la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “dicembre, 2022”

Maria Ss. Madre di Dio – anno A – 2023

Num 6,22-27; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21

“Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia”. La benedizione è l’attitudine fondamentale a cui le parole di Giacobbe richiamano. Benedire è dire il bene come apertura al bene che solo proviene da Dio il Signore sorgente della vita e di ogni bene. E’ richiesta di dono che faccia risplendere la luce, segno della vota stessa di Dio. Ed è una riflessione che coinvolge il volto umano e lo rende ricco di grazia, capace di trasmettere la gratuità di un amore che rende graziosi.

“quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli 

Paolo indica nella vicenda di Gesù un evento che segna il tempo e ne manifesta il compimento. Nato da donna, nato sotto la legge sono due connotazioni sintetiche del partecipare pieno di Gesù alla vicenda umana, da donna, e dell’inserimento in una storia di un popolo che nella legge riconosce il dono di una relazione e di una promessa, nato sotto la legge. Questa pienezza è anche nuovo inizio di un tempo dai tratti inediti. La venuta del Figlio è dono che nella fede apre ad essere figli. Paolo esprimerà questo alludendo al passaggio dalla schiavitù alla libertà: “non sei più schiavo, ma figlio, e se figlio, sei anche erede per grazia di Dio” (Gal 4,7). E’ la libertà la condizione di chi in Cristo ha scoperto una relazione che non viene meno e che rende figli amati.

“Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto”. Tre diverse attitudini sono presentate da Luca nel suo narrare dell’infanzia di Gesù: c’è chi ascolta e vive lo stupore di fronte ad un annuncio nuovo. C’è chi tiene nel cuore, come Maria, vivendo l’attitudine della ricerca e dell’interrogarsi, c’è chi si apre alla lode di Dio come i pastori.

Sono tre modi diversi di accogliere un incontro che segna la vita: nessuna è esclusiva e forse sono così indicate d Luca per dire che nella via personale e in contesti diversi sono diversi i modi in cui l’incontro con Gesù viene vissuto e strade diverse si aprono in rapporto a lui. E’ forse indicazione del valore e preziosità di una pluralità di esperienze, di strade, di modalità di rapporto.        

In fondo scoprire il proprio essere figlie e figli nel Figlio è esperienza irripetibile, unica originale ed apre ad una creatività da scoprire nei giorni della vita che possono essere nonostante ogni difficoltà e contraddizione luogo in cui riflettere una luce che non viene da noi e farsi partecipi di una corrente di benedizione.

Alessandro Cortesi op

Pace

“… anche se gli eventi della nostra esistenza appaiono così tragici e ci sentiamo spinti nel tunnel oscuro e difficile dell’ingiustizia e della sofferenza, siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente, ci accompagna con tenerezza, ci sostiene nella fatica e, soprattutto, orienta il nostro cammino.” Con queste parole si apre il messaggio di papa Francesco per il 1 gennaio 2023, 66a giornata mondiale della pace, che ha come titolo Nessuno può salvarsi da solo. Ripartire dal Covid-19 per tracciare insieme sentieri di pace. Proprio in questi giorni in cui si ripresenta una rinnovata diffusione del virus nelle sue varianti a partire dalla Cina il messaggio ricorda come “Il Covid-19 ci ha fatto piombare nel cuore della notte, destabilizzando la nostra vita ordinaria, mettendo a soqquadro i nostri piani e le nostre abitudini…” e ha generato oltre a morte e dolore, “malessere generale che si è concentrato nel cuore di tante persone e famiglie”. Il richiamo è allora a prendersi il tempo per interrogarsi dopo tre anni per crescere lasciarsi trasformare: “dai momenti di crisi non si esce mai uguali: se ne esce o migliori o peggiori”.

Francesco elenca alcune lezioni del Covid: tra di esse la più grande è “la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo. È urgente dunque ricercare e promuovere insieme i valori universali che tracciano il cammino di questa fratellanza umana. Abbiamo anche imparato che la fiducia riposta nel progresso, nella tecnologia e negli effetti della globalizzazione non solo è stata eccessiva, ma si è trasformata in una intossicazione individualistica e idolatrica compromettendo la garanzia auspicata di giustizia, di concordia e di pace. Nel nostro mondo che corre a grande velocità, molto spesso i diffusi problemi di squilibri, ingiustizie, povertà ed emarginazioni alimentano malesseri e conflitti, e generano violenze e anche guerre”. La pandemia ha provocato “un benefico ritorno all’umiltà; un ridimensionamento di certe pretese consumistiche; un senso rinnovato di solidarietà che ci incoraggia a uscire dal nostro egoismo per aprirci alla sofferenza degli altri e ai loro bisogni”. Da qui una rinnovata consapevolezza a porre al centro la parola ‘insieme’.

Nel frattempo un’altra vicenda ha segnato il mondo: è sorto “un altro flagello: un’ulteriore guerra, in parte paragonabile al Covid-19, ma tuttavia guidata da scelte umane colpevoli”.

La guerra in Ucraina iniziata ne febbraio 2022 “insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato”

Il messaggio offre una lettura nella fede di questo tempo segnato da diversi flagelli e pone la domanda dei profeti su che cosa dobbiamo fare? Esorta a “lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale”.

Il tempo che viviamo è luogo di chiamate di Dio che giungono anche nelle esperienze di contrasto: l’orrore della guerra pone davanti in modo forte l’esigenza di giustizia, di cura e compassione: “siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione. Dobbiamo rivisitare il tema della garanzia della salute pubblica per tutti; promuovere azioni di pace per mettere fine ai conflitti e alle guerre che continuano a generare vittime e povertà; prenderci cura in maniera concertata della nostra casa comune e attuare chiare ed efficaci misure per far fronte al cambiamento climatico; combattere il virus delle disuguaglianze e garantire il cibo e un lavoro dignitoso per tutti, sostenendo quanti non hanno neppure un salario minimo e sono in grande difficoltà”.

“Abbiamo bisogno di sviluppare, con politiche adeguate, l’accoglienza e l’integrazione, in particolare nei confronti dei migranti e di coloro che vivono come scartati nelle nostre società. Solo spendendoci in queste situazioni, con un desiderio altruista ispirato all’amore infinito e misericordioso di Dio, potremo costruire un mondo nuovo e contribuire a edificare il Regno di Dio, che è Regno di amore, di giustizia e di pace”. L’invito finale è divenire artigiani di pace e l’augurio è per un nuovo anno in cui giorno per giorno tracciare insieme sentieri di pace.

Alessandro Cortesi op

Buon Natale 2022

Natale del Signore – anno A – 2022

Is 52,7-10; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1) Il IV vangelo si apre con uno sguardo al Logos, Parola, Verbo, sapienza, nel rapporto con Dio e l’inno si chiude con l’’affermazione che il volto di Dio è stato reso vicino dal Figlio : “Nessuno ha mai visto Dio; l’Unigenito Dio, che è (rivolto) verso il seno del Padre, lui ne ha mostrato la via” (Gv 1,18). In mezzo sta il profilo di un percorso che sintetizza l’esperienza del credere.

La Parola, comunicazione del Padre è presentata come presenza rivolta verso l’intimità del Padre, che lo conosce. Questa ‘Parola’ fatta carne ha compiuto l’opera dell’esegeta, ha mostrato e indicato la via al Padre.

Al centro dell’inno sta l’indicazione di un dono: “diede potere di diventare figli di Dio a quelli che credono nel suo nome” (Gv 1,12). Coloro che ‘credono nel suo nome’ sono coinvolti in un percorso e da qui il senso dell’intero vangelo di Giovanni. A conclusione dell’intero vangelo si legge infatti: “Gesù dunque fece davanti ai suoi discepoli molti altri segni, che non sono stati scritti in questo libro. ma questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,30-31).

