la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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XXVIII domenica tempo ordinario anno A – 2023

Is 25,6-10; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

“Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. …Eliminerà la morte per sempre, il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto”.

Mangiare insieme è una delle espressioni fondamentali della vita umana e dell’incontro con gli altri. E’ esperienza che trova modalità diverse nelle varie culture ma racchiude una profonda potenza simbolica. L’immagine del banchetto sta al centro delle promesse profetiche che annunciano il tempo del messia, un futuro segnato dall’intervento di Dio, dal compiersi del suo disegno sulla storia.

Isaia usa questa immagine del banchetto per evocare un incontro dei popoli sul monte di Sion. E sarà condivisione di un cibo preparato per tutti da Dio stesso. Questo stare insieme a tavola è parte di un futuro in cui anche la morte sarà eliminata: l’azione di Dio è vita, dono di gioia e di incontro, e Dio stesso è più forte della morte che genera sofferenza e paura. Il Signore stesso prepara un banchetto aperto all’incontro di pace di tutti i popoli.

Le testimonianze dei vangeli attestano la partecipazione di Gesù a momenti conviviali e la condivisione che egli ha attuato attorno alla tavola rompendo barriere di separazione e attuando una accoglienza aperta con esclusi, irregolari, marginali. Anche nelle sue parole Gesù rinvia spesso al motivo del banchetto (Lc 14,16-24; Mt 25,1-12).

Nel vangelo di Matteo la condivisione della tavola è esperienza che fa scorgere come il dono di Dio oltrepassa ogni confine di separazione religiosa. Così Gesù è ammirato di fronte alla fede del centurione: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. .. molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,10-11).

La pagina degli invitati al banchetto (Mt 22,1-14) unisce insieme due parabole con sottolineature diverse nel quadro del confronto di Gesù con le autorità religiose presso il tempio di Gerusalemme. Nella prima parabola gli invitati non accolgono l’invito ad una festa e l’invito è portato ad altri; nella seconda la veste per la festa rinvia alla responsabilità di chi è invitato.

La parabola narra di un re che dopo aver preparato un banchetto manda i suoi servi a chiamare gli invitati. La risposta non è solo di rifiuto ma anche di disprezzo violento. I servi sono inviati a più riprese per trovare invitati e il re giunge a dire loro di chiamare alle nozze ‘coloro che sono ai crocicchi delle strade ‘ e ‘tutti quelli che troverete…’.

Coloro che vengono invitati per primi non si lasciano toccare dall’annuncio di gioia e dalla possibilità di incontro che il re offre loro: sono chiusi in una condizione di sicurezza che li rende insensibili. La vicenda è da leggere nel quadro dello scontro di Gesù con le autorità religiose. Esse sono esempio di un modo di vivere la religione in termini di autosufficienza, di potere e di chiusura all’incontro. Nella parabola è presentata così in forma narrativa la dura affermazione di Gesù: “i pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno di Dio” (Mt 21,31). L’agire di Gesù manifesta come il Padre ama tutti coloro che si aprono ad accogliere un invito di incontro, di convivialità, di condivisione di vita e di salvezza. Coloro invece che si credono giusti, chiusi nelle loro certezze e nel loro orgoglio non accolgono l’invito. Troppo concentrati sui propri meriti, al punto da avere una visione di condanna degli altri, di intransigenza e intolleranza non si aprono ad accogliere la grazia di Dio che opera nei cuori.

Il cuore della parabola sta nell’accento sulla chiamata del re che invita ad un banchetto e ad un incontro di gioia. E’ un invito aperto a tutti ‘buoni e cattivi’. E’ ancora un annuncio del regno di Dio: Dio ama senza limiti, invita buoni e cattivi, offre un futuro nuovo e dona misericordia.

Il secondo momento che costituisce una seconda parabola vede la scena del banchetto tramutarsi rapidamente: un invitato non ha la veste adatta e viene espulso dalla sala. La veste indica la dimensione dell’agire, la coerenza tra fede e vita (cfr.  Ap 19,8). Nel vangelo di Matteo è costante la critica di una fede senza coinvolgimento della vita: ‘Non chiunque mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli…’ (Mt 7,21).

Al cuore di questa seconda parabola sta l’annuncio di una responsabilità da vivere a fronte del dono del regno di Dio. Partecipare al banchetto è appello ad una risposta che implica il coinvolgimento della vita ed una prassi coerente: la veste bianca è simbolo di tale stile.

Alessandro Cortesi op

XXVI domenica tempo ordinario anno A – 2023

Ez 18,25-28; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32

La parabola dei due figli a cui è rivolto l’invito a lavorare nella vigna parla di un cammino che si connota innanzitutto come un movimento interiore, di disponibilità e apertura di fronte ad un invito. I due figli rispondono in modo diverso al padre che a loro si rivolge e indica la vigna, simbolo ricco di evocazioni in rapporto all’esperienza e alla memoria del suo essere simbolo del popolo d’Israele.

Matteo presenta così il contrapporsi di due atteggiamenti: il primo risponde ‘sì’, ma poi non va, il secondo invece dapprima dice ‘no’ e poi invece si mette in cammino, anche lui diviene qualcuno che va, che cammina. Nel suo vangelo ritorna con insistenza il richiamo a seguire Gesù non in un culto fatto di parole ed esteriorità, ma nel compiere la volontà del Padre: “Non chiunque mi dice Signore Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli… chiunque ascolta le mie parole e le mette in pratica è simile ad un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia” (Mt 7,21-24).

Ascoltare e ‘fare’ la parola del Padre è la via da seguire. L’immagine della casa sulla roccia esprime l’elogio della concretezza: ascoltare la parola e compierla nelle scelte della vita è il cammino del credente. A fronte di chi intende la religiosità come uno slancio sentimentale magari momentaneo o come uno sforzo di elaborazione di idee senza ricadute sulla vita, Gesù richiama l’esperienza forte di chi si pente e si mette in cammino, di chi vive un autentico cambiamento e si lascia provocare da una parola che chiede coinvolgimento nell’andare e la fatica del lavoro nella vigna.

Presenta così una critica ad una religione dell’ipocrisia e della superficialità. Richiama anche a prendere posizione sinceramente di fronte alla parola di Dio. Ci chiede di essere vigili nel cogliere i movimenti profondi e segreti dei cuori, nel non fermarsi a giudicare dalle apparenze.

Ma oltre a tutto questo Gesù propone un’altra prospettiva che riguarda il volto di Dio: con la sua venuta e la sua chiamata rivolta a tutti, senza esclusioni, c’è la possibilità per tutti di accogliere un invito che si fa presente nella vita ad entrare nel regno attuando una decisione. Per questo – egli dice – ‘i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio’. I vangeli attestano l’esperienza storica dell’incontro di Gesù con tanti che di fronte al suo sguardo si sono aperti ad un futuro nuovo. In lui hanno incontrato speranza e vita nuova, da lui hanno ricevuto fiducia nella possibilità di ricominciare. In lui pubblicani e prostitute, esclusi e tenuti ai margini, considerati fuori dalla salvezza e lontani da Dio, hanno fatto esperienza di essere accolti, compresi della misericordia che apre la nostalgia e l’impegno per una vita nuova.

C’è una conversione a cui siamo chiamati, ed è un cammino che non ha conclusione. Si attua nel dire sì e nel compiere concretamente la volontà del Padre. Convertirsi è passare ad un modo nuovo di pensare a Dio e scoprire il suo sguardo di amore su di sé.

La vera conversione sta nel credere e nell’affidarsi ad una offerta di vita che va oltre i nostri pensieri e le stesse speranze: ‘i pubblicani e le prostitute hanno creduto alla predicazione di Giovanni – dice Gesù – voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli’. Giovanni è il profeta che trova rifiuto da coloro che erano impegnati dal punto di vista religioso ed invece trova accoglienza in chi viveva lontano da Dio. Matteo legge in questo movimento l’apertura di una comunità che non deve ripiegarsi su se stessa, ma inviata ad essere luogo di accoglienza e incontro.

La predicazione di Giovanni fu una predicazione sulla via della giustizia: chiamava ad un movimento, ad un cambiare direzione e mentalità, per mettersi in cammino in modo nuovo. Gesù indica una via di misericordia  e chiede di seguirlo in questo cammino.

“Il virtuoso e la canaglia, il mendicante e il principe: a tutti si rivolge con la stessa voce solare, come se non ci fosse né virtuoso né canaglia, né mendicante, né principe, ma solo, ogni volta, due esseri viventi faccia a faccia, e in mezzo ai due la parola, che va che viene (…) O ci si separa da quest’uomo su questo punto, e si fa di lui un sapiente come ce ne sono stati migliaia, pronti magari ad accordargli un titolo di principe. Oppure lo si segue, e si è votati al silenzio, perché tutto ciò che si potrebbe dire è allora inudibile e folle… L’uomo che cammina è quel folle che pensa che si possa assaporare una vita così abbondante da inghiottire persino la morte” (C.Bobin, L’uomo che cammina, 16.29).

Alessandro Cortesi op

XX domenica tempo ordinario – anno A – 2023

Is 56,1.6-7; Rom 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28

“Gli stranieri che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore e per essere suoi servi, li condurrò sul mio monte santo…”

Lo sguardo del profeta si allarga ai popoli lontani: per essi ci sarà un posto nel monte del tempio, luogo dell’incontro con Dio. E il tempio stesso viene ad assumere il profilo di una casa per tutti, di preghiera per tutti i popoli. Nessuno può essere escluso dall’incontro con il Dio dell’alleanza.

Tale orizzonte di apertura universale è passaggio di crescita nel percorso della fede d’Israele: certo la fede del popolo è chiamata a guardarsi dall’esaurimento, dal cedere al grande peccato l’idolatria, dal venir meno alla fedeltà al Dio dell’esodo confondendosi con i culti degli stranieri, ma d’altra parte la presenza dello straniero nel popolo dell’alleanza è un segno importante. Ricorda che Dio ha rivolto lo sguardo a Israele nel suo essere  vittima e straniero in Egitto ed è sceso a liberarlo. Per questo dovrà mantenersi continuamente in cammino, non nella fissità di chi possiede la terra e si pone come dominatore, ma nella disponibilità di chi ricorda una salvezza ricevuta.

L’elezione non è privilegio da difendere, ma missione che apre. Per essere un segno tra i popoli e per favorire il cammino di pagani e stranieri verso un disegno di pace che si estende e coinvolge tutta l’umanità (cfr. Is 2).

