Is 22,19-23; Rm 11,33-36; Mt 16,13-20
Al tempo del re Ezechia (718-687 a.C.), un maggiordomo del re, contestato da Isaia per la brama di grandezza viene destituito e al suo posto viene affidato ad un altro il compito di guidare gli abitanti di Gerusalemme, e il richiamo va a Davide, il re a cui è stata fatta la promessa di Dio. “Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto… in quel giorno chiamerò il mio servo Eliakim… sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme… gli porrò sulla spalla la chiave di Davide, se egli apre, nessuno chiuderà”. Una responsabilità è connessa a questo simbolo. Le chiavi aprono e chiudono. Sono simbolo di un mandato e di una responsabilità affidata.
La pagina del vangelo di Matteo narra un dialogo tra Gesù e Pietro. A lui è affidato un ruolo particolare come riferimento del gruppo dei dodici e della comunità che Gesù aveva convocato attorno a sé. E’ ripreso il motivo delle chiavi (16,19) con la citazione del versetto di Isaia: “a te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. E’ il segno di un affidamento, una responsabilità è consegnata connessa al legare e sciogliere.
Ricorre nel vangelo di Matteo il termine ‘chiesa’ e rinvia all’ebraico, ‘convocazione di chiamati’ (qahal), comunità che si riunisce in assemblea per il culto di Jahwè. Gesù indica questa comunità in un rapporto al messia. Su di lei le forze della morte, gli inferi, non potranno prevalere. La comunità è presentata come luogo di salvezza, su cui non avranno predominio le forze del male.
Nel quadro di un discorso apologetico il brano veniva posto alla base dell’affermazione indiscutibile di Gesù stesso come fondatore della chiesa: nella parola di affidamento delle chiavi avrebbe istituito la chiesa, fondandola su Pietro, e trasferendo poi le prerogative di Pietro ai suoi successori.
Il giuramento antimodernista del 1910 che riprende l’enciclica Pascendi, costituisce una sintesi di questa visione che alla domanda se Gesù avesse avuto intenzione di fondare la chiesa e fosse stato lui stesso ad edificarla sulla presenza di Pietro risponde in modo chiaro e affermativo: “Credo fermamente che la chiesa custode e maestra della parola rivelata è stata istituita immediatamente e direttamente dallo stesso Cristo vero e storico, mentre era tra di noi, e che essa è stata edificata su Pietro, principe della gerarchia apostolica, e sui suoi successori per sempre” (DS 3540).
Un approccio esegetico e storico critico dei testi del Nuovo Testamento ha condotto a cogliere una serie di problemi per una più approfondita interpretazione di questo passo. Sono emerse innanzitutto difficoltà dal punto di vista storico: i vangeli scritti dopo la Pasqua proiettano in una situazione precedente alcuni sviluppi di quanto le comunità vivono dopo la pasqua. I vangeli sono quindi già in se stessi interpretazione e attualizzazione di un passaggio tra il momento dell’esperienza di Gesù e una situazione post-pasquale. La chiamata dei Dodici è un segno simbolico attuato da Gesù ma non è finalizzata ad una trasmissione o delega di poteri, piuttosto è azione simbolica della raccolta delle dodici tribù di Israele, inizio dell’irrompere del regno di Dio al cuore della missione di Gesù.
Lumen Gentium (n. 5) esprime una visione consapevole di tali acquisizioni nell’indicare Gesù come fondamento della chiesa ma non parlando di lui come fondatore. Il Nuovo Testamento mostra che la chiesa vede i suoi inizi dopo la resurrezione di Gesù, sulla base dell’annuncio del regno, e sul fondamento dell’annuncio pasquale della risurrezione del crocifisso, per opera dello Spirito.
Il termine ekklesia ricorre solo due volte (in Matteo cap. 16 e 18) in testi sicuramente post-pasquali. Lo stesso Luca, che pur conosce e cita continuamente il termine chiesa negli Atti degli apostoli, non lo utilizza mai, neanche una volta, quando narra parole e gesti di Gesù nel suo vangelo.
