Ez 34,11-17; 1Cor 15,20-16,28; Mt 25,31-46
La grande scena del re che giudica tutti i popoli conclude il quinto grande discorso del vangelo di Matteo, il capitolo 25 centrato sui temi dell’attesa, della responsabilità nel tempo, del restare svegli. “quando il Figlio dell’uomo verrà…”: il Figlio dell’uomo è tratteggiato nel suo venire.
Figlio dell’uomo è figura evocata dal profeta Daniele (Dan 7). Dopo aver offerto un panorama della storia umana in cui gli imperi che avevano dominato sui popoli crollano uno dopo l’altro, alla fine dei tempi scorge il giungere di una figura proveniente da Dio ‘simile a figlio dell’uomo’. E si apre un giudizio. In Dan 7,13-14 questa figura riunisce i tratti di una figura singolare e collettiva. In altri scritti conosciuti ai tempi di Gesù (le parabole di Enoch 45-57, IV Esdra) questa figura era interpretata in senso singolare. Matteo riprende questo titolo applicandolo a Gesù: è Gesù il ‘figlio dell’uomo’. E’ il medesimo che ha pronunciato il discorso della montagna, ha chiamato a seguirlo annunciando il regno dei cieli, ha raccolto attorno a sé una comunità, ha chiesto di mettere al centro i piccoli e di perdonare. E’ lui che ha inviato i suoi apostoli a dare gratuitamente ciò che gratuitamente hanno ricevuto.
All’inizio del suo vangelo Matteo aveva evocato un ‘nuovo principio’, riprendendo con questo termine la prima parola della Bibbia: una nuova ‘genesi’ è letta con riferimento a Gesù. La nascita di Gesù si situa in una storia orientata ad un incontro. Per questo Matteo legge i gesti di Gesù quale compimento delle promesse di Dio. La sua vita è segno della fedeltà di Dio. L’ultima pagina del vangelo – prima del racconto della passione – conduce a scorgere l’esito di questa storia: quando il figlio dell’uomo verrà…
Nella figura del figlio dell’uomo Matteo quindi delinea il profilo di Gesù mettendo insieme un venire alla fine dei tempi e il suo venire vicino, il suo cammino terreno di giusto che subisce una ingiusta condanna. Nel processo davanti al sommo sacerdote che lo interroga (Mt 26,64) Gesù risponde: ‘vedrete il Figlio sedere alla destra della potenza e venire sulle nubi del cielo’. Per Matteo allora figlio dell’uomo non è solo qualcuno che viene alla fine, ma è il veniente è quel Gesù che è venuto e viene. Qui per Matteo sta la ‘nuova creazione’: il venire di Gesù apre un incontro una comunione che investe tutta l’umanità. C’è un riferimento ad un tempo lontano, ad un futuro, ma anche c’è l’evocazione di un venire immediato, sin d’ora. Matteo invita la sua comunità a scorgere sin dal presente un venire vicino di Gesù. Questo presente è legato alla fine della storia. Non ci sarà il buio dell’assenza ma un incontro. Il cammino di tutte le genti è diretto verso quel momento.
Nella grande scena del giudizio il re è presentato come il pastore che raduna le sue pecore. Secondo il modulo letterario del parallelismo e del contrasto tutto il brano è strutturato in una contrapposizione che intende dare risalto al messaggio dell’accoglienza. La seconda parte è tutta orientata ad evidenziare per contrasto quanto è detto nella prima parte: ‘venite benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno preparato per voi sin dall’origine del mondo’. Già nel principio c’è una promessa e un sogno del Padre: il regno è riferimento per dire un progetto di incontro e comunione.
La fine della storia sarà una grande accoglienza, e la parola definitiva sarà di comunione ‘Venite’. E’ un incontro non fatto di parole ma vissuto concretamente negli incontri con chi ha avuto bisogno. Il giudizio si compie nel rapporto con gli altri. Gesù s’identifica con l’assetato, il senza dimora, il rifugiato senza mezzi di sostentamento, il malato, il carcerato. Ci sono tutti coloro che hanno vissuto la vita con attenzione all’altro, anche senza sapere che nei loro gesti e nelle loro scelte incontravano Gesù. La domanda stupita che essi rivolgono al re suona infatti: “Quando ti vedemmo affamato e ti demmo da mangiare o assetato e ti demmo da bere? Quando ti vedemmo pellegrino e ti ospitammo, nudo e ti coprimmo? Quando ti vedemmo infermo o in carcere e venimmo a trovarti?”