Lo straniero ricorda anche che Dio è ‘altro’, è ‘straniero’ lui stesso. Il Dio straniero, diverso e non racchiudibile si fa vicino nei volti di chi chiede accoglienza e sperimenta la debolezza.

Anche Gesù, proprio nel territorio di Tiro e Sidone, regione dei pagani, incontra una donna straniera. E questa gli chiede un gesto di liberazione e guarigione. Ma Gesù risponde che è venuto solo per le pecore perdute d’Israele. La donna non si arrende e richiama l’immagine di una tavola in cui c’è da mangiare per tutti, per i figli, ed anche per i cagnolini che raccolgono le briciole che cadono. E questo termine ‘cagnolini’ racchiude allusione ai pagani detti ‘cani’ con disprezzo dagli ebrei che guardavano a loro con distanza. L’insistenza della donna, il suo richiamo, il suo rivolgersi a Gesù con fiducia conducono ad un cambiamento in Gesù stesso. In fondo quelle pecore perdute sono anche tutti coloro che cercano senso e salvezza come lo erano le folle incontrate nel suo camminare, pecore perdute e senza pastore (Mt 9,36). E Gesù si muove nella compassione che è il modo di agire di Dio. Si prende cura e ascolta il grido dei poveri. Riconosce nel volto della straniera, nel suo abbandono l’apertura fondamentale che orienta la vita all’Altro: la tua fede ti ha salvata.  

Gesù loda così la fede di una donna pagana, fuori dai recinti religiosi, che a lui si rivolge con fiducia e lo ha condotto ad un superamento di barriere di divisione e di esclusione.

La donna aveva colto la possibilità di un nutrimento di vita per tutti oltre le divisioni religiose e i privilegi: non chiede il pane dei figli ma si accontenta delle briciole per i cagnolini. Gesù vede in lei la testimone di una valicatrice di muri religiosi e culturali.

Gesù loda la fede di questa donna e la indica come una fede ‘davvero grande’. I percorsi della fede sono profondi e sono nascosti nelle profondità dei cuori. Viviamo un tempo di giudizi perentori e di condanne senza appello per le esistenze di chi chiede di superare le forme di esclusione e le mentalità religiose che discriminano e umiliano. In quelle voci, in quelle ricerche sta spesso nascosta una fede grande, sofferta, una fedeltà di chi attende un cambiamento anche nell’istituzione ecclesiale benché tutto concorra a spingerli lontano per altre strade. Il messaggio di questa domenica è un invito a scorgere i tesori della fede nascosti nelle profondità dei cuori, ad assumere lo stile della compassione di Gesù, al di sopra di ogni codificazione, a vivere l’accoglienza quale tratto rivelativo della fede nel Dio capace di accogliere senza riserve e senza condizioni e di dare sapzio ad ogni ricerca e attesa.  

E riprendo così quanto le parole scritte con mitezza e delicatezza da Antonio Autiero – così diverse nello stile da tante parole nutrite di violenza, di durezza, di condanna – dopo aver partecipato come amico ai recenti funerali di Michela Murgia: “La porta e la sua soglia (una volta Michela ed io abbiamo fatto una lectio accademica in dialogo su questo tema) mettono davanti alla sfida radicale di cosa se ne vuole fare di essa, barriera per impedire o area di accoglienza. Molti si sono sentiti accolti da Michela, leggendo i suoi scritti e ascoltando le sue parole, si sono visti aperta una porta davanti, su orizzonti di maggiore luce, per dare esito di compimento e non di disfatta al gemito nel quale si sentivano avvolti.

L’intreccio tra religioso e politico che Michela ha voluto fosse espresso con il suo funerale era ed è in realtà un’istanza centrale del suo modo di stare al mondo ad occhi aperti, di abitarlo con responsabilità e cura, di trasformarlo con volontà tenace e non da sola. Per esprimere così la profondità del suo essere credente, la radicalità del suo essere cittadina. Vedendo a fondo l’intreccio, ella ha saputo esprimere l’indignazione sia per quelle visioni religiose che avevano scelto, legittimato e incrementato le vie dell’esclusione, sia per quegli abbozzi distorti di progetti e di programmi politici che dell’esclusione e dei privilegi fanno la base di raccolta per pescare nel bacino dei consensi. (…) La sua traiettoria dalla teologia alla politica passava attraverso l’esperienza narrativa, fatta di volontà di comunicazione, letteraria e oltre. Così come il suo afflato politico le metteva sott’occhio il vissuto scabroso di quella parte di umanità dolente, esclusa, marginalizzata e le faceva trovare il linguaggio dei diritti da difendere e per cui battersi, come riflesso di quella luce, pathos di quel gemito e coscienza di quella porta, di cui lei, attraverso i testi biblici al suo funerale ancora avrebbe voluto parlarci” (A. Autiero, Le due voci del cuore di Murgia. Politica e religione  per un unico sogno, “La Stampa” 15 agosto 2023).

Alessandro Cortesi op

XIV domenica tempo ordinario anno A -2023

Zc 9,9-10; Rom 8,9.11-13; Mt 11,25-30

Zaccaria annuncia che dopo l’esperienza drammatica dell’esilio si apre un tempo nuovo e diverso. Il suo sguardo va oltre e scorge la promessa di Dio, il futuro nel segno del venire del messia. Parla così del tempo quale momento della benevolenza del Signore: il Tempio sta per essere ricostruito, Gerusalemme ed altre città vengono riedificate: si capovolgono le sorti di chi ha vissuto l’oppressione. Mentre si restaurano le antiche rovine si palesa altresì l’urgenza di un’altra opera di ricostruzione, che tocchi le dimensioni dell’interiorità, che sia un rinnovamento nell’adesione a YHWH, un ripartire nello spirito. Tutto il popolo dovrebbe scorgere l’importanza di scoprire il senso profondo del proprio cammino non inseguendo mire di grandezza politica ma divenendo testimone della fede. E’ una rinascita possibile dei cuori: non ha visibilità immediata ma è più importante della ricostruzione materiale. E’ opera dell’amore di Dio e della suo agire che salva. E’ rinnovo della promessa di alleanza e di incontro nella fedeltà e nella giustizia: “Ecco, io salvo il mio popolo dalla terra d’oriente e d’occidente: li ricondurrò ad abitare in Gerusalemme: saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, nella fedeltà e nella giustizia” (Zac 8,7-8). Il profeta invita così a gioire perché giunge un re giusto e salvatore. La sua grandezza non risiede non nelle sue capacità ma nella fiducia in Dio. E’ un re mite: non giunge con le armi della violenza e della guerra ma inerme, fragile, e così costruisce la pace. È a capo di una comunità di umili, i poveri di JHWH, senza altre sicurezze, coloro che si appoggiano in Dio solo.

La pagina del vangelo di Matteo apre uno squarcio sulla preghiera di Gesù: pregare per lui è innanzitutto gratitudine e gioia. Gesù sa dire grazie al Padre ma anche alla vita e ai volti di chi incontrava. Pregare per lui è stare nella comunione con il Padre e con i piccoli. Gesù si lascia sorprendere dalle imperscrutabili vie di Dio, e vive la gioia liberante di fronte al Padre che sceglie chi è escluso e non considerato. Ringrazia il Padre perché ha rivelato queste cose ai piccoli e ai poveri. Sono questi tutti coloro che non hanno ricchezze e difese di cui vantarsi e con cui difendersi, e perciò conoscono affidamento e fiducia: “Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come bimbo svezzato è l’anima mia” (Sal 131,2). La caratteristica fondamentale dei piccoli è l’abbandono fiducioso, la certezza della cura e dello sguardo di Dio su di loro: per questo Gesù dice ‘se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli’ (Mt 18,3).

E Gesù ringrazia il Padre perché ha rivelato ai poveri e ai semplici i misteri del regno dei cieli; sono loro i depositari di un segreto che si cela laddove non c’è superbia e pretesa derivante da grandezze opera d’uomo. Gesù parla poi di un rapporto unico, di ‘conoscenza piena’ tra il Padre e il Figlio; ed infine invita a seguire il suo cammino di messia mite e povero.

Gesù chiede ai piccoli ‘prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore’.  E’ lui il ‘piccolo’ che ha posto la sua vita nell’abbandono fiducioso al Padre: riprende così l’immagine del giogo utilizzata dai maestri ebrei per parlare della legge (Sof 3,9; Lam 3,27, Ger 2,20;5,5). E la libera da ogni senso di pesantezza volgendola ad un senso di pace: ‘il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero’. Giogo è ciò che orienta un cammino di incontro, di fiducia ,di gratitudine. Gesù conosce la debolezza e sa quanti siano i pesi insopportabili della vita come anche l’incapacità umana a sostenerli (come il peso della legge stessa). Per questo chiama attorno gli appesantiti e senza forze: ‘venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi’. Propone una via non di oppressione ma di respiro liberante nel lasciarsi incontrare  dal Padre che guarda ai piccoli. La fiducia è il tratto di un rapporto col Padre vissuto da figli e non da schiavi.

Alessandro Cortesi op

XIII domenica tempo ordinario anno A – 2023

2Re 4,8-11.14-16a; Rom 6,3-4.8-11; Mt 10,37-42

Il filo dell’accoglienza tiene legate le letture di questa domenica: accoglienza è l’esperienza del profeta Eliseo invitato dalla donna di Sunem, una straniera, a fermarsi nella sua casa. In questo gesto del fare spazio e della fiducia si svela il volto del Dio d’Israele che traspare dove i cuori si aprono all’ospitalità. Da quel gesto di apertura sorgerà vita nuova, il dono di un figlio atteso.

L’accoglienza del forestiero è per Israele memoria vivente della propria storia: nella condizione di schiavitù e di straniero in Egitto ha sperimentato la sofferenza degli stranieri. Ed è anche ricordo della condizione di ogni essere umano. Per questo Israele dovrà attuare il comandamento: “Tu amerai il forestiero come te stesso perché anche voi siete stati forestieri in Egitto” (Lev 19,34). L’essere pellegrini, in viaggio, bisognosi di sostegno e ospitalità, è la realtà della vita di ogni uomo e donna.

Anche Gesù chiede accoglienza ai suoi: “Chi accoglie voi accoglie me e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. (…) E chi avrà dato anche un solo bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, non perderà la sua ricompensa”.

L’accoglienza offerta e ricevuta rinvia alla questione radicale del rapporto con Dio. Nella relazione tra uomini e donne si apre la possibilità di scoprire l’Altro che ci offre la sua ospitalità, ci rivolge la sua parola e ci chiama ad intendere la vita nei termini di comunione.

