II domenica del tempo ordinario – anno C – 2013
Is 62,1-5; Sal 95; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-11
Non si comprende il quarto vangelo se non si compie la fatica di entrare nella mentalità simbolica che vi soggiace. Simbolo è mettere insieme, fare legame. Così ogni parola del IV vangelo rinvia alla storia di Gesù, ai gesti del profeta di Nazaret, ed insieme invita a guardare alla storia della salvezza, ed è richiamo ad altre parole. Nel racconto di Cana un primo livello è la narrazione di una festa di matrimonio: Gesù nella festa viveva la sua capacità di ospitalità, la sua apertura del cuore che offriva accoglienza pur non avendo casa e beni propri. Attorno alla mensa quel rabbi che amava i banchetti gioiva nello stare con coloro che erano tenuti fuori, esclusi, emarginati. A Cana si tratta di una festa di nozze e la narrazione del IV vangelo apre ad altri livello di lettura, presenta simboli che rinviano altrove.
L’episodio è collocato cronologicamente ‘al terzo giorno’: una breve notazione che ha una sua preziosità. Dal primo capitolo di Giovanni tutto è narrato in un susseguirsi di giorni (Gv 1,29.35.43) che corrispondono allo schema della creazione: sei giorni più uno, quello della festa e del riposo. E’ indicazione che una ‘nuova creazione’ si sta attuando e rimanda anche al riferimento biblico del ‘terzo giorno’: al terzo giorno Abramo salì sul monte per sacrificare Isacco (Gen 22,3), Giona fu salvato dal grande pesce (Gn 2,1), la regina Ester prese il coraggio per presentarsi al re (Est 4,16; 5,1). Passaggi della storia di salvezza e del farsi incontro di Dio al suo popolo.
Ma è soprattutto il brano di Esodo – dal cap. 19 al 24 – il testo fondamentale da tener presente nel leggere questa pagina: Mosè sul monte Sinai riceve la Torah da parte di Dio. Come Mosè chiamato da Dio sulla montagna e che poi discese dal monte, Gesù è invitato al banchetto e scese poi a Cafarnao. Come Mosè diede ordine al popolo di purificarsi, così a Cana un ruolo particolare hanno le sei giare per la purificazione. Come Dio si manifestò nella nube (Es 19,9) così a Cana – dice Giovanni – Gesù manifestò la sua gloria.
Si parla di nozze, si accenna a diversi personaggi, ma degli sposi non si dice nulla. C’è un silenzio che spinge ad una ricerca di piste profonde. Manca il vino durante la festa: non se ne accorgono coloro che dovrebbero vigilare e che sono responsabili – sottile ironia sui capi religiosi e i sommi sacerdoti (l’architriclinio come l’archisacerdote) che dovrebbero guidare il popolo e invece non vivono l’attenzione e lo sviano -. Il vino, simbolo di gioia, di festa di fecondità, viene a mancare. Lo sguardo del lettore viene quindi attirato non tanto a sostare sulle nozze dei quei due sposi di cui nulla si dice, ma su un altro rapporto: in questione è il matrimonio di Dio con il suo popolo, che si trova in una condizione di aridità. Le giare per la purificazione sono vuote, senz’acqua. E il vino, segno del rapporto di amore tra Dio e Israele sua sposa (cfr. Cantico dei Cantici), segno escatologico connesso alla venuta del messia ed al banchetto degli ultimi tempi, viene meno.
E’ ‘la madre di Gesù’ a far presente la situazione. E’ la traccia di una delicatezza concreta di donna che sa leggere la realtà, che guarda alle persone anzichè elaborare deduzioni da principi e dottrine. Gesù stesso si rivolge con un termine particolare e in un modo che fa riflettere: ‘che cosa fra me e te, donna?’ Sembra una risposta dura ma rinvia ad un significato sotteso. Un’altra volta nel IV vangelo Gesù si rivolge alla madre con il termine ‘donna’, proprio al momento della croce ‘Donna ecco tuo figlio’. Cana allora è da leggere in rapporto al momento della croce, ed è un primo segno che rinvia a quell’ora. Appare così in nuova luce anche l’altra parola di Gesù: ‘non è ancora venuta la mia ora’. L’ora di Gesù è l’ora di un incontro che si attua sulla croce, il dono di un amore rivolto all’umanità (la donna). Il cammino di Gesù va verso quell’ora, un’ora in cui la ‘donna’ diviene simbolo della comunità sua sposa e primizia di un incontro con l’umanità intera, a cui Gesù si dona senza limite: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine” (Gv 13,1)
Il gesto di Cana è un segno che parla di nozze, di quell’incontro di gioia e di vita tra Gesù Cristo e l’intera umanità. E’ una alleanza: come Mosè sul Sinai ora Gesù manifesta una presenza di Dio che fa alleanza con l’umanità oltre l’aridità di un culto vissuto come purificazione ma che resta arido se manca la delicatezza di uno sguardo che sa cogliere le attese di vita e di bene, se manca il vino della gioia e dell’amore, se manca il vino che anticipa l’ora in cui la gloria di Dio si rivela come dono e servizio.