Il progetto di Dio sin dal principio è dono di comunione: si tratta di una comunicazione di vita per rendere partecipe l’umanità della vita che vince la morte.

All’origine era il Verbo: la ‘Parola’ rinvia ai testi del Primo Testamento in cui la Parola di Dio indica il dono e il progetto di Dio: nel secondo Isaia l’efficacia della parola è paragonata alla fecondità della pioggia e della neve (Is 55,1-11); così pure in Geremia: “La tua parola Signore è come il fuoco, è come il martello che spacca la roccia” (Ger 23,29). ‘Dabar’, termine ebraico, indica nel contempo parola e azione (Gen 1,1). Il Verbo non è solo parola ma anche azione. Nei libri sapienziali si parla della ‘Hokmah’, la sapienza di Dio, strumento di Dio per creare e nello stesso tempo una presenza che viene da Dio stesso. Nel libro dei Proverbi compare Sophia come datrice di vita. La benedizione della vita è legata alla Sapienza ed essa proclama: “Chi trova me trova la vita” (Prov 8,35). Sophia evoca i tratti propri del Dio d’Israele che ama e promette, odia l’arroganza e si muove nelle vie della giustizia e della verità. Sophia è connessa con l’atto della creazione: “Il Signore ha fondato la terra con la sapienza” (Prov 3,19) ed è presentata accanto a Dio nei momenti centrali della creazione. Se ne descrive il profilo come colei che costruisce una casa e invita e prepara la tavola (Prov 9,1-6). Invita ad abbandonare la via della stoltezza per seguire le vie dell’intelligenza e della pace.  Nel libro del Siracide Sophia ha un particolare rapporto con il Creatore, esce dalla bocca dell’Altissimo, e rappresenta la Torah, il libro dell’alleanza  (Sir 4,22): è associata alla storia d’Israele e al cammino di alleanza. Nel libro della Sapienza Sophia è descritta come emanazione della potenza di Dio, effusione della gloria, riflesso della luce perenne, specchio dell’attività di Dio immagine della bontà divina (Sap 7,25-26), artefice di tutte le cose, madre di tutte le cose buone, conoscitrice dei loro segreti. A lei spetta un compito di salvezza: “furono salvati per mezzo della sapienza” (Sap 9,18) e nel capitolo 10 del medesimo libro viene ripercorsa l’intera storia di Israele come racconto della potenza salvatrice di Sophia. Nel libro di Baruc si dice poi che Sophia, la sapienza, è dono che Dio ha condiviso con gli esseri umani e per questo è apparsa sulla terra per vivere insieme a loro (Bar 3,37-38). “la cristologia sapienziale riflette le profondità del mistero di Dio e indica il cammino verso una cristologia inclusiva in simboli femminili” (E.A.Johnson, Colei che è, Queriniana, 202). Origene scrive: “Noi crediamo che la Parola stessa del Padre, la Sapienza di Dio stesso, fu racchiusa nei limiti di quell’uomo apparso in Giudea; ancor più, che la Sapienza di Dio entrò nel grembo di una donna, nacque come un infante e vagì come i bambini che piangono” (Orig. Princ. 2,62)

Nella Parola, per il IV vangelo, sono presenti tutte queste dimensioni proprie di Sophia, la sapienza: è parola, progetto, azione, compimento. Ogni realtà è connessa a questa azione di Dio. Nel Logos/Parola Dio manifesta la sua vita e la sua luce. “Ciò che è avvenuto in lui era vita e la vita era la luce degli uomini” (v.4). Luce e vita sono termini propri della teologia del IV vangelo (cfr. Gv 5.11). C’è una luce al cuore della vita stessa, dono del Dio della vita, che rinvia ad una pienezza e ad un desiderio di compimento dell’esistenza.

‘La luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno sopraffatta’ (v.5). Luce e tenebre si scontrano: una lotta è in atto dentro la storia: “le tenebre non l’hanno accolta” significa che le tenebre simbolo del male non hanno compreso la luce, ma non sono riuscite a vincerla.

Nei versetti 6-9 l’inno presenta una parentesi: “venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni…”. Si pone attenzione a Giovanni, che non era la luce, ma il testimone venuto a rendere testimonianza alla luce. Giovanni è indicato come lampada mentre la luce vera, che illumina ogni uomo, è Gesù. Giovanni è solamente l’amico dello sposo, ma non è lo sposo (Gv 3,28-30), è colui che secondo le norme del diritto orientale aveva il compito di preparare le nozze; l’amico però si ritira ad un certo punto quando si presentano lo sposo e la sposa.

La seconda strofa dell’inno (vv 9-11) ripete che il Verbo era la luce vera, venendo nel mondo, ma il mondo non lo riconobbe; i suoi non l’hanno accolto. Sono presentati alcuni percorsi: il primo è nel kosmos: nel IV vangelo, indica l’universo creato, altre volte gli uomini come vertice dell’universo creato, ma ‘kosmos’ è anche il male e il rifiuto di Dio: per questo ‘il mondo non lo riconobbe’. Tra i vari significati del verbo ‘conoscere’ nella Bibbia, uno tra essi è ‘amare’: quest’espressione sta allora ad indicare che il mondo non lo amò. Ma la luce di Cristo continua a penetrare in mezzo alle tenebre. Cristo viene tra i suoi eppure incontra un rifiuto. L’intero quarto vangelo è costruito infatti come un grande dibattito processuale con testimoni diversi ed un giudizio che si sta compiendo. Alla fine c’è un esito che richiede di prendere posizione di fronte a Gesù e di attuare la responsabilità di accoglierlo. Il centro dell’inno sta quindi nelle parole: “A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome” (v.12).

“Il Verbo diventò carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi” (v.14): la Parola presentata come luce all’inizio, presso Dio, viene a dimorare nella concretezza della corporeità. Ciò suscitava scandalo per chi pensava ad un Dio che non potesse aver contatto con la storia. Giovanni usa il simbolismo del ‘piantare la tenda’, e rinvia così all’immagine del cammino d’Israele nel deserto, e alla tenda del convegno quale segno della presenza di Dio che cammina in mezzo al suo popolo. E richiama così anche il tempio. Il verbo ‘porre la tenda’, ‘attendarsi’ (eskenosen) rinvia infatti al termine ebraico shekinah che indica la presenza e la dimora nascosta nel tempio di Gerusalemme. E’ la presenza viva di Dio in mezzo a noi che riposa. E’ il Logos, Sophia divenuto carne, la shekinah, la presenza di Dio in mezzo a noi. E’ presenza che apre al dono di amore del Dio ineffabile.

Natale ha al suo centro la presenza di Cristo, il Figlio, comunicazione d’amore del Padre che dona la possibilità di un trasformazione della vita, l’essere generati come figli, nella comunione.

Alessandro Cortesi op

Umanità di Dio

Umanità di Dio, è questo il titolo di una famosa conferenza di Karl Barth docente di teologia a Basilea davanti ad un’assemblea di pastori svizzeri riformati tenuta il 25 settembre 1956. Egli richiama la svolta avvenuta nel suo pensiero quale ricerca continua attorno alla questione di Dio. Ricorda anche come questa svolta sia avvenuta per lui in riferimento a Gesù Cristo, nella sua persona e nella sua opera. Sta qui il cuore della conferenza, espresso anche nel titolo: Umanità di Dio. L’umanità di Dio è un fatto accaduto che rinvia a profonde conseguenze di cui Barth tratta nella terza parte del suo discorso.

La svolta che il teologo richiama fa riferimento ad un primo indirizzo del suo pensiero. A fronte di una corrente teologica che poneva al centro l’uomo religioso e che aveva avuto ampio spazio nella temperie degli studi di quel tempo, Barth aveva proposto con forza in una prima fase della sua riflessione di rimettere al centro della teologia il riferimento a Dio, indicato come “il totalmente altro” (totaliter aliter) rispetto a tutto ciò che è creato e all’umano. Per questo sottolineava la differenza qualitativa tra Dio e l’uomo, l’irrompere dall’alto di Dio che non poteva essere compreso e ridotto in percorsi dal basso.