La presenza dell’altro è appello decisivo nella vita. Il suo volto è luogo in cui passa l’incontro con il Dio-altro: ‘Ero forestiero e mi avete ospitato’ (Mt 25,44-45): ‘ogni volta che avete fatto queste cose ad uno dei miei fratelli più piccoli l’avete fatta a me’.

Per questo oggi la questione dell’accoglienza di chi è considerato straniero, estraneo e al di fuori di una ristretta cerchia, così come l’accoglienza per chi è tenuto ai margini e considerato diverso e da escludere è questione così decisiva per la fede stessa. Richiama ad un incontro con Dio che passa nelle vicende umane ed è appello a corrispondere ad uno sogno di fraternità e sorellanza nella storia umana che costituisce il ‘regno di Dio’ già presente come seme e radice.       

“Perseverate nell’amore fraterno. Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Eb 13,2)

Alessandro Cortesi op

XV domenica tempo ordinario – anno C

Seawatch 3 giugno 2022

Dt 30,10-14; Col 1,15-20, Lc 10,25-37

‘Chi è il mio prossimo?’ una domanda apre un dialogo. Gesù accetta di rispondere ma senza entrare in una questione da intellettuali religiosi.

Il dialogo ci riporta allo stile di Gesù, al suo parlare non per via di definizioni, non per via di precetti da imporre, ma accompagnando a scorgere le nostalgie del cuore, raccontando una vicenda in cui tutti potevano comprendere.  Un uomo è attaccato dai briganti, ed è lasciato dolorante e percosso, moribondo sulla strada tra Gerusalemme e Gerico, quella via che discendeva coprendo mille metri di dislivello per 30 Km circa tra la città del tempio e Gerico. Per quella strada passano diverse persone: un sacerdote prima, un levita poi, persone religiose, anzi custodi del sacro. Il primo forse scendeva dopo aver svolto il suo servizio settimanale nel tempio di Gerusalemme; il secondo aveva compiuto la sua mansione di inserviente o di cantore nel tempio. Erano due persone osservanti e religiose. Il sacerdote vide e passò oltre e così pure il levita vide e passò oltre. La ripetizione di questo passare e andare oltre riporta ad un vedere che non si lascia interrogare non solo da quell’uomo, ma dagli innumerevoli volti segnati dalla sofferenza, dalla violenza, dall’emarginazione verso i quali c’è indifferenza. Videro quell’uomo lasciato mezzo morto ma proseguirono. Forse lo videro senza scorgerne un volto, forse preoccupati delle osservanze cultuali. Il racconto non presenta le ragioni del perché non si fermarono: forse perché il contatto con il sangue o con un morto rendeva impuri e impediva di compiere azioni di culto, forse perché l’uomo era uno sconosciuto, per evitare incomodi e per poter continuare il loro cammino senza interruzioni. Un modo di intendere la fede staccata dal sentire il dolore dell’altro, oppure un modo di intendere la vita pesi solo dai propri affari.

Il samaritano, nemico ed estraneo invece vede e quel vedere lo porta a fermarsi, ad interrompere il suo cammino di fronte a quell’uomo ferito sulla strada. Tre verbi delineano il suo atteggiamento: lo vide, ne ebbe compassione e si fermò. Anch’egli vide ma non passò oltre. Il suo vedere lo porta a scorgere il volto di un uomo nella sofferenza e nel bisogno: il samaritano, a differenza degli altri due apparteneva ad una popolazione vista con sospetto dagli abitanti della Giudea: era considerato eretico, straniero e nemico.  Di fronte a quell’uomo che soffriva sulla strada il suo vedere è diverso, si lascia toccare e coinvolgere: riconosce in lui un volto di uomo da soccorrere perché nella sofferenza e nel bisogno. ‘Ne ebbe compassione’: avvertì in lui una sofferenza che lo prese nelle viscere, lo coinvolse come se fosse propria. Il verbo usato ‘avere compassione/essere preso nelle viscere’ è quello nella Bibbia è utilizzato per dire il sentire di Dio che si prende cura di chi soffre e delle vittime. A quel samaritano è attribuito il verbo del soffrire di Dio che sente su di sé le sofferenze dell’altro. E la com-passione si fa movimento di avvicinamento con un progredire di azioni concrete in rapporto a quel ‘lui’ che da sconosciuto diviene vicino. il samaritano scopre di essere prossimo: “gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò ad una locanda e si prese cura di lui”. Sono gesti concreti, gesti della cura che hanno al centro la persona. Quell’uomo è per il samaritano un ‘tu’ di cui prendersi cura, così come dice all’albergatore mettendo in atto un movimento più vasto che giunge dove egli stesso non può arrivare: ‘Abbi cura di lui…’.

Nel racconto il samaritano si prende cura dell’altro, riconosce nel sofferente non un nemico, ma un uomo da soccorrere. Il prossimo non è solamente chi appartiene al proprio gruppo, al proprio clan, alla propria confessione religiosa. Nel racconto Gesù mostra che il samaritano non si è chiesto teoricamente ‘chi è il mio prossimo’ ma ha scoperto il volto di chi soffriva. Gesù poi rinvia alla responsabilità personale: ‘chi è stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?’. Capovolge la domanda iniziale del dottore: non è importante domandarsi teoricamente ‘chi è il mio prossimo?’, ma scoprire nella vita imparando a vedere, a fermarsi e a provare compassione:  ‘a chi tu sei prossimo?’.

I gesti del prendersi cura sono l’unica parola credibile su Dio. In quei gesti si rende vicino il volto di Dio che chiede a noi di vivere una fraternità nuova.

Alessandro Cortesi op

Buon samaritano

Suggerisco la visione su youtube di questa presentazione della parabola del buon samaritano di don Marco Campedelli, a cui va tutta la solidarietà per la triste vicenda in cui è stato coinvolto dopo aver scritto una lettera aperta al vescovo Zenti che aveva scritto ai preti di Verona invitando a votare nelle lezioni per i candidati della destra. Come risposta è stato sospeso dall’incarico di insegnante di religione… Nel frattempo il vescovo dimissionario per limiti di età è giunto al termine del suo mandato ed è già stato nominato il suo successore.

Nella sua lettera aperta pubblicata da Adista (qui il testo) don Marco aveva suggerito questioni rilevati su cui riflettere. E forse sarebbe importante al di là della polemica affrontare i temi sollevati.

Questa vicenda ha anche posto in risalto l’urgenza di pensare a nuove forme per l’insegnamento della religione nella scuola, uscendo dall’ottica confessionale sotto il diretto controllo dei vescovi in cui attualmente è condotta in Italia. Varie sono le proposte che da tempo sono state presentate e che aprirebbero a possibili itinerari per promuovere una effettiva conoscenza delle religioni nel mondo attuale ed un’altrettanto fondamentale conoscenza della Bibbia e di testi delle diverse tradizioni religiose.  (ac) 

Salvataggio di migranti SOS Med 27 giugno 2022

Accoglienza

“Il presidente Draghi aveva fama di uomo pragmatico e competente, ma anche di solidi ideali. Dopo la visita in Turchia e l’incontro con il presidente Erdogan, rifulge il pragmatismo, si appanna la percezione di un’adeguata competenza in materia di migrazioni e politiche migratorie, appassisce purtroppo il profilo ideale”. Così Maurizio Ambrosini, studioso delle migrazioni, inizia il suo commento alle prese di posizione del presidente Draghi nella recente visita in Turchia (Deludente pragmatismo dell’abbraccio Draghi-Erdogan, “Avvenire” 7 luglio 2022). Così conclude il suo articolo: “resta l’amarezza di un pragmatismo che sacrifica, anche a parole, i diritti umani e la protezione dei rifugiati sulla base di una percezione infondata delle dimensioni del fenomeno e di una distribuzione schizofrenica della solidarietà: molta, giustamente, per gli ucraini, poca o nulla per siriani, afghani, iracheni e vittime di altre guerre a parte momentanee emozioni”.

Queste le parole di Draghi: «La gestione dei flussi migratori deve essere umana, equa ed efficiente, ma anche un Paese aperto come l’Italia ha dei limiti e ci siamo arrivati». E’ bene precisare che tali espressioni presentano un quadro che non ha riscontri nella realtà e si appiattisce sulla retorica dell’Italia vittima dell’invasione di migranti e al limite delle sue capacità di accoglienza.

I dati ufficiali offrono un quadro decisamente diverso della situazione: Da gennaio al 4 luglio 2022 sono approdate tra Sicilia, Calabria e Puglia 28.405 persone, una cifra di poco superiore ai 21.619 dei primi sei mesi del 2021. Sono numeri che nulla hanno a che vedere con i numeri di qualche anno fa (nel 2017 vi furono nei primi sei mesi 83.000 arrivi).

“Se un limite è stato raggiunto, si tratta della visione eurocentrica dell’immigrazione, perché, a fronte di una piccola parte di flussi che interessa davvero l’Europa, l’83% degli africani in fuga resta in Africa così come accade in Medioriente, dove la Turchia accoglie oltre 4 milioni di persone e il Libano quasi un milione» spiega il portavoce dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni Flavio di Giacomo al telefono da Lampedusa”. Così riporta Francesca Paci (Migranti siamo davvero al limite? “La Stampa” 7 luglio 2022). “‘I numeri contraddicono l’analisi di Draghi – ragiona la presidente di Medici senza Frontiere Monica Minardi -. Il limite che abbiamo superato è il numero di vite innocenti perse nel Mediterraneo, 3.231 nel solo 2021, mentre sulla migrazione si consuma un eterno dibattito ideologico’. Msf, con Sea-Watch e SOS Mediterranée, è tra le poche ONG rimaste in mare …. A conti fatti, l’Italia negli ultimi sei mesi è arrivata a quota 28 mila ingressi, meno della metà degli spettatori dello stadio Olimpico. In Grecia sono stati 1200, in Spagna 12 mila”.

