dinamismo per cui prodotti locali sono acquistabili sul posto di lavoro e si dà spazio all’invito ad usare gli abiti tradizionali prodotti in modo artigianale, il Faso dan fani.
“La cosa più importante è aver condotto il popolo ad aver fiducia in se stesso, a capire che finalmente può sedersi e scrivere la propria storia; può sedersi e scrivere la sua felicità; può dire quello che vuole. E allo stesso tempo, sentire qual è il prezzo da pagare per questa felicità”.
Nei rapporti internazionali Sankara conduce la battaglia contro il pagamento del debito. Questo è da lui denunciato come continuazione del potere coloniale che conduce all’immiserimento dei paesi africani, riproposizione di controllo e colonizzazione dell’Africa da parte delle istituzioni finanziarie internazionali. All’Organizzazione dell’Unità Africana dice: “Vorrei dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito… Questo per evitare che ci facciamo assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo si rifiuta di pagare il debito, io non sarò presente alla prossima conferenza”.
Non ebbe paura di parlare con orgoglio e coraggio di fronte all’assemblea dell’ONU e a manifestare la sua visione in contrasto con la visione colonialista anche di fronte al presidente francese François Mitterrand.
Il 15 ottobre 1987 Thomas Sankara in un complotto fu assassinato. Ad ora non è stata fatta chiarezza sulle responsabilità né è stato avviato un processo per individuare i colpevoli. Un ruolo decisivo lo ebbe certamente Blaise Compaoré, suo stretto collaboratore, sostenuto dalla Francia e dagli USA. Compaoré divenne poi per molti anni esecutore delle politiche liberiste nella regione e stretto alleato di Parigi.
Dopo ventisette anni di governo di Blaise Compaoré, dal 2014, la situazione in Burkina Faso è mutata con inizio di un periodo di transizione a seguito di una insurrezione popolare. Compaoré è fuggito in Costa d’Avorio. Nel marzo del 2015 è stata avviata un’inchiesta sulla morte di Thomas Sankara. Il 27 novembre 2017 Emmanuel Macron in un discorso all’università di Ouagadougou ha promesso che tutti i documenti prodotti dalla amministrazione francese durante la presidenza di Sankara e dopo il suo assassinio siano declassificati e consultati in risposta alle richieste della giustizia burkinabé. Un segno di un possibile cambiamento della politica francese in Africa. Il 7 febbraio la commissione rogatoria è stata affidata ad un giudice francese. La rete Justice pour Sankara justice pour l’Afrique, ha accolto questa decisione come un passo in avanti decisivo per la ricerca della verità.
“Riconoscendoci parte del Terzo mondo vuol dire, parafrasando José Martí, ‘affermare che sentiamo sulla nostra guancia ogni schiaffo inflitto contro ciascun essere umano ovunque nel mondo’. Finora abbiamo porto l’altra guancia, gli schiaffi sono stati raddoppiati. Ma il cuore del cattivo non si è ammorbidito. Hanno calpestato le verità del giusto. Hanno tradito la parola di Cristo e trasformato la sua croce in mazza. Si sono rivestiti della sua tunica e poi hanno fatto a pezzi i nostri corpi e le nostre anime”.
Così parlava Sankara all’Onu. Il suo percorso di uomo probo, la sua dedizione per un progetto politico di liberazione e di affermazione della dignità dei paesi africani e dei popoli impoveriti, il suo sguardo che si allargava a considerare la necessità di una alleanza dei popoli poveri per farsi solidali con tutti gli oppressi, è un seme gettato per il cammino dei paesi africani ma ha anche una validità particolare nel mondo attuale in cui i medesimi meccanismi oppressivi e di colonizzazione sono tuttora in atto e presenti.
Alessandro Cortesi op
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Per approfondire:
Bruno Jaffré, Thomas Sankara. La patrie ou la mort (1997), ed. L’Harmattan, Paris.