A distanza di qualche decennio Barth scorgeva, a fronte di tale giusta insistenza da lui posta negli anni ‘20, la necessità di correggere in parte tale orientamento. Non si trattava di ritrattare e cambiare strada ma di esprimere una maturazione proveniente dall’aver individuato un aspetto fondamentale. A tal proposito Barth evidenzia l’umanità di Dio e riconosce di non avere dato nella sua prima fase un’attenzione sufficiente all’umanità di Dio. Nella sua alterità, quindi nella sua differenza rispetto ad ogni creatura, Dio vive una assoluta libertà di essere altro da se stesso, di essere non solo Creatore ma anche creatura. “E la libertà con la quale Egli fa questo è la sua divinità. Essa è la divinità che, come tale, ha anche il carattere dell’umanità” (K.Barth, L’umanità di Dio, Claudiana 2021, 41).

Barth spiega che motivo di tale svolta nel suo pensiero è la persona e l’opera di Gesù Cristo che rivela Dio all’uomo e l’uomo a Dio: “La sua libertà è piuttosto di essere in sé e per sé, ma anche con noi e per noi, ad affermare se stesso, ma anche a dare se stesso, a essere eccelso, ma anche minimo, non solo onnipotente, ma anche misericordia onnipotente, non solo Signore, ma anche servo” (ibid. 49). Barth legge al cuore della vita di Dio la libertà di amare e la legge a partire da Gesù Cristo, dalla sua testimonianza, dalle sue parole.

Da qui sorgono alcune conseguenze: la prima è che ogni essere umano ha Dio come Padre e Gesù come fratello. E’ aperta per ogni essere umano la possibilità di compiere quella umanità che Gesù ha vissuto.

La seconda riguarda uno sguardo positivo alla cultura quale tentativo da parte degli uomini di essere umani. La terza conseguenza è per il discorso cristiano che è “tanto preghiera rivolta a Dio quanto parola rivolta all’uomo” perché ci si possa riconoscere nell’umanità che Gesù ha vissuto (ibid. 57). Per questo, è la quarta conseguenza, la parola cristiana dovrà essere una parola positiva, certo non cieca e incapace di denunciare il peccato, ma orientata ad un messaggio di consolazione e di possibile cambiamento.

Infine, quinta conseguenza, riconoscere l’umanità di Dio implica riconoscere gratitudine alla chiesa. Benché debba esserci una critica per richiamare la chiesa al suo fondamentale orientamento alla salvezza, tuttavia si deve assumere l’atteggiamento di Gesù che non si vergogna di chiamare fratelli i suoi discepoli nonostante le loro miserie. Credere la chiesa implica credere che essa sia “luogo dove la gloria di Dio vuole abitare sulla terra, cioè dove l’umanità di Dio vuole assumere, già nel tempo e qui sulla terra, una forma tangibile” (ibid. 67).

Paolo Ricca in un recente libro in cui s’interroga su Dio e sul suo parlare e amare nello stabilire alleanze, dopo aver presentato e commentato tale discorso di Barth pone un interrogativo importante: “la chiesa nel suo insieme è diventata o sta divenendo quella ‘fraternità cristocratica’, che potrebbe rendere tangibile l’umanità di Dio? (…) il messaggio di Dio come umanità è svolto oggi dalla chiesa con la dovuta convinzione, in modo che sia chiaro che è in Dio, e non in se stesso, che l’uomo può ritrovare sia la sua umanità perduta, sia quella ‘nuova’ vissuta da Gesù? L’impressione è che, purtroppo, Barth e la sua lezione, compresa quella sull’umanità Dio, siano oggi sostanzialmente dimenticate…” (P. Ricca, Dio. Apologia, Claudiana 2022, 247-248). Festeggiare il Natale è una provocazione ad accogliere oggi ancora la scoperta dell’umanità di Dio.

Alessandro Cortesi op

Riflessioni nella novena di Natale – mercoledì

Dal Vangelo secondo Luca (1,39-45)

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.  Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

“Così lontane di età, di figura. / La giovane – che quasi / è ancora una bambina – ha il fresco viso / dell’innocenza, la tenera luce / del cielo che si specchia in una sorgente. / L’altra, l’anziana, segnata da tante / fatiche ormai e dolori, somiglia un albero / nodoso e storto, piegato dal peso / degli anni e delle bufere. / Eppure son vicine – indicibilmente. / Non solo nel legame di sangue o nell’affetto / dell’abbraccio a cui entrambe si protendono. / Un segreto le unisce, quale mai / da alcuna donna fu condiviso. (…)” (da Margherita Guidacci, Luca Della Robbia Visitazione, dalla raccolta postuma Anelli del tempo 1993)

C’è un segreto al cuore del Natale: è il segreto racchiuso nella visita. Tutto nasce da una visita. Maria scopre che la sua vita è visitata. E si alza e intraprende un viaggio. Nell’ospitalità della visita ha inizio un movimento di risurrezione: si alza e si pone in cammino, si reca a visitare Elisabetta. Dalla visita ha inizio un movimento nuovo di partenza e di uscita. Maria esce dalla sua casa, vive per prima il cammino della fede, fede in Dio e fede nell’umano, fede nel Dio che è respiro dell’umano, che apre agli altri.

Nell’entrare nella casa di Elisabetta si apre ad un dono di gioia e di reciprocità. Elisabetta e Maria scoprono che la visita di Dio è dono di vita che cresce inafferrabile, non a miusra nostra, e si rende presente in modi diversi e facendo comunicare.

La corrente della visita si allarga e ci coinvolge. Siamo chiamati anche noi a lasciarci visitare da Dio, a metterci in cammino, a visitare gli altri, a lasciarci sorprendere dall’inedito. Ogni visita è incontro in cui scoprire un dono. Natale è mistero della visita di Dio che apre a scoprire la vita come cammino di accoglienza che può rinascere ogni giorno. E di rapporti nuovi. Natale è dono di visita che spinge a far proprio il cammino di Gesù: accogliere la visita e recare vita a chiunque ne è in qualche modo privato. E’ festa di speranza al di fuori di appartenenze religiose o culturali (cristiani o no). E’ per tutti coloro che recano nel cuore l’attesa e il desiderio di un cambiamento nel mondo nel segno dell’ospitalità, del convivere nella pace. Oggi siamo chiamati ad accogliere la visita di Dio che ci raggiunge nell’incontro con l’altro.

Alessandro Cortesi op

Riflessioni nella novena di Natale – martedì

Dal Vangelo secondo Luca (1,26-38)

Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».

A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».

Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».

Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Parola del Signore

Lo Spirito Santo scenderà su di te

C’è una presenza dello Spirito a cui porre attenzione agli inizi della vita di Gesù. E’ questa presenza una sottolineatura propria di Luca nel suo racconto dell’infanzia che intende proporre il provenire del profeta di Nazareth da Dio. Maria accoglie un annuncio che irrompe da altrove e si trova trasformata scoprendo che Dio attua ciò che è impossibile. Al centro di tutto sta l’agire dello Spirito santo che fa generare la Parola. Lo Spirito di Dio apre lo spirito di Maria che si rende accogliente della parola. Commentando il saluto dell’angelo messaggero Ave gratia plena Meister Eckhart (1260-1328) in una sua predica sottolinea che l’angelo non rivolge tale annuncio solo a Maria ma ad ogni anima buona, cioè a tutti noi. E così commenta:

“(Qui bisogna intendere tre cose. La prima: la modestia della natura dell’angelo. La seconda: che egli si conobbe indegno di dover dire il nome della madre di Dio. La terza: che egli non disse questo soltanto a lei, anzi: che egli lo disse ad una così grande schiera – a ogni anima buona che desidera Dio). Io dico: se Maria non avesse generato in primo luogo Dio in modo spirituale (quindi nel suo spirito ndr), questi non sarebbe mai stato generato da lei in modo corporale. Una donna disse a nostro Signore3: ‘Beato è il corpo che ti portò’. E allora nostro Signore disse 4: non è solo beato il corpo che mi ha portato, ‘beati sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono’. Venir generato in modo spirituale da ogni giovane ovvero da ogni anima buona è più degno di Dio, di quanto non fu il fatto di venir generato in modo corporale da Maria.  (Eckhart, Predica 5 Avvento, in Id., Le 64 prediche sul tempo liturgico, Bompiani, 2014, p.67)

Venir generato in modo spirituale: è questa la generazione operata dallo Spirito non solo nel cuore di Maria. E’ dono offerto a tutti coloro che seguono Maria come la prima credente, colei che si è affidata al Dio della promessa. Lo Spirito opera perché nell’ascolto possa nascere la Parola nel cuore: la generazione del Verbo nel profondo del cuore è autentica nascita che fa rinascere coloro che l’accolgono. Natale apre alla scoperta dell’agire dello Spirito di Dio nello spirito dell’umanità.

