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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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IV domenica di Quaresima – anno B – 2024

2Cr 36,14-16.19-23; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21

E’ la domenica segnata da un invito alla gioia per il dono di salvezza, la grande opera di Dio  che apre a scelte di opere attuate nella luce.

La prima lettura presenta quasi una sintesi del cammino di alleanza, il continuo riproporsi del dono di incontro da parte di Dio per mezzo dell’invio dei profeti: “Il Signore Dio dei loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri…” (2Cr 36,15-16). Ma questi inviati spesso hanno trovato l’indifferenza, il rifiuto, e l’atteggiamento ostile di chi non voleva ascoltare la loro parola. L’amara conclusione pone l’assenza di orizzonti nello scoppio dell’ira di Dio.

Eppure si presenta un rinnovato gesto di fedeltà inatteso, proveniente da Dio che sceglie un re pagano, Ciro di Persia per liberare Israele dall’esilio. Nel 538 a.C. infatti si aprì al popolo d’Israele la possibilità del ritorno nella terra di Canaan dopo l’esilio a Babilonia (cfr. 2Cr 36,22-23). Le vie di Dio passano attraverso l’opera di un imperatore pagano che apre percorsi di liberazione e di giustizia

Nel quadro del dialogo tra Gesù e Nicodemo, maestro ebreo e conoscitore dele Scritture, è presentata la medesima contrapposizione tra l’agire fedele di Dio e il dramma che si compie nella storia: si tratta di una crisi, ossia momento di una scelta. Un giudizio si svolge nel cuore di quanti si trovano di fronte a Gesù, di fronte alla sua pretesa di credere in lui: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui.”

Gesù rende vicino il Dio che ama il mondo. Non viene per compiere un giudizio od un castigo. La questione di fondo è la scelta. Sta qui un appello alla responsabilità umana di fronte a Gesù. La sua presenza non lascia indifferenti, la sua parola e il suo agire sono provocazione ad una decisione davanti a lui. E’ la crisi della scelta tra luce e tenebre. Si può scegliere di porre la vita secondo orizzonti di luce oppure attuare opere di tenebre: “la luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno scelto le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage”. Il IV vangelo pone chiaramente la necessità di una scelta davanti a Gesù. Credere in lui implica  un movimento del cuore e della vita: è orientamento della propria esistenza nell’affidarsi. Andare verso di lui porta ad avere in lui la vita eterna: è una comunione che apre al rapporto vivo per sempre con Dio. L’immagine proposta da Gesù è quella dell’innalzamento: nel deserto il popolo d’Israele si rivolgeva al serpente posto in alto sull’asta da Mosè (Num 21,4-9) per trovare guarigione e salvezza. Gesù indica una rinascita possibile, che deve compiersi dall’alto e di nuovo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15). Gesù verrà innalzato, quando sulla croce è posto su di una posizione più alta di tutti gli altri. Umanamente quello è il segno dell’ignominia, è il fallimento; ma lì Gesù manifesta il limite estremo a cui arriva l’amore del Dio che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Il Figlio in quel momento rivela davanti al mondo la gloria di Dio. Gesù sulla croce pone un inevitabile interrogativo a tutti coloro che lo guardano: è possibile vivere le opere della luce, un orientamento della vita nella luce che implica un affidarsi a lui, al suo percorso di dono e di gratuità, oppure attuare le opere delle tenebre, scelte di morte e di egoismo. E’ questo il giudizio che si compie. Si parla di opere: è sempre possibile attuare scelte di luce attuando un cambiamento pe passare dalle tenebre, scelte di male e violenza a scelte di vita.  

Alessandro Cortesi op

III domenica di Quaresima – anno B – 2024

Es 20,1-17; 1 Cor 1,22-25; Gv 2,13-25

Dopo l’alleanza con Noè e la pagina della promessa ad Abramo la terza domenica di quaresima accompagna a sostare sul dono della legge di Mosè. Le dieci parole della legge acquisiscono il loro significato dalla prima parola, loro inizio e fondamento: “Io sono il Signore, tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto”. La parola di Dio che dice appartenenza e legame sorge dal dono di una relazione vivente, da una promessa di vicinanza e fedeltà. Il Dio dell’alleanza avrà per sempre il tratto del liberatore, colui che è sceso ascoltando il grido della sofferenza per trarre fuori Israele dalla schiavitù. La legge  si fa declinazione di una parola di alleanza e cura. Diviene indicazione di una via su cui Israele è chiamato a camminare per essere tra i popoli testimone del Dio liberatore e per trasmettere ad altri il dono della liberazione.

“Si avvicinava intanto la pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme” (Gv 2,13). Il gesto di Gesù della cacciata dei venditori dal tempio è posto dal IV vangelo nel quadro della Pasqua agli inizi della sua attività pubblica. A differenza dei vangeli sinottici che lo pongono poco prima degli ultimi giorni a Gerusalemme ancora in rapporto all’arresto alla condanna e alla passione e morte.

Il gesto di Gesù non è solamente una critica ad un modo di vivere la religione che riduce il luogo del tempio segno della presenza di Dio, ad un mercato. Gesù critica come i profeti  lo snaturamento del vero culto di cui il tempio era segno e che egli stesso riconosceva. Questo suo gesto – vicino alla Pasqua – assume anche una valenza di profezia. Gesù viene ad indicare la fine della ricerca di un culto a Dio nel tempio. Il suo corpo, la sua vita è ‘tempio’. Il culto a cui egli richiama non è risolvibile in gesti di offerta e di devozione, ma è coinvolge la vita, implica un guardare al suo corpo di torturato del Golgota, che s’identifica con tutti i torturati della storia. Il tempio, luogo d’incontro con Dio, è da scorgere nella sua umanità che si lega ad ogni volto di vittima e oppresso. E la grade questione che attraversa il IV vangelo è la provocazione ad un nuovo rapporto con Dio: è un nuovo culto che non si pone come sostituzione di un altro ma chiede una attitudine in spirito e verità (cfr. Gv 4,21-24). Non più su un tempio o un altro Dio cerca i suoi adoratori. “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere… Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono  che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù”.

L’intero IV vangelo conduce il lettore in un cammino del ‘credere’: il segno del tempio rinvia alla persona di Gesù  si fa invito ad incontrare il Padre in spirito e verità. Sul volto del crocifisso si può scorgere la gloria di Dio, la rivelazione dell’amore.

La quaresima è cammino che guida ad accogliere Gesù Cristo potenza e sapienza di Dio.

Alessandro Cortesi op

XXVII domenica tempo ordinario anno A – 2023

Is 5,1-7; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43

“Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva vangata e vi aveva piantato scelte viti… Egli aspettò che producesse uva ma essa fece uva selvatica… la vigna del Signore è la casa di Israele”

La prima lettura ha i tratti di una poesia, tessuta attorno all’immagine della vigna. E’ un canto che descrive la vigna con tratti quasi umani sino a farne simbolo del popolo d’Israele. Il poema narra serenamente di un lavoro di cura che il ‘diletto’ vi svolge. E’ descrizione accurata che prepara ad una visione di pace. Invece, nonostante la coltivazione, la vigna produce uva selvatica. Intervengono delusione e fallimento: l’atmosfera si fa cupa e drammatica. Addirittura un sottile gioco di parole descrive un capovolgimento: anziché diritto (mishpat) vi è spargimento di sangue innocente (mispah), anziché giustizia (sedaqah) c’è grido di oppressi (se’aqah). Isaia è un grande poeta: descrive così la drammatica vicenda di una mancata corrispondenza tra l’attenzione di Dio, padrone della vigna e il popolo di cui la vigna è simbolo. L’attesa paziente di Dio stesso viene delusa e si scontra con il fallimento.

L’immagine della vigna è ripresa da Gesù nella parabola dei vignaioli omicidi: c’è una storia di rifiuto e di violenza ma su di essa prevale una storia di fedeltà, la fedeltà del servo e del figlio. Il rifiuto dei capi del popolo è attitudine che può ripetersi nella storia come infedeltà a Dio e all’alleanza. E’ qui delineato il mistero di un rifiuto che storicamente riguardò solamente i capi di Israele.  C’è una netta polemica con le scelte di violenza degli zeloti, ma anche con i capi del popolo d’Israele che pretendono di essere vignaioli e padroni della vigna rifiutando progressivamente gli inviati del padrone. E’ una parola che sfida anche ogni pretesa religiosa umana di non riconoscere Dio come signore della vigna e il prevalere di logiche violente di chi è assetato di potere e di eliminare gli altri. E tuttavia la storia non si chiude in una spirale di violenza. Dio non si stanca di offrire il suo dono di alleanza e di amore in termini nuovi, propone e ripropone un richiamo per mezzo di profeti e inviati e non si arrende alla violenza. La vigna rimarrà sempre tuttavia quella vigna di Israele, segnata dalle promesse senza pentimento da parte di Dio per il suo popolo.

La vigna assume allora i contorni di una umanità di cui Dio stesso si prende cura suscitando vignaioli buoni, attenti che si chinano e fanno crescere frutti buoni. Il centro della parabola sta nella riaffermazione della fedeltà di amore di Dio e del dono di alleanza che non viene meno: nonostante il rifiuto ripropone all’umanità il suo dono, la salvezza. Ed è riproposta in termini di nonviolenza e di dono: Gesù è pietra scartata dai costruttori ma diverrà pietra fondamentale di una costruzione del Dio fedele alle sue promesse. Matteo nella parabola descrive così il riproporsi di una storia di salvezza che ha il suo centro in Cristo.

E’ Gesù, dirà il quarto vangelo, la vite fedele che porta frutti: ‘Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla’ (Gv 15,5).

Alessandro Cortesi op

II domenica di Quaresima – anno C – 2019

Abramo ChagallGen 15,5-12.17-18; Fil 3,17-4,1; Lc 9,28b-36

“Quando fu tramontato il sole, ecco un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse un’alleanza con Abramo”. Un modello di alleanza tra popoli diviene segno per indicare ciò che è indescrivibile: l’esperienza dell’irrompere di Dio e della sua chiamata nella vita di Abramo.

