Pisa porta san Ranieri donne al sepolcro
Mt 28,1-10
Matteo situa la visita delle donne alla tomba di Gesù all’interno di due passaggi in cui ha rilievo la questione di una guardia al corpo di Gesù. Matteo vede questo come iniziativa di sommi sacerdoti e farisei che si recano da Pilato riconoscendolo come ‘Signore’. Gli riportano le parole di Gesù indicato come quell’impostore, falso messia: ‘Dopo tre giorni risorgo’. E chiedono di ordinare che la tomba sia assicurata fino al terzo giorno perché i discepoli non vengano a rubarlo e poi dicano ‘E’ risorto dai morti’. Pilato risponde ‘avete una guardia: andate ad assicurare come sapete’ (Mt 27,62-66).
Dopo la visita delle donne e dopo gli eventi al sepolcro (Mt 28,1-10) Matteo inserisce la scena in cui quelli della guardia riferiscono le cose accadute ai sacerdoti e questi diedero molti soldi, sicli d’argento, ai soldati per dire: ‘i suoi discepoli sono venuti la notte a rubarlo mentre noi dormivamo’ (Mt 28,11-15)
Si tratta di un inquadramento che presenta una lettura polemica di Matteo in rapporto agli eventi al sepolcro: forse il racconto della tomba vuota era stato criticato come un’invenzione dei discepoli. Il racconto di Matteo diviene una sorta di risposta a tale screditamento: in esso compare come i sommi sacerdoti che dovrebbero essere testimoni della Legge e della unicità di Dio d’Israele, riconoscano come ‘signore’ proprio Pilato rappresentante del potere politico. E d’altra parte si coglie la lettura di Gesù come un impostore, falso messia.
Al centro di questa inclusione relativa alla ‘guardia’ di controllo, sta la narrazione della visita alla tomba. Matteo parla di due donne che si recano al sepolcro all’inizio del primo giorno della settimana. Esse non portano oli aromatici per ungere il cadavere, come nelle altre narrazioni sinottiche di Marco e Luca, data la presenza di guardie, ma si recano al sepolcro ‘per vedere’, sottolinea Matteo. La loro è una testimonianza che si pone nel seguire Gesù per vedere, così come sempre Matteo aveva ricordato con insistenza anche nel racconto della passione: “Vi erano là anche molte donne che osservavano da lontano. Esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo” (Mt 27,55), “Lì sedute di fronte alla tomba c’erano Maria di Magdala e l’altra Maria” (Mt 27,61). Proprio perché hanno visto sono testimoni, ma anche il loro vedere racchiude un sguardo che diviene disponibile ad un vedere nuovo, perché cerca di andare in profondità e rimane soprattutto fedele nella passione e nel momento della morte. Nella versione di Marco le donne per strada si interrogano su chi potrà rotolare via la tomba all’ingresso del sepolcro. In Matteo ci troviamo di fronte ad una presentazione di fenomeni descritti con linguaggio apocalittico che accompagnano l’arrivo delle donne: tra di essi il rotolamento della pietra presentato non come già avvenuto ma in diretta. “Ed ecco avvenne un grande boato: infatti un angelo del Signore, sceso dal cielo e avvicinatosi, fece rotolare via la pietra e vi si sedette sopra”. Il boato è lo scuotimento, che Matteo indica anche al momento della morte di Gesù (Mt 27,51). Ma è anche lo scotimento che era avvenuto al momento dell’arrivo dei magi a Gerusalemme, uno scuotimento che aveva portato turbamento al re Erode e a tutta Gerusalemme. In un quadro così di contrapposizione tra la paura di chi non si lasciava mettere in cammino da nessuna stella e da nessuna luce e la grande gioia che i magi provarono al vedere la stella e nel condurre il loro cammino.
