XX domenica tempo ordinario – anno A – 2023
Is 56,1.6-7; Rom 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28
“Gli stranieri che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore e per essere suoi servi, li condurrò sul mio monte santo…”
Lo sguardo del profeta si allarga ai popoli lontani: per essi ci sarà un posto nel monte del tempio, luogo dell’incontro con Dio. E il tempio stesso viene ad assumere il profilo di una casa per tutti, di preghiera per tutti i popoli. Nessuno può essere escluso dall’incontro con il Dio dell’alleanza.
Tale orizzonte di apertura universale è passaggio di crescita nel percorso della fede d’Israele: certo la fede del popolo è chiamata a guardarsi dall’esaurimento, dal cedere al grande peccato l’idolatria, dal venir meno alla fedeltà al Dio dell’esodo confondendosi con i culti degli stranieri, ma d’altra parte la presenza dello straniero nel popolo dell’alleanza è un segno importante. Ricorda che Dio ha rivolto lo sguardo a Israele nel suo essere vittima e straniero in Egitto ed è sceso a liberarlo. Per questo dovrà mantenersi continuamente in cammino, non nella fissità di chi possiede la terra e si pone come dominatore, ma nella disponibilità di chi ricorda una salvezza ricevuta.
L’elezione non è privilegio da difendere, ma missione che apre. Per essere un segno tra i popoli e per favorire il cammino di pagani e stranieri verso un disegno di pace che si estende e coinvolge tutta l’umanità (cfr. Is 2).
Lo straniero ricorda anche che Dio è ‘altro’, è ‘straniero’ lui stesso. Il Dio straniero, diverso e non racchiudibile si fa vicino nei volti di chi chiede accoglienza e sperimenta la debolezza.
Anche Gesù, proprio nel territorio di Tiro e Sidone, regione dei pagani, incontra una donna straniera. E questa gli chiede un gesto di liberazione e guarigione. Ma Gesù risponde che è venuto solo per le pecore perdute d’Israele. La donna non si arrende e richiama l’immagine di una tavola in cui c’è da mangiare per tutti, per i figli, ed anche per i cagnolini che raccolgono le briciole che cadono. E questo termine ‘cagnolini’ racchiude allusione ai pagani detti ‘cani’ con disprezzo dagli ebrei che guardavano a loro con distanza. L’insistenza della donna, il suo richiamo, il suo rivolgersi a Gesù con fiducia conducono ad un cambiamento in Gesù stesso. In fondo quelle pecore perdute sono anche tutti coloro che cercano senso e salvezza come lo erano le folle incontrate nel suo camminare, pecore perdute e senza pastore (Mt 9,36). E Gesù si muove nella compassione che è il modo di agire di Dio. Si prende cura e ascolta il grido dei poveri. Riconosce nel volto della straniera, nel suo abbandono l’apertura fondamentale che orienta la vita all’Altro: la tua fede ti ha salvata.
Gesù loda così la fede di una donna pagana, fuori dai recinti religiosi, che a lui si rivolge con fiducia e lo ha condotto ad un superamento di barriere di divisione e di esclusione.
La donna aveva colto la possibilità di un nutrimento di vita per tutti oltre le divisioni religiose e i privilegi: non chiede il pane dei figli ma si accontenta delle briciole per i cagnolini. Gesù vede in lei la testimone di una valicatrice di muri religiosi e culturali.
Gesù loda la fede di questa donna e la indica come una fede ‘davvero grande’. I percorsi della fede sono profondi e sono nascosti nelle profondità dei cuori. Viviamo un tempo di giudizi perentori e di condanne senza appello per le esistenze di chi chiede di superare le forme di esclusione e le mentalità religiose che discriminano e umiliano. In quelle voci, in quelle ricerche sta spesso nascosta una fede grande, sofferta, una fedeltà di chi attende un cambiamento anche nell’istituzione ecclesiale benché tutto concorra a spingerli lontano per altre strade. Il messaggio di questa domenica è un invito a scorgere i tesori della fede nascosti nelle profondità dei cuori, ad assumere lo stile della compassione di Gesù, al di sopra di ogni codificazione, a vivere l’accoglienza quale tratto rivelativo della fede nel Dio capace di accogliere senza riserve e senza condizioni e di dare sapzio ad ogni ricerca e attesa.
E riprendo così quanto le parole scritte con mitezza e delicatezza da Antonio Autiero – così diverse nello stile da tante parole nutrite di violenza, di durezza, di condanna – dopo aver partecipato come amico ai recenti funerali di Michela Murgia: “La porta e la sua soglia (una volta Michela ed io abbiamo fatto una lectio accademica in dialogo su questo tema) mettono davanti alla sfida radicale di cosa se ne vuole fare di essa, barriera per impedire o area di accoglienza. Molti si sono sentiti accolti da Michela, leggendo i suoi scritti e ascoltando le sue parole, si sono visti aperta una porta davanti, su orizzonti di maggiore luce, per dare esito di compimento e non di disfatta al gemito nel quale si sentivano avvolti.