Secondo l’antico rito due gruppi che facevano pace dopo una guerra dovevano passare tra gli animali divisi per impegnarsi in un nuovo legame di fedeltà. Il loro gesto alludeva al dire: ‘accada a me come a questi animali se non rispetto il patto che da ora ci lega’. Era questo il segno espresso con il ‘tagliare un patto’, (da cui l’ebraico berit, alleanza).

Il rapporto tra Dio e Abramo è così presentato come un incontro. E Abramo diviene l’amico di Dio nel legame nuovo che ha inizio. Un impegno di fedeltà prima di tutto di Dio stesso. Nella scena biblica tra gli animali squartati al tramonto passa solamente ‘un forno fumante e una fiaccola ardente’. Il fuoco indica la presenza di Dio, fiaccola che arde e il forno fumante richiama al fumo che nasconde come sarà nel Sinai per Mosè quando alla consegna della Legge tutta la montagna divenne fumante.

Ma in mezzo a quegli animali non passò Abramo. L’impegno è unicamente da parte di Dio, e da Lui solo. In quel tramonto l’alleanza si compie come dono di fedeltà da parte di Dio che s’impegna a non far venir meno la sua promessa. Ad Abramo è solamente richiesto l’abbandono, nella fiducia disarmata. A lui è chiesto di vivere sospeso alla promessa e alla memoria di quell’esperienza espressa nei termini di un rito di allenaza ma che è in radice esperienza interiore di scoprirsi chiamato da Dio e con lui la sua discendenza come le stelle del cielo, in un disegno di comunione. Affidandosi senza riserve. E così ‘Abramo credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia’ (Gen 15,7).

La Pasqua è compimento della promessa di fedeltà di Dio che s’impegna ad essere il ‘Dio vicinissimo’ ad Abramo e, in lui, a tutti coloro chiamati a quel medesimo cammino di uscita e di pellegrinaggio che è la vita stessa.

La trasfigurazione è racconto ricco di simboli: può essere ricordo di un momento di preghiera vissuto accanto a Gesù, o anche un riferimento all’esperienza dell’incontro con lui vivente dopo la Pasqua. Tutto in questa pagina fa riferimento ai giorni della Pasqua: nel dialogo con Mosè ed Elia ‘parlavano del suo esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme’. Gesù sul monte viene indicato dalla voce: ‘questi è il Figlio mio, l’eletto, ascoltatelo’

Luca parla di metamorfosi, evento conosciuto nel mondo greco. Descrive così l’aspetto di Gesù nei termini in cui si parla di Mosè nell’esodo dopo la discesa dal Sinai: con il volto risplendente di luce poiché aveva parlato con Dio (Es 34,29-30). L’intera vita di Gesù è cammino di un nuovo esodo, e di una salita. Come Israele uscì dall’Egitto e salì verso la terra promessa, così Gesù, dirigendosi a Gerusalemme apre un esodo nuovo.

L’ esito di questa salita sarà il calvario e la croce ma ancora oltre, perché si compie nella salita al Padre: movimento che Luca descrive come un salire per stare accanto al Padre. E’ una salita non solo di Gesù ma anche di tanti altri con lui. L’incontro con lui, nel suo passare accanto a noi è esperienza che apre a condividere la comunione con il Padre.

Tutto il cammino di Gesù è orientato a Gerusalemme: una luce è presente nel suo volto umano. Nella ‘normalità’ della sua esistenza si può scorgere una luce. Così nei tratti del suo volto crocifisso si può cogliere la luce che è l’amore del Padre che ha misericordia e dona il perdono.

L’invito conclusivo è ‘ascoltatelo’ (cfr. Dt 18,15): Luca richiama all’ascolto di Gesù e all’ascolto del comunicarsi di Dio nella umanità. La nube ricorda che la presenza di Dio è sempre velata e non afferrabile dallo sguardo, ma sta vicino e accompagna.

Paolo, alla comunità di Filippi a cui è profondamente legato indica la speranza che lui ha sperimentato nell’accogliere Cristo ‘Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso’: tutto della nostra vita è portato nella comunione con Dio: la Pasqua è risurrezione di Cristo che coinvolge l’umanità in questo dono di vita nuova e di speranza per tutti.

Alessandro Cortesi op

Donald TrumpLa nube e la firma

Dio non firma libri: con questo titolo Michele Serra sigilla la sua riflessione quotidiana nella rubrica ’Amaca (“la Repubblica” 12 marzo 2019). Questa volta si sofferma sul gesto sconcertante e indecente (nel senso etimologico della parola: ‘che si pone contro il decus/decoro’) del presidente degli Stati Uniti che, inseguendo un costume assai diffuso negli eventi di presentazioni di libri, ha voluto offrire occasione di contatto con i suoi fans apponendo la sua firma non su di un libro da lui scritto – cosa peraltro difficile solo a pensarsi – ma su Bibbie che gli venivano portate dai fan convinti di essere fedeli osservanti del messaggio lì contenuto.

“Vedere Donald Trump che autografa Bibbie, in Alabama, come un battitore che firma palline da baseball, non fa pensare alla religione, ma al marketing politico nella sua forma più miserabile. Le ha firmate sulla copertina, quell’omone protervo, con un tratto smodato di pennarello, e i fedeli (suoi e di Dio) non solo non hanno trovato niente da ridire, non solo non gli hanno detto “guardi che non si fa, guardi che quella sarebbe la parola di Dio”, ma parevano estasiati”.

Quella firma apposta sul libro come un segno di controllo e di dominio, come una pretesa di possederne il segreto e di averne chiari i significati è gesto di una protervia inaudita e tanto più sorprendente per l’assenza di reazioni di indignazione da parte di chi gli stava intorno. Un gesto che rivela in modo spudorato il modo di intendere la religione come instrumentum regni, un utilizzo dei simboli religiosi staccati totalmente dal messaggio che recano. La Parola di Dio contenuta in quel libro per i credenti è parola che non può mai essere ridotta nei confini di progetti umani, richiama sempre ad un limite, va ascoltata come parola altra non riducibile ad alcun progetto politico o economico e tanto meno di un potere che si fa dominio e oppressione.

Anche per chi non condivide la fede nella Scrittura come Parola di Dio, come ben osserva Serra, tale gesto appare non tanto blasfemo, ma scostumato. Com’è scostumato un volgare bullo che pretende di imporre la sua presunta grandezza senza riconoscere la sua reale condizione di pover’uomo. E che pur nutre pretese di conoscere la Bibbia (forse senza mai averla lette) e di essere all’altezza delle parole contenute in quel libro.

“Di tutte le affettazioni e le ipocrisie che il potere genera a ciclo continuo, la confidenza con Dio è forse la più turpe. Non perché sia indimostrabile (e lo è), ma per l’orribile sproporzione tra la statura del potere e la dimensione del sacro. Vale anche per chi bacia il rosario ai comizi”.

Appaiono in questi gesti chiari i confini tra una fede vissuta nei termini di apertura all’oltre, magari vissuta nel segreto del cuore da chi dicendosi ateo ricerca un volto autentico di Dio, che per chiunque anche credente rimane avvolto nella nube, e una religione asfittica e depravata, attitudine che si fa alienazione e capovolgimento della fede stessa:

“Ci sono atei che abbracciano le stelle, e vivono nel rispetto della vita e della morte. E ci sono ferventi ultras di questa o quella Chiesa che dimostrano lo stesso tasso di spiritualità di un paracarro”.

Alessandro Cortesi op

V domenica Quaresima – anno B – 2018

IMG_2506.JPGGer 21,31-34; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33

Un altro passaggio del cammino di alleanza segna questa domenica di quaresima: Geremia annuncia una ‘alleanza nuova’ scritta nel profondo del cuore, che compirà la parola della promessa e del dono di Jahwè ‘Io sono il Signore tuo Dio’ (Es 20,1): “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo”. Quella reciproca appartenenza, nucleo profondo dell’alleanza, è promessa come dono che investe l’interiorità e trasforma il cuore, il centro delle scelte personali e dell’orientamento della vita.

La seconda lettura, dalla lettera agli Ebrei, indica in Cristo il Figlio che imparò l’obbedienza dalle cose che patì e in lui si compie l’alleanza promessa: “reso perfetto divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono.” Cristo una volta per tutte si è offerto per noi. In lui si compie l’alleanza definitiva.

L’autore della lettera agli Ebrei rilegge la passione di Cristo dicendo: ‘offrì preghiere con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà’. E’ l’indicazione della via seguita da Cristo, la sua fedeltà al Padre. Il Padre l’ha esaudito non perché l’ha liberato dalla passione e dalla morte ma perché lo ha sostenuto nella fedeltà alla testimonianza dell’amore: il mistero di Dio è infatti l’amore debole e inerme che si dà fino alla fine. La salvezza giunge dal dono di amore di Gesù.

La pagina del IV vangelo si apre con la domanda: ‘Vogliamo vedere Gesù’. Il desiderio di ‘vedere’ racchiude in sé la tensione ad andare in profondità, a scorgere il significato profondo degli eventi. E’ domanda delle comunità per cui vangelo è scritto: qual è in profondità l’identità di Gesù?

A tale domanda segue un lungo discorso: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto per terra non muore rimane solo; se invece muore produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”

Gesù parla della sua ora e del senso della sua esistenza: l’ora della sua vita è il momento in cui si consegna al Padre e offre la sua vita per tutti. Consegnato nel tradimento, in realtà egli stesso ha inteso la sua vita come dono: nella sua libertà si consegna come chicco di grano. Nel morire è presente una fecondità nuova. In questo si rivela la gloria di Gesù.

E’ così giunta quell’ora evocata nell’intero percorso del IV vangelo, a Cana, nel dialogo con la donna di Samaria: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo”. L’ora di Gesù è l’ora della croce, quando tutti volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto; è anche l’ora in cui innalzato da terra, Gesù attirerà tutti a sé. L’ora di Gesù è tempo che anticipa ogni futuro (è ora del figlio dell’uomo) e rivela il senso della storia: è tempo finale che irrompe nel presente e manifesta i tratti dell’amore di Dio.