Ma è un articolo a firma di Duccio Facchini direttore della rivista “L’altreconomia” dal titolo I dati su accoglienza e sbarchi che smentiscono il presidente del Consiglio – con allegati grafici – a presentare un quadro più analitico della situazione: “Al 30 giugno di quest’anno, dati del ministero dell’Interno alla mano, risultano accolte 89.897 persone: 423 negli hotspot, 59.946 nei centri straordinari prefettizi (Cas) e 29.528 in quello che dovrebbe essere il sistema ordinario (Sai, fu Sprar). Nel 2017 erano più del doppio, 183.681, poi crollate dopo il contrasto agli sbarchi, i respingimenti operati dalle milizie libiche e il ricorso alle navi quarantena come ‘filtro’ in ottica di rimpatrio. Pensare che 89.897 persone in accoglienza bastino per dichiarare la ‘misura colma’ fa specie – così come la ‘conta’ degli sbarchi, 165.404 dal primo gennaio 2018 al 5 luglio 2022, meno del solo 2016 -. Guardiamo a quanto sta accadendo con le persone in fuga dall’Ucraina. Dal 24 febbraio, l’inizio dell’invasione russa, al 6 luglio, sono arrivati in Italia in 145.829. Molte più persone di quante ce ne siano, da anni, in accoglienza. Così riguardo alle domande di asilo si rileva che nel 2021 a livello europeo i richiedenti sono stati 535.000: la Germania ne ha ‘assorbito’ il 27,7% (148.200), la Francia il 19,4% (103.800), la Spagna l’11,6% (62.100), l’Italia l’8,2%. Il ‘nostro’ dato in termini assoluto è pari a 43.900 domande, cioè meno di 1,5 richiedenti ogni 1.000 abitanti. (…) L’Italia, ed è così da anni, ai sensi del guasto ‘sistema Dublino’ è invece un Paese che dovrebbe ‘ricevere’ persone e non il contrario, come sostiene erroneamente il presidente Draghi”. Gianfranco Schiavone dell’ASGI osserva che “I migranti in questo fosco scenario sono solo ostaggi di trattative su chi si accaparrerà i fondi italiani per gestirli come vuole” (ibid.).

Le scelte govenrative in atto di Italia e Europa nel considerare le migrazioni appaiono ben lontane dal tener conto dei diritti umani di tante persone: molte aree nel mondo vivono situazioni di difficoltà. I siriani sono da anni costretti a fuggire a causa di una guerra devastante non meno grave di quella in Ucraina; moltissimi tra di loro sono rifugiati in Libano, un Paese in grave crisi economica e di sistema. Si deve poi pensare a tutti coloro che sono rinchiusi nei lager libici. I paesi del Corno d’Africa sono segnati da violenze, crisi alimentari e climatiche, così pure chi arriva dall’Afghanistan, una terra dimenticata.

Da tempo chi opera nel settore sta dicendo che si tratta di un fenomeno di lungo periodo, strutturale che esigerebbe un nuovo sistema di accoglienza ed una politica lungimirante per l’integrazione, e soprattutto una chiara determinazione nel far valere il rispetto per i diritti umani. Il Tavolo asilo ha recentemente presentato una serie di proposte per rivedere il sistema di accoglienza nel Paese (qui il testo con le proposte).

appare qunto mai urgente operare in tutti i modi per aiutare a far ‘vedere’ la realtà di tante persone che soffrono e per agire in modi concreti per costruire modi nuovi di vivere insieme basati sulla solidarietà e sulla cura.

Alessandro Cortesi op  

XXV domenica del tempo ordinario – anno B – 2021

Sap 2,12.17-20; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37

La vita del giusto costituisce un impedimento e silenziosa denuncia dell’ingiustizia e della disonestà degli empi. Per questo c’è chi trama per eliminarlo “perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni”. Il libro della Sapienza fissa questa vicenda che non è solo quella osservata dall’autore di questo libro biblico nel I secolo a.C., ma costituisce la vicenda di sempre, dell’opposizione da parte di chi detiene poteri e privilegi a chi lotta per la giustizia. La sfida è radicale: “vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio egli l’assisterà, e lo libererà dalle mani dei suoi avversari”.

Nella lettera di Giacomo la sapienza è contrapposta alle guerre e alle liti generate dalla brama di possesso, dalla ricerca di dominio e dall’invidia. Per contro la sapienza che viene dall’alto ha caratteri diversi e contrari: costruisce pace, è mite, non è aggressiva. Questo genere di sapienza non si limita ad una dimensione intellettuale ma si traduce in scelte di vita, in uno stile che porta a costruire la pace. La giustizia è come un frutto che sorge dall’albero buono della vita di chi  promuove la pace.  Via della sapienza – dice la lettera di Giacomo – è tessere riconciliazione, lottare contro ogni soluzione di violenza e di guerra per aprire vie diverse del convivere umano.

Nel vangelo Marco presenta Gesù nel suo cammino verso la croce, nel suo  essere ‘consegnato’, e subire umiliazione e condanna rimanendo solo. Ma ‘dopo tre giorni risusciterà’: quella vita che agli occhi degli uomini è fallimentare, trova la conferma del Padre che lo risuscita al terzo giorno. Sulla strada Gesù accompagna i suoi a comprendere il senso del suo cammino. Ai dodici chiede chi è il più grande ed spiega il suo modo di comprendere i rapporti e la vita : “se uno vuol essere il primo sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti. E preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: ‘Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.

Gesù ribalta le prospettive sul ‘più grande’. Non intende la grandezza secondo le logiche  del potere, del denaro, dei ruoli ma indica il criterio decisivo dell’accoglienza: chi accoglie il più piccolo e si pone a servizio è grande agli occhi del Padre. Il bambino che Gesù pone in mezzo, al centro, è figura paradigma per tutti coloro a cui non sono riconosciuti diritti e sono ritenuti piccoli, senza importanza. Gesù pone al centro i senza diritti, le vittime di un sistema sociale che scarta ed elimina i più deboli e indica che solo nell’esperienza concreta dell’accogliere si può comprendere chi è il più importante allo sguardo di Dio. Chiede così ai suoi di seguire lui, il figlio, che si è fatto servo, sulla via della croce. E così indica che accogliere i piccoli e le vittime è entrare nel cammino per incontrare il Padre.

Alessandro Cortesi op

Chi accoglie uno di questi bambini…

Raccolgo alcune parole che papa Francesco ha pronunziato nel suo recente breve viaggio in Ungheria e Slovacchia, carico di simboli sia per i luoghi visitati, sia per i gruppi e le persone a cui ha dato spazio nei suoi incontri.

La visita è iniziata con l’incontro con il presidente a Budapest e con il premier Orbàn, fautore di una chiusura sovranista, teorizzatore di una democrazia illiberale che rifiuta principi fondamentali dello stato diritto, assertore di posizioni razziste e difensore di un cristianesimo scambiato come appartenenza culturale, a cui si riferisce in modo identitario per giustificare il rifiuto dei migranti. Lo stesso premier ha regalato al papa copia di una lettera del re Bela IV a Papa Innocenzo IV (1250), in cui chiedeva aiuto per respingere la minaccia dei tartari che da Oriente minacciavano l’Ungheria cristiana e gli ha chiesto “di non lasciare che l’Ungheria cristiana perisca”. E’ da tener presente che in Ungheria le poltiiche di Orbàn di rifiuto dei rifugiati e di chiusura ai migranti è condivisa da alcuni vescovi.

Parlando ai vescovi il 12 settembre Francesco ha offerto elementi di una risposta alle sollecitazioni ricevute dal premier Orban e riprendendo il tema delle radici ha detto: “custodire le nostre radici religiose, custodire la storia da cui proveniamo, senza però restare con lo sguardo rivolto indietro: guardare al futuro, guardare avanti e trovare nuove vie per annunciare il Vangelo (…) Il vostro Paese è luogo in cui convivono da tempo persone provenienti da altri popoli. Varie etnie, minoranze, confessioni religiose e migranti hanno trasformato anche questo Paese in un ambiente multiculturale. Questa realtà è nuova e, almeno in un primo momento, spaventa. La diversità fa sempre un po’ paura perché mette a rischio le sicurezze acquisite e provoca la stabilità raggiunta. Tuttavia, è una grande opportunità per aprire il cuore al messaggio evangelico: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Davanti alle diversità culturali, etniche, politiche e religiose, possiamo avere due atteggiamenti: chiuderci in una rigida difesa della nostra cosiddetta identità oppure aprirci all’incontro con l’altro e coltivare insieme il sogno di una società fraterna”.

L’appello finale è stato centrato sull’invito a costruire ponti di dialogo in questo tempo e coltivare accoglienza:

“Sopra il grande fiume che attraversa questa città si staglia l’imponente Ponte delle Catene: sostituì un fragile ponte di legno e servì a unire Buda e Pest. Se vogliamo che il fiume del Vangelo raggiunga la vita delle persone, facendo germogliare anche qui in Ungheria una società più fraterna e solidale, abbiamo bisogno che la Chiesa costruisca nuovi ponti di dialogo. Come Vescovi, vi chiedo di mostrare sempre, insieme ai sacerdoti e ai collaboratori pastorali, il volto vero della Chiesa: è madre. È madre! Un volto accogliente verso tutti, anche verso chi proviene da fuori, un volto fraterno, aperto al dialogo.”

Nell’incontro ecumenico a Bratislava la sera di domenica 12 settembre, in un discorso in cui ha richiamato Dostojevski e la leggenda del grande inquisitore ed una poesia che viene imparata nelle scuole, Francesco ha invitato a condividere la carità: “Condividere la carità apre orizzonti più ampi e aiuta a camminare più spediti, superando pregiudizi e fraintendimenti. Ed è anch’esso un tratto che trova genuina accoglienza in questo Paese, dove a scuola s’impara a memoria una poesia, che contiene, tra gli altri, un passaggio molto bello: «Quando alla nostra porta bussa la mano straniera con sincera fiducia: chiunque sia, se viene da vicino oppure da lontano, di giorno o di notte, sul nostro tavolo ci sarà il dono di Dio ad attenderlo» (Samo Chalupka, Mor ho!, 1864). Il dono di Dio sia presente sulle tavole di ciascuno perché, mentre ancora non siamo in grado di condividere la stessa mensa eucaristica, possiamo ospitare insieme Gesù servendolo nei poveri. Sarà un segno più evocativo di molte parole, che aiuterà la società civile a comprendere, specialmente in questo periodo sofferto, che solo stando dalla parte dei più deboli usciremo davvero tutti insieme dalla pandemia”.

Nell’incontro con la comunità ebraica a Bratislava il papa ha iniziato la riflessione a partire dal luogo in cui trovavano, la piazza sede del quartiere ebraico e memoria delle persecuzioni “La piazza dove ci troviamo è molto significativa per la vostra comunità. Mantiene vivo il ricordo di un ricco passato: è stata per secoli parte del quartiere ebraico; qui ha lavorato il celebre rabbino Chatam Sofer. (…) In seguito, però, il nome di Dio è stato disonorato: nella follia dell’odio, durante la seconda guerra mondiale, più di centomila ebrei slovacchi furono uccisi. E quando poi si vollero cancellare le tracce della comunità, qui la sinagoga fu demolita. Sta scritto: «Non pronuncerai invano il nome del Signore» (Es 20,7). Il nome divino, cioè la sua stessa realtà personale, è nominata invano quando si viola la dignità unica e irripetibile dell’uomo, creato a sua immagine. Qui il nome di Dio è stato disonorato, perché la blasfemia peggiore che gli si può arrecare è quella di usarlo per i propri scopi, anziché per rispettare e amare gli altri. Qui, davanti alla storia del popolo ebraico, segnata da questo affronto tragico e inenarrabile, ci vergogniamo ad ammetterlo: quante volte il nome ineffabile dell’Altissimo è stato usato per indicibili atti di disumanità! Quanti oppressori hanno dichiarato: “Dio è con noi”; ma erano loro a non essere con Dio”.