Riprenderei un paio di annotazioni per il nostro oggi:
Il vino è simbolo della gioia, l’abbondanza e il sovrappiù del gratuito, in una realtà religiosa segnata dalla mentalità del dovere e del controllo. Al cuore di questa pagina sta una parola di alleanza. Non un rapporto bloccato nell’aridità di un sistema religioso che ha perduto il senso dell’incontro. Il vino parla di una alleanza di Gesù offerta nel segno della scoperta che Dio offre una relazione personale, vivente con lui e incontra l’umanità nella sua attesa. Il desiderio della festa e della gratuità dell’incontro, l’alleanza, sta al cuore delle ricerche di felicità e di bene presenti nell’esistenza umana. Gesù porta vino nella festa come segno di un amore che si dona. Nel IV vangelo l’ultimo momento della croce è lo sgorgare dell’acqua e sangue. In quel vino è il segno della sua vita sprecata e versata. Una vita donata che genera gioia. C’è da chiedersi se siamo consapevoli di questo tesoro al centro della vita di comunità e se sappiamo rispondere come nell’invocazione di Apocalisse: Lo Spirito e la sposa dicono ‘Vieni’…
Cana è una pagina che ci parla della grazia dell’incontro in rapporto con la vicenda umana. Troppo spesso la chiesa e i cristiani pensano di essere indispensabili, che senza di loro tutto vada perduto. Una presunzione che dice anche poca fiducia in Dio stesso. Quella di Gesù è la testimonianza del non necessario. Come l’amore che si dà nella gratuità. Più che in altre direzioni, oggi è la testimonianza del non ritenersi indispensabili che dovrebbe costituire lo stile del cristiano: Gesù con la sua presenza e il suo gesto fa irrompere la sovrabbondanza del gratuito. Seguendo lui anche noi dovremmo riscoprire questa dimensione. E’ l’irrompere del regno di Dio nella quotidianità come dono che porta il gratuito oltre ogni necessità, anzi forse proprio nel non essere necessario. Ci sono gesti semplici, sguardi di attenzione che dicono la gratuità di quel ‘vino’ di cui abbiamo così bisogno nella nostra vita.
Alessandro Cortesi op
III domenica tempo ordinario – anno C – 2013
Ne 8,2-10; Sal 18; 1Cor 12,12-30; Lc 1,1-4,4,14-21
Luca presenta lo scritto che va ad iniziare come un ‘racconto’. E’ una notazione interessante su cui soffermarsi. E’ racconto che si fa memoria di quello che ha fatto e detto Gesù, il profeta di Nazareth e ci si può chiedere perché ad un certo punto le prime comunità avvertono la necessità di scrivere racconti. Raccontare Gesù, ritornare alla sua storia come cosa da narrare è centrale nella fede cristiana. Non c’è infatti solo l’esigenza di ricordare ma anche di raccontare, di trasmettere in forma di narrazione la storia di Gesù e di renderla un racconto. Ricorda e racconta il vangelo…
Il racconto poi non lascia mai impassibili e distanti: chi racconta diviene come quel vecchio ebreo costretto su una sedia a rotelle, di cui narra Martin Buber, che quando raccontava le storie iniziava a danzare trascinato dalla forza della parola. Il racconto autentico è immedesimazione e trasformazione e per questo è luogo di liberazione. E raccoglie non solo la memoria e la storia di altri ma vi immette anche l’esperienza e i sentimenti di chi ne è coinvolto, di chi trasmette racconti ricevuti. Per questo l’atto stesso del raccontare diviene luogo di guarigione, di salvezza, di possibilità di rivivere e rendere presente tutto ciò che continua a vivere e coinvolgere. Così Luca racconta riprendendo – e ciò è fondamentale – la storia di Gesù, radicando il suo vangelo nella storia di un uomo, il profeta di Nazareth, ma anche facendo cogliere che quella storia è feconda di altre storie e Luca vi immette la storia della prima comunità, della sua stessa fede. Per questo sarà scrittore anche degli Atti degli apostoli, una storia collettiva, di incontri, di sorprese, di comunità che vivono la novità dello Spirito di Gesù.