Il regno non è conseguenza di una appartenenza religiosa, ma ‘viene’ laddove si risponde alla chiamata del povero. Dare da mangiare, dare da bere, offrire un tetto e assistenza, accogliere chi sta ai margini, sono i gesti della cura e della vicinanza al povero. Sono gesti in cui scoprire la propria nudità di poveri accanto ad altri.
Il re invita a venire nel suo regno. E’ questa una provocazione alla comunità di coloro che desiderano seguire Gesù. Questa è formata da tutti coloro che vivono rapporti nuovi di riconoscimento dell’altro e di fraternità e sororità: è il ‘regno’ già iniziato.
E’ Gesù il veniente, che continua a venire nei più piccoli dei fratelli (e sorelle): “tutto quello che avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli e sorelle l’avete fatto a me”.
Alessandro Cortesi op
Poveri
L’11 settembre 1962 in uno dei discorsi preparatori del Concilio Vaticano II papa Giovanni XXIII pronunziò queste parole “la chiesa vuole essere la chiesa di tutti, ma soprattutto la chiesa dei poveri”. L’accento di questa espressione cadeva non sull’impegno a prendersi cura dei poveri, ma ad essere la chiesa ‘dei poveri’. Il fatto stesso di essere chiesa, raduno e assemblea, è a partire dalla scelta di Dio di farsi povero nella storia umana nel cammino di Gesù.
Il card. Giacomo Lercaro di Bologna, durante la prima fase dei lavori del Concilio, presentò la proposta di impostare i lavori attorno al mistero del Cristo povero, ma tale idea non ebbe seguito. Da allora questo accento non è stato più ripreso forse anche le radicali esigenze di revisione che poneva ad una chiesa che si doveva scoprire chiamata non ad inseguire mire terrene ma a testimoniare lo stile del vangelo.
E’ stato Francesco, vescovo di Roma proveniente dall’America latina segnata dall’opzione preferenziale per i poveri, a riportare al primo posto l’attenzione a tale questione come sfida fondamentale per vivere il vangelo oggi: una delle sue affermazioni forti è stata: “i poveri sono la carne di Cristo.” La povertà non è questione astratta ma si rende presente in volti concreti:
“Conosciamo la grande difficoltà che emerge nel mondo contemporaneo di poter identificare in maniera chiara la povertà. Eppure, essa ci interpella ogni giorno con i suoi mille volti segnati dal dolore, dall’emarginazione, dal sopruso, dalla violenza, dalle torture e dalla prigionia, dalla guerra, dalla privazione della libertà e della dignità, dall’ignoranza e dall’analfabetismo, dall’emergenza sanitaria e dalla mancanza di lavoro, dalle tratte e dalle schiavitù, dall’esilio e dalla miseria, dalla migrazione forzata”. (Messaggio di indizione della I giornata mondiale dei poveri)
“La povertà ha il volto di donne, di uomini e di bambini sfruttati per vili interessi, calpestati dalle logiche perverse del potere e del denaro. Quale elenco impietoso e mai completo si è costretti a comporre dinanzi alla povertà frutto dell’ingiustizia sociale, della miseria morale, dell’avidità di pochi e dell’indifferenza generalizzata! Ai nostri giorni, purtroppo, mentre emerge sempre più la ricchezza sfacciata che si accumula nelle mani di pochi privilegiati, e spesso si accompagna all’illegalità e allo sfruttamento offensivo della dignità umana, fa scandalo l’estendersi della povertà a grandi settori della società in tutto il mondo” (ibid.)
La mano tesa dei poveri è appello ad uscire da sicurezze e comodità che rendono la vita ripiegata in un egoismo senza gli altri, in una indifferenza senza cura, in una religiosità del culto separato dalla vita.