Questo riferimento al luogo simbolico della piazza e a momenti in cui il nome di Dio è stato disonorato andavano alle vicende storiche della seconda guerra mondiale quando, dopo il patto di Monaco nel 1938, fu istituito sotto stretto controllo del regime di Hitler uno Stato slovacco autonomo alleato della Germania nazista e da essa dipendente. Un vescovo cattolico mons. Tiso ne fu presidente e ne divenne successivamente il duce, e fu egli stesso in accordo con i tedeschi per attuare le deportazioni di circa 100.000 ebrei slovacchi.

Dietro a queste parole del papa è da scorgere non solo la vergogna e la condanna per l’azione di mons. Tiso al tempo del nazismo ma anche la logica che presiede alla logiche sovraniste  affermate oggi in queste regioni. E ha concluso con parole di speranza richiamando al bisogno di porte aperte: “Il mondo ha bisogno di porte aperte. Sono segni di benedizione per l’umanità. Al padre Abramo Dio disse: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3). È un ritornello che scandisce le vite dei padri (cfr Gen 18,18; 22,18; 26,4). A Giacobbe, cioè Israele, Dio disse: «La tua discendenza sarà innumerevole come la polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E si diranno benedette, in te e nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra» (Gen 28,14). Qui, in questa terra slovacca, terra d’incontro tra est e ovest, tra nord e sud, la famiglia dei figli di Israele continui a coltivare questa vocazione, la chiamata a essere segno di benedizione per tutte le famiglie della terra.”

Nella divina liturgia bizantina presieduta nella festa dell’esaltazione della croce il 14 settembre ha ricondotto al significato della croce per Gesù e per i suoi discepoli:

“La croce esige … una testimonianza limpida. Perché la croce non vuol essere una bandiera da innalzare, ma la sorgente pura di un modo nuovo di vivere. Quale? Quello del Vangelo, quello delle Beatitudini. Il testimone che ha la croce nel cuore e non soltanto al collo non vede nessuno come nemico, ma tutti come fratelli e sorelle per cui Gesù ha dato la vita. Il testimone della croce non ricorda i torti del passato e non si lamenta del presente. Il testimone della croce non usa le vie dell’inganno e della potenza mondana: non vuole imporre sé stesso e i suoi, ma dare la propria vita per gli altri. Non ricerca i propri vantaggi per poi mostrarsi devoto: questa sarebbe una religione della doppiezza, non la testimonianza del Dio crocifisso. Il testimone della croce persegue una sola strategia, quella del Maestro: l’amore umile. Non attende trionfi quaggiù, perché sa che l’amore di Cristo è fecondo nella quotidianità e fa nuove tutte le cose dal di dentro, come seme caduto in terra, che muore e produce frutto”.

Incontrando la comunità rom nel Quartiere Luník IX a Košice – comunità che nel passato hanno subito situazioni di discriminazione e che recentemente dal premier Orban sono stati individuati come categorie da emarginare e individuate come ‘nemico interno’ – ascoltando storie di integrazione ha così dialogato con i presenti: “Quante volte i giudizi sono in realtà pregiudizi, quante volte aggettiviamo! È sfigurare con le parole la bellezza dei figli di Dio, che sono nostri fratelli. Non si può ridurre la realtà dell’altro ai propri modelli preconfezionati, non si possono schematizzare le persone. Anzitutto, per conoscerle veramente, bisogna riconoscerle: riconoscere che ciascuno porta in sé la bellezza insopprimibile di figlio di Dio, in cui il Creatore si rispecchia. (…) Così ci avete dato un messaggio prezioso: dove c’è cura della persona, dove c’è lavoro pastorale, dove c’è pazienza e concretezza i frutti arrivano. Non subito, col tempo, ma arrivano. Giudizi e pregiudizi aumentano solo le distanze. Contrasti e parole forti non aiutano. Ghettizzare le persone non risolve nulla. Quando si alimenta la chiusura prima o poi divampa la rabbia. La via per una convivenza pacifica è l’integrazione. È un processo organico, un processo lento e vitale, che inizia con la conoscenza reciproca, va avanti con pazienza e guarda al futuro. E a chi appartiene il futuro? Possiamo domandarci: a chi appartiene il futuro? Ai bambini. Sono loro a orientarci: i loro grandi sogni non possono infrangersi contro le nostre barriere. (…) Ringrazio chi porta avanti questo lavoro di integrazione che, oltre a comportare non poche fatiche, a volte riceve pure incomprensione e ingratitudine, magari persino nella Chiesa.  (…) Andate avanti su questa strada, che non illude di poter dare tutto e subito, ma è profetica, perché include gli ultimi, costruisce la fraternità, semina la pace. Non abbiate paura di uscire incontro a chi è emarginato. Vi accorgerete di uscire incontro a Gesù. Egli vi attende là dove c’è fragilità, non comodità; dove c’è servizio, non potere; dove c’è da incarnarsi, non da compiacersi. Lì è Lui”.

Tali parole di apertura all’incontro divengono rilevanti anche per la chiesa per un cambiamento da attuare. Parlando nella cattedrale di san Martino a Bratislava Francesco ha detto: “La Chiesa non è una fortezza, non è un potentato, un castello situato in alto che guarda il mondo con distanza e sufficienza. Qui a Bratislava il castello già c’è ed è molto bello! Ma la Chiesa è la comunità che desidera attirare a Cristo con la gioia del Vangelo – non il castello! –, è il lievito che fa fermentare il Regno dell’amore e della pace dentro la pasta del mondo (…) Ecco, è bella una Chiesa umile che non si separa dal mondo e non guarda con distacco la vita, ma la abita dentro. Abitare dentro, non dimentichiamolo: condividere, camminare insieme, accogliere le domande e le attese della gente. Questo ci aiuta a uscire dall’autoreferenzialità: il centro della Chiesa… Chi è il centro della Chiesa? Non è la Chiesa! E quando la Chiesa guarda sé stessa, finisce come la donna del Vangelo: curvata su sé stessa, guardandosi l’ombelico (cfr Lc 13,10-13). Il centro della Chiesa non è se stessa.”.

“non abbiate timore di formare le persone a un rapporto maturo e libero con Dio. Importante è questo rapporto. Questo forse ci darà l’impressione di non poter controllare tutto, di perdere forza e autorità; ma la Chiesa di Cristo non vuole dominare le coscienze e occupare gli spazi, vuole essere una “fontana” di speranza nella vita delle persone. È un rischio. È una sfida”.

“La gioia del Vangelo è sempre Cristo, ma le vie perché questa buona notizia possa farsi strada nel tempo e nella storia sono diverse. Le vie sono tutte diverse. Cirillo e Metodio percorsero insieme questa parte del continente europeo e, ardenti di passione per l’annuncio del Vangelo, arrivarono a inventare un nuovo alfabeto per la traduzione della Bibbia, dei testi liturgici e della dottrina cristiana. Fu così che divennero apostoli dell’inculturazione della fede presso di voi. Furono inventori di nuovi linguaggi per trasmettere il Vangelo, furono creativi nel tradurre il messaggio cristiano, furono così vicini alla storia dei popoli che incontravano da parlarne la loro lingua e assimilarne la cultura. Non ha bisogno di questo anche oggi la Slovacchia? Mi domando. Non è forse questo il compito più urgente della Chiesa presso i popoli dell’Europa: trovare nuovi “alfabeti” per annunciare la fede?”.

Nelle sue parole e nella geografia della sua visita Francesco ha mostrato come oggi l’annuncio del vangelo implichi anche una chiara presa di posizione insieme ad un impegno in contrasto ad orientamenti che  svuotano l’annuncio cristiano e lo riducono a elemento identitario: con la libertà di chi non ricerca di dominare e occupare spazi oggi la sfida sta nel ricercare vie concrete di accoglienza, apertura alle diversità, incontro nella solidarietà con l’altro.

Alessandro Cortesi op

XIII domenica tempo ordinario – anno A – 2020

IMG_85172Re 4,8-16a; Rom 6,3-4.8-11; Mt 10,37-42

E’ il tema dell’accoglienza la linea che percorre le letture di questa domenica.

La prima lettura narra una scena che riporta alla quotidianità della casa. Eliseo, uomo di Dio, riceve l’invito a fermarsi a tavola da una donna di Sunem, una straniera. Riceve poi accoglienza in quella casa dove viveva una coppia senza figli. Questo gesto di ospitalità e apertura nei confronti si apre alla sorpresa di un dono inatteso: un figlio diviene il segno della vita che nasce nuova proprio dall’esperienza dell’accoglienza.

La pagina del vangelo riporta alcuni insegnamenti di Gesù sulla missione. Gesù chiede una dedizione di fondo a seguirlo non mettendo null’altro al di sopra del riferimento a lui. Chiede innanzitutto un’accoglienza della sua parola e del suo invito: ‘chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me’. La sua proposta è un cammino in cui il discepolo segue il maestro. La vita di Gesù si è posta nell’orizzonte dell’amore e del dono, e così chiede sia la vita del discepolo.

Prendere la croce e seguirlo è un’espressione che spesso è stata letta come appello a sopportare la sofferenza o addirittura a subirla come volontà di Dio stesso. Ma Gesù non chiede ai suoi di scegliere la sofferenza: piuttosto propone la via dell’amore. La via della croce per Gesù non è stata scelta di sofferenza e dolore, ma è stato il luogo in cui ha manifestato che anche lì, nel momento più disumano, è stato possibile vivere un amore più forte della violenza, dell’ingiustizia. Prendere la croce per Gesù significa restare fino in fondo fedele all’annuncio del regno come nuovo modo di intendere la vita e i rapporti nell’accoglienza degli altri, nella tenerezza, nella convivialità.