Gesù vive paura ed angoscia di fronte a quest’ora ed invoca: ‘Padre glorifica il tuo nome’. Il Padre è coinvolto e presente nell’ora di Gesù, e conferma la via che Gesù sta seguendo. Gesù sulla croce sarà innalzato: la croce umanamente appare come la più grande umiliazione, costituisce l’esaltazione che già lì si sta compiendo: Giovanni infatti vede sulla croce il rivelarsi della ‘gloria’ di Dio, l’ora in cui si manifesta l’amore senza riserve e senza limiti del Padre che Gesù ha testimoniato ‘fino al segno supremo’: è lui l’esegeta del Padre (cfr Gv 1,18), il Figlio che rende visibile il volto del Padre. Per questo nel momento in cui è trafitto inizia quel movimento di attrazione e di coinvolgimento che si allarga: coloro che hanno visto la sua ‘gloria’ non possono non seguire i passi che lui ha percorso.

Alessandro Cortesi op

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Come un seme

In un tempo segnato da inquietanti movimenti di ripiegamento, di egoismo e di violenza diffusa a livello globale il male sembra prevalere. Ancor più si manifesta come forza che domina perché in questo quadro si avverte l’impotenza – da parte di chi avverte l’urgenza di resistere ed opporsi – di incidere con le proprie scelte e con il proprio impegno individuale o di piccoli gruppi. Movimenti di ampia portata hanno risonanza e si affermano: il rinnovato diffondersi della guerra e della violenza per dominare, l’oppressione attuata dal sistema economico, l’affermarsi di concezioni di razzismo, xenofobia, rigetto dell’altro. Ondate di male attraversano e pervadono il vivere sociale.

L’esperienza rinvia a domande che hanno segnato la riflessione umana nel tempo sul contrasto tra male e bene, sulla possibilità o meno d porre un argine e sconfiggere il male oppure se abdicare ad esso. Ma proprio l’esperienza e la lettura di situazioni e di atti di persone in situazioni di male può aprire alla considerazione che nonostante tutto c’è una resistenza del bene nel cuore umano, una resistenza profonda che come seme fa capolino e germoglia in modo sorprendente, inatteso. E contagia, con una fecondità di cui è difficile calcolare la portata: è la debole e fragile capacità del bene. La vita non è il male (ed. Salani 2016) è il titolo di un agile libro scritto a quattro mani da Gabriella Caramore e Maurizio Ciampa.

Il libro trae la sua ispirazione da una espressione di Vasilij Grossman, scrittore russo testimone di tragedie immani del Novecento, autore di Vita e destino, che nei suoi libri ha narrato i lager i gulag. Una frase che riassume la conclusione a cui lo stesso Grossman è giunto. Il bene si inframmezza come squarcio in situazioni senza respiro e senza apertura. E’ forza inerme ma rompe l’oppressione del male. E’ come piccolo seme che si fa spazio nella terra, crescendo laddove nessuno pensava la possibilità di novità e di vita. La vita non è il male.

Nonostante tutto, il male non riesce a cancellare ed eliminare del tutto il bene dall’esistenza umana. E’ un bene non teorico, nemmeno legato necessariamente a posizioni religiose o ideologiche. E’ il bene racchiuso in gesti singolari, sgorganti da una resistenza che si fa spazio nel cuore, un desiderio a salvare un pezzetto di Dio nella storia come diceva Etty Hillesum o anche una reazione a non venire meno ad un sogno di umanità. Gesti e scelte che squarciano la cappa nera dell’oppressione. Nonostante tutto il bene non viene cancellato, ma appare, improvvisamente, quasi come epifania, in situazioni diverse in cui sembra non esserci alternativa al buio della violenza e della cattiveria. Non nei termini di un progetto dispiegato come una grande forza che si oppone al male, ma nella debolezza e nella puntualità di gesti che fioriscono da scelte individuali, e che per questo salvano anche gli altri, coloro a cui sono rivolti, ma anche coloro che li vengono a conoscere. E salvano dalla disperazione e dal non senso.

Al cuore delle esperienze descritte nel libro sta la convinzione le scelte di singole persone, quelle che sono poste nella direzione del bene e che costruiscono, sono capaci di contagio. Si tratta di una forza fragile che si espande attraverso le reti di conoscenza di vicinanza di amicalità, quasi un passa-parola del bene che non ha confini. Una forza come di piccoli granelli di sabbia che si inframmezzano tra gli ingranaggi di una grande meccanismo interrompendolo o come di piccoli semi che da puntuali eventi singolari aprono ad un movimento che coinvolge e raduna.

E’ di questi giorni la notizia di una lettera scritta da una giovane studentessa del Burkina Faso in risposta ad una scritta violenta e razzista apparsa nei bagni dell’Università Ca’ Foscari di Venezia (F.Furlan, “Lettera a un mio coetaneo razzista che sui muri mi vuole uccidere” “La Repubblica” 12 marzo 2018). Al coetaneo razzista che sui muri invocava violenza sugli altri, Leaticia Ouedraogo indirizza queste parole: “Non devi uccidere me, devi uccidere quel mostro oscuro che si nutre delle tue paure e della tua ignoranza, ma anche della tua ingenuità. Ti auguro sinceramente di sconfiggere questi mostri”.

Alessandro Cortesi op

 

 

IV domenica di Quaresima – anno B – 2018

IMG_2254.jpg2Cr 36,14-23; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21

E’ la domenica della gioia nel cammino di quaresima che prepara alla pasqua. Le letture di oggi accompagnano a guardare al dono di salvezza, l’opera di Dio per noi.

Dio non si stanca di riproporre la sua alleanza con l’invio di messaggeri e profeti.: ‘premurosamente e incessantemente’ sono gli avverbi che indicano l’agire di Dio, che continua a riproporre la sua fedeltà senza venir meno. Ma i suoi inviati hanno trovato l’indifferenza e il rifiuto: “Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio”.

L’ira di Dio è attribuzione a Dio stesso di un atteggiamento umano: intende esprimere l’esperienza di incontro nella fede con un volto di Dio appassionato non lontano e distaccato, ma capace di attesa e desiderio. L‘ultima parola non è l’ira e il rigetto. Un rinnovato gesto di fedeltà si fa luce: un re pagano, Ciro di Persia, con il suo editto che pone fine all’esilio, apre al popolo d’Israele la possibilità del ritorno nella terra di Canaan. Per vie nuove e diverse all’interno delle vicende della storia si apre una nuova offerta di alleanza, un tempo nuovo.

Il IV vangelo pone nei capitoli iniziali il dialogo tra Gesù e Nicodemo, maestro ebreo e conoscitore delle Scritture. E’ uno degli incontri di Gesù, con un saggio, un maestro la cui figura diviene paradigma di molti altri che si avvicinano a Gesù con interrogativi e curiosità. A ncodemo Gesù fa scorgere altre dimensioni della sapienza e lo richiama ad un nuovo inizio. Gli parla dell’urgenza di una scelta e di un giudizio che si svolge a partire dal cuore: il cammino del credere non è conquista umana ma come affidamento nel rinascere dallo Spirito.

Gesù è testimone, secondo il IV vangelo, del volto di Dio che ama il mondo. Il suo venire non è per condannare. “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui.”

Nicodemo come ogni altro maestro e saggio si trova interpellato al di là del suo preteso sapere. L’incontro con Gesù non lascia indifferenti. La sua parola e il suo agire sono appello a prendere posizione. Si apre così una crisi. La vita può aprirsi ad orizzonti di futuro e di pienezza oppure inoltrarsi nelle tenebre: “la luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno scelto le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage”. Credere in Gesù lui è movimento del cuore, implica orientare la propria esistenza in un affidamento. L’andare verso di lui porta ad una comunione aperta oltre il tempo, nella vita di Dio.

All’anziano maestro ebreo Gesù propone di nascere di nuovo, nascere dall’alto. Nonostante la sua età può nascere ancora: lo può sperimentare nel volgersi a Gesù come nel deserto il popolo d’Israele si rivolgeva al segno del serpente posto sull’asta da Mosè segno di guarigione (Num 21,4-9). “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15).

Innalzamento sta ad indicare la morte della croce. Sulla croce Gesù è l’innalzato. Ricordare la croce è memoria della morte dell’umiliato e schiacciato dal potere. E’ il segno del fallimento. Ma lì sulla croce Gesù manifesta il limite cui giunge l’amore del Dio. Gesù si manifesta come il Figlio. Consegnato dal Padre, nella libertà si consegna. La croce per il IV vangelo è già manifestazione della gloria di Dio, di risurrezione, della forza di vita dell’amore. A chi guarda la croce Gesù pone la questione di affidarsi a lui e percorrere la sua via. Il giudizio si compie nell’accogliere questo invito. Gesù vive l’umiliazione e la condanna, ma sulla croce è già presente l’innalzamento della Pasqua. Lì si manifesta che l’ultima parola è quella dell’amore e del servizio. Sotto la croce inizia un raduno nuovo: “Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Ed è questo movimento che si prolunga nella storia dell’umanità e diviene chiamata.

Alessandro Cortesi op

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Morte e speranza

“Sono davanti a voi in nome di un popolo che ha deciso sul suolo dei propri antenati di affermare d’ora in avanti se stesso e farsi carico della propria storia. Oggi vi porto i saluti fraterni di un paese di 274.000 Km2 in cui sette milioni di bambini, donne e uomini si rifiutano di morire di ignoranza, di fame e di sete non riuscendo più a vivere (…) Chi mi ascolta mi permetta di dire che parlo non solo in nome del mio Burkina Faso, tanto amato, ma anche di tutti coloro che soffrono in ogni angolo del mondo. Parlo in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti perché hanno la pelle nera o perché sono di culture diverse, considerati poco più che animali. Soffro in nome degli Indiani d’America che sono stati massacrati, schiacciati, umiliati e confinati per secoli in riserve così che non potessero aspirare ad alcun diritto e la loro cultura non potesse arricchirsi con una benefica unione con le altre, inclusa quella dell’invasore. Parlo in nome di quanti hanno perso il lavoro, in un sistema che è strutturalmente ingiusto e congiunturalmente in crisi, ridotti a percepire della vita solo il riflesso di quella dei più abbienti.