Alessandro Cortesi op

IV domenica di Avvento – anno A – 2022

Is 7,10-14; Rom 1,1-7; Mt 1,18-24

‘Eccomi manda me’: è la risposta di Isaia, sacerdote di Gerusalemme che mentre svolgeva il culto nel tempio risponde all’irruzione del Santo nella sua vita. E’ esperienza sconvolgente di chiamata ad essere profeta da lui narrata con i tratti della visione: un angelo che accosta alle sue labbra un carbone ardente dell’altare, in atto di purificazione e di invio per annunciare le parole di Dio.

Da quel momento inizia la sua avventura di profeta. Così si pone di fronte ad Acaz, re d’Israele e gli annuncia la futura nascita di un ‘Emmanuele’, un re giusto erede di Davide: si comporterà in modo ben diverso dai re infedeli, come lo stesso Acaz alla ricerca di sicurezze e alleanze militari. L’Emmanuele sarà esempio di abbandono nella fiducia nel Dio dell’alleanza che solo può dare l’autentica sicurezza. E vi sarà un piccolo gruppo di credenti, il ‘resto d’Israele’, che rimarrà saldo in questa fiducia: “si appoggeranno sul Signore, sul Santo d’Israele, con lealtà” (Is 10,20).

Dal punto di vista storico la figura di questo Emmanuele, re fedele a Dio, è da identificare nel figlio di Acaz, Ezechia, descritto come sovrano pio. Ma l’annuncio di Isaia reca in sé un orizzonte di speranza e ad un’attesa più profonda (cfr. Is 11,1-16): Dio stesso stabilirà il regno del messia (il suo unto) come situazione nuova di pace: “la pace non avrà fine” (Is 9,5-6). Isaia quindi indica in questo bambino un segno, e rinvia ad una speranza oltre i confini del tempo.

Matteo ha presente i testi di Isaia mentre scrive il suo vangelo. Per Matteo Gesù  compie le promesse che Isaia aveva delineato. L’annuncio della sua nascita riprende schemi ben noti: la presenza di un angelo, il nome, una difficoltà da superare, un segno e le caratteristiche del profeta (cfr. l’annuncio di Sansone in Gdc 13,1-24).

Matteo offre così una chiara interpretazione: Gesù si pone nella discendenza di Davide – Giuseppe è infatti chiamato ‘figlio di Davide’ e sarà lui a dargli un nome, ‘tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati’ -.

L’operare dello Spirito Santo è colto sin dal momento iniziale della vita stessa di Gesù. Matteo vuol dirci che la vita di Gesù viene da Dio. A Giuseppe, uomo ‘giusto’ è rivolto l’invito a ‘non temere’ per lasciarsi coinvolgere nell’opera di Dio. ‘Giusto’ significa ‘fedele’ e Giuseppe vive un duplice fedeltà, verso Maria a cui è legato e a cui non viene meno e alla chiamata di Dio. Si abbandona nella fede ad un progetto che lo supera e lo coinvolge prendendo con sè chi Dio gli affida.

A Giuseppe è anche affidato il compito di dare il nome, e il nome di Gesù significa “Dio reca salvezza”: anche così Giuseppe si rende disponibile al disegno di Dio.

Al di dentro delle nostre esperienze sta una attesa più profonda, l’attesa di un nome, di qualcuno che solo può salvare. Possiamo anche aprirci alla meraviglia che quel ‘nome’ sta oltre ogni nostra attesa e possibilità, è dono e venire gratuito di Dio che libera e salva. Natale è questo annuncio.

Alessandro Cortesi op

non temere di prendere con te…

Giuseppe è invitato a orientare la sua vita nel prendere con sé Maria. In queste parole viene sintetizzato un modo di intendere i rapporti non nella direzione del dominio e della strumentalizzazione dell’altro, ma nella linea della compagnia, della vicinanza, del farsi carico. E’ direzione contraria alle forme di patriarcalismo, di controllo e di oppressione che hanno segnato e segnano le comunità religiose e le chiese. In questo periodo la rivolta delle donne in Iran che reagiscono ad un regime patriarcale è segno a cui prestare attenzione perché esprime l’emergere di una sofferenza sinora sopportata nel silenzio e repressa, ed ora manifestata in  una reazione corale, nonviolenta.

“Il colmo dell’orrore è stato raggiunto dalla tortura e l’uccisione di Mahsa Amini. Cosa ci si può aspettare di meno dal regime dei fanatici mullah che stanno usando il terrorismo istituzionale per mettere a tacere chi protesta per la libertà?” Così si interroga Dacia Maraini ponendo domande inquietanti: “Ma veramente si pensa che il mondo maschile, per vincere e dominare abbia bisogno di cancellare il corpo femminile come fosse la personificazione del male? Siamo sicuri che l’amorevole, il giusto, il meraviglioso Dio dei cieli sarebbe così punitivo con le sue figlie? O si pensa che le donne non sono corpi creati dal Padre eterno ma abitanti perniciose di qualche oscuro regno sotterraneo? La voce della conoscenza storica mi avverte: guarda che la misoginia esiste da millenni e il mondo cristiano ha condiviso le stesse idiosincrasie, lo stesso odio di genere, la stessa voglia di infierire sul corpo femminile considerato pericoloso e spregevole. Basta pensare alla caccia alle streghe…”  (D.Maraini, Se gli ayatollah hanno il terrore di noi donne, “La Stampa” 13 dicembre 2022). Massimo Recalcati prosegue la serie degli interrogativi che tale situazione apre a considerare ed amplia la considerazione a quale può essere la responsabilità da assumere in questo tempo: “Si può uccidere, stuprare, torturare nel nome di Dio? E’ quello che sta accadendo sotto gli occhi semichiusi del mondo nelle strade dell’Iran (…) anche in questa terrificante violenza che sta insanguinandole strade iraniane vediamo all’opera il carattere atroce dell’intento correttivo, educativo, paradossalmente pedagogico, del sadismo delirante del patriarcato (…) Ma anche questo genere di violenza abbiamo conosciuto in Occidente qualche secolo fa attraverso le istituzioni reazionarie e repressive delle nostre Chiese finalizzate a perseguitare e uccidere gli eretici e gli infedeli sempre nel nome di Dio. Ancora oggi, in Occidente, nel nostro mondo la possiamo vedere nei suoi residuali e malefici spasmi compiersi nei femminicidi o nei soprusi di ogni genere finalizzati a ribadire un anti-storico principio di superiorità del maschio sulla donna. La logica pedagogica del patriarcato religioso resta la stessa: ricondurre sulla retta via l’anarchia del corpo femminile, smorzare la sua spinta alla vita, ingabbiare la sua libertà, sopprimere la sua voce” (M.Recalcati, Il delirio del patriarcato, La Stampa 14 dicembre 2022).