In un recente libro Giovanni Ferretti, professore emerito di filosofia teoretica dell’Università di Macerata (Il criterio misericordia – Sfide per la teologia e la prassi della Chiesa, ed. Queriniana 2017) sottolinea come la dimensione del fenomeno della povertà nel mondo globalizzato con il dominio dell’economia finanziaria esiga oggi una consapevolezza particolare e divenga sfida centrale per la fede cristiana. Esige infatti di “riflettere in forma nuova sulla natura dell’apporto del Vangelo alla salvezza integrale dell’uomo – di tutto l’uomo e di tutti gli uomini – fin da questa vita terrena e ad operare di conseguenza” (ibid. p.143). Per questo la proposta di papa Francesco “sta operando un importante spostamento nella considerazione delle sfide del mondo moderno contemporaneo: dal primato della sfida della ragione illuministica moderna e post-moderna, che ha impegnato la Chiesa per più di due secoli, al primato della sfida della povertà e della disumanità dilagante nel mondo” (ibid. p. 142).
E’ quanto viene affermato in Evangelii Gaudium dove è delineato un magistero proprio dei poveri a cui prestare ascolto proprio per vivere la fede: “Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro” (Evangelii Gaudium, 198).
Francesco sottolinea innanzitutto che la povertà è una chiamata anzitutto a seguire Cristo: è un cammino che apre a riconoscere il limite e a non cadere nelle diverse forme dell’idolatria.
“Non dimentichiamo che per i discepoli di Cristo la povertà è anzitutto una vocazione a seguire Gesù povero. È un cammino dietro a Lui e con Lui, un cammino che conduce alla beatitudine del Regno dei cieli. Povertà significa un cuore umile che sa accogliere la propria condizione di creatura limitata e peccatrice per superare la tentazione di onnipotenza, che illude di essere immortali. La povertà è un atteggiamento del cuore che impedisce di pensare al denaro, alla carriera, al lusso come obiettivo di vita e condizione per la felicità. E’ la povertà, piuttosto, che crea le condizioni per assumere liberamente le responsabilità personali e sociali, nonostante i propri limiti, confidando nella vicinanza di Dio e sostenuti dalla sua grazia. […] Facciamo nostro, pertanto, l’esempio di san Francesco, testimone della genuina povertà. Egli, proprio perché teneva fissi gli occhi su Cristo, seppe riconoscerlo e servirlo nei poveri” (Messaggio per la I giornata dei poveri).
“Se, pertanto, desideriamo offrire il nostro contributo efficace per il cambiamento della storia, generando vero sviluppo, è necessario che ascoltiamo il grido dei poveri e ci impegniamo a sollevarli dalla loro condizione di emarginazione. Nello stesso tempo, ai poveri che vivono nelle nostre città e nelle nostre comunità ricordo di non perdere il senso della povertà evangelica che portano impresso nella loro vita”. (Messaggio per la I giornata dei poveri)
La condizione di povertà è da combattere per eliminare situazioni che sono degradanti per le persone. Tuttavia proprio nell’incontro con chi è più segnato dalla fatica, dalle difficoltà e dalla fatica del vivere si dà un incontro che porta a cambiare la vita. E’ ciò che viene testimoniato da tanti che si sono lasciati coinvolgere nella vita dei poveri, ascoltando voci e incontrando sguardi (cfr. Luis Antonio Tagle, Ho imparato dagli ultimi. La mia vita, le mie speranze ed. Emi 2016). L’incontro con i poveri è esperienza che cambia non solo il modo di intendere la vita, ma conduce a scorgere il mistero di Cristo che da ricco si fece povero…
“Come, concretamente, possiamo allora piacere a Dio? Quando si vuole far piacere a una persona cara, ad esempio facendole un regalo, bisogna prima conoscerne i gusti, per evitare che il dono sia più gradito a chi lo fa che a chi lo riceve. Quando vogliamo offrire qualcosa al Signore, troviamo i suoi gusti nel Vangelo. Subito dopo il brano che abbiamo ascoltato oggi, Egli dice: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Questi fratelli più piccoli, da Lui prediletti, sono l’affamato e l’ammalato, il forestiero e il carcerato, il povero e l’abbandonato, il sofferente senza aiuto e il bisognoso scartato. Sui loro volti possiamo immaginare impresso il suo volto; sulle loro labbra, anche se chiuse dal dolore, le sue parole: «Questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Nel povero Gesù bussa al nostro cuore e, assetato, ci domanda amore.”[…] Lì, nei poveri, si manifesta la presenza di Gesù, che da ricco si è fatto povero (cfr 2 Cor 8,9). Per questo in loro, nella loro debolezza, c’è una “forza salvifica”. E se agli occhi del mondo hanno poco valore, sono loro che ci aprono la via al cielo, sono il nostro “passaporto per il paradiso”. Per noi è dovere evangelico prenderci cura di loro, che sono la nostra vera ricchezza, e farlo non solo dando pane, ma anche spezzando con loro il pane della Parola, di cui essi sono i più naturali destinatari. Amare il povero significa lottare contro tutte le povertà, spirituali e materiali.” (omelia nella Giornata mondiale dei poveri 19 novembre 2017)
Alessandro Cortesi op
III domenica di Pasqua – anno B – 2024
At 3,13-15.17-19; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48
Gli Atti degli Apostoli presentano alcuni tratti fondamentali della prima predicazione su Gesù che al centro vede la testimonianza della sua morte e risurrezione. Pietro, prendendo la parola a Gerusalemme contrappone l’agire degli uomini con la loro violenza all’azione potente di Dio che non ha lasciato Gesù nell’oscurità della morte ma lo ha ‘rialzato’: a Lui Gesù ha affidato tutta la sua vita chiamandolo Abbà: è lui che lo ha risuscitato dai morti.