Con queste parole Thomas Sankara si rivolgeva all’assemblea dell’ONU il 4 ottobre 1984. Il suo fu uno dei degli appassionati discorsi davanti in ambito internazionale che fecero risuonare la voce di un rappresentante dell’Africa della zona del Sahel, la più povera e sottosviluppata nel tempo della decolonizzazione. Un rappresentante di un popolo che condusse avanti un sogno di liberazione e di integrità fino a che le armi fecero tacere la sua voce coraggiosa che aveva aperto speranza e dignità per un Paese tra quelli dimenticati della terra e per tutta l’Africa.

Prima di lui il paese da cui proveniva era denominato Alto Volta, ed era stato l’esito della divisione territoriale seguita alla fine della colonizzazione che aveva smembrato appartenenze culturali, gruppi e tradizioni. Con lui il paese cambiò nome: si chiamò Burkina Faso. Il termine mette insieme le due principali lingue del paese e significa: ‘paese degli uomini integri’. Burkina, in lingua moré indica ‘uomini di valore’, Faso nella lingua dioula significa ‘patria’.

In questo cambiamento di nome è in qualche modo riassunto il progetto politico e il sogno ideale che animò l’impegno di Thomas Sankara. Nato nel 1949 in una famiglia in cui il padre era stato militare per l’esercito francese, aveva potuto accedere alla scuola, poi al liceo cattolico. La sua famiglia ebbe i mezzi per farlo entrare nell’esercito e durante la sua formazione militare Sankara maturò la convinzione che i militari dovessero essere formati ed educati per divenire cittadini ma anche per essere una forza promotrice di emancipazione e sviluppo della popolazione. In Madagascar all’Accademia militare maturò le idee di una rivoluzione democratica e popolare. Giunse ad essere ufficiale con grande autorevolezza. Ai suoi soldati chiese di promuovere servizi di pubblica utilità come lo scavo di pozzi per l’acqua e il rimboschimento contro l’avanzata del deserto.

Il governo del Paese dopo la fine della colonizzazione francese aveva visto vari cambiamenti con colpi di stato. Dal 1970 i protagonisti erano quadri militari. Dopo un periodo di scioperi nel novembre 1980 un colpo di Stato militare del colonnello Sayé-Zerbo rovesciò il governo ma presto la situazione di corruzione si affermò nuovamente. Nel 1982 un altro colpo di Stato porta Sankara ad essere nominato primo ministro nel governo di Jean-Baptiste Ouedraogo. Ma nel 1983 a causa delle sue posizioni e per l’affermarsi della sua fama fu arrestato. Tuttavia tale scelta coagulò la solidarietà attorno a lui e una rivolta popolare e dei militari lo condusse ad essere presidente del Paese il 4 agosto 1983. Il suo progetto da presidente è così sintetizzato: “Democratizzare la nostra società, aprire gli animi ad un universo di responsabilità collettiva per osare inventare il futuro”.

Egli ha chiaro l’obiettivo di realizzare una liberazione dall’imperialismo occidentale che dopo la fine del colonialismo si è affermato in modi più pervasivi in ciò che egli definisce ‘la colonizzazione delle mentalità’. Il suo impegno va nella direzione di promuovere una autonomia dei paesi dell’Africa rispetto agli aiuti internazionali che in qualche modo sono un ricatto e una nuova forma di oppressione. “Ne abbiamo davvero abbastanza di questi aiuti alimentari, che immettono nelle nostre menti riflessi da mendicante, da assistito bisogna produrre, produrre di più perché è normale che chi vi dà da mangiare vi detti anche le sue volontà”.

Con il recupero della tradizione locale nella coltivazione e nella produzione di tessuti mira ad affermare che è possibile emanciparsi dalla miseria anche da parte di Stati poveri come il Burkina. Il suo progetto politico si concentra sull’agricoltura per permettere a tutti una sufficiente alimentazione quotidiana e il superamento della fame. L’industria viene orientata a produzione di beni di prima necessità in contrasto con forme di dipendenza dalle importazioni e dagli aiuti.

“La nostra rivoluzione avrà valore solo se, guardando intorno a noi, potremo dire che i Burkinabé sono un po’ più felici grazie a essa. Perché hanno acqua potabile e cibo abbondante e sufficiente, sono in splendida salute, perché hanno scuola e case decenti, perché sono meglio vestiti, perché hanno diritto al tempo libero; perché hanno l’occasione di godere di più libertà, più democrazia, più dignità. La rivoluzione è la felicità. Senza felicità, non possiamo parlare di successo” (Discorso a Tenkodogo 2 ottobre 1987).

Perseguì anche una politica di rigore morale porta all’eliminazione di privilegi della classe politica e dei ministri a cui impose di usare semplici Renault 5. Viene attuato un progetto di rimboschimento per contrastare la desertificazione di ampie aree del Paese. Lo sforzo per la promozione della scolarizzazione vede in pochi anni esiti importanti così come le campagne di vaccinazione contro le malattie e l’attenzione ai diritti delle donne.

“Parlo in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti perché hanno la pelle nera o sono di culture diverse, considerati da tutti poco più che animali. Parlo  in nome di quelli che hanno perso il lavoro in un sistema che è strutturalmente ingiusto e congiunturalmente in crisi, ridotti a percepire della vita solo il riflesso di quella dei più abbienti. Parlo in nome delle donne del mondo intero che soffrono in nome di un sistema maschilista che le sfrutta. Le donne che vogliono cambiare hanno capito e urlano a gran voce che lo schiavo che non organizza la propria ribellione non merita compassione per la sua sorte. Questo schiavo è responsabile della sua sfortuna se nutre qualche illusione quando il padrone gli promette libertà”. (Discorso all’ONU, 4 ottobre 1984).

La linea di produrre e consumare burkinabé evitando importazioni di frutta verdura che annullano il mercato e la produzione locale apre a un nuovo dinamismo per cui prodotti locali sono acquistabili sul posto di lavoro e si dà spazio all’invito ad usare gli abiti tradizionali prodotti in modo artigianale, il Faso dan fani.

“La cosa più importante è aver condotto il popolo ad aver fiducia in se stesso, a capire che finalmente può sedersi e scrivere la propria storia; può sedersi e scrivere la sua felicità; può dire quello che vuole. E allo stesso tempo, sentire qual è il prezzo da pagare per questa felicità”.

Nei rapporti internazionali Sankara conduce la battaglia contro il pagamento del debito. Questo è da lui denunciato come continuazione del potere coloniale che conduce all’immiserimento dei paesi africani, riproposizione di controllo e colonizzazione dell’Africa da parte delle istituzioni finanziarie internazionali. All’Organizzazione dell’Unità Africana dice: “Vorrei dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito… Questo per evitare che ci facciamo assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo si rifiuta di pagare il debito, io non sarò presente alla prossima conferenza”.

Non ebbe paura di parlare con orgoglio e coraggio di fronte all’assemblea dell’ONU e a manifestare la sua visione in contrasto con la visione colonialista anche di fronte al presidente francese François Mitterrand.

Il 15 ottobre 1987 Thomas Sankara in un complotto fu assassinato. Ad ora non è stata fatta chiarezza sulle responsabilità né è stato avviato un processo per individuare i colpevoli. Un ruolo decisivo lo ebbe certamente Blaise Compaoré, suo stretto collaboratore, sostenuto dalla Francia e dagli USA. Compaoré divenne poi per molti anni esecutore delle politiche liberiste nella regione e stretto alleato di Parigi.

Dopo ventisette anni di governo di Blaise Compaoré, dal 2014, la situazione in Burkina Faso è mutata con inizio di un periodo di transizione a seguito di una insurrezione popolare. Compaoré è fuggito in Costa d’Avorio. Nel marzo del 2015 è stata avviata un’inchiesta sulla morte di Thomas Sankara. Il 27 novembre 2017 Emmanuel Macron in un discorso all’università di Ouagadougou ha promesso che tutti i documenti prodotti dalla amministrazione francese durante la presidenza di Sankara e dopo il suo assassinio siano declassificati e consultati in risposta alle richieste della giustizia burkinabé. Un segno di un possibile cambiamento della politica francese in Africa. Il 7 febbraio la commissione rogatoria è stata affidata ad un giudice francese. La rete Justice pour Sankara justice pour l’Afrique, ha accolto questa decisione come un passo in avanti decisivo per la ricerca della verità.

“Riconoscendoci parte del Terzo mondo vuol dire, parafrasando José Martí, ‘affermare che sentiamo sulla nostra guancia ogni schiaffo inflitto contro ciascun essere umano ovunque nel mondo’. Finora abbiamo porto l’altra guancia, gli schiaffi sono stati raddoppiati. Ma il cuore del cattivo non si è ammorbidito. Hanno calpestato le verità del giusto. Hanno tradito la parola di Cristo e trasformato la sua croce in mazza. Si sono rivestiti della sua tunica e poi hanno fatto a pezzi i nostri corpi e le nostre anime”.

Così parlava Sankara all’Onu. Il suo percorso di uomo probo, la sua dedizione per un progetto politico di liberazione e di affermazione della dignità dei paesi africani e dei popoli impoveriti, il suo sguardo che si allargava a considerare la necessità di una alleanza dei popoli poveri per farsi solidali con tutti gli oppressi, è un seme gettato per il cammino dei paesi africani ma ha anche una validità particolare nel mondo attuale in cui i medesimi meccanismi oppressivi e di colonizzazione sono tuttora in atto e presenti.

Alessandro Cortesi op

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Per approfondire:

Bruno Jaffré, Thomas Sankara. La patrie ou la mort (1997), ed. L’Harmattan, Paris.

Bruno Jaffré, Thomas Sankara ou la dignité de l’Afrique “Le Monde Diplomatique” 7.10.2007

Il discorso integrale all’ONU in traduzione italiana di Marinella Correggia

Gabriella Giudici, Thomas Sankara, la seconda indipendenza africana, pagina blog con alcuni filmati sulla vita e discorsi.

Daniele Bellocchio, Quei misteri dietro la morte di Thomas Sankara 13.12.2017.

www.thomassankara.net

 

III domenica di Quaresima – anno B – 2018

IMG_2120Es 20,1-17; 1 Cor 1,22-25; Gv 2,13-25

Dopo la pagina dell’alleanza con Noè e quella della legatura di Isacco, un altro passaggio della storia dell’alleanza è suggerito dalla prima lettura: il dono della legge a Israele. Il percorso di quaresima è una preparazione tutta orientata alla Pasqua di Gesù e fa ripercorre la storia delle alleanze di Dio con l’umanità.