Bruno Jaffré, Thomas Sankara ou la dignité de l’Afrique “Le Monde Diplomatique” 7.10.2007
Il discorso integrale all’ONU in traduzione italiana di Marinella Correggia
Gabriella Giudici, Thomas Sankara, la seconda indipendenza africana, pagina blog con alcuni filmati sulla vita e discorsi.
Daniele Bellocchio, Quei misteri dietro la morte di Thomas Sankara 13.12.2017.
www.thomassankara.net
IV domenica di Quaresima – anno B – 2024
2Cr 36,14-16.19-23; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21
E’ la domenica segnata da un invito alla gioia per il dono di salvezza, la grande opera di Dio che apre a scelte di opere attuate nella luce.
La prima lettura presenta quasi una sintesi del cammino di alleanza, il continuo riproporsi del dono di incontro da parte di Dio per mezzo dell’invio dei profeti: “Il Signore Dio dei loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri…” (2Cr 36,15-16). Ma questi inviati spesso hanno trovato l’indifferenza, il rifiuto, e l’atteggiamento ostile di chi non voleva ascoltare la loro parola. L’amara conclusione pone l’assenza di orizzonti nello scoppio dell’ira di Dio.
Eppure si presenta un rinnovato gesto di fedeltà inatteso, proveniente da Dio che sceglie un re pagano, Ciro di Persia per liberare Israele dall’esilio. Nel 538 a.C. infatti si aprì al popolo d’Israele la possibilità del ritorno nella terra di Canaan dopo l’esilio a Babilonia (cfr. 2Cr 36,22-23). Le vie di Dio passano attraverso l’opera di un imperatore pagano che apre percorsi di liberazione e di giustizia
Nel quadro del dialogo tra Gesù e Nicodemo, maestro ebreo e conoscitore dele Scritture, è presentata la medesima contrapposizione tra l’agire fedele di Dio e il dramma che si compie nella storia: si tratta di una crisi, ossia momento di una scelta. Un giudizio si svolge nel cuore di quanti si trovano di fronte a Gesù, di fronte alla sua pretesa di credere in lui: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui.”
Gesù rende vicino il Dio che ama il mondo. Non viene per compiere un giudizio od un castigo. La questione di fondo è la scelta. Sta qui un appello alla responsabilità umana di fronte a Gesù. La sua presenza non lascia indifferenti, la sua parola e il suo agire sono provocazione ad una decisione davanti a lui. E’ la crisi della scelta tra luce e tenebre. Si può scegliere di porre la vita secondo orizzonti di luce oppure attuare opere di tenebre: “la luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno scelto le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage”. Il IV vangelo pone chiaramente la necessità di una scelta davanti a Gesù. Credere in lui implica un movimento del cuore e della vita: è orientamento della propria esistenza nell’affidarsi. Andare verso di lui porta ad avere in lui la vita eterna: è una comunione che apre al rapporto vivo per sempre con Dio. L’immagine proposta da Gesù è quella dell’innalzamento: nel deserto il popolo d’Israele si rivolgeva al serpente posto in alto sull’asta da Mosè (Num 21,4-9) per trovare guarigione e salvezza. Gesù indica una rinascita possibile, che deve compiersi dall’alto e di nuovo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15). Gesù verrà innalzato, quando sulla croce è posto su di una posizione più alta di tutti gli altri. Umanamente quello è il segno dell’ignominia, è il fallimento; ma lì Gesù manifesta il limite estremo a cui arriva l’amore del Dio che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Il Figlio in quel momento rivela davanti al mondo la gloria di Dio. Gesù sulla croce pone un inevitabile interrogativo a tutti coloro che lo guardano: è possibile vivere le opere della luce, un orientamento della vita nella luce che implica un affidarsi a lui, al suo percorso di dono e di gratuità, oppure attuare le opere delle tenebre, scelte di morte e di egoismo. E’ questo il giudizio che si compie. Si parla di opere: è sempre possibile attuare scelte di luce attuando un cambiamento pe passare dalle tenebre, scelte di male e violenza a scelte di vita.
Alessandro Cortesi op