In Mt 16 è espressa la volontà di Gesù di edificare la chiesa in un orizzonte futuro: è futuro con rinvio alla sua morte e risurrezione. La chiesa sta quindi in un decisivo rapporto con questo passaggio e non viene prima. Nella visuale di Matteo la ekklesia è opera del Risorto che vive in eterno (cfr. Mt 28,20: ecco io sono con voi tutti i giorni …) e si pone nel legame con Gesù figlio di Dio, in un rapporto unico in quanto Gesù parla della ‘mia’ chiesa.
La chiesa è delineata in Matteo come raduno di tutti coloro che riconoscono come Pietro che Gesù è il Cristo il Figlio di Dio. Inoltre il legame con il messia indica anche il rapporto con il Gesù terreno e con la sua parola.
Matteo pone questo gesto di Gesù subito dopo la domanda ai suoi discepoli sulla sua identità: ‘La gente chi dice che sia il figlio dell’uomo?’. E’ lui il messia, debole, rifiutato ma a cui spetta il giudizio sulla storia – come richiama la figura del figlio dell’uomo. Simon Pietro riconosce che Gesù è messia e figlio. Ma a questo punto Pietro deve scoprire che quanto ha detto non proviene da sue capacità e forze ma è un dono: ‘né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli’. E’ chiamato ad una conversione: il suo rapporto con Gesù proviene da un dono da accogliere nella disponibilità della fede. A lui, chiamato a vivere questo percorso, Gesù affida un compito in relazione alla comunità. La presenza di Pietro è segno. Ricorda la dipendenza da un dono ed anche che ogni responsabilità è affidamento, non per lui solo, ma per tutta la comunità che Gesù desidera.
Il rinvio alla roccia (kefa singifica roccia) è da accostare al discorso della montagna: Gesù aveva parlato della casa sulla roccia e della casa sulla sabbia. (“Eccomi, io pongo in Sion una pietra scelta, angolare, preziosa, da fondamento: chi vi crede non vacillerà” Is 28,16). Su questa costruzione nulla potrà portare distruzione. In Isaia è immagine di un nuovo popolo che ha inizio da un ‘resto’, un piccolo gruppo rimasto fedele: al centro della loro vita sta la fede, roccia su cu stare saldi. Matteo rilegge questi testi in rapporto alla comunità che Gesù voleva. Pietro Kefa è testimone che ha espresso la fede in Gesù e ha scoperto che la fede stessa non è conquista ma dono.
Pietro fa fatica ad accettare la via di Gesù così lontana dalle idee umane del potere. Gesù non è un messia che vuole conquistare un potere umano ma subisce la croce, dà la sua vita e passa per la sofferenza e la morte. A Pietro starà il compito di seguire Gesù e di esserne suo testimone, insieme con tutta la comunità che si raccoglie attorno a lui.
Nella chiesa continua la necessità di ‘legare e sciogliere’, sarà necessario continuare lo sforzo di cogliere quale sia la volontà di Dio nelle diverse situazioni umane. E’ funzione di responsabilità di tutta la comunità.
Nel libro dell’Apocalisse (Ap 3,7-13 nella lettera ad una delle sette chiese dell’Asia minore) ricorre l’immagine delle chiavi: “All’angelo della chiesa di Filadelfia scrivi: Così parla il Santo, il Verace, colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre”. Gesù risorto è riferimento centrale alla vita della comunità, continua ad essere vivo e operante ed è lui solo che ha la piena responsabilità sulla nostra vita.
Alessandro Cortesi op
Chiavi
Nabi Samuel è un villaggio nella Cisgiordania distante circa 7 km e mezzo da Gerusalemme. E’ situato in un territorio particolare la cosiddetta seam-zone, l’area tra la Linea verde e il muro di separazione eretto da Israele per gran parte all’interno dei Territori occupati della Palestina. Nabi Samuel è uno tra i tanti villaggi che soffrono di una particolare condizione di isolamento: sono circa 7500 abitanti nell’intera Cisgiordania e 250 circa a Nabi Samuel.