La legge data a Mosè è via per un’esistenza nell’incontro con il Dio liberatore. Le parole dei comandamenti acquistano senso a partire dalla prima parola, chiave di tutta la legge: “Io sono il Signore, tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù”. Le dieci parole sono così declinazione nella quotidianità dell’unica parola dell’amore che racchiude il nome stesso di Dio e il suo impegno incondizionato di fedeltà. Dio è sceso a liberare Israele, vittima di oppressione. La legge indica una via di libertà (racchiusa nelle prime tre parole che parlano della relazione con Jahwè) e di un nuovo modo di impostare la vita nelle relazioni con gli altri (le altre sette parole). Su questa via Israele è chiamato a liberarsi da idoli vani e scoprire che nel rispondere a Dio e nel servizio sta il compimento della propria vita.

Per Paolo parola definitiva di Dio è Gesù Cristo. Paolo sottolinea che il suo sguardo è rivolto a Gesù nella morte di croce che ha sofferto. In rapporto a lui, il crocifisso, si può trovare il senso profondo del comandamento: “Se mi amate osserverete i miei comandamenti…. Voi siete miei amici perché fate quello che vi comando” (Gv 14,15; 15,14).

Il IV vangelo pone l’episodio della cacciata dei venditori dal tempio all’inizio della attività pubblica di Gesù, nei giorni della festa di Pasqua. Giovanni presenta Gesù come agnello che dà la sua vita e muore mentre nel tempio venivano uccisi gli agnelli per la cena pasquale. Anche a lui non viene spezzato alcun osso (cfr. Es 12,46; Gv 19,36).

Nel gesto nel tempio è racchiusa l’indicazione di inizio di un tempo nuovo, del messia: secondo la profezia di Zaccaria nei tempi messianici non ci sarebbe stato “più nessun mercante nella casa del Signore degli eserciti” (Zac 14,21). Il gesto di Gesù è così critica allo snaturamento del culto ma anche indicazione del ‘nuovo tempio’, quello della sua umanità e di un culto vissuto in spirito e verità (cfr. Gv 4,21-24): “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere… egli parlava del tempio del suo corpo”. anche il segno del tempio rinvia alla persona di Gesù. In lui si apre possibilità di accesso al Padre: egli parla della ‘casa del Padre mio’: con Gesù è giunto il tempo del culto in spirito e verità. Il IV vangelo presenta la croce come luogo in cui si manifesta la gloria di Dio: il volto l’amore.

“Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù”. ‘Ricordare’ è comprendere il senso profondo dei gesti di Gesù alla luce della risurrezione, ricordare è profondamente connesso al cammino del credere.

Alessandro Cortesi op

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Lavoro

“Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio”

A dieci anni circa di distanza dall’inizio della crisi economica che ha segnato la vicenda internazionale, l’esperienza quotidiana pone davanti agli occhi una trasformazione del mondo del lavoro e delle sue forme. In Italia, nonostante le riforme attuate, l’impatto della crisi è stato pesantissimo sulla vita quotidiana delle famiglie e soprattutto sui più fragili, e continua ad esserlo soprattutto per i giovani ma non solo. Al momento attuale la disoccupazione giovanile è all’11 %, con percentuali preoccupanti al Sud e con il fenomeno di chi vive in una condizione di inattività e delusione in cui non si ha un lavoro e nemmeno lo si cerca. E il tasso di disoccupazione del nostro Paese è insieme a Grecia e Spagna uno dei più alti in Europa.

I dati sul mondo del lavoro in Italia manifestano alcuni elementi rilevanti: Roberta Carlini, Cosa resta del lavoro in Italia dopo dieci anni di crisi, “Internazionale” 18 dicembre 2017.

Secondo l’ISTAT il livello degli occupati a fine 2017 si avvicina a quello del periodo pre-crisi con un notevole incremento soprattutto nell’ultimo anno. Tuttavia c’è anche da osservare come i nuovi posti di lavoro siano per lo più precari e con retribuzioni molto basse in situazione di sottoccupazione. E’ in aumento il fenomeno del part-time ma ancora i dati Istat rilevano l’aumento del part-time involontario cioè imposto dalle aziende e che interessa circa il 19% delle donne. (Mai così tanta gente al lavoro in Italia, Il Post 14.01.2018)

Il fenomeno più rilevante è la trasformazione del mondo del lavoro in un ambito in cui sempre più si affermano i ‘rapporti brevi’, cioè tutte le forme di lavori precari e saltuari che costituiscono soprattutto per molti giovani l’unico modo di impegnarsi nell’ambito lavorativo: quattro milioni di persone sono coinvolte in queste modalità di lavoro costituite da chi lavora prestando collaborazioni con la partita IVA o da chi è assunto con contratti a termine. Per quel che riguarda la disoccupazione emerge un pesante divario tra il Nord Italia e il Sud del Paese e tra la situazione degli uomini e quella delle donne. Se l’occupazione femminile risulta in crescita ciò appare dovuto principalmente alla riforma delle pensioni con l’allungamento dell’età pensionabile delle donne, soprattutto nel settore privato. Per quanto riguarda le retribuzioni i dati fanno emergere come rispetto a dieci anni fa vi sia stato un regresso.

Un bel film del regista Daniele Vicari dal titolo Sole cuore amore con una intensa interpretazione di Isabella Ragonese, ha portato sul grande schermo la fatica quotidiana che spesso va oltre ogni capacità di sopportazione, vissuta soprattutto dalle donne in famiglie segnate dalla perdita del lavoro e da condizioni di occupazione precarie. Anche la solarità di una donna aperta generosamente alla vita, il suo grande cuore e l’amore del contesto familiare con la solidarietà di persone vicine, non riescono a fronteggiare una situazione di crisi economica e la perdita del lavoro del marito.

A fronte di questa situazione c’è chi come Marta Fana, ricercatrice all’Istituto di studi politici Sciences Po a Parigi, non esita a lanciare un monito pesante: Non è lavoro, è sfruttamento (ed.Laterza 2017). La critica che emerge da un’indagine condotta nel mondo del lavoro in Italia nel riportare dati e nel riferirsi a storie e volti, si può sintetizzare nei termini di una progressiva proletarizzazione del mondo del lavoro.

La ricerca fa emergere un panorama in cui è fortemente presente la sottoccupazione, il venir meno di tutele e l’imposizione di una flessibilità che si traduce in ritmi di lavoro insopportabili o sfruttamento nei lavori a tre euro l’ora. Alla domanda “Cos’è che unisce fattorini in bicicletta, ricercatori precari, voucheristi ecc.?” (L.Baratta, Intervista a “Linkiesta”) risponde: “Il filo rosso è il capovolgimento della retorica che ha accompagnato il processo di riforma del mercato del lavoro: la sottrazione di diritti e spazi di democrazia nei luoghi di lavoro non è funzionale ad avere più crescita e miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza dei lavoratori, ma i lavoratori sono strumenti non neutrali che hanno permesso l’arricchimento di una parte della società, una minoranza, a discapito della maggioranza”.

La ricercatrice rileva come “il lavoro sembra essere stato estromesso dalla cultura e dall’immaginario se non in senso denigratorio, per non parlare di quando si chiedono diritti e tutele. Pensiamo a come viene trattato uno sciopero dei trasporti pubblici locali o il caso Ryanair: tutti parlano dei disagi ai clienti consumatori, nessuno dei disagi ai lavoratori che svolgono turni massacranti, sotto ricatto a ogni cambio di appalto”.

Alla parte critica corrisponde in positivo la richiesta che il riferimento alla Costituzione sia presente nei luoghi di lavoro e la proposta di eliminare le modalità di lavoro povero, e quelle forme di precarizzazione che hanno pesanti conseguenze sull’intera esistenza delle persone.

L’attenzione al lavoro è un’insistenza particolare e sentita negli interventi di papa Francesco. Qui un breve video del suo discorso a Scampia (21 marzo 2015) e di seguito stralci di discorsi in momenti diversi, con molteplici accenti:

“Dio ha voluto che al centro del mondo non sia un idolo, sia l’uomo, l’uomo e la donna, che portino avanti, col proprio lavoro, il mondo. Ma adesso, in questo sistema senza etica, al centro c’è un idolo e il mondo è diventato idolatra di questo “dio-denaro”. Comandano i soldi! Comanda il denaro! Comandano tutte queste cose che servono a lui, a questo idolo. E cosa succede? Per difendere questo idolo si ammucchiano tutti al centro e cadono gli estremi, cadono gli anziani perché in questo mondo non c’è posto per loro! Alcuni parlano di questa abitudine di “eutanasia nascosta”, di non curarli, di non averli in conto… “Sì, lasciamo perdere…”. E cadono i giovani che non trovano il lavoro e la loro dignità. Ma pensa, in un mondo dove i giovani – due generazioni di giovani – non hanno lavoro. Non ha futuro questo mondo. Perché? Perché loro non hanno dignità! E’ difficile avere dignità senza lavorare. Questa è la vostra sofferenza qui. Questa è la preghiera che voi di là gridavate: “Lavoro”, “Lavoro”, “Lavoro”. E’ una preghiera necessaria. Lavoro vuol dire dignità, lavoro vuol dire portare il pane a casa, lavoro vuol dire amare! Per difendere questo sistema economico idolatrico si istaura la “cultura dello scarto”: si scartano i nonni e si scartano i giovani. E noi dobbiamo dire “no” a questa “cultura dello scarto”. Noi dobbiamo dire: “Vogliamo un sistema giusto! un sistema che ci faccia andare avanti tutti”. Dobbiamo dire: “Noi non vogliamo questo sistema economico globalizzato, che ci fa tanto male!”. Al centro ci deve essere l’uomo e la donna, come Dio vuole, e non il denaro!” (Francesco, Incontro con il mondo del lavoro; discorso pronunciato, Cagliari 22 settembre 2013)