In questo quadro Gesù invita i suoi ad intendere la vita non come percorso di possesso, di rincorsa di affermazione di se stessi, ma come luogo di condivisione, di discesa, di perdita: perdersi per ritrovarsi. La vita può essere trattenuta in un movimento di ripiegamento, di concentrazione su di sé e diviene arida senza frutto. Ma può anche divenire esperienza di apertura, di dono, di condivisione. E si apre allora ad una fecondità nuova, Gesù indica che solo nell’accoglienza si può scoprire il senso profondo della vita come comunione. Comunione con gli altri, comunione con Dio stesso che si da ad incontrare nel volto dei poveri.

Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Accogliere gli altri è esperienza che apre ad accogliere la presenza di Dio stesso che viene ad abitare in noi, ci dona la sua vita, ci fa scoprire che noi siamo amati innanzitutto e accolti.

Tutto questo si attua non in ambiti particolari nell’eccezionalità di luoghi o esperienze di tipo religioso, ma nella quotidianità della vita, nei piccoli gesti ordinari che sono alla portata di tutti e che dicono come la presenza di Dio vada oltre le nostre barriere ed esclusioni. Nel dare un bicchier d’acqua si compie l’esperienza accoglienza luogo di manifestazione dell’umanità e di Dio stesso: ‘chi avrà dato anche un solo bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, non perderà la sua ricompensa’.

Solo passando attraverso il rapporto con l’altro ci apriamo a scoprire l’Altro che ci rivolge la sua parola e che chiama a intendere la vita nei termini di comunione.

Alessandro Cortesi op

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Rifugiati

Pochi giorni fa, il 20 giugno, vi è stata la Giornata mondiale del rifugiato. In questa data l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr/Acnur) presenta il suo Rapporto sui rifugiati nel mondo.

E’ stata un’occasione per ricordare come oggi nel mondo i rifugiati, ossia le persone che hanno dovuto abbandonare la propria casa e la propria terra sono circa 80 milioni. Rispetto a dieci anni fa vi è stato un aumento che è quasi un raddoppio della popolazione rifugiata nel mondo. Una persona su 100 circa è nella condizione di rifugiato.

Tra di esse la grande maggioranza è costituita da sfollati interni ai Paesi. Ciò significa da un lato che chi fugge dal proprio luogo di vita lo fa per lo più con il desiderio di poter rientrare e quindi fermandosi nel medesimo Paese oppure in zone vicine.

In secondo luogo questo fa riflettere sul fatto che i Paesi con maggior numero di rifugiati sono Paesi del Sud del mondo che si trovano nella condizione di provvedere alle necessità di tantissime persone senza avere le ricchezze dei Paesi del Nord del pianeta. Circa 34 milioni di rifugiati trova accoglienza in Paesi in via di sviluppo. Molto spesso sono Paesi che devono affrontare situazioni di carestie e malnutrizione. Già questi dati dovrebbero far riflettere.

Ma il Rapporto offre una fotografia della situazione in cui emerge un altro aspetto su cui porre attenzione: benché la maggior parte dei rifugiati si allontani con la speranza di un ritorno, si stanno sempre meno realizzando le condizioni perché ciò possa avvenire. Infatti mentre alcuni decenni fa circa un milione e mezzo di persone riuscivano ogni anno a rientrare nei luoghi di origine, oggi questa cifra è diminuita paurosamente: solo 400 mila persone riescono a ritornare. Ciò significa che la stragrande maggioranza dei rifugiati vive ormai da anni nella condizione dei campi profughi in condizioni di vita estremamente difficili, nella precarietà e nell’impossibilità di pensare ad un futuro per sé e per i propri figli. Un altro numero infatti che fa riflettere è che 30 milioni di rifugiati sono minorenni.

Questi pochi dati sono da leggere come numeri che racchiudono le sofferenze, le speranze, le attese di milioni di persone, uomini donne e bambini. Essi manifestano quanto sia grande la cecità del mondo occidentale delle società del Nord, della nostra Italia, a fronte di questo dramma che segna la vita di così tante persone. Si pensa a queste persone come a presenze che minacciano un benessere inteso come privilegio da difendere senza farsi carico delle sofferenze degli altri.

Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli scrive: “È come se noi ci stessimo abituando a vedere una fotografia sempre più sfocata di una barca in mezzo al mare, in cui non si distinguono volti, storie personali e tragedie umane. Stiamo mettendo in atto una sorta di strategia dell’anonimato. Meno sappiamo delle persone che cercano di arrivare, più facile è lasciarle in un centro di detenzione o riportarle in Libia, lasciarle in un campo in Grecia o vederle morire in mare senza sentirsi complici o responsabili”.

E tuttavia ci ricorda anche che “le storie belle nascono e si diffondono dove trovano spazio e condizioni per farlo. Tutti coloro che operano in prima linea nell’accoglienza sono consapevoli dei dolori da lenire e delle ingiustizie da sanare, ma anche testimoni privilegiati della bellezza che ci portano i rifugiati. Nonostante le mille difficoltà e gli ostacoli che si moltiplicano nel cammino in Italia, loro rimangono portatori di speranza e buoni compagni di viaggio lungo la strada della vita” (“Avvenire” 20 giugno 220).

Portatori di bellezza e speranza e buoni compagni di viaggio: portano speranza ad un mondo malato e asfittico, ripiegato in una incapacità a guardare all’altro. E sono compagni di viaggio perché aiutano a scoprire che tutti siamo in viaggio e improvvisamente per tutti si può aprire nella vita una condizione nuova in cui scoprire la propria fragilità e l’essenziale importanza dell’essere accolti.

Questo tempo della pandemia che ha attraversato tutto il mondo potrebbe essere occasione di scoperta di questi orizzonti di accoglienza e solidarietà che avevano dimenticato o posto ai margini della nostra vita.

Alessandro Cortesi op

XVI domenica tempo ordinario – anno C – 2019

Abramo tre angeli part. Chagall NizzaGen 18,1-10a; Col 1,24-28; Lc 10,38-42

Nella sua vita Abramo vive un’esperienza inattesa e sconvolgente: l’incontro con un Dio che passa come ospite, si fa accogliere e dà inizio ad una vita nuova. Il racconto di quanto accade alle querce di Mamre nell’ora più calda del giorno è espressione di tale evento. Dio si fa incontro presso l’albero e vicino alla tenda. In una prima parte l’accoglienza, nella seconda un colloquio.

Alle querce di Mamre Abramo ospita tre visitatori. “Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui”. Non riconosce chi sono. Ma presta loro la sua ospitalità: si mette a correre, lui vecchio nell’ora più calda del giorno: “Appena li vide corse loro incontro…”. Va poi da Sara nella tenda per chiederle di preparare delle focacce. I gesti dell’ospitalità sono sinceri, generosi, immediati. Dopo la prima parte del racconto in cui è Abramo che agisce di più, la seconda parte concentra l’attenzione su Sara e sulla tenda. Sara riceve la promessa di un figlio. E’ una promessa che la fa ridere perché era qualcosa di impossibile (e il nome Isacco verrà da questo riso). E la parola che giunge è: “C’è forse qualche cosa di impossibile al Signore?’. Il Dio visitatore è Dio che suscita vita. L’ospitalità che allarga i pali della tenda alla presenza di ospiti sconosciuti è esperienza in cui si genera una fecondità desiderata e inattesa perché proprio nell’ospitalità si fa esperienza del venire di Dio nella vita. E Jahwè può aprire fecondità inaudite e conosce i segreti dei cuori.

Betania, villaggio vicino a Gerusalemme, era luogo dove Gesù trovava accoglienza presso la casa di amici: Lazzaro, Marta, Maria. Betania è luogo dell’amicizia vissuta, e del riposo che l’amicizia offre. Luca, racconta una scena in questa casa subito dopo la parabola del buon samaritano, da leggere insieme, scorgendo continuità tra la domanda ‘maestro che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?’, la parabola del samaritano e l’episodio di Betania.

L’atteggiamento di Marta tutta presa dai molti servizi è presentato spesso come contrapposto a quello di Maria, seduta ai piedi di Gesù. E’ stato così dato risalto la scelta migliore di Maria, la contemplazione in contrasto con l’attività. Ma tale lettura è limitata e forse fuorviante.

Un lettura diversa può essere fatta in una lettura nel contesto: nel capitolo 9 Luca narra la partenza verso la Passione (Lc 9,51). Gesù poi presenta a più riprese le condizioni poste a chi intende seguirlo (9, 57-62), sceglie i settantadue e li invia indicando loro uno stile di vita (10, 1-20), dice che il Padre si rivela ai piccoli (10, 21-24). Racconta poi al dottore della legge la parabola del samaritano (10,29-37), poi visita le sorelle e infine lascia ai suoi la preghiera del Padre Nostro. Il racconto con gradualità delinea il profilo dei discepoli autentici.

Nella parabola del samaritano Gesù aveva indicato quello straniero come colui che sa provare compassione e si è fatto prossimo. Si era fermato e ‘aveva visto’ quell’uomo da soccorrere lungo la strada: ciò che persone religiose avevano pur visto, ma senza fermarsi. Il samaritano aveva agito concretamente ponendo gesti di cura e vicinanza: aveva compreso di essere lì e in quell’ora prossimo a quell’uomo sofferente. Per Gesù ciò che sta al centro e dà senso alla vita è questa cura e questo servizio, il farsi prossimi perché il Dio della Bibbia è Dio che scende a liberare.

Nella casa di Betania, Marta e Maria divengono così quasi due aspetti di un unico profilo che è la vita del discepolo. Il discepolo che accoglie e dona amicizia a Gesù. Esse esprimono così il volto di chi si fa prossimo. Marta è ‘presa dai tanti servizi’. Accanto a lei Maria ascoltava la parola di Gesù. E’ il medesimo atteggiamento dell’indemoniato ‘che stava seduto ai piedi di Gesù’ in attesa di essere liberato (Lc 8,35). Luca non intende contrapporre la contemplazione all’azione, ma nei gesti e negli incontri di Betania ricorda l’essenziale di una vita con Gesù che si delinea come ascolto e come servizio, come prossimità vissuta al Signore e agli altri nei gesti della cura.

Ogni autentica attività di servizio sgorga dall’ascolto della Parola e ogni ascolto significa stare seduti ai piedi di Gesù, gesto proprio del discepolo per vivere quanto lui stesso ha vissuto. La vita del discepolo è indicata nella compresenza di ascolto e servizio. L’ascolto di Gesù si compie in gesti concreti di prossimità. Il servizio vive e si rende possibile nell’ascolto, degli altri e di Dio, in una ospitalità aperta.