Le condizioni di vita degli abitanti di queste enclaves è particolarmente penosa e difficile. Da quando nel 1967, con la guerra dei sei giorni, Israele ha occupato la Cisgiordania, Gerusalemme est, la Striscia di Gaza, il Golan e il Sinai egiziano si sono susseguite le conseguenze della occupazione e del progressivo ampliamento della colonizzazione israeliana, soprattutto la confisca di terre da destinare agli insediamenti ebraici, e la demolizione di case. Tutti questi fattori hanno reso la vita degli abitanti di questi villaggi sempre più difficile ed hanno generato un progressivo abbandono del villaggio da parte dei residenti.
In un recente reportage sulla situazione di Nabi Samuel riportato dall’agenzia Nena News la condizione dei residenti è presentata come quella di chi è costretto a vivere in gabbia: isolata rispetto all’Autorità Nazionale palestinese che non può condurvi l’amministrazione e segregata rispetto a Israele. La gran parte della popolazione non può recarsi a Gerusalemme ma può solamente accedere alla Cisgiordania attraverso un check-point dove spesso non è consentito o viene rallentato il passaggio di beni essenziali e delle ambulanze. Il villaggio inoltre non può essere raggiunto dagli altri residenti in Cisgiordania. Proprio lì l’associazione italiana Cospe sta svolgendo una attività di assistenza e solidarietà per sollevare dalla condizione di isolamento rispetto all’ambiente anche vicino.
Quest’anno ricorre l’anniversario di cinquant’anni dalla guerra dei sei giorni (giugno 1967-2017). Può essere singificativo leggere una riflessione di questo annivesario nell’articolo curato da Giorgio Bernardelli per il sito ‘Bocche scucite’ nel giorno di tale anniversario (L’infermiera israeliana che ha allattato il piccolo palestinese).
Nabi Samuel è un villaggio che ricorda il dramma che stanno vivendo ormai da decenni le popolazioni palestinesi a distanza di cinquant’anni dalla guerra dei sei giorni e prima ancora a partire dalla data del 1948 ricordata dai palestinesi come la Nakba, la catastrofe, ossia l’allontanamento dalle loro case con l’esproprio dei propri campi e dei propri beni. Il 14 maggio 1948 avvenne la fondazione ufficiale dello Stato di Israele. A seguito della proclamazione iniziò la prima guerra fra arabi e israeliani conclusasi con una sconfitta degli arabi. Come conseguenza circa 700mila palestinesi furono costretti ad abbandonare le proprie case e a lasciare i villaggi. Altre decine di villaggi palestinesi subirono la distruzione e gli abitanti da allora furono costretti a vivere nei campi profughi.
Nelle risoluzioni 242 e 338, l’ONU ha chiesto a Israele di ritirarsi ai territori precedenti al ’67 (da qui prendono il nome ‘territori del 67’ i territori che erano stati ottenuti con la vittoria del 1948) ed ha riconosciuto invece le conquiste del 1948. Molte delle famiglie palestinesi già dopo la cacciata del 1948/49 hanno recato con sé le chiavi delle case abbandonate e che sono state poi occupate o distrutte.
La vicenda del villaggio di Nabi Samuel ricorda l’urgenza per ricercare una situazione di giustizia che offra un futuro di pace alla terra dove due popoli sono e saranno chiamati a vivere uno accanto all’altro e insieme, trovando modalità di accettazione dell’altro e di superamento di mezzo secolo di ostilità, violenze e oppressione.