“Vorrei condividere con voi tre punti semplici ma decisivi. Il primo: rimettere al centro la persona e il lavoro. La crisi economica ha una dimensione europea e globale; ma la crisi non è solo economica, è anche etica, spirituale e umana. Alla radice c’è un tradimento del bene comune, sia da parte di singoli che di gruppi di potere. È necessario quindi togliere centralità alla legge del profitto e della rendita e ricollocare al centro la persona e il bene comune. E un fattore molto importante per la dignità della persona è proprio il lavoro; perché ci sia un’autentica promozione della persona va garantito il lavoro. Questo è un compito che appartiene alla società intera, per questo va riconosciuto un grande merito a quegli imprenditori che, nonostante tutto, non hanno smesso di impegnarsi, di investire e di rischiare per garantire occupazione. La cultura del lavoro, in confronto a quella dell’assistenzialismo, implica educazione al lavoro fin da giovani, accompagnamento al lavoro, dignità per ogni attività lavorativa, condivisione del lavoro, eliminazione di ogni lavoro nero” (Francesco, Incontro col mondo del lavoro, discorso scritto, Cagliari 22 settembre 2013)

“…ho sentito tante volte questa angoscia: l’angoscia di poter perdere la propria occupazione; l’angoscia di quella persona che ha un lavoro da settembre a giugno e non sa se lo avrà nel prossimo settembre. Precarietà totale. Questo è immorale. Questo uccide: uccide la dignità, uccide la salute, uccide la famiglia, uccide la società. Il lavoro in nero e il lavoro precario uccidono” (Francesco, videomessaggio alla settimana sociale dei cattolici, Cagliari 26.10.2017).

“Gli uomini e le donne si nutrono del lavoro: con il lavoro sono “unti di dignità”. Per questa ragione, attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale. Questo è il nocciolo del problema. Perché quando non si lavora, o si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi, è tutto il patto sociale. E’ anche questo il senso dell’articolo 1 della Costituzione italiana, che è molto bello: “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”. In base a questo possiamo dire che togliere il lavoro alla gente o sfruttare la gente con lavoro indegno o malpagato o come sia, è anticostituzionale. Se non fosse fondata sul lavoro, la Repubblica italiana non sarebbe una democrazia, perché il posto di lavoro lo occupano e lo hanno sempre occupato privilegi, caste, rendite” (Francesco, Incontro con il mondo del lavoro, Genova 27 maggio 2017).

Sei giorni lavorerai…

Alessandro Cortesi op

 

II domenica – tempo ordinario – anno C 2016

Cana+part+anfore+Rupnik+basilica+del+Rosario+a+Lourdes.jpgIs 62,1-5; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-12

Termine chiave nel racconto delle nozze di Cana è ‘segno’: il IV vangelo pone a Cana il primo dei sette segni compiuti da Gesù che si susseguono fino al momento della croce a Gerusalemme. Non si parla di gesti di potenza e liberazione di Gesù come nei vangeli sinottici, ma di ‘segni’. Il segno rinvia ad un oltre, è freccia puntata, indicazione, apertura.

A Cana si svolge una festa nozze, e questo momento è collocato in un tempo preciso: il terzo giorno. E’ questo il giorno in cui Abramo legò Isacco (Gen 22,4), Giona fu salvato dal grande pesce (Gn 2,1), la regina Ester si presentò davanti al re a Assuero (Est 4,16; 5,1). Il terzo giorno è indicazione e rinvio ad un tempo in cui si sta compiendo salvezza e nuova creazione: un intervento di Dio che fa alleanza.

Paradossalmente nel quadro di questo racconto di nozze le figure dello sposo e della sposa sono assenti, o appaiono in modo del tutto marginale. Non è allora la questione del matrimonio al centro di questa pagina. Piuttosto altri riferimenti sono da considerare. Certamente c’è una sottile ripresa di pagine dell’alleanza Es 19-24: lì Dio aveva chiamato Mosè sulla montagna, poi Mosè scese dalla montagna e chiese al popolo di purificarsi, e il popolo prese l’impegno di fare tutto quello che Mosì aveva detto. Così a Cana Gesù è chiamato alle nozze, dopo la festa scende a Cafarnao, e nel racconto le sei giare di pietra sono per la purificazione e i servi sono invitati a fare tutto quello che Gesù dirà loro. Così in Es 19,9 Dio si manifesta nella nube e Giovanni dice che Gesù manifestò la sua gloria. La rivelazione del Sinai conduce il popolo a credere: la conclusione dell’episodio di Cana sta nella considerazione che i discepoli ‘credettero in lui’. Mosè fa da interprete tra Dio e il popolo, in Gv 2 Maria-madre sta in mezzo e si fa interprete di un dono di vita e di gioia. I riferimenti all’alleanza del Sinai tra Dio e Israele sono il quadro di riferimento di base entro cui leggere il racconto. Non di una scena di matrimonio si tratta allora. Piuttosto a partire dal gesto di Gesù che volentieri partecipava alle feste e condivideva la tavola, e che partecipò ad un banchetto a Cana il racconto intende raccontare la gioia dell’incontro dell’alleanza di Dio con l’umanità nella persona di Gesù. E’ in questione l’alleanza con Israele e una novità che si pone in rapporto ad una storia di incontro. Gesù porta gioia e abbondanza: è lui lo sposo che rende presente la gioia propria del tempo del messia.

Accanto a Gesù nel racconto appare la figura di Maria, indicata con due termini, madre e donna. A lei che indica la mancanza. Gesù si rivolge con parole da approfondire: “Che ho da fare con te, donna?”. ‘Donna’ ritorna nel IV vangelo nell’incontro con la samaritana (Gv 4,21) con Maria Maddalena (Gv 20,13) e sotto la croce nella consegna del discepolo amato alla madre: ‘Donna, ecco tuo figlio’. Queste persone divengono figure della comunità-popolo chiamato ad accogliere il rapporto di amore offerto in modo nuovo, gratuito da Gesù.

Gesù risponde alla madre dicendo che non è ancora giunta la sua ‘ora’.  Più volte ritorna nel Iv vangelo l’indicazione che ‘non era ancora giunta la sua ora’ (Gv 7,30; 8,20;12,23.27). L’ora della vita di Gesù è l’ora della croce. Coincide con l’ora della glorificazione, della gloria di Dio che si manifesta nel volto del crocifisso. Momento chiave per comprendere quando sia l’ora di Gesù è all’inizio del racconto della passione: ‘sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine’ (13,1). L’ora di Gesù è il punto di convergenza di tutte le scelte della sua vita. Tutti i suoi gesti sono opere e segni orientati all’ora della gloria di Dio, nell’amore della croce. A Cana Gesù oppone una resistenza. I suoi gesti sono segni. Il segno deve essere inteso in quella direzione. L’ora di Gesù è il tempo di offerta di un rapporto nuovo che vince ogni infedeltà e allontanamento.

Le parole della madre: ‘fate quello che vi dirà’ sono indicazione di cammino, evocando un testo dell’alleanza  del Sinai (‘quello che Dio dice noi lo faremo e lo ascolteremo…’ Es 19,8) offre una chiave per comprendere come la questione cnetrale è quella dell’alleanza. Il segno che Gesù sta per compiere è rinvio ad un incontro nuovo, in cui egli stesso è sposo.

Sei giare piene di acqua che giacciono per terra vedono il loro contenuto trasformato, divengono contenitori di vino così buono da suscitare lo stupore di chi dirigeva il banchetto: il segno di Cana è il vino, segno di abbondanza e di gioia, dono messianico che parla del tempo di una vicinanza di Dio. Queste giare inutili e vuote divengono metafore di una religiosità che pur seguendo le prescrizioni non sa entrare nella dinamica dell’amore, al cuore della fede.

Il vino ritorna come elemento proprio del rapporto di amore descritto nel Cantico dei Cantici e letto come relazione di amore tra Dio e il suo popolo: “Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore” (Ct 2,4). Ed è segno che rinvia alla venuta del messia quando proprio l’abbondanza di vino costituirà il segno di una vita nuova. Molte pagine bibliche rinviano al banchetto con un preciso significato messianico. Isaia parla di un ‘banchetto di grasse vivande, di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati (Is 25,6). L’incontro di Dio con il suo popolo era presentato nell’immagine di uno sposalizio: “Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo creatore; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” (Is 62,4-5).

La coltivazione dell’olivo e della vigna compaiono nei testi profetici che parlano del tempo messianico: “Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano, coltiveranno le vigne, famose come il vino del Libano” (Os 14,7). Così anche in Amos: “Ecco verranno giorni – dice il Signore – in cui chi ara s’incontrerà con chi miete e chi pigia l’uva con chi getta il seme; dai monti stillerà il vino nuovo e colerà giù per le colline. Farò tornare gli esuli del mio popolo Israele, e ricostruiranno le città devastate e vi abiteranno; pianteranno vigne e ne berranno il vino e ricostruiranno le città devastate e vi abiteranno; pianteranno vigne e ne berranno il vino, coltiveranno giardini e ne mangeranno il frutto. Li pianterò nella loro terra e non saranno mai divelti da quel suolo che io ho concesso loro, dice il Signore tuo Dio” (Am 9,13-15; cfr. Ger 31,12).

Al culmine del banchetto il vino buono e raffinato è simbolo del tempo in cui viene il messia. Il segno di Cana va colto in rapporto all’ora di Gesù. Gesù è presentato nei tratti del messia: la sua presenza porta gioia. Gioia è la caratteristica del tempo dell’intervento definitivo di Dio nella storia: è Gesù il vino nuovo e buono che “rallegra il cuore dell’uomo” (Sal 104,15).

Accanto a lui la ‘donna’, nuova Eva, vive l’atteggiamento della fede: ‘fate quello che vi dirà’. Nella figura di Maria il IV vangelo indica la vicenda del popolo-chiesa, indicazione dell’umanità radunata sotto la croce nell’ora di Gesù, da cui riceve vita e affidamento.

Anche il segno di Cana è allora manifestazione (epifania). Invita a tronare a Gesù, a mettere al centro di ogni cammino di fede la sua presenza, segnata dalla sua ora. L’incontro è alleanza, possibilità di accogliere gioia come dono di vita che capovolge ogni tristezza, che vince ogni situazione di buio e di morte.