La prima comunità ha vissuto l’incontro nuovo con Gesù, il crocifisso, dopo i giorni della passione nel suo farsi loro incontro. Il medesimo di prima, ma vivente in modo nuovo. Gesù non è tornato alla vita di prima. La sua risurrezione è evento non richiudibile nella storia, ma è irruzione dell’ultimo. E’ assolutamente nuovo e non dicibile perché evento escatologico. La presenza del Risorto chiede di essere riconosciuta con uno sguardo nuovo, nella fede. Pietro annuncia a Gerusalemme che con il suo intervento il Padre ha portato a compimento ‘ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il Cristo sarebbe morto’. Luca insiste in tutta la sua opera, sul fatto che la passione di Cristo è stata predetta dai profeti (cfr. Lc 9,22; 18,31, 22,22; 24,7; At 2,23; 3,18; 4,28). Non si tratta del compimento di una previsione; piuttosto è coerenza letta nella luce della Pasqua, tra l’agire di Dio nella storia di salvezza e la vicenda di Gesù di Nazaret. La sofferenza, la passione e la morte di Cristo sono così viste come adempimento del farsi vicino di Dio all’umanità per vie che sono altre dalle nostre vie. Cristo compie le Scritture perché vive l’inermità, il servizio, la condivisione della vita dei disprezzati. Per la prima comunità poteva presentarsi il rischio, dopo la Pasqua, di dimenticare che Gesù aveva scelto di condividere la condizione delle vittime. Nel suo vangelo Luca è attento a tutto ciò narrando il percorso di Gesù verso Gerusalemme dove incontrò rifiuto e condanna. La risurrezione è evento in cui il Padre conferma che quella via è la via della vita e della risurrezione. Il Padre ha glorificato il torturato e disprezzato della croce: la sua gloria è l’altro versante del suo dono e della fedeltà al suo progetto.
Luca presenta l’apparire il Risorto a Gerusalemme, dove gli undici e gli altri con loro sono condotti ad aprirsi ad un incontro nuovo con Gesù. Insiste sul fatto che il Risorto è il medesimo del crocifisso e la sua presenza è viva e reale. Preoccupato di contrastare interpretazioni puramente spiritualistiche – forse presenti anche nella sua comunità – proprie di una mentalità che disprezzava il corpo, Luca contrasta l’idea che la risurrezione sia identificabile con una sorta di immortalità dell’anima. La risurrezione investe tutte le dimensioni della persona di Gesù: ‘Sono proprio io’ dice ai suoi.
E’ possibile un incontro reale con Gesù ed essere coinvolti nella sua vita di Risorto in una condizione nuova percepibile nella fede. Nel gesto di mangiare insieme si rende vicina la sua presenza: Gesù che aveva condiviso la tavola con i suoi ora si dà ad incontrare in modo nuovo inatteso, e comunica che la sua vita coinvolge tutte le dimensioni della vita umana. Richiede da loro uno sguardo di affidamento nel percorso di fede. Così Gesù in mezzo ai suoi apre all’intelligenza delle Scritture: proprio il ritornare alle Scritture è itinerario per scoprire il disegno di fedeltà di Dio nella storia ed è luogo in cui incontrare il Risorto. Il saluto della pace racchiude anche una missione. Nell’esperienza di condividere il pane, di ascoltare delle Scritture, di tessere pace il Risorto si dà ad incontrare e suscita il cammino della testimonianza.
Alessandro Cortesi op