Le chiavi di casa sono il simbolo di questo ricordo ed un richiamo a quell’esigenza di giustizia, che nonostante l’oppressione, non può rimanere tacitato. Le chiavi di casa conservate e consegnate da padri e madri ai propri figli e figlie costituiscono un filo che lega il passato e la responsabilità del presente nonostante tutte le delusioni e le situazioni insopportabili dell’occupazione e l’umiliazione a cui un intero popolo è sottoposto.
Sono chiavi che ricordano come la vita delle persone e dei popoli è legata alla casa, la casa che è il riparo dove ritrovarsi e riposare e la casa che è la patria dove trovare accoglienza rifugio, sicurezza. Le chiavi di casa potrebbero essere un forte simbolo di richiamo a ricercare una pace giusta, soprattutto con attenzione a chi è vittima più debole di una oppressione e violazione di diritti che spezza le vite delle persone.
«È possibile perseguire l’impegno per una soluzione pacifica delle controversie e dei conflitti. Si evitino da parte di tutti iniziative e atti che contraddicono alla dichiarata volontà di giungere ad un vero accordo e non ci si stanchi di perseguire la pace con determinazione e coerenza». Così si è espresso papa Francesco nel 2014, nel suo incontro con Shimon Peres a quel tempo presidente di Israele.
Le chiavi possono essere segno di questa ricerca di porte da aprire anche laddove sembra vi siano solo catenacci serrati.
Alessandro Cortesi op
XXII domenica tempo ordinario – anno A – 2017
Ger 20,7-9; Sal 62,2-6.8-9; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27
Leggendo la sua storia in un momento di difficoltà, Geremia apre uno squarcio sull’interiorità della sua vicenda di uomo chiamato ad essere profeta. Propone una confessione dal tono intimo e appassionato. La sua vita è stata segnata da un incontro con Dio che l’ha cambiato. E’ chiamata che lo ha portato ad essere sentinella ma ciò ha sconvolto le sue attese e i suoi progetti umani fino ad affrontare il rifiuto e lo scherno. Vive così la tentazione di abbandonare tutto e di fuggire lontano; eppure avverte contemporaneamente il senso di una presenza che lo ha afferrato e a cui è legato. Non vi sono solo ostacoli dall’esterno, ma ora egli vive anche il rifiuto e si affaccia il pensiero di non parlare più nel nome del Signore. Nonostante la ritrosia a vivere ciò a cui è inviato, la Parola di Dio è come fuoco che brucia dentro di lui e lo spinge.
Gesù affida a Pietro un compito e Pietro non comprende. Gesù inizia a parlare della sua via su cui incontra il rifiuto, e l’ostilità. Non è tolta la sofferenza, ma questa è affrontata nella libertà. Le parole di Gesù a Pietro sono con probabilità una esplicitazione opera dalla comunità dopo l’evento della Pasqua. Gesù aveva preparato i suoi alla via che lo avrebbe condotto alla croce non tanto con predizioni, quanto con il suo atteggiamento, con alcune parole che i discepoli compresero solamente dopo, con la decisione della sua scelta nel vivere sino in fondo la scelta del servizio e l’annuncio di liberazione. La figura del figlio dell’uomo fa intravedere l’orizzonte della risurrezione e della gloria ricevuta da Gesù da parte del Dio fedele. La sua esistenza – ci dice Matteo – va letta alla luce della vicenda del figlio dell’uomo.
Matteo vede qui l’inizio di una fase particolare della vita di Gesù. Il suo insegnamento viene riservato alla cerchia dei discepoli chiamati a seguirlo. Le folle sono rimaste deluse perché quanto Gesù propone non corrisponde ad un’idea di messia vittorioso e potente. Gesù si concentra sulla comunità dei discepoli e indica la via. Il suo orientamento si pone in fedeltà al disegno di Dio, all’agire di liberazione e di vicinanza presente in tutta la storia della salvezza. Matteo richiama come Gesù vive la sua obbedienza al Padre in riferimento e compimento delle Scritture. Non si tratta però di adempiere una sorta di predizione, ma Gesù nella sua libertà vive in coerenza al disegno di salvezza di Dio. Gesù è presentato da Matteo come ‘figlio di Dio’ che va incontro alla sofferenza alla morte e alla risurrezione (l’espressione ‘il terzo giorno’ è richiamo al primitivo annuncio della risurrezione).