Una lettura femminista di questo passo biblico ha aperto anche nuove considerazioni nel pensare alla situazione originaria delle chiese e alla presenza delle donne così come voluto da Gesù nel suo convocare attorno a sè una comunità di uguali: A parere di Elisabeth Schlüsser Firoenza, i due “tipi” costituiti da Marta e Maria non sono in riferimento alla vita attiva e alla vita contemplativa, ma sono due compiti: la “diaconia” e l’“ascolto della Parola”. Il verbo greco diakonèin indica appunto il “servire” e Marta attua un servire che non è preparazione di un pasto. Esso va interpretato allora come il servizio ecclesiale, la diaconia. Dietro la figura di Marta si nasconde quindi il riferimento alla donna responsabile del servizio della comunità cristiana. E la sua protesta a Gesù è perché è lasciata sola con quelle responsabilità. Importante è che la scena avviene nella casa che è proprio il luogo originario delle prime comunità cristiane (e non il tempio e la chiesa!).

«La chiesa domestica era l’inizio della chiesa in una determinata città o in una regione; offriva spazio per la predicazione della Parola, per il culto, come pure per la mensa comune, sociale ed eucaristica … La chiesa domestica, per la sua ubicazione, offriva uguali opportunità alle donne, perché tradizionalmente la casa era considerata la sfera propria delle donne e le donne non erano escluse dalle attività che vi si svolgevano … la sfera pubblica nella comunità cristiana era nella casa e non fuori. La comunità era ‘nella casa di lei’. Perciò sembra che la domina della casa in cui si riuniva l’ekklesía avesse una responsabilità di primo piano per la comunità e per le riunioni nella chiesa domestica… In conclusione: la letteratura paolina e gli Atti ci permettono ancora di riconoscere che le donne avevano il loro posto fra i missionari e i leaders più eminenti del movimento cristiano primitivo. Erano apostole e ministri come Paolo e alcune erano sue collaboratrici. Insegnavano, predicavano e gareggiavano nella corsa per l’evangelo. Fondarono chiese domestiche e, come eminenti ‘patrone’, usarono la loro influenza a favore di altri missionari e cristiani. Se paragoniamo la loro funzione direttiva con il ministero delle diaconesse venute più tardi, colpisce il fatto che la loro autorità e il loro ministero non erano limitati alle donne e ai bambini e non erano esercitati solo in ruoli e funzioni specificamente femminili» (E.Schüssler Fiorenza, In memoria di lei, 201-202).

Alessandro Cortesi op

immagine-pixellataInvisibili

In Italia le conseguenze di norme governative che mirano ad ottenere facile risonanza mediatica senza risolvere i problemi della povera gente stanno producendo una nuova categoria di persone: i cosiddetti ‘invisibili’, quelli che non devono stare da nessuna parte, gli sgomberati e gli esclusi, senza differenza tra provenienze etniche o geografiche. Sono le vittime della politica delle ruspe. Sono i centomila invisibili che progressivamente occupano le pieghe marginali della vita sociale e delle nostre città, con sofferenze che non si possono comprendere e con conseguenze devastanti per la stessa vita sociale.

“Italiani e immigrati, rom e sinti, il popolo degli almeno centomila invisibili che nessuno riuscirà mai a censire, già finiti o destinati a finire nei prossimi mesi sotto la ruspa di Matteo Salvini. (…) Persone di ogni etnia che, anche se prese in carico dai servizi sociali dei Comuni nell’immediatezza degli sgomberi, dopo un’accoglienza temporanea in dormitori o case famiglia finiscono per tornare in strada o in altre occupazioni abusive. Nessuno dunque sa veramente quanti siano gli invisibili che abitano le strade delle periferie, i portici delle stazioni o i giardini pubblici. Quel che è certo è che la raffica di sgomberi senza alcun piano preventivo di ricollocamento ordinata da Matteo Salvini, dalle baraccopoli-ghetto degli immigrati ai centri di accoglienza, dalle occupazioni di palazzi ai campi rom, ne ingrossa le file. Creando tutto fuorché sicurezza. L’unico numero certo è quello che si riferisce ai migranti ed è una delle medaglie che Salvini si appunta fiero al petto. In un anno di sua presenza al Viminale, gli immigrati nel circuito dell’accoglienza sono scesi da 167.000 a 107.000. Sessantamila persone fuori da strutture grandi e piccole, che si sommano alle diecimila che già vivevano nelle baraccopoli in Calabria e in Puglia”. (Alessandra Ziniti, Centomila invisibili, “La Repubblica” 17 luglio 2019)

E’ questo il quadro di un Paese in cui non si sta attuando alcuna scelta per governare la complessità dei problemi, ma si rincorre l’acclamazione di chi ha bisogno di illusioni, la rabbia di chi vuole presentato un capro espiatorio colpevole dei propri disagi, il plauso per chi sa essere il più sbruffone, bullo con i deboli e imbonitore di folle delle piazze virtuali.

In questo clima in cui prevale la barbarie e il cinismo del linguaggio e delle azioni si sono levate in questi giorni voci insolite, che provengono dal silenzio, allarmate e sofferenti, che richiamano ad un rispetto dei riferimenti fondamentali di umanità e di accoglienza soprattutto per chi è più vulnerabile: sono le voci dei monasteri di clarisse e carmelitane che hanno scritto al presidente Mattarella, ricordando che “solo la paziente arte dell’accoglienza reciproca può mantenerci umani e realizzarci come persone”.

“Tramite voi chiediamo che le istituzioni governative si facciano garanti della loro dignità, contribuiscano a percorsi di integrazione e li tutelino dall’insorgere del razzismo e da una mentalità che li considera solo un ostacolo al benessere nazionale. Accanto alle tante problematiche e difficoltà ci sono innumerevoli esempi di migranti che costruiscono relazioni di amicizia, si inseriscono validamente nel mondo del lavoro e dell’università, creano imprese, si impegnano nei sindacati e nel volontariato. Queste ricchezze non vanno svalutate e tante potenzialità andrebbero riconosciute e promosse. La nostra semplice vita di sorelle testimonia che stare insieme è impegnativo e talvolta faticoso, ma possibile e costruttivo. Solo la paziente arte dell’accoglienza reciproca può mantenerci umani e realizzarci come persone. Siamo anche profondamente convinte che non sia ingenuo credere che una solidarietà efficace, e indubbiamente ben organizzata, possa arricchire la nostra storia e, a lungo termine, anche la nostra situazione economica e sociale. È ingenuo piuttosto il contrario: credere che una civiltà che chiude le proprie porte sia destinata ad un futuro lungo e felice, una società tra l’altro che chiude i porti ai migranti, ma, come ha sottolineato papa Francesco, «apre i porti alle imbarcazioni che devono caricare sofisticati e costosi armamenti». Ciò che ci sembra mancare oggi in molte scelte politiche è una lettura sapiente di un passato fatto di popoli che sono migrati e una lungimiranza capace di intuire per il domani le conseguenze delle scelte di oggi” ( Clarisse e Carmelitane scalze di Monasteri italiani, Noi, sorelle, preoccupate e in preghiera per questo Paese e i migranti senza voce, “Avvenire” 14 luglio 2019)

La mentalità di razzismo, di esclusione, di rifiuto di gestire con criteri di giustizia e solidarietà la situazione di tanti non è solo emergenza in Italia. Di fronte alle scelte dell’amministrazione Trump negli USA si sono pronunciati i vescovi soprattutto in considerazione delle condizioni di numerosi bambini spaventose e inaccettabili. In una lettera a Trump il presidente dei vescovi statunitensi, il cardinale Daniel Di Nardo a nome della Conferenza episcopale scrive: «possiamo e dobbiamo rimanere un Paese che offre rifugio ai bambini e alle famiglie in fuga dalla violenza, dalle persecuzioni e dalla povertà estrema».

«Questa indicibile conseguenza di un sistema di immigrazione fallito, insieme alle crescenti segnalazioni delle condizioni disumane in cui versano i bambini sotto la custodia del governo federale alla frontiera statunitense, scuotono la coscienza e richiedono un’azione immediata».

Con riferimento alla foto del migrante che ha trovato la morte insieme alla sua figlia nel tentativo di attraversare il Rio grande scrive: «Questa immagine grida giustizia al cielo e mette a tacere la politica… Chi può guardare questa immagine e non vedere i risultati dei fallimenti di tutti noi nel trovare una soluzione umana e giusta alla crisi dell’immigrazione? Purtroppo questa immagine mostra la situazione quotidiana dei nostri fratelli e sorelle. Non solo il loro grido raggiunge il cielo. Raggiunge tutti noi e ora deve raggiungere il nostro governo federale. Tutte le persone, indipendentemente dal loro Paese d’origine o dal loro status giuridico, sono fatte a immagine di Dio e devono essere trattate con dignità e rispetto».

Mons. Raffaele Nogaro, parlando delle norme in vigore e in via di approvazione in Italia in una intervista ha detto: «Sono indignato verso alcune norme, volute dal governo e approvate dal Parlamento, che sono violente, che calpestano la dignità degli esseri umani e offendono la vita umana. Purtroppo le parole brutali del ministro Salvini sul tema della sicurezza vengono accolte con simpatia da molti cattolici, ma anche da tanti preti e diversi vescovi». (…) «Non è possibile affermare la sicurezza di alcuni compromettendo la vita e la dignità di altre persone che sono in difficoltà, come i migranti. Il primo decreto sicurezza, e ora anche questo decreto bis, se verrà approvato, condannano i poveri e i migranti. Ma condannano anche coloro che li salvano e li difendono. E lo fanno creando ed alimentando menzogne sull’opera delle persone e delle organizzazioni di buona volontà, come le ONG. Per questo dico che l’unica via è la disobbedienza civile a queste leggi ingiuste» (Luca Kocci, Monsignor Nogaro: ‘Disobbedienza civile contro le leggi ingiuste’, “Il manifesto” 17 luglio 2019).

In questa situazione del mondo nel cuore dell’estate di quest’anno 2019 ascoltiamo le pagine dell’ospitalità di Abramo e della accoglienza di Gesù nella casa di Marta e Maria quale richiamo al cuore del vangelo da attuare nella nostra vita.

Alessandro Cortesi op

Pentecoste – anno C – 2019

IMG_4378At 2,1-11; Sal 103; Rom 8,8,17; Gv 14,15-26

Pentecoste è festa che si radica nella festa ebraica dei cinquanta giorni dopo la Pasqua, festa delle primizie di primavera che celebra il dono della Legge a Mosè al Sinai e il dono della nuova alleanza promessa da Geremia (31,31-33) e da Ezechiele: ‘Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi’ (Ez 36,26-27).