Il terremoto ha anche un significato connesso al giudizio, al momento in cui Dio annienta la realtà della morte. E’ un segno di rivelazione di un intervento di Dio. E’ elemento è proprio dell’apocalittica, segno del rivelarsi di Dio che entra nella vicenda umana e la cui rivelazione è descrivibile solamente con segni che dicono la potenza e lo sconvolgimento degli elementi. Matteo indica la presenza di un interprete di quanto sta accadendo: è la figura di un angelo, figura che porta un messaggio di Dio. Marco nel suo racconto vede l’interprete nella figura di un giovane che le donne trovano all’interno del sepolcro ed apre loro il significato di quell’esperienza. Matteo presenta invece l’angelo non solo come interprete ma anche con un ruolo attivo perché è lui che fa rotolare via la pietra e vi si siede sopra. Nelle visioni della manifestazione di Dio ricorre il motivo del colore della veste e del volto. Secondo Daniele Dio che siede sul trono ha una veste bianca come neve (Dan 7,9) e il volto del figlio dell’uomo è come la folgore (Dan 10,6). L’aspetto dell’angelo rinvia alla descrizione del corpo trasfigurato di Gesù che Matteo aveva presentato nel racconto della trasfigurazione: l’aspetto è come la folgore e il suo vestito bianco come la neve (Mt 17,2).
Dietro a queste imagini sta un grande messaggio: il sepolcro, luogo della morte e segno della forza silenziosa della morte, è investito di una potenza più grande che viene da Dio, forza che annienta la morte e dona una vita con caratteri di novità inauditi. Nella vita di Gesù c’è una luce che vince le tenebre della morte che conducono a non temere. E così nella sua morte non rimane prigioniero del buio ma l’azione di Dio lo costituisce ‘figlio di Dio con potenza nello Spirito di santificazione’ (Rom 1,3-4).
Le parole dell’angelo riprendono quelle del ‘giovane’ di Marco: ‘Non temete voi’ innanzitutto. E’ un invito a non temere in contrasto con lo scotimento che aveva preso i soldati: ‘per timore di lui le guardie tremarono e divennero come morte’. Si fa vivo un contrasto tra il terrore e una nuova fiducia, tra la vita segnata dall’amore e le guardie sottomesse ad un potere che teme e che divengono come morte. L’annuncio dell’angelo richiama la ricerca delle donne: ‘voi cercate Gesù il crocifisso’. E’ indicata l’identità di Gesù come il crocifisso che rimane tale anche nella condizione di risorto. Invita a vedere il luogo dove era sepolto, accogliendolo non come prova della risurrezione ma come un segno che rinvia e fa andare oltre.
L’annuncio centrale è che Gesù è risorto e Matteo aggiunge ‘come aveva detto’: E’ rinvio a quei passi del vangelo in cui sono riportate le parole di Gesù di fronte alla sua morte (Mt 16,21; 17,23; 20,19), indicazione della lucidità e libertà con cui Gesù visse la fedeltà fino in fondo al Padre e la testimonianza del regno come vicinanza di Dio ai piccoli. Tutta la sua vita è cammino in cui scoprire il senso della sua morte.
L’angelo invita infine ad annunziare ai discepoli che Gesù risorto dai morti li precede in Galilea. L’annuncio della risurrezione proviene non da un’invenzione umana ma da una parola di Dio che irrompe e apre una speranza nuova. Questo annuncio reca in sé una parola di perdono e dona ai discepoli di tornare là dove Gesù li aveva chiamati, la Galilea, e là dove avevva iniziato a seguirlo trovando in lui la guida della propria vita. E’ ancora una ripresa di quanto Gesù aveva detto ai suoi prima della passione (Mt 26,32).
Matteo prosegue il raconto che in Marco a questo punto trova una brusca interruzione. Riporta che le donne ‘corsero a dare l’annunzio ai discepoli’ ed anche introduce un episodio che non si trova negli altri vangeli, un incontro con il risorto. Il saluto che Gesù risorto offre alle donne è un saluto di pace: ‘Chairete’. “Ed esse avvicinatesi, gli abbracciarono i piedi e si prostrarono a lui”. Gesù le invita ad annunciare ai discepoli e dire ‘ai miei fratelli’ di andare in Galilea. E’ una parola di perdono. Gesù riabilita così i discepoli come fratelli richiamando alla Galilea: “Andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea, e là mi vedranno”.