Nel racconto di Luca sta innanzitutto il richiamo a Gesù come uomo, alla sua identità che non viene racchiusa in un sistema di definizioni, ma viene presentata proprio nel racconto della sua vicenda, riprendendo le sue parole, ritessendo quel filo di narrazione di cui Gesù stesso era maestro. Egli che aveva fatto del raccontare uno dei modi tipici di esprimere il suo cuore, egli che sapeva raccontare e che parlava di Dio narrando parabole.
Ma quel racconto non è solo ripresa dei racconti di Gesù, è anche indicazione che Gesù stesso è parabola di Dio. La sua stessa vita è grande racconto, parabola che usa il linguaggio della poesia, il linguaggio che crea, plasma, trasforma e cambia lasciando aperta la domanda di una decisione e di un possibile coinvolgimento: e voi che ne dite? Il IV vangelo tradurrà tutto questo nell’espressione finale dell’inno del prologo: “Dio nessuno lo ha mai visto, il Figlio che è nel seno del Padre lui ce lo ha narrato…”. Così Luca presenta un racconto nel quale ritrovare l’identità più profonda di Gesù, una identità narrativa, nascosta e da rintracciare nel racconto stesso, che si apre a generare altri racconti. Sono i racconti delle esistenze che lo hanno accolto, sono i racconti di coloro che si sono lasciati trasformare e coinvolgere in quel racconto.
Ci possiamo chiedere in quale modo parliamo della nostra fede: che tipi di linguaggio usiamo? Sono i linguaggi della imposizione o della persuasione autoritaria, o quelli delle definizioni ripetute senza comprensione e senza passione, o ancora quelli che confondono la fede con l’elencazione delle pratiche di culto da osservare o con l’elencazione di valori da affermare, magari con intransigenza nel contesto pubblico? Sappiamo pronunciare parole che coinvolgano, con mitezza, altri in un racconto che non è solo fuori dalla nostra vita ma che ne è luogo intimo e matrice profonda? Sappiamo accogliere e raccontare con gratitudine i riflessi di incontri con Gesù che traspaiono da vite nascoste? Sappiamo narrare lasciando aperture di attesa, come nei racconti più belli che si espongono, come una roccia protesa, ad altre parole, forse le più belle, ancora da venire, e da attendere con pazienza? Solo da questi racconti può sorgere accoglienza, risposta, meraviglia. Ma soprattutto sappiamo ancora avere orecchie attente ad ascoltare racconti giungono da voci sussurrate e che sfuggono ai clamori di parole urlate e prepotenti o alla mollezza di inviti suadenti e di false promesse? I racconti sono la ricchezza dei poveri, una ricchezza senza potere e senza prezzo e che pure vale molto più di cose ritenute tesori. E risiede in cuori capaci di custodire il tempo trascorso insieme, i ricordi, i gesti semplici, le parole.
Luca redige uno scritto ma il suo racconto è parola vivente. Il libro che ne nasce non è indicazione di qualcosa ma di qualcuno. Mi piace pensare che il racconto di Gesù giunge a noi attraverso i quattro libretti dei vangeli, ma anche attraverso rivoli dispersi, attraverso tanti altri racconti. Sono quei libri delle esistenze di singoli e degli intrecci di incontri e relazioni, i ‘quinti evangeli’ dei poveri. Sono i racconti di tutti coloro che senza proclami e senza pretese di essere i puri o gli esempi, senza messianismi e senza desiderio di riconoscimenti, sono di fatto i poveri cristiani. Sono i racconti di tutti coloro che nella loro vita hanno lasciato scrivere, con inchiostro proprio, o accogliendo come analfabeti i tratti di altri, righe di quella poesia che nel dirsi si dà e trasforma, e cambia – spesso senza accorgersene – i cuori, nella gratuità del seminare, aprendoli al dono, allo stupore dell’incontro, alla concretezza del servizio. In una parola al vangelo che è Gesù, parabola e racconto dell’amore del Padre.
Alessandro Cortesi op