Nel racconto degli Atti degli apostoli Luca il riferimento va all’evento del Sinai: la legge è dono di alleanza che orienta la vita del popolo d’Israele. Le parole della legge sono da ritenere nel cuore e divengono indicazione di cammino. Sono orientamento per rimanere fedeli alla parola di alleanza, il sì pronunciato da Dio, che si rinnova come promessa di amore: ‘voi siete mio popolo’.

Il gran rumore, il fuoco e le parole sono elementi presenti nella narrazione degli Atti che richiamano l’evento del Sinai (Es 19,16-19: ‘il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco… Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono). Ma c’è anche un rinvio al racconto del battesimo di Gesù. la vita della comunità nella forza dello Spirito si collega ed è in continuità con la missione del servo di Jahwè che Luca vede nel momento del battesimo: ‘il cielo si aprì… e scese lo Spirito Santo… e vi fu una voce dal cielo…’ (Lc 3,21-22).

La descrizione di fenomeni esterni è simbolica e mira a far cogliere l’esperienza della prima comunità, quella di essere visitati dallo Spirito, forza proveniente da Dio: ‘tutti furono ripieni di Spirito Santo’. L’irrompere dello Spirito è dono dall’alto, che coinvolge la vita offrendo nuova forza e nuovo modo di leggere la realtà. E’ trasformazione dell’intimo e trova espressione in un’apertura di comunicazione nuova: il ‘parlare’ in altre lingue.

Le lingue diverse indicano la pluralità e l’incontro tra le diversità in cui la comunità stessa nasce. Ma contiene in sé anche altre evocazioni: ricorda infatti l’episodio di Babele. Lì le lingue diverse erano state conseguenza di una dispersione, compiuta da Dio che intendeva vanificare il disegno di un unico impero con una sola lingua, ossia la pretesa umana di unificare tutto sotto un grande potere assoluto. La diversità diveniva critica al dominio che si metteva al posto di Dio, quello della grande città e della torre. Il disegno di Dio sui popoli non è quello del dominio oppressivo, ma dell’incontro delle differenze. Tuttavia la dispersione comportava anche l’incapacità di comunicare e di comprendere la lingua dell’altro (Gen 11,7). Per questo cessarono di costruire la città la cui cima doveva toccare il cielo. Dopo la Pasqua, a Gerusalemme, Luca vede invece compiersi la possibilità del ‘farsi intendere’ ciascuno nella propria lingua: ‘com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?’. Vi è stupore perché l’altro, lo sconosciuto e straniero, parla in modo comprensibile e si fa intendere. I lontani divengono vicini.

Il ‘miracolo’ di Pentecoste per Luca è l’esperienza della prima comunità di ‘parlare’, con le parole e con la vita, l’instaurarsi di una autentica comunicazione. Lo Spirito Santo riempie i cuori: è compimento della promessa della nuova alleanza, richiamo al Sinai, a quel grande disegno di un ‘parlare’ affettuoso e vicino tra Dio e l’uomo, e novità della promessa di Cristo.

Nel IV vangelo il dono dello Spirito è evento che fa tutt’uno con la pasqua e proviene da Cristo: Il soffio di Gesù che alita sui discepoli è una nuova creazione: come Dio, al principio comunicò il suo respiro ad Adamo tratto dal fango (Gen 2,6). Il soffio è accompagnato dalle parole ‘Ricevete lo Spirito Santo’: lo Spirito è presenza personale: consolatore, grande suggeritore, colui che insegna e farà ricordare. Lo Spirito spinge a non rinchiudere il ricordo di Gesù in una memoria sbiadita o lontana, ci invita a cercare sempre e oltre, accogliendo la sua vita e ascoltando la sua voce.

Alessandro Cortesi op

IMG_4325Incontro e alberi

Pentecoste è festa di diverse lingue e di scoperta di rapporti nuovi. Pensando al dono della pentecoste come dono dello Spirito che fa comunicare in modo nuovo due motivi si impongono all’attenzione in questo tempo: la sfida dell’incontro nel mondo delle migrazioni e della reazione xenofoba e razzista. Accanto ad esso il motivo di un rapporto nuovo con la natura, proprio nel tempo della crisi climatica e ecologica, da cui apprendere modalità nuove di intendere l’incontro.

I vescovi del Lazio hanno scritto una lettera per Pentecoste in cui si richiama all’annuncio a Gerusalemme come “segno dell’incontro pacifico e gioioso dei popoli”.

“Purtroppo nei mesi trascorsi le tensioni sociali all’interno dei nostri territori, legate alla crescita preoccupante della povertà e delle diseguaglianze, hanno raggiunto livelli preoccupanti. (…) Sappiamo bene che in tutte queste dimensioni di sofferenza non c’è alcuna differenza: italiani o stranieri, tutti soffrono allo stesso modo. E’ proprio a costoro che va l’attenzione del cuore dei credenti… Vorremmo invitarvi ad una rinnovata presa di coscienza: ogni povero – da qualunque paese, cultura, etnia provenga – è un figlio di Dio. I Bambini, i giovani, le famiglie, gli anziani da soccorrere non possono essere distinti in virtù di un ‘prima’ o di un ‘dopo’ sulla base dell’appartenenza nazionale. Da certe affermazioni che appaiono essere ‘di moda’ potrebbero nascere germi di intolleranza e di razzismo che, in quanto discepoli del Risorto, dobbiamo poter respingere con forza. Chi è straniero è come noi, è un altro ‘noi’: l’altro è un dono. E’ questa la bellezza del vangelo consegnatoci da Gesù: non permettiamo che nessuno possa scalfire questa granitica certezza. (…)

Proviamo a vivere così la sfida dell’integrazione che l’ineluttabile fenomeno migratorio pone dinanzi al nostro cuore: non lasciamo che ci sovrasti una ‘paura che fa impazzire’ come ha detto papa Francesco, una paura che non coglie la realtà; riconosciamo che il male che attenta alla nostra sicurezza proviene di fatto da ogni parte e va combattuto attraverso la collaborazione di tutte le forze buone della società, sia italiane che straniere (…)

Non intendiamo certo nascondere la presenza di molte problematiche legate al tema dell’accoglienza dei migranti, (…) desideriamo tuttavia, ricordare che quando le norme diventano più rigide e restrittive e il riconoscimento dei diritti della persona è reso più complesso, aumentano esponenzialmente le situazioni difficili, la presenza dei clandestini, le persone allo sbando e si configura il rischio dell’aumento di situazioni illegali e di insicurezza sociale. Pertanto… sentiamo il dovere di rivolgere a tutti voi un appello accorato affinché nelle nostre comunità non abbia alcun diritti la cultura dello scarto e del rifiuto, ma si affermi una cultura nuova fatta di incontro, di ricerca solidale del bene comune, di custodia dei beni della terra, di lotta condivisa alla povertà. Invochiamo per tutti noi il dono incessante dello Spirito, che converta i nostri cuori per renderli solleciti nel testimoniare un’accoglienza profondamente evangelica e la gioia della fraternità, frutto concreto della Pentecoste”.

Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, in una recente intervista ha osservato che come esseri umani ignoriamo le piante per una questione culturale, ma dovremmo invece assumere un diverso atteggiamento:

“Come animali capiamo solo ciò che ci è simile. Mentre le piante hanno seguito un’evoluzione così divergente rispetto alla nostra specie che per noi sono incomprensibili. E invece potrebbero insegnarci tanto perché rappresentano l’85% della vita sulla Terra mentre gli animali solo un misero 0,3%. Questo ci fa capire che le decisioni prese dalle piante forse sono state molto più sagge e fruttuose rispetto a quelle prese dagli uomini. Ma il nostro problema con le piante nasce nel nostro cervello”.

Richiama così all’importanza del verde e delle piante per la vita globale del pianeta terra e dell’umanità stessa:

“quel verde ci rende unici rispetto a tutto il resto degli altri oggetti astronomici che conosciamo. Senza le piante non ci sarebbe l’acqua perché la temperatura della Terra sarebbe così elevata da farla evaporare. E poi è grazie alla traspirazione delle piante nella foresta amazzonica se si formano le nuvole, le perturbazioni e tutto i componenti del ciclo dell’acqua che a sua volta garantisce in tutto il mondo la pioggia, e quindi la vita, ciò che beviamo e mangiamo. Senza la vegetazione la Terra sarebbe come Marte”.

L’invito a piantare piante ovunque non è unicamente a scopo estetico o per fornire ossigeno a fronte dell’inquinamento, ma perché dalle piante potremmo imparare elementi essenziali per vivere insieme:

“La presenza delle piante è fondamentale per il nostro benessere. Non riusciamo neanche lontanamente a comprendere ciò che le piante fanno per noi. Quanto sono intelligenti (…) Prima di tutto hanno un’organizzazione molto diversa dalla nostra. Noi siamo organizzati in modo gerarchico verticale, mentre le piante in modo orizzontale diffuso e decentralizzato, come internet. Basterebbe questo a renderle il simbolo stesso della modernità. Sono molto più resistenti di noi e si basano sulla comunità con tutti gli esseri viventi. La cosa più straordinaria è che le piante non possono spostarsi da un luogo in cui sono nate. Possono sopravvivere solo se hanno un ecosistema completo e per questo tutta la loro evoluzione è basata sul mutuo appoggio, la simbiosi e la comunità, piuttosto che sulla competizione o sulla predazione come invece sono i rapporti animali”.

E’ proprio tale organizzazione a modo di rete, con legami ineludibili da mantenere, nella costituzione di una comunità, una casa comune con equilibri tra gli esseri viventi, il grande insegnamento da apprendere oggi piantando alberi e cercando di custodire il verde vicino a noi e con noi.

Abbracciare gli alberi (ed. Il Saggiatore), si intitola un libro dell’agronomo Giuseppe Barbera, che rinvia all’invito del­la poe­tes­sa Ra­tu­ri, rap­pre­sen­tan­te del mo­vi­men­to Chi­p­ko: Abbrac­cia gli al­be­ri / sal­va­li dal­l’ab­bat­ti­men­to / la pro­prie­tà del­le no­stre col­li­ne / sal­va­la dal sac­cheg­gio”. La lot­ta non vio­len­ta per resistere alla deforestazione, attuato dalle donne indiane ne­gli anni ‘70 è indicazione di un atteggiamento da coltivare. Gli alberi possono insegnarci qualcosa di essenziale alla vita comune: apprendere dagli alberi in un rapporto profondo con la natura è esigenza oggi per affrontare insieme la crisi sociale del nostro tempo e la crisi ecologica trovando in un nuovo rapporto con la natura vie per apire un futuro ad una convivenza umana non nel segno della distruzione ma nel legame degli uni con gli altri.

Alessandro Cortesi op

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