Alcune riflessioni per noi oggi a partire da questa pagina
Una prima riflessione può sorgere dal pensare alle guardie e alla custodia. E’ un’immagine drammatica se si pensa alle guardie armate che devono custodire situazioni di violenza. In questi giorni non possiamo dimenticare coloro che sono rapiti, di cui da tempo non si hanno notizie in angoli lontani del mondo: in Siria, il gesuita Paolo Dall’Oglio, fedele ad un popolo e alla sua storia, in Cameroun due preti vicentini e una suora canadese. Accanto a loro a custodia uomini armati. Ma anche la custodia armata di situazioni di oppressione come ai check point nei territori palestinesi occupati dove la potenza delle armi quotidianamente umilia la vita di chi deve sottoporsi al controllo, ai capricci di giovani resi onnipotenti dalle armi, per poter recarsi al lavoro, per poter muoversi. In tanti altri luoghi la custodia armata è segno della malvagità di chi vuole opprimere: è l’ingiustizia profonda della violenza e delle armi. Lo scuotimento delle guardie proprio al momento della risurrezione di Gesù ci dice che la debolezza dell’amore è più forte di ogni potere politico che agisce con la sua forza armata. Gesù non può essere tenuto racchiuso nella morte da nessuna forza umana. Ma questo dice anche che non si può sopprimere l’apertura della vita che spinge alla relazione con la forza di armi che generano morte e conservano il sepolcro. Ma anche questo è invito ad una chiesa risorta ad essere testimone di questa forza di vita a vivere questo scuotimento di fronte al potere delle armi avendo il coraggio di fare spazio all’irrompere dello spirito della risurrezione, a disarmare i popoli ma anche i cuori.
Una seconda riflessione è a partire dalla ricerca delle donne. In quel mattino presto si incrociano una ricerca e l’irruzione di un farsi incontro della vita di Dio nella storia umana. E’ la ricerca delle donne che raccoglie le nostre ricerche. E’ desiderio che dice possibilità di continuare una vicinanza. Ed è indicazione della forza di questa apertura. Le parole dell’angelo aprono questo desiderio ad una dimensione più grande: non una ricerca nel luogo della morte, volta ad un passato, ma una ricerca rivolta ad una novità che non viene da noi ma irrompe da altro e altrove. E’ apertura ad una vita trasfigurata: è una vita nello Spirito in Dio.
Questo incontro non può compiersi senza una irruzione di forza dall’alto, non è procedimento o costruzione umana di scoperta, ma si fonda su una testimonianza che proviene da altrove. E d’altra parte questa testimonianza si consegna alla testimonianza propria di chi ha seguito Gesù sin dalla Galilea, alle donne. Se la risurrezione è evento che si dà come novità assoluta e azione di Dio, d’altra parte è un movimento che coinvolge pienamente la ricerca, l’attesa, il percorso interiore di chi ha seguito Gesù. E si radica in quel desiderio che si è fatto cammino nel buio dell’alba per andare a visitarlo.
La parola dell’angelo rinvia all’identità di Gesù, il crocifisso risorto. Gesù ha vinto la morte passando attraverso l’assurdità della morte, non nonostante la morte. Ha reso anche la morte luogo di un dono di sé e consegna al Padre e agli altri fino alla fine. La sua presenza non è nel luogo della morte ma è ‘in Galilea’. La Galilea terra di periferia e di confine, terra di mescolamenti di lingue diverse e terra lontana dai centri del culto. Terra di oppressione e di ingiustizia in cui Gesù passò facendosi solidale con la sofferenza. Ritornare in Galilea è scoprire che la nostra vita è chiamata, aprirsi ad uno sguardo che vede il bene e genera fraternità e sororità, coltivare una relazione e scoprire che la vita, come quella di Gesù – meglio, in lui – può essere vissuta per…data, sparsa, come il pane spezzato e il vino versato delle tavole a cui Gesù sedeva e dell’ultima cena.