«Questo principio dei segni fece Gesù in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria e cominciarono a credere in lui i suoi discepoli» (Gv 2,11) Cana può essere letto come momento che richiama il Sinai, momento di rivelazione della gloria di Dio stesso che si è raccontata nell’agire di Gesù. E’ incontro che parla di alleanza, di un tempo nuovo segnato dalla gioia come scoperta dell’amore donato, aperto all’umanità chiamata ad entrare in questo incontro.

Alessandro Cortesi op

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Io sto con la sposa

Un film nato da un’amicizia e venuto fuori da sé, quasi impostosi come esigenza per tre amici: Gabriele Del Grande, scrittore e giornalista, autore del blog “Fortess Europe” in cui da anni ricorda e denuncia le morti di migranti nel Mediterraneo, Khaled Soliman Al Nassiry, poeta e direttore di una casa editrice araba e Antonio Augugliano, regista e editor cinematografico. “L’elemento che ci ha messo insieme è stata l’amicizia, niente più. Questo infatti è un progetto spontaneo: non ci abbiamo messo mesi a pensarlo, ma è nato dall’urgenza di aiutare cinque amici palestinesi e siriani a continuare il viaggio. Li avevamo conosciuti io e Khaled alla stazione e una sera con Antonio ci è venuta l’idea della sposa. A quel punto non potevamo non farne un film”.

‘Io sto con la sposa’ (2014) è un film che racconta di un matrimonio con sposi e invitati, ma gli uni e gli altri sposi sono di tipo particolare. Formano insieme un corteo nuziale che parte da Milano per raggiungere Stoccolma in Svezia. Un corteo di tal genere non viene fatto oggetto di controlli, di stop alle frontiere, di perquisizioni. Le danze e la gioia degli amici fanno da cornice al candore dell’abito della sposa.

E’ un film senza casting, o meglio un casting che ha trovato i registi piuttosto che essere stato cercato. E qui iniziano le sorprese. Il nome dello sposo è Abdallah, ed effettivamente è uno studente universitario. La sposa Tasneem è siriana proveniente dal campo profughi di Yarmouk a Damasco. Nella realtà i due non sono affatto sposo e sposa. Con loro ci sono Mona e Ahmed una coppia sposata, e poi Alaa che faceva il barbiere ed ha vissuto il viaggio con uno dei suoi tre figli, Manar di dodici anni.

Sì, il viaggio… In effetti ‘Io sto con la sposa’ è film che narra il percorrere una strada, un passaggio di frontiere per far proseguire un viaggio: il film non è fiction, ma documentario, girato in diretta nell’immersione in una storia e provando i rischi concreti del viaggio. E’ infatti la documentazione di un attraversamento di terre e di frontiere da parte di alcuni amici, italiani, palestinesi e siriani che, travestendosi, assumono i ruoli degli sposi e del corteo nuziale, per raggiungere il nord Europa.

Gabriele Del Grande riporta le emozioni alla vigilia della partenza: “Eravamo felici perché il gruppo aveva una bellissima energia e sentivamo che stavamo facendo la cosa giusta. Questa per noi era una certezza. Allo stesso tempo avevamo paura che ci arrestassero lungo la strada, perché avevamo in macchina cinque persone senza passaporto. Per noi nessun essere umano è illegale, ma non per le leggi europee e quindi temevamo che potessimo passare dei guai in frontiera”.

A Marsiglia un grande momento di gioia: la possibilità per Manar, dodicenne appassionato del rap di poter seguire un concerto: per lui era la prima volta, dopo aver visto con i suoi occhi la distruzione della guerra nel suo paese in Siria.

Un corteo nuziale quindi che ha sfidato le leggi sullo spostamento delle persone nella ‘Fortezza Europa’. Un matrimonio al centro, con la gioia del corteo nuziale: una gioia che tratteneva il dramma della migrazione, il dolore del distacco e le incertezze del futuro. Una favola drammaticamente reale raccontata con levità per rompere il muro dell’indifferenza. Un film denuncia, intriso di gioia e di leggerezza, per far cogliere il dramma che centinaia di migliaia di persone stanno vivendo, per aprire gli occhi sulle responsabilità di garantire diritti e dignità a chi affronta il migrare alla ricerca di una vita nuova.

Gesù fu invitato ad una festa di nozze a Cana….

Alessandro Cortesi op

 

 

 

XXI domenica – ordinario B – 2015

DSCN0944Gs 24,1-2a.15-17.18b; Ef 5,21-32; Gv 6,60-69

La grande assemblea di Sichem è vivace descrizione di un momento di alleanza dopo il cammino nel deserto. Giosuè chiede alle tribù d’Israele una decisione, provoca ad una scelta di parte: “Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire: se gli dèi che i nostri padri servirono oltre il fiume (Eufrate), oppure gli dèi degli Amorrei, nel paese dei quali abitate”

Questa scelta sorge dalla memoria di un cammino e di un’esperienza di scoperta. Nel suo lungo discorso Giosuè ripercorre infatti le tappe di una storia scandita dai segni della presenza di Dio che ha ascoltato il grido dell’oppressione e ha fatto uscire dalla schiavitù. Da questa memoria sorge l’invito a prendere posizione e a scegliere per un rapporto diretto e personale con JHWH che impegni l’esistenza e il futuro. “Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi! Perché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i nostri padri dal paese d’Egitto… Perciò anche noi vogliamo servire il Signore perché egli è il nostro Dio”. La scelta è di stare con il Dio di Abramo, di Isacco e di Mosè, il Dio vicino che si relaziona ai volti e ai nomi aprendo percorsi di libertà. La scelta è quella di lasciarsi scegliere riconoscendo una vicinanza.

La risposta è comune, è espressione di un popolo che dicendo ‘noi’ scopre la sua identità. Essa affonda le sue radici in un credere come affidamento della vita. Si radica in una storia di liberazione in cui JHWH è il primo protagonista. La conseguenza sarà vivere una responsabilità di accoglienza e di liberazione per tutti i popoli della terra. “Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce”. Il popolo radunato a Sichem incontra Jahwè come un Tu vivente. Prender posizione per il Dio dell’esodo comporta l’impegno a servire il Dio che si è manifestato come liberatore.

La pagina del vangelo di Giovanni è la parte conclusiva del lungo capitolo 6. Il momento è collocato – non a caso – a Cafarnao. Gesù è presentato mentre insegna nella sinagoga. Aveva compiuto il gesto del pane, aveva parlato di sé come pane vivo disceso dal cielo. Ora è nella sinagoga luogo dell’insegnamento e della Parola di Dio. Il IV vangelo suggerisce che Gesù sta compiendo nel suo insegnamento una rilettura e attualizzazione (un midrash) dell’episodio narrato al cap. 16 dell’Esodo. Lì il popolo mormorava, ora sono i discepoli che mormorano; nel deserto gli israeliti ricevono il dono della manna e delle quaglie per poter mangiare e continuare il cammino, ora Gesù distribuisce ai cinquemila i pani e parla del Padre che dà il pane dal cielo, quello vero. Infine parla di se stesso come pane disceso dal cielo che dà la via al mondo: ‘Chi mangia questo pane vivrà in eterno’.

Il IV vangelo così suggerisce che la manna era solamente un anticipo, un segno: la realtà è qui presente ed è la presenza di Gesù come pane vivo. “E’ lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho detto sono spirito e vita”. La carne ossia la dimensione umana nella sua debolezza non può fare nulla. La Parola si è fatta carne e può donare spirito e vita. Molti discepoli reagiscono dicendo “questa parola è dura. Chi può ascoltarla?”

Gesù chiede ai discepoli di passare ad un nuovo modo di comprendere nell’affidamento allo Spirito: è il lasciarsi rinnovare rinascendo dall’alto, aprendosi ad una logica nuova e diversa. Si possono intendere le cose e la in modo nuovo nell’affidamento alle parole di Gesù, nella forza dello Spirito.

E’ provocazione ad un cambiamento che si fonda sulla sua parola: Gesù stesso si presenta come Parola fatta carne, proprio nella sinagoga luogo della Parola. Lo avevano cercato dopo il segno dei pani, ma Gesù apre ad una fame nuova, della Parola stessa di Dio. La sua parola rinvia allora al segno del pane. Il pane vivo è la sua carne per la vita del mondo. A questo punto “molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui”. Dai cinquemila ai discepoli, ai dodici. La parte finale si concentra sulla reazione dei dodici: sono messi di fronte alla scelta: ‘Volete andarvene anche voi?’. Le parole di Pietro si fanno voce dell’esperienza dei dodici: ‘Signore da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo di Dio'”. Pietro si rivolge a Gesù chiamandolo ‘Signore’ e ‘Santo di Dio’: sono due espressioni sulla sua identità. Il dove andare è un incontro e un presenza. Nelle sua parole è racchiuso tutto il senso di affidamento allo Spirito, quale atteggiamento di ‘credere e conoscere’ in modo nuovo Gesù. L’intero capitolo 6 del IV vangelo è un accompagnamento ad entrare nell’incontro con Gesù, con la profondità della sua persona da riconoscere come pane della vita, disceso dal cielo, colui che dà la vita al mondo. Al cuore sta il mistero pasquale di discesa e di salita (discesa dal Padre e consegna nel tradimento subito e salita come innalzamento). Gesù è la Parola di Dio, Pane che sfama le attese di liberazione di chi è senza nulla.

DSCF6049Alcune riflessioni per noi oggi

Anche noi oggi siamo invitati a ripercorrere la nostra personale e la storia delle nostre comunità come storia di salvezza. Fare memoria è scoprire una presenza nascosta ma che ha guidato e accompagna. Tra passato e futuro il senso dell’impegno è affidamento ne presente. Rinnovare liberamente l’adesione al Signore, come comunità, è fare spazio al coraggio del credere che si esprime nelle scelte concrete di una vita che rifletta l’agire liberatore di Dio stesso.

‘Volete andarvene anche voi?’ È domanda che si fa provocazione a lasciarsi coinvolgere in un incontro in cui la presenza di Gesù è al centro, con il suo presentarsi come pane e parola. L’esperienza del credere non è piegare la sua divinità alle nostre misure, ma è lasciarci trasformare dalla sua presenza.