L’intreccio tra religioso e politico che Michela ha voluto fosse espresso con il suo funerale era ed è in realtà un’istanza centrale del suo modo di stare al mondo ad occhi aperti, di abitarlo con responsabilità e cura, di trasformarlo con volontà tenace e non da sola. Per esprimere così la profondità del suo essere credente, la radicalità del suo essere cittadina. Vedendo a fondo l’intreccio, ella ha saputo esprimere l’indignazione sia per quelle visioni religiose che avevano scelto, legittimato e incrementato le vie dell’esclusione, sia per quegli abbozzi distorti di progetti e di programmi politici che dell’esclusione e dei privilegi fanno la base di raccolta per pescare nel bacino dei consensi. (…) La sua traiettoria dalla teologia alla politica passava attraverso l’esperienza narrativa, fatta di volontà di comunicazione, letteraria e oltre. Così come il suo afflato politico le metteva sott’occhio il vissuto scabroso di quella parte di umanità dolente, esclusa, marginalizzata e le faceva trovare il linguaggio dei diritti da difendere e per cui battersi, come riflesso di quella luce, pathos di quel gemito e coscienza di quella porta, di cui lei, attraverso i testi biblici al suo funerale ancora avrebbe voluto parlarci” (A. Autiero, Le due voci del cuore di Murgia. Politica e religione per un unico sogno, “La Stampa” 15 agosto 2023).
Alessandro Cortesi op
XXI domenica tempo ordinario – anno A – 2023
Is 22,19-23; Rm 11,33-36; Mt 16,13-20
“gli porrò sulla spalla la chiave di Davide, se egli apre, nessuno chiuderà…”. Il profeta Isaia legge un evento avvenuto al tempo del re Ezechia: il re sostituisce un dignitario di corte che non era stato affidabile e ad un altro affida le chiavi: sono il simbolo di autorità e colui a cui sono affidate è chiamato a rendere conto e ad esercitare una funzione di responsabilità con giustizia, ad essere custode del popolo: “sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda”.
Tale riferimento è ripreso nel vangelo di Matteo (16,19) nel dialogo tra Gesù e Pietro in cui Gesù affida a Pietro un compito nella comunità: “a te darò le chiavi del regno dei cieli… “.
Questo gesto è posto nel quadro del dialogo tra Gesù e i discepoli che al centro ha la domanda: ‘La gente chi dice che sia il figlio dell’uomo?’ È Simon Pietro a rispondere: ‘Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente’. Riconosce così che Gesù è messia e in lui vede un rapporto unico con il Padre. Pietro però deve riconoscere che tale sguardo è un dono che gli viene dall’alto, dovrà scoprire che il suo rapporto con Gesù non è frutto di sua capacità o potere, ma unicamente dono. E solo a questo punto Gesù affida a lui un compito in rapporto alla comunità: lo indica come roccia (Kefa) su cui la comunità è edificata. La base su cui vive la comunità di Gesù è il dono di vita e rivelazione del Padre, che apre a rimanere nella attesa e nell’abbandono a lui. È affidamento di una responsabilità.
Pietro dovrà anche comprendere che non è sufficiente conoscere qualcosa di Gesù: la domanda ‘voi chi dite che io sia?’ richiede di intraprendere un cammino. E’ invito a conoscere Gesù non nella definizione di una identità teorica, ma in un coinvolgimento della vita, nel seguirlo sulla via da lui percorsa. Pietro fatica ad accettare tutto questo, anzi si ribella. La sua idea di messia è quella di una figura che comanda e si impone con un potere. Gesù invece non è un messia che intende avere un dominio: la sua via è la fedeltà al Padre, la via del dono e della debolezza fino alla croce e per questo incontrerà la sofferenza e la morte. Qui si innesta la simbologia di legare e sciogliere. A Pietro non è affidato un potere da tenere come privilegio ma è chiamato a tenere vivo il senso di questo dono: dovrà custodire la consapevolezza del dono del Padre e seguire Gesù come suo testimone: e così dovrà fare la comunità insieme con lui.
Il vangelo di Matteo pone particolare attenzione alla comunità che segue Gesù e la indica come ‘convocazione’ / chiesa. Nella vita di questa comunità si dovrà ‘legare e sciogliere’. E’ questa la funzione di interpretare nelle diverse situazioni ciò che si deve tenere e ciò che si deve lasciare. E’ il faticoso percorso di discernimento e di scelta, che tutti coinvolge nella comunità insieme. Nella comunità sarà necessario continuare lo sforzo di accogliere la volontà di Dio interrogandosi nel cammino e cercando quale è la volontà di Dio in rapporto alla via seguita da Gesù.
Nel libro dell’Apocalisse nella sezione delle lettere alle chiese si legge: “All’angelo della chiesa di Filadelfia scrivi: Così parla il Santo, il Verace, colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre” (Ap 3,7-13). Il versetto di Isaia è richiamato in rapporto a Gesù Risorto. E’ lui il vivente che guida le comunità disperse con la sua parola. E’ il Messia Colui che ha la chiave di Davide ed è una chiave che apre percorsi di vita.
Alessandro Cortesi op