Le parole dell’angelo alle donne aprono non a cammini di singoli, isolati nel loro individualismo egoistico o indifferente, ma ad un percorso di comunità. Sono le donne, che l’avevano seguito a divenire annunciatrici di un cammino in cui Gesù si dà ad incontrare in modo nuovo, annuncitarici di un dono di fraternità da scoprire di nuovo. In Galilea inizia una nuova sequela: rinvia alla prima chiamata ma sarà nuova. E i discepoli dovranno scoprire una parola di perdono che li accoglie dopo la loro incomprensione, la loro fuga, il loro abbandono. Ma questo cammino in cui al centro sta la presenza di donne testimoni e la parola della fraternità offerta a tutti è ancora da compiere in una chiesa che dovrebbe riconoscersi non come struttura e organizzazione di controllo e di pianificazione di progetti, ma comunità di testimonianza di accoglienza, di perdono ricevuto e di fraternità.
C’è un rapporto profondo con noi, siamo immersi in questa vita del risorto nell’esperienza della fede: la risurrezione di Gesù apre ad una fraternità in cui leggere la nostra risurrezione. L’esperienza del battesimo è scoperta di una immersione non tanto rituale ma di vita nel partecipare alla morte di Gesù per essere condotti da lui al destarci della risurrezione: “Il punto centrale è questo: normalmente, la morte rappresenta un’interruzione drastica delle relazioni, la morte isola; per Gesù invece, è attraverso la morte che viene aperta una nuova epotenzialmente infinita rete di relazioni. L’effetto della sua morte è l’opposto dell’isolamento. Quindi, se Gesù parla della propria morte come un ‘battesimo’, è naturale che quanti vengono attratti insieme per mezzo della sua morte ed esaltazione esprimano la loro riconciliazione, il loro essere uno con Dio e con gli altri, in un rito di immersione batesimale (…) essere un discepolo, essere con Gesù, è essere battezzati: il battesimo è il modo in cui ogni persona è resa presente a Gesù, crocifiso e vivente, mediante un atto rituale che pone la persona in quel medesimo processo che Gesù ha descritto come ‘immersione’, il processo di oblio di se stessi che conduce alla croce. Dimentica di avere un io da proteggere, rafforzare, consolare e a cui mentire: ascolta l’amara verità che la croce enuncia, e accetta il dolore e il disorientamento di quella illuminazione, nella fiducia che tu non sei odiato né abbandonato; ed emergi dai flutti come nuova persona, ‘vivente per Dio’, che vive con gli occhi fermamente fissi su quel fondamento e meta della speranza che è Gesù. Il credente ora non può essere separato da Gesù e quella presenza ne definisce allora l’identità (cfr. Rom 8,9-17.31-39): viviamo nell Spirito di verità e possiamo chiamare Dio ‘Abbà, Padre’ (Rowan Williams, Resurrezione. Interpretare l’evangelo pasquale, Qiqajon 2004, 92-93).
Alessandro Cortesi op
II domenica di Pasqua anno A – 2014
At 2,42-47; 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31
La sera del primo giorno della settimana: è questo il contesto di un incontro che avviene superando le chiusure di una casa sbarrata e di cuori rattristati e ripiegati. I discepoli sono insieme riuniti e le porte chiuse per paura dei giudei. “Gesù venne, si fermò in mezzo a loro e disse…”. Gesù viene in modo inatteso, e sta in mezzo: raduna in modo nuovo la comunità, discepoli e discepole, e sta in mezzo. E’ lui il centro e richiama tutti, li convoca, coloro che lo avevano abbandonato e tradito, attorno a lui. Gesù mostra mani e costato: è il medesimo crocifisso, non è un altro. Eppure la sua condizione è nuova, diversa. Apre i discepoli ad un cammino: dalla paura alla gioia, dalla chiusura a ricevere il dono della pace, dall’essere prigionieri del loro abbandono all’essere inviati fuori, dal peso della loro indifferenza al sentirsi perdonati e divenire testimoni di un perdono da dare e ricevere. Vedendo il Signore i discepoli furono pieni di gioia. C’è un dato costante in tutti i racconti di incontro con Gesù risorto nei vangeli: l’iniziativa è sua, la sua presenza non è attesa e programmata, il suo venire è azione gratuita e sconvolge. Addirittura il suo venire e il suo farsi ‘vedere’ non è riconosciuto immediatamente.