“questo mistero è grande…” Motivo centrale del brano della lettera agli Efesini è presentare la bellezza dell’alleanza tra Cristo e la chiesa. Il modo in cui Gesù ha amato è stato nel servizio e nel dono. Non una sottomissione servile, ma scelta di un amore nella cura e tenerezza, non secondo una logica giuridica, ma nella scelta della dedizione. L’amore umano ha davanti a sé la prospettiva di questo cammino. Può divenire espressione concreta di questa grazia. Da essa trae anche forza per poter vivere ogni giorno la fatica di ricominciare ad amare. Anziché leggere questa pagina come una idealizzazione perfezionistica della vita familiare si può cogliere in essa l’invito ad un cammino che coinvolge Cristo stesso e la chiesa come comunità di tutti coloro che sono chiamati ad entrare in rapporto con Cristo. Imparare ad amare è per tutti la grande sfida della vita, mai conclusa, sempre soggetta all’imperfezione e alla fatica. Le difficoltà e le incertezze dell’amare, nella sua complessità, possono essere lette come momenti di un cammino che rimane aperto su orizzonti ampi e può trovare nuova forza alla presenza di Cristo.

Alessandro Cortesi op

Corpo e Sangue del Signore – 2015

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Es 24,3-8; Eb 9,11-15; Mc 14,12-16.22-26

“… Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole”. Il sangue è segno della vita: Mosè versa il sangue di alcuni animali in parte sull’altare, il trono di Dio, in parte sul popolo d’Israele. E’ un gesto che segue l’ascolto del libro dell’alleanza. Il primato è della parola del Signore che ha parlato e continua a parlare. Quanto ha detto il Signore è inizio e fonte di ogni movimento di risposta e di accoglienza della sua presenza nella fede.

Il gesto di Mosè vuole indicare che un’unica corrente di vita lega l’esistenza dell’intero popolo e la presenza di Jahwè stesso. La vita di Dio quindi e quella di tutto un popolo, Israele, sono legate in modo profondo nell’alleanza quale dono di relazione: il rito esprime così la consapevolezza di una vita che proviene da Dio come dono. La parola ricevuta può trasformare e dare forza nel cammino, diviene criterio dei passi per la vita del popolo. Di fronte ad essa nasce un impegno e una scelta: ‘quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo’. Per Israele ascoltare è possibile solamente nella misura in cui si entra in un coinvolgimento concreto di azione e di lasciarsi plasmare dalla Parola di Dio.

Gesù visse la sua ultima cena con i discepoli in un contesto pasquale, nell’approssimarsi della festa della pasqua. Al tempio avveniva l’uccisione degli agnelli poi la sera nell’ambito familiare la cena domestica. Pasqua: memoria dell’uscita dall’Egitto, della liberazione con i segni dell’agnello pasquale e degli azzimi.

La notte di pasqua celebrava il passaggio dell’angelo di Dio che aveva salvato gli israeliti in Egitto, passando sopra alle case segnate dal sangue dell’agnello: l’agnello divenne così uno dei segni centrali del rito della Pasqua ebraica. Il suo sangue aveva permesso l’uscita dalla schiavitù e l’inizio del cammino verso la libertà. Quella cena ripetuta ogni anno nel plenilunio della primavera, divenne memoriale: gli eventi dell’esodo erano rivissuti: : “in ogni generazione ognuno deve considerarsi come se lui fosse stato tratto dall’Egitto”. Chi celebra quel rito si scopre coinvolto in una storia di alleanza e di promessa.

Gesù riprende i gesti e le parole che costituivano il rito della cena pasquale ebraica, ma presenta il pane e il vino con alcune parole che sono state custodite nel ricordo delle prime comunità. Di queste parole ci sono giunte quattro versioni non identiche (Mc 14,22-25; Mt 26, 26-29; Lc 22,18-20; 1Cor 11, 23-25), con variazioni significative che indicano come esse fossero custodite come spiegazioni dei gesti e di tutta la vita di Gesù.

Il primo gesto di Gesù in quella sera è indicato nello spezzare il pane, un gesto carico di significato e che riportava ai gesti dei profeti nel venir incontro alle necessità dei poveri, ma anche ai gesti della condivisione attuati da Gesù in tutta la sua vita. La frazione del pane divenne indicazione nelle prime comunità di questo momento, e questo gesto da allora è stato ripetuto.

Gesù indica il pane come simbolo dell’intera sua esistenza, della sua persona: ‘prendete, questo è il mio corpo’. E’ consegna che anticipa il significato di quanto a breve si compirà, la sua morte sulla croce: tutta la sua esistenza viene indicata nei segni prima del pane spezzato e poi del vino distribuito.

‘Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza che è versato per le moltitudini’. Nel sangue sta il segno dell’intera vita. Gesù riprende il riferimento al gesto di Mosè sul monte Sinai, quando versò il sangue come segno di alleanza sull’altare e sul popolo (Es 24, 6-8). Gesù ha inteso la sua vita come servizio e dono libero di sé, uomo per gli altri fino alla fine. La sua vita, vissuta nel farsi servo (Mc 10,45), è luogo di comunione nuova nella sua stessa persona.

L’annuncio del regno quale vicinanza di Dio ai poveri ha provocato nei suoi confronti il sospetto ed il rifiuto da parte del potere religioso e politico. Le parole dell’ultima cena esplicitano che la sua vita è donata al Padre ed è alleanza, vita donata in uno sguardo che va oltre ogni appartenenza di popolo e di lingua: ‘per le moltitudini’, cioè per tutti senza distinzioni (Is 53,11-12): è dono di alleanza. La sua morte è rivelazione dell’amore di Dio il Padre.

Gesù alla vigilia della sua morte conferma la sua speranza e il suo affidamento alla causa del regno. Nelle parole: “Amen, io vi dico che non berrò più del frutto della vite, fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio”, indica un orizzonte al di là della morte. La sua fiducia apre all’annuncio di un banchetto nuovo dove il vino sarà nuovo, e dove si compirà il regno di Dio, incontro con il Padre che dà vita, si pone accanto e vicino ai piccoli e raduna. Gesù rinvia i suoi a seguirlo sulla sua strada e ad intendere la vita come esistenza eucaristica, pane spezzato per gli altri.

DSCF5771Alcune riflessioni per noi oggi

“Una stanza arredata… lì preparate la cena per noi”. E’ questa l’indicazione di un luogo in cui celebrare la pasqua: Gesù rinvia i suoi ad individuare questo luogo. Una stanza arredata, una tavola apparecchiata è luogo in cui si vive lo stare insieme nella dimensione domestica. E’ luogo ordinario delle case, una stanza che con i suoi arredi consente di sostare, di mangiare insieme, di condividere. Così pure il gesto di apparecchiare la tavola è gesto quotidiano. I gesti semplici del preparare sono l’ambito in cui si può fare esperienza, senza enfasi, di quell’eucaristia dei giorni feriali in cui si spezza il pane che segna l’esistenza nel quotidiano. Abbiamo bisogno di luoghi dove sperimentare condivisione, in cui scoprire nell’incontro i percorsi di liberazione da tutto ciò che ci chiude e rende poco attenti. Attorno a tavole preparate non per escludere ma per lasciare posto possiamo scoprire la dimensione profonda del vivere come pane condiviso, segno della vita di Gesù data per le moltitudini.

“Non con il sangue di animali…” Cristo non ha compiuto un sacrificio con animali nel recinto sacro del tempio, ma ha compiuto nella sua obbedienza il dono di sé totale al Padre e ai suoi fratelli. E’ entrato nel santuario del cielo non per via di riti religiosi, ma offrendo se stesso, una volta per tutte. Nel rito dei ‘sacrifici’ secondo la tradizione di Israele si attuava non tanto un movimento dell’uomo verso Dio, ma l’esperienza di un rapporto nuovo, reso possibile da Dio stesso, suo dono. La lettera agli Ebrei riprende questo riferimento e afferma che Cristo non ha compiuto sacrifici di animali, ma autentico sacrificio è stato la sua vita donata, il suo ascolto radicale del Padre, la sua solidarietà nella compassione. Di qui il luogo in cui si celebra la liturgia più autentica per i credenti, è la vita. Unirsi a Gesù è possibile nel fare del proprio tempo, delle proprie energie e competenze un dono e un servizio, in rapporto al Padre e per la vita degli altri. Vi è qui l’indicazione preziosa di un superamento di un modo di intendere la spiritualità: il culto a Dio non è racchiuso in gesti estranei alla vita, nella sfera di un sacro separato dal vivere ordinario. L’incontro con Dio, che Gesù ci ha raccontato nel suo percorrere i sentieri della quotidianità, il rendere a lui culto è possibile nei luoghi ordinari e ‘profani’ dell’esistenza, nei gesti dell’umanità.

“Prendete questo è il mio corpo”: accosterei queste parole dell’ultima cena alle parole del Dario di Etty Hillesum nel campo di concentramento di Westerbork nel 1942-43: “Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo… Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite” (Diario, 238-239). Il corpo è dimora, luogo di ospitalità nella consegna di sé ad altri. L’ospitalità è la condizione per aprire non ad un ‘essere per la morte’ ma ad un ‘essere per la nascita’, a cui il corpo stesso rinvia come dimora. La scoperta della propria corporeità è scoperta di una vocazione, chiamata ad essere dimora per la custodia e la consegna di vita. E’ scoperta della chiamata radicale ad una consegna al lasciar spazio all’altro, dove l’altro possa trovare dimora. E’ dono di una terra in cui scorgere la presenza di Dio nel profondo. Ancora Etty Hillesum: ‘la parte più profonda di me che per comodità io chiamo Dio’ (Diario, 176).

Un pane indicato come ‘corpo’ parla di Dio che si fa vicino nelle cose di terra, nella semplicità e nella povertà delle cose quotidiane. Parla di un Dio che si offre liberamente facendosi terra ospitale. Ed è invito a vivere la corporeità come chiamata del nostro vivere, parole, gesti, stare in mezzo a luoghi situazioni, incontri, nella piccolezza, nella scoperta di un dono da accogliere e condividere.

Alessandro Cortesi op

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