I capelli al vento delle donne iraniane sono divenute simbolo di una drammatica richiesta di libertà e di contrasto alla logica del patriarcato religioso. La rivoluzione in atto in Iran vede un protagonismo nuovo e impensabile, unito ad una dedizione che conduce ad esporre la propria vita fino alla morte, per aprire vie nuove per chi verrà dopo. E’ impressionante il coinvolgimento della popolazione giovanile e la dimensione diffusa della protesta che non potrà essere tacitata dalla sanguinaria repressione in atto perché espressione di una presa di coscienza collettiva e condivisa.

Ma proprio questo movimento epocale in atto in Iran provoca a pensare e potrebbe essere motivo di cambiamenti. Recalcati si chiede: “… l’Occidente ha la possibilità di cogliere questa occasione per aprire i suoi occhi davanti alla discriminazione, che in ogni forma, nel suo stesso mondo, colpisce le donne.  L’orrore compiuto nel nome di Dio non dovrebbe finalmente, per esempio, riconoscere il pieno diritto di parola alle donne di Dio? Celebrare la messa, confessare predicare, esercitare a pieno titolo la vita pastorale? … Se l’orrore delirante del sistema teocratico islamista porta con sè la correzione morale delle donne come suo fondamento, la Chiesa cattolica non dovrebbe dare un esempio altrettanto straordinario liberandosi compiutamente da questo giogo?” (ibid.).

Sono domande che trovano eco in diversi modi nelle comunità ecclesiali. Dopo la richiesta presentata al Sinodo dell’Amazzonia di costituire, in contesti in cui già la maggior parte delle comunità cattoliche sono guidate da donne, il ministero istituito di ‘donna dirigente di comunità’, al Sinodo cattolico della Germania (Synodaler Weg) nello scorso settembre l’82% dei vescovi e il 92% dei laici tedeschi hanno votato a favore di un documento che presenta una chiara richiesta per aprire l’ordinazione sacerdotale alle donne, con revisione delle linee esposte da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 1994 – che presenta il ministero ordinato riservato agli uomini – e con valutazione delle proposte di riforma a livello mondiale. La votazione che è stato esito finale di un’ampia discussione può essere considerato un passaggio storico soprattutto nella direzione di un maggiore coinvolgimento delle donne a tutti i livelli della vita ecclesiale e motivo di cammino ecumenico. Il presidente dei vescovi tedeschi ha affermato che “i problemi che abbiamo messo sul tavolo non si possono più rimuovere”.

Nella visita ad limina dei vescovi tedeschi nel novembre us vi è stata occasione per un confronto chiaro e non privo di tensioni in cui essi hanno avuto modo di evidenziare come la S.Sede abbia sottovalutato le conseguenze disastrose degli abusi sulla credibilità ecclesiale insieme al ritardo riguardo al ruolo e ai compiti, anche ministeriali, delle donne. Il presidente dei vescovi Bätzing ha commentato «A mio parere personale è la questione decisiva per il futuro (cfr. L.Prezzi, Tedeschi ad limina. Convergenze parallele, “Settimananews” 23 novembre 2022). 

Così alla fine del mese di novembre i vescovi belgi hanno parlato apertamente con il papa di questioni che si impongono per la loro urgenza nel vissuto ecclesiale e chiedono risposte significative e di rinnovamento, come ha ricordato Jozef de Kesel, arcivescovo di Bruxelles “Abbiamo parlato di coppie omosessuali, abbiamo parlato di viri probati (gli uomini sposati di provata fede ordinati sacerdoti, ndr), abbiamo parlato dell’eventualità del diaconato delle donne”.

Inquietudini presenti nella chiesa cattolica che vedono anche diversi percorsi ecumenici. Dagli inizi del secolo XX cominciano ad essere ordinate nelle chiese della Riforma donne pastore, che all’inizio sono solo singles o vedove, poi, a partire dagli anni ’60 sono ordinate pastore in modo incondizionato. Non tutte le chiese riformate tuttavia ammettono il pastorato femminile. In Italia le prime donne pastore furono consacrate nel 1967 al Sinodo valdese.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Avvento – anno A – 2022

Is 35,1-6.8.10; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11

Una visione di gioia, di coraggio, di sogno è presentata da Isaia: il deserto acquista vita ed esprime gioia e la steppa fiorisce per la felicità. “Si rallegrino il deserto e la terra arida,
esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca”. E’ un quadro di speranza e di coraggio, di una novità sta cambiando la realtà di dolore e di smarrimento: Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, … Egli viene a salvarvi”. Tristezza e pianto non ci saranno più. L’immagine di una via appianata che scorre in mezzo al deserto è metafora di un percorso di liberazione, di un cammino di chi è liberato e va verso una condizione nuova di pace: ‘lo zoppo salterà come il cervo, griderà di gioia la lingua del muto’. La strada appianata è segno di un cammino nel quale anche noi siamo coinvolti.

Nel quadro di questa promessa la pagina del vangelo offre uno squarcio sulla crisi di Giovanni Battista. I suoi discepoli sono inviati dal carcere dopo che Giovanni fu arrestato da Erode Antipa che scorgeva nella sua azione una minaccia. Pongono a Gesù una domanda che esprime incertezza e dubbio: ‘sei tu colui che deve venire?’. La venuta di Gesù non sta compiendo quel rivolgimento che Giovanni attendeva: non si presenta infatti come messia del giudizio. Il Battista predicava una minaccia incombente ed una esigenza di cambiamento, pensava ad un messia che interveniva in modo forte e grandioso. Gesù manifesta uno stile diverso, le sue parole sono segnate dalla proposta di un dono da accogliere, gratuitamente, il regno di Dio, dono per i poveri e i piccoli e vive la debolezza, anche il rifiuto.

Rispondendo ai discepoli di Giovanni, Gesù non parla di se stesso ma rinvia ai suoi gesti, a quanto sta accadendo. Si sta rendendo già presente ciò che Isaia aveva promesso: “i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la bella notizia”.

La bella notizia è che Dio prende la parte dei poveri, si pone accanto a loro per liberarli: bella notizia è che Gesù attua questo non secondo logiche di affermazione nella violenza e con esibizione di grandezza, ma nel segno del dono, della vicinanza, dell’accoglienza.

I suoi gesti sono piccoli segni che quella novità promessa è iniziata. E dice: ‘beato colui che non si scandalizza di me’. Il suo essere ‘messia’, ‘colui che deve venire’ disorienta, cioè scandalizza, costituisce inciampo a chiunque vorrebbe un messia secondo la propria misura, che non arrechi disturbo e non esiga coinvolgimento.

Solo chi vive una sofferenza può veramente sperare: e solo chi si fa accanto accanto e si fa compagnia in una vicinanza accogliente può aprirsi alla speranza. Gesù nel suo agire risponde a queste attese, le pone al primo posto anche se questo gli procura il sospetto e l’ostilità da parte dei poteri religiosi e politici.

I suoi gesti sono i segni di un mondo nuovo già iniziato che ha al suo centro i piccoli e che sta crescendo laddove qualcuno si impegna secondo il sogno di Isaia, nonostante difficoltà e contraddizioni.

“Promuovere l’avvento… è optare per l’inedito, accogliere la diversità come gemma di un fiore nuovo, come primizia di un tempo nuovo” (Tonino Bello) Mettere al centro delle nostre preoccupazioni la vita delle persone più deboli, meno capaci di farcela da sole; avere occhi per chi non è guardato con amore: ‘beato chi non si scandalizzerà di me’.

Il messaggio di questa domenica nel segno dell’invito alla gioia è tenere insieme il sogno di Isaia e il dubbio di Giovanni. La domanda e l’inquietudine di Giovanni aiutano a vivere la fede, non come fuga dalla storia. Il sogno di Isaia è bussola per scoprire che la nostra speranza si radica sulla promessa di Dio. 