Pietro, il primo dei Dodici, reagisce con forza a questo insegnamento e lo rifiuta. Deve vivere un difficile passaggio: lasciarsi coinvolgere nel seguire Gesù è una sfida difficile. Stare dietro a lui è quanto Gesù gli aveva chiesto sin dall’inizio: ‘venite dietro a me’. C’è un cammino da compiere e un’autentica conversione: dalla fede nel ‘figlio di Dio’ alla fede nel ‘figlio dell’uomo’ che affronta la sofferenza per la fedeltà all’amore. Ci può essere una accoglienza teorica della presenza di Gesù come figlio di Dio, come messia, ma si tratta di andare oltre. Ciò implica andare al di là di un ‘pensare secondo gli uomini’. Nel dialogo con Pietro c’è l’opposizione di due modi di pensare il messia. Pietro rappresenta l’attesa di un messianismo di gloria e di affermazione. L’apparente buon senso e saggezza di Pietro, che si rifiuta di accettare la via della sofferenza e della morte è stoltezza per Dio. Il ruolo di Pietro è proprio quello di ricordare con la sua stessa presenza, come primo dei dodici, questo cammino della fede.
Seguire Gesù implica un cambiamento radicale: inoltre Matteo nel suo vangelo è attento al fatto che Gesù chiama a seguirlo come comunità. La comunità che Gesù desidera è una comunità che vive innanzitutto un rapporto profondo con lui, lo segue, non si lascia distrarre da altri criteri di riferimento. Questa comunità è capace di lasciarsi mettere in discussione dal rimprovero di Gesù, e lasciarsi cambiare da lui. Inoltre condivide la via di Gesù, ne fa il nucleo dell’annuncio e lo stile della sua vita, anche se questo va contro modelli dominanti e diffusi.
Alessandro Cortesi op
Seguire
In un tempo di muri seguire Gesù significa scegliere di percorrere ponti, di sognare ponti. Una bella preghiera proposta nel Natale 2016 dalla comunità di san Niccolò all’Arena di Verona può aiutare ed essere traccia di cammino:
Ponti, non muri tra la testa e il cuore perché non ci sia un amore senza pensiero e un pensiero senza amore.
Ponti, non muri tra giovani e vecchi perché non ci sia un futuro senza memoria e una memoria senza futuro.
Ponti non muri tra religioni diverse perché non esista violenza in nome di Dio e la terra trovi il suo cuore pensante.
Ponti, non muri tra chiesa e mondo perché non ci sia una chiesa fuori dal mondo, chiusa nelle sue paure, e un mondo senza gioia.
Ponti, non muri tra politica ed economia perché ci sia una politica bella e una economia che guardi dalla parte dei poveri.
Ponti, non muri tra scuola e lavoro perché la cultura sia il pane quotidiano, il linguaggio della non esclusione.
Ponti, non muri tra educazione e libertà perché educare sia liberare dalla dipendenza e dalla rassegnazione.
Ponti, non muri tra confine e confine perché il mondo sia la casa di tutti e le porte siano aperte al vento.
Ponti, non muri tra mare e mare, tra oceano e oceano perché donne e bambini non sprofondino nell’abisso ma danzino il girotondo della vita.
Ponti, non muri tra Natale e Pasqua perché tutti possano rinascere e risorgere ogni giorno.
Ponti, non muri tra Dio e le persone perché tutti possano gustare l’abbraccio della tenerezza di Dio.
Ponti, solo ponti tra sguardo e sguardo, tra città e città.
Ponti, solo ponti! Un grande arcobaleno che congiunge terra e cielo, perché non ci può essere allegria nel cielo se non c’è amore sulla terra! Amen