L’iniziativa è inattesa, è un venire in cui Gesù è protagonista; il Signore è riconosciuto dai discepoli, a loro Gesù affida un compito. Il suo primo saluto è un saluto di pace. La pace è il primo dono della Pasqua: ma è una pace che reca i segni di un dono e che sgorga da ferite, le piaghe delle mani e del costato che Gesù mostra. In mezzo a loro non c’è un altro ma il medesimo crocifisso risorto. Non ci potrà essere incontro con Gesù risorto se non nell’incontro con la via del crocifisso: ed è il crocifisso vivente che raduna ancora una comunità. L’incontro con lui rinvia al suo cammino umano, al porsi l’interrogativo del perché della sua passione e morte.
La presenza di Gesù risorto che supera le porte chiuse e apre cuori impauriti è segno che ogni ragione di paura è stata vinta. Apre ad una gioia che è scoperta di una speranza nella vita: è possibilità di scorgere anche nelle vicende umane più violente e tragiche che quella del male e della morte non è l’ultima parola, che vi è un oltre, che il Risorto è vivente e ha vinto la morte e ogni male.
“Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi… alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo; a chi lascerete andare i peccati saranno lasciati andare”. L’incontro con il risorto non mantiene fermi, ma apre ad andare, è invio, spinta ad uscire, ad entrare nel movimento di Gesù che è sceso e si è chinato a lavare i piedi ai suoi: mandato dal Padre per scendere e servire… I discepoli sono inviati a continuare l’opera di Gesù, il motivo della sua vita. Non fare grandi cose, ma testimoniare un incontro. L’invio inizia da un dono di respiro, da un soffio di vita comunicato. Insufflò su di loro: è dono di respiro che richiama al soffio donato ad Adamo, alito di vita (Gen 2,7) e fa scoprire di essere nuovi, capaci di portare quel soffio accolto. E’ anche evocazione del dono dello Spirito che fa riprendere il cammino ad una comunità dispersa e delusa, così come Ezechiele presentò nella grande metafora della pianura di ossa aride che riprendono vita (Ez 37,9). E’ anche soffio che proviene dalla croce: quello è il momento in cui Gesù consegnò il respiro, lo Spirito, dono dell’ora e della glorificazione. La prima comunità sperimenta una trasformazione profonda, che non è opera dell’uomo: il passaggio dalla paura al coraggio dell’annuncio per portare il perdono di Cristo è dono dello Spirito. Gesù chiede ai suoi di continuare la sua missione. E’ lo Spirito il grande protagonista dell’esperienza della fede e della testimonianza che da Pasqua inizia.
Il risorto affida ai discepoli la missione di perdonare. Alla comunità di chiusa nella paura, a tutti, discepoli e discepole, è donata la libertà di scoprirsi perdonati e la capacità di comunicare un dono. Sono chiamati a portare perdono come dono del risorto a tutti, insieme a quella pace, contrassegnata dalle ferite delle mani e del costato. E’ affidata la capacità del perdono, cioè di fare pace non come equilibrio di terrore o tregua armata, ma come capacità di lasciar andare, sciogliere, rimettere e immettere nella storia forza di riconciliazione. Questo invio va letto in parallelo con Mt 18,21.25: “quante volte devo perdonare al mio fratello che pecca contro di me?”. La comunità di chi crede in Gesù si vede affidata la testimonianza del perdono da dare e ricevere, da portare come segno della pasqua e di speranza rivolta a tutti per dire che per ciascuno c’è possibilità di sperare. Una missione di misericordia ed una missione di perdono dato perché ricevuto.
Gesù mostrando mani e costato accompagna i discepoli a compiere un passaggio dal tradimento e abbandono, al riconoscersi perdonati e all’esperienza della gioia di una accoglienza nuova. Dove per Giovanni il peccato è cecità, incapacità di riconoscere Cristo come luce nella vita, quella luce che illumina ogni persona.