 Alessandro Cortesi op

Attesa e segni

“Per me Gesù Bambino rimane l’immagine più sconvolgente e più coinvolgente di Dio, e il Natale continua ad essere la festa che prediligo. So bene che il culmine della vita di Gesù è la Pasqua, con il mistero della morte e risurrezione in cui trova compimento l’opera della redenzione e vengono inaugurati «cieli nuovi e nuova terra». Ma il cammino verso il perseguimento di questo obiettivo ha inizio con «il Verbo che si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14), ripercorrendo tutte le tappe della nostra esistenza, a partire dalla nascita. Questa creatura fragile, che sperimenta le difficoltà di crescita di ogni bambino, con l’aggiunta di essere fatto oggetto di una terribile persecuzione – si pensi al racconto della fuga in Egitto –, è per me la «cifra» più alta e più trasparente della identità sconvolgente del Dio cristiano. (…) l’aspetto che più mi ha inclinato (e mi inclina ancor oggi) a porre l’accento sulla centralità di questo evento (…) è l’immagine di Dio che attraverso di esso ci viene comunicata: un Dio che, accondiscendendo a fare propria in tutta la sua precarietà la condizione umana, capovolge l’idea di Dio propria di ogni teodicea, segnando il passaggio dagli attributi tradizionalmente a Lui riservati, soprattutto a quello dell’onnipotenza, per presentarci (Gesù Bambino ci conduce immediatamente a questa visione) un Dio povero e impotente che condivide fino in fondo il limite connaturato alla nostra creaturalità” (Giannino Piana, Attesa del Natale, “Rocca” 15 dicembre 2022). Riprendo queste parole di Giannino Piana, teologo e amico, che riandando ai ricordi di infanzia ricerca in quei giorni dell’attesa del Natale, di Gesù bambino, il segreto di un’esperienza. E’ il passaggio da un Dio onnipotente a un Dio fragile, che fa propria la terra nostra, umile, indicandoci anche la via dell’umiltà, del pensiero, della vita quale via dell’incontro. 

“Il Natale si avvicina e noi continuiamo a chiedere alla sentinella: “Dicci, quanto resta della notte? Della notte della guerra, dei disastri ecologici, delle difficoltà economiche per milioni di famiglie, del “politicamente corretto”, dell’eclissi religiosa… e, soprattutto, della notte della sofferenza. Dicci, quanto rimane della notte?  La sentinella ci dice solo che c’è ancora spazio per la speranza. Un semplice pastore in una capanna, una giovane coppia con un bambino appena nato, un operaio che lavora in città mentre noi riposiamo, un maestro di scuola che si aggrappa all’istinto della verità… Grazie a queste presenze anonime possiamo ancora aspettare l’alba, uno e tanti Natali. Sono presenze che ravvivano la speranza, affinché la felicità non muoia tra i nostri desideri effimeri. Sono presenze che ci permettono di continuare a dire BUON NATALE”

Ricevo questo augurio di buon Natale in un biglietto da un amico. E chiedo per me e per tutti noi di fare un piccolo esercizio in questo tempo di buio e di notte: imparare a individuare alcune belle notizie, nelle pieghe delle nostre giornate, negli anfratti della storia, nei bordi pagina dei quotidiani, negli angoli riposti della vita. Non un esercizio di ipocrisia per dire che tutto sommato la vita è bella, e per non lasciarci disturbare dallo scandalo del male e dell’ingiustizia che esige denuncia, vigilanza ed insieme l’operare fattivo per resistere al buio delle coscienze, alla violenza pervasiva, al silenzio sulle situazioni umane che gridano sofferenza.  Ma per coltivare quello sguardo della sentinella, che è capace di vedere il male intorno ma anche sa avvertire il rumore del germoglio che cresce, le prime luci dell’aurora, l’avvicinarsi di una visita attesa. Per scoprire nello smarrimento del cuore i segni di una speranza: “Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete!” Sono incontri, sono parole buone, sono la fedeltà quotidiana, prolungata ad un orizzonte di vita, ad un servizio di competenza, ad una condivisione di dono. Sono scelte di chi opera ogni giorno in modo nascosto, senza riconoscimenti e gratificazioni. Sono queste le luci di vangelo che ci raggiungono dal di fuori dei sistemi religiosi e delle chiese, dal di fuori di organizzazioni ideologiche e da risposte di dottrine vuote ma che sono presenti, vive, nelle lotte e nelle fatiche di uomini e donne che si sono lasciati conquistare da una luce interiore che chiama e apre cammino. E in questa ricerca imparare a raccontare come l’anziano rabbi discepolo del Baalshem – di cui parla Buber – che era storpio, ma quando gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro preso dalla foga “si alzò e raccontò e il suo racconto lo trasportò tanto che ebbe bisogno di mostrare saltellando e danzando come facesse il maestro. Da quel momento guarì. Così vanno raccontate le storie”. Ecco forse così potremo vivere la gioia, autentica gioia, che è la gioia della speranza, che non toglie lo smarrimento, ma lo apre ad un impegno per la giustizia, per la pace, nel quotidiano di questa terra, con umiltà, e per questo si fa gioia operosa, di questo Natale.

Alessandro Cortesi op

Omelia II domenica Avvento A 2022

Era la fine del 1967, 55 anni fa. Giorgio La Pira si recava in viaggio in Terra santa. Per lui era un pellegrinaggio di pace che riprendeva quello fatto dieci anni prima. E per questo partiva da Hebron la tomba del patriarca Abramo, comune padre della triplice famiglia di ebrei cristiani e musulmani e poi prevedeva come tappa Betlemme  e Gerusalemme, la città santa, il Carmelo, il, monte di Elia e Nazareth la città dell’incarnazione, per concludersi in Egitto, passando a Damietta dove san Francesco “in piena crociata ed in piena guerra compiendo un grande atto di fede religioso e storico (e, perciò, anche politico) – portò al sultano il suo messaggio cristiano di pace” in tempo di guerra”.

Agli inizi del 1968 La Pira scriveva un articolo esprimendo i motivi che avevano guidato il suo pellegrinaggio, riassumibili “in quella tesi che in questi anni ha sempre guidato la nostra azione di pace: ‘la tesi di Isaia’: cioè la tesi – fondata sulla rivelazione di Abramo e, perciò, in piena aderenza alla pace di Betlemme ed alla pace del Corano – della inevitabilità della pace universale, della inevitabilità del disarmo (le armi cambiate in aratri!) e della inevitabile promozione civile e spirituale dei popoli di tutta la terra (…) Questa tesi assume in Terra santa un rilievo particolare: essa pone qui in maniera più drammatica l’inevitabile domanda: perché ancora la guerra? Perché non trovare una soluzione politica per tutti i problemi che separano ancor tanto dolorosamente arabi e israeliani? … Il Mediterraneo, lungo le sponde del quale questi popoli abitano, non può tornare ad essere – è il suo destino! – un centro di attrazione e gravitazione storica , spirituale e politica essenziale per la storia nuova del mondo?… Perché non superare con un atto di fede – religioso e storico e, perciò, anche politico, in questa prospettiva mediterranea e mondiale – tutte le divisioni che ancora tanto gravemente rompono l’unità della famiglia di Abramo, per iniziare, proprio da qui, quell’inevitabile moto di pace destinato ad abbracciare tutti i popoli della terra e destinato ad edificare un’età qualitativamente nuova… della storia del mondo?  … Se c’è una ‘convergenza di destino storico’ per arabi e israeliani, fra tutti i popoli della famiglia di Abramo abitanti nello spazio mediterraneo (che è spazio essenzialmente europeo) allora tutti i problemi che ancora dividono possono essere rivisti in modo rovesciato: trasformandoli da problemi che dividono in problemi che unificano.  Se tutto questo è vero – ed è vero perché questo è il senso della storia presente del mondo – perché insistere a credere nelle soluzioni militari, ostacolando ancora l’incontro, il negoziato, la pace? Perché non sfidare la storia e non mettersi in cammino insieme per questa avventura nuova della storia del mondo? (…) Perché dunque, tardare più oltre – inutilmente dannosamente – l’inizio di questa missione comune a servizio dei popoli di tutto il mondo? Perché non dare al mondo presente una prova del grande fatto che specifica l’attuale età storica: del fatto, cioè, che la guerra anche ‘locale’ non risolve, ma aggrava i problemi umani; che essa è ormai uno strumento per sempre finito: e che solo l’accordo, il negoziato, l’edificazione comune di tutti i popoli, sono gli strumenti che la Provvidenza pone nelle mani degli uomini per costruire una storia nuova e una civiltà nuova?” E si chiedeva “del resto il nostro stesso pellegrinaggio…non è stato forse un pnte di speranza steso fiduciosamente tra le due rive?”

In questa lettura si possono ritrovare in filigrana tre linee del messaggio che viene dalle letture di stasera: innanzitutto la tesi di un orizzonte della storia umana che ha come suo punto di arrivo non tutto ciò che distrugge ma la pace. Pace come armonia, pace come incontro possibile tra diversi, pace come venir meno della logica del più forte, pace come benessere che lascia spazio ai desideri di fondo della vita umana… “Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare”.

E’ la profezia di Isaia che vede un germoglio che porta lo spirito, un germoglio di pace. E nella vita si ripresenta anche a noi in questo nostro tempo la sfida di una scelta di fede che è storica e perciò anche politica di osare la pace anche in situazioni di contraddizione laddove c’è la guerra e il buio dell’escalation militare. Sono persone sconosciute dall’una e dall’altra parte che ci richiamano questa scelta costosa, drammatica, ma liberante, come lo fu per Franz Jägerstatter contadino austriaco che aveva maturato la sua scelta di fede semplice con Franziska sua moglie e si rifiutò di arruolarsi nell’esercito nazista motivando questa scelta in base alla sua coscienza e per questo fu condannato a morte. E sono oggi gli obiettori di coscienza, in Russia e in Ucraina che sono disposti a subire le conseguenze delle loro scelte di non prendere le armi per uccidere. E’ il sogno di Isaia che diviene storia e si fa germoglio in questo inverno dell’umanità.E anche noi come Francesco, nel nostro quotidiano limitato possiamo trovare le forme e i modi per portare un messaggio di pace in tempi di guerra.

C’è un secondo messaggio che possiamo raccogliere dalla lettera di Paolo: “…in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza. E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, sull’esempio di Cristo Gesù…”

E’ un invito a coltivare la pace anche quando ci rendiamo conto della nostra impotenza di fronte alle grandi vicende di ingiustizia e di violenza nel mondo. Possiamo tenere viva la speranza. Possiamo coltivare l’attitudine ad avere i medesimi sentimenti sull’esempio di Gesù. Possiamo ritornare a Gesù e fissare gli occhi su di lui, quel Gesù da incontrare non nelle immagini patinate o devote, ma nella semplicità dei suoi gesti delle sue parole, ritornando al vangelo, ai gesti della sua umanità riscoprendolo fratello che ci guida. E’ bello questo invito a riscoprire i sentimenti, che sono una dimensione molto spesso trascurata in culture che hanno soppresso i sentimenti e hanno educato a non porvi attenzione, a non comprenderli, dove tutto è razionalizzato o ridotto a calcolo o a pulsione immediata. Ma i sentimenti sono le forze profonde che guidano la vita e la conducono ad una comunicazione profonda che comprende in modo più profondo le parole e va oltre l’espressione delle parole stesse perché coinvolge il corpo che noi siamo nella sua complessità. Fare propri i sentimenti di Gesù è aprirsi ad una apertura di comprensione, di tenerezza, ma anche di speranza davanti all’altro, all’umanità…       

Infine possiamo porre attenzione all’invito di Giovani Battista questo uomo coerente e duro, con se stesso prima di tutto. Il deserto della Giudea è pietroso e inospitale ma è attraversato dal fiume Giordano e là dove giunge anche solamente poca acqua il deserto immediatamente fiorisce. Il profilo del Battista si staglia su tale sfondo e in qualche modo lo riflette. Giovanni esprime nelle sue scelte la radicalità di una fede che coinvolge l’esistenza. La sua scelta del deserto è richiamo a scegliere una condizione di precarietà per lasciare spazio all’attesa del Dio che viene. Nel deserto si fa ‘voce che grida’: richiama ad un cambiamento radicale perché il ‘regno dei cieli è vicino’. Richiama alla centralità della presenza di Dio.

Giovanni è capace di parole forti per scuotere un mondo addormentato. “Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo”. E’ una provocazione ad uscire da un modo di sentirsi a posto protetti da una copertura di religiosità che impedisce di scorgere le esigenze della fede. E’ la contraddizione che si vive in un mondo in cui il Natale è divenuto momento integrato nella logica consumistica e funzionale ad una vita sociale dimentica della sofferenza e della fatica degli altri, di chi è invisibile, lasciato fuori dai riflettori, piegato dalla fatica quotidiana. Figlie e figli di Abramo, persone che sanno aprirsi ad un orizzonte di vita nella giustizia e nell’amore sono ovunque… I frutti di conversione sono indicazioni di una prassi da cambiare, provocazione a scegliere strade diverse in cui l’incontro con Dio non passa attraverso articolati discorsi, ma nelle scelte concrete e nell’operare. L’annuncio del regnare di Dio non è conoscere qualcosa in più di ciò che Gesù ha detto, ma è camminare come Gesù ha fatto. Per questo operare scelte di fede, ha una valenza religiosa e storica e perciò politica.

Alessandro Cortesi op

II domenica di Avvento – anno A – 2022

Is 11,1-10; Rom 15,4-9; Mt 3,1-12

Inizia dal deserto, dalla voce di un profeta l’itinerario di Gesù nel suo lasciare Nazareth, il lavoro, la quotidianità per un passaggio decisivo della sua esistenza. Il panorama del deserto solcato da una voce inerme è lo sfondo in cui si colloca il momento in cui Gesù si reca presso Giovanni il battezzatore e ne diviene discepolo.

Il deserto della Giudea è pietroso e inospitale ma è attraversato dal fiume Giordano e là dove giunge anche solamente poca acqua il deserto immediatamente fiorisce offrendo la meraviglia della vita che vince l’aridità delle rocce. Il profilo del Battista si staglia su tale sfondo e in qualche modo lo riflette: Giovanni è profeta  che esprime durezza nel suo stile e nell’annuncio esigente e minaccioso, ma la sua vita è tesa ad annunciare Dio che arreca salvezza e vita.

Giovanni si reca proprio nel deserto e lì si fa ‘voce che grida’: richiama ad un cambiamento radicale perché il ‘regno dei cieli è vicino’. La sua voce è espressione dell’urgenza di un cambiamento che lasci spazio ad un’attesa: Dio sta intervenendo nella storia. Giovanni così richiama alla centralità della presenza di Dio.

Il Battista assume lo stile dei profeti, rivolto a Dio e in ascolto della sua Parola. Per questo attira su di sé sospetti e obiezioni e su di lui si concentra la preoccupazione del potere politico, del re Erode Antipa, che lo individua quale minaccia al suo dominio. Giovanni è uomo coerente, nelle sue scelte di vita traduce l’intima tensione di fede che ne ispirava l’impegno: esigente con sè stesso presenta una testimonianza che dà a pensare ed attrae per la sua dirittura e rigore. Ma il suo messaggio non è per attrarre a sé. Tutto è rivolto ad indicare qualcun altro, ‘colui che viene dopo’: Giovanni intende la sua missione quale annunciatore di un intervento di Dio secondo le linee di attesa di un messia ‘più forte’, che donerà lo Spirito e per questo chiede conversione. L’intera vita di Giovanni è decentrata: tutto in lui è aperto verso un altro.