L’incontro con Tommaso pone la questione del credere in rapporto al vedere: ‘abbiamo veduto il Signore’. Ma Tommaso il gemello, non crede. E’ gemello Tommaso, gemello di Gesù perché più vicino a lui nel desiderio di coerenza fino in fondo. E’ Tommaso l’unico che è fuori e non si è fatto rinchiudere nella paura, l’unico che rischia. Ed è gemello anche di ogni credente: è quella di Tommaso una ricerca che conduce ad andare a fondo nel cammino del credere, che pone difficoltà. La sua incredulità è desiderio di entrare in una relazione autentica vivente, è richiesta di toccare il corpo di Gesù. Tommaso solleva la questione della fatica del credere. Il dubbio, la fatica fanno parte della fede. E Tommaso ci pone anche la questione di un credere che non sia solo questione intellettuale, di un sapere asettico o fonte di potere, ma coinvolga il corpo, la vita nella sua totalità. E’ desiderio il suo di contatto e relazione. E il corpo è luogo di relazione autentica. Ma è anche sfida quella di Tommaso ad un credere nel corpo: la nostra vita, il corpo non in una sola dimensione ma con tutti i suoi sensi, in tutti i momenti dell’esistenza fata di cose, di sentimenti, di percezioni, è luogo di relazione con il Vivente. Tommaso è anche esempio di un itinerario del credere che passa dall’esigenza di vedere ad un credere che non richieda evidenza ma si fondi sulla testimonianza: un vedere oltre i segni. ‘vide e credette’. Al centro sta il motivo del credere.
Questa pagina ci può aiutare a cogliere alcune sfide per noi
In questi giorni viviamo minacce di guerra, la situazione dell’Ucraina è carica di tensione, e assistiamo a situazioni di conflitti in cui sembra non ci sia possibilità di soluzione: in Siria, in Sud Sudan, in Repubblica del Centrafrica. Ma c’è una relatà di rapporti violenti che attraversa la nostra quotidianità, in una rincorsa a sopprimere l’altro per avere più spazi e per primeggiare. Il dono del risorto è la pace: sorge la domanda sulla repsonabilità dei credenti oggi. La pace pone in questione il nostro credere come capacità di immettere nella storia l’inaudito di una pace che viene dal crocifisso, che nella sua vita vissuta nella nonviolenza radicale, conrastando ogni forma di potere che schiaccia le persone offre una via per noi. Il suo invio a immettere energie di perdonoe pace nella storia è luogo del nostro credere.
“L’incredulità di Tommaso ha giovato a noi molto più, riguardo alla fede, che non la fede degli altri discepoli” è espressione di Gregorio magno. Tommaso apre la comprensione del percorso del credere come itinerario fatto di domande di dubbi. Ma il suo essere fuori a differenza degli altri chiusi nella paura sollecita a vivere il rischio del credere, la fatica di porre domande scomode, l’esigenza di essere critici e inquieti diventando per tutta la comunità motivo di crescita. Tommaso poi richiama ad vivere un credere che coinvolga la corporeità, che ci faccia scoprire il corpo del Signore nel corpo della Parola, nel corpo del pane spezzato, nel corpo della comunità, nel corpo dei sofferenti e dei feriti.
Il dono del Risorto che si pone in mezzo ai suoi è dono di respiro. Viviamo spesso un credere senza respiro, senza soffio di vita. O affannato in una ricerca di cose da fare, di attività da eseguire, o incapace di respirare l’aria pura da ricercare oltre i luoghi chiusi che ingabbiano la fede e le comunità. Incapaci di accogliere quel soffio che permea la creazione, quel soffio di vita presente in chi non è ripiegato su di sè, il soffio presente nelle parole dei profeti della nostra quotidianità, voci spesso inascoltate. Incontrare il risorto è scoprirsi inviati in una vita in ascolto dello Spirito. Il respiro apre e fa comunicare con una presenza nuova del Signore che non si lascia racchiudere nelle costruzioni di appartenenza culturali e sociali, né nelle costruzioni dottrinali, e precede e ci raggiunge da tutti luoghi e persone in cui soffia desiderio di liberazione, speranza, apertura.
Alessandro Cortesi op