Nel deserto Giovanni invita tutti coloro che lo raggiungono ad un gesto di immersione nelle acque del Giordano: il deserto richiama all’esodo, al cammino di Israele verso la libertà, luogo di incontro con Dio. Lì il popolo aveva vissuto attraverso la prova e il cammino una lenta maturazione. Aveva imparato a fidarsi della promessa di Dio passando dalla schiavitù alla libertà.

In contrasto a coloro che dicono ‘abbiamo Abramo per padre’ e pensa che il rapporto con Dio si esaurisca in una appartenenza culturale Giovanni richiama a non basarsi su sicurezze vane. Figli di Abramo, per il Battista sono tutti coloro che lasciano spazio al ‘regnare di Dio’ cioè attuano rapporti di giustizia e di pace.

Giovanni Battista esprime nelle sue scelte la radicalità di una fede che coinvolge l’esistenza, la sua voce richiama alla fede in Dio e spinge ad un nuovo orientamento, di ricerca, di ascolto e disponibilità. Provoca così ad un cambiamento che tocchi aspetti fondamentali dell’esistenza. La sua scelta del deserto è richiamo a scegliere una condizione di precarietà per lasciare spazio all’attesa del Dio che viene.

Alessandro Cortesi op

Marcia verso il cimitero dove è sepolta Mahsa Amini a Saqez ottobre 2022

Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno…

“Sono una ragazza ventenne che vive in Iran. Volevo dirvi che la situazione che stiamo vivendo qui è mille volte peggio. Tra i nostri amici e compagni universitari quando ci chiamiamo ci informiamo se siamo ancora vivi. Ragazzi, siete vivi? Tizio e Caio è vivo? I nostri appelli non si fanno più nelle aule universitarie, si fanno in questo modo, per sapere chi è vivo, chi è stato arrestato e chi non è più fra noi. Ogni volta che usciamo di casa, non sappiamo se rientreremo vivi. Ogni giorno, a causa di uno slogan urlato o di un semplice sguardo di sfida lanciato ad un agente di polizia antisommossa, rischiamo di venir picchiati, arrestati e uccisi senza nemmeno che le nostre salme vengano restituite alle famiglie. Tutto questo per quanto suoni assurdo e spaventoso, potrebbe succedere in ogni istante, a chiunque di noi, gente comune e ordinaria. Per questo vi prego di continuare con il vostro supporto. Le notizie delle vostre manifestazioni e proteste in nostro sostegno ci arrivano e rappresentano un grandissimo incoraggiamento per noi, ci rincuorano. (…) Ce la faremo soltanto se continueremo a rimanere solidali, uno affianco all’altro, e manterremo questa unità e alleanza tra di noi. Noialtri qui stiamo resistendo e combattendo e continueremo a divulgare le notizie nel resto del mondo, noi non ci arrenderemo e staremo in piedi fino all’ultima goccia di sangue versato e in ogni circostanza. Vi chiediamo di rimanere in piedi accanto a noi, spalla a spalla per la libertà, per la libertà! Barye azadi!” Sono queste alcune parole di un accorato appello di Eloha, nome fittizio per proteggere la sua identità (Il grido di noi ragazze di Teheran “Vi prego non abbandonateci”, La Stampa 1 dicembre 2022).

In Iran è in atto una rivoluzione portata avanti a mani nude, in modo nonviolento e inerme da tante giovani donne e studenti che trova appoggio e sostegno nella popolazione stremata dal regime teocratico e dalla legge religiosa che viene fatta osservare in modo violento dai guardiani della morale, dalle forze di polizia. A distanza di più di due mesi dalla uccisione di Mahsa Amini, ragazza curda arrestata perché non indossava in modo corretto il velo torturata e uccisa il 16 settembre us, le proteste non si fermano e subiscono la feroce repressione del regime. E vi sono munizioni utilizzate contro i manifestanti – come hanno documentato media francesi – che provengono dall’Italia, cartucce prodotte da un’azienda con sede a Livorno, munizioni usate anche nelle repressioni in estremo Oriente.   

Una rivoluzione è in atto, per la libertà e la democrazia, come testimonia il giornalista Mariano Giustino corrispondente di Radio radicale, nei suoi reportage: in Iran questi mesi hanno generato una situazione nuova che nonostante la violenza scatenata e le centinaia di vittime soprattutto giovani e anche bambini, condurrà ad un cambiamento per cui nulla sarà più come prima. E si tratta di una rivoluzione condotta senz’armi, contrapponendo alla violenza la scioltezza di capelli al vento e la gioia di cantare insieme danzando in cerchio nelle piazze di villaggi e città. Espressioni della forza della nonviolenza che apre futuro in contrapposizione al terrore e alla morte causato dalla violenza e dalle armi.

“Se è vero che «non esiste guerra giusta» e che la guerra «non risolve mai i problemi che intende superare», gli obiettori di coscienza sono gli artefici di questa visione e la rendono concreta già nell’oggi.
Gli obiettori di coscienza, i nonviolenti russi e ucraini, che già oggi si parlano, lavorano insieme, creano ponti di pace, devono essere sostenuti perché veri operatori di pace. Sono circa 5000 i giovani ucraini che si sono dichiarati obiettori di coscienza e vorrebbero svolgere un servizio civile alternativo al servizio in armi, ma la legge marziale in atto glielo nega. Alcuni di loro sono già sottoposti ad un procedimento penale. In particolare stiamo seguendo i casi di due obiettori ucraini: Ruslan Kotsaba e Vitaliy Alekseyenko…” Così ricorda Mao Valpiana (La resistenza degli obiettori russi e ucraini, “Il manifesto” 30 novembre 2022) E ricorda ancora che “Papa Francesco ha indicato come esempio ai giovani europei la figura di Franz Jägerstätter, giovane contadino cattolico obiettore che «quando venne chiamato alle armi si rifiutò, perché riteneva ingiusto uccidere vite innocenti. Franz preferì essere assassinato piuttosto che uccidere. Riteneva la guerra totalmente ingiustificata».  Oggi in Russia e Ucraina ci sono tanti Franz Jägerstätter che obiettano al servizio militare e per questo vengono incarcerati”.

Alekseyenko ha 52 anni. Cristiano evangelico aveva svolto un servizio alternativo alla leva e ha spiegato le ragioni perché non accetta di arruolarsi in rapporto alla sua fede. «Sono pronto a essere punito secondo la legge –­ ha detto ai giudici – ma non mi pento di aver rifiutato il servizio militare, perché ho agito seguendo la mia coscienza». Una campagna di mobilitazione internazionale è stata promossa dal Movimento pacifista ucraino. Altri obiettori in Ucraina sono stati condannati al carcere: tra di essi Andrii Kucher e Dmytro Mykolayovych Kucherov condannati a diversi anni di carcere. Circa cinquemila persone si sono dichiarate obiettori di coscienza nonostante la legge marziale. «Il diritto all’obiezione è riconosciuto a livello internazionale – spiega il portavoce dei pacifisti ucraini Yurii Sheliazhenko – ma purtroppo nel mio Paese veniva negato di fatto anche in tempo di pace, poiché era garantito soltanto a un richiedente su dieci. Adesso, invece, è punito con il carcere da tre a cinque anni» (R.Michelucci, Kiev nega il diritto all’obiezione di coscienza alle armi: 971 incriminati, “Avvenire” 2 dicembre 2022). L’Ong “Un Ponte Per” ha lanciato una raccolta fondi per sostenere le spese legali degli obiettori che devono subire un processo.

“Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto …” la profezia di pace di Isaia è forza storica che anima ogni impegno per la giustizia e la pace vissuto in modo nonviolento anche nell’incomprensione e nel rifiuto che si trova ad affrontare.

Alessandro Cortesi op

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