XXI domenica tempo ordinario – anno C – 2022
Is 66,18-21; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30
‘Passava per città e villaggi insegnando e dirigendosi verso Gerusalemme’. Gesù è in cammino, nel suo viaggio verso Gerusalemme. Questa cornice è carica di significati: Gerusalemme è luogo della passione e della morte che si presentano ormai vicine. In questa parte del cammino in cui Luca presenta Gesù che sale Gerusalemme egli inserisce la chiamata di Gesù ai suoi a seguirlo senza incertezze: e qui Luca raccoglie insegnamenti fondamentali indirizzati ai discepoli, a coloro che lo seguono su questa strada, metafora del senso della sua intera esistenza.
Ed è posta una domanda: “sono pochi quelli che si salvano?’. Era questione dibattuta nei circoli rabbinici: c’era chi proponeva una visione esclusiva di una salvezza per pochi, per altri la prospettiva si allargava. Gesù non risponde alla questione, ma sposta il problema, invita ad un coinvolgimento personale di coloro con cui parla. Indica il paragone di una casa dove c’è un padrone che ad un certo punto si alza e chiude e rinvia all’immagine di una porta: indica l’importanza di una fatica, rinvia ad una porta stretta e richiama la voce di chi bussa alla porta dicendo: “Signore, Signore aprici!”.
La porta per entrare nella casa è stretta e per entrarvi è richiesto impegno: è evocato lo sforzo di lotta nella tensione della gara, con i termini del combattimento. Con questi accenni Gesù invita a prendere posizione con responsabilità personale. C’è chi avanza pretese per aver mangiato e bevuto insieme, perché ‘hai insegnato nelle nostre piazze’ ma sono queste voci di chi ha compiuto iniquità nella vita: sono operatori di ingiustizia che dicono ‘Signore signore’. E’ il tipo di religiosità, ostentata e fatta di cose esteriori che non incide sulla vita e non attua scelte di condivisione e solidarietà. C’è una prima indicazione: Il passaggio è aperto per chi compie la giustizia e Gesù critica la pretesa di ‘salvarsi’ in virtù di una appartenenza religiosa e culturale che non coinvolge l’esistenza in scelte di giustizia.
Ma c’è anche una seconda indicazione: la porta è aperta. Richiede un atteggiamento completamente diverso ma offre un’apertura senza confini. Il riferiemnto ala porta stretta è forse a quella porta della città che rimaneva accessibile anche di notte quando le altre porte grandi erano chiuse. E’ infatti spalancata per chi, operando concretamente scelte di giustizia proviene da direzioni diverse e non programmate, da luoghi pensati lontani dalla salvezza: ‘E verranno da oriente e da occidente da settentrione e da mezzogiorno…’. I profeti indicavano che solamente scelte di attenzione ai più poveri sono la via per incontrare Dio: Gesù richiama tale orientamento. E’ la grande visione del profeta dell’esilio (il terzo Isaia) che parla di un grande raduno dei popoli quale progetto di Dio: “Così dice il Signore: Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue…”. La porta stretta è aperta non per chi pretende di avere titoli di appartenenza o privilegi, ma per chi attua un cammino in fedeltà alla via di Gesù attuando solidarietà e giustizia.
Alessandro Cortesi op
La porta stretta: diventare adulti
La porta stretta, è il titolo di un libro che raccoglie le tappe di un lungo viaggio attraverso autori fondamentali della cultura occidentale tra filosofia e letteratura, scritto da Umberto Curi, filosofo, per molti anni docente all’Università di Padova. La metafora della porta stretta del vangelo è utilizzata per indicare il passaggio all’età adulta – il sottotitolo infatti esplicita tale riferimento “Come diventare maggiorenni” – che in ogni esistenza è passaggio complesso, segnato da lotta e fatica, e che non si esaurisce in un momento puntuale ma viene ad accompagnare l’intero itinerario della vita umana.
Il percorso inizia da un’analisi della posizione di Kant riguardo all’uscita dalla condizione di minorità che viene presentata come coincidente con il pensare da sé (Selbstdenken): “Colui che pensa con la propria testa è anche colui che ha intrapreso il processo in cui consiste il diventare maggiorenni”.
Sono poi analizzate proposte che presentano l’uscita dalla minore età in rapporto all’emancipazione rispetto alla figura del padre come Edipo, i fratelli Karamazov, Kant, Freud…
Un’ampia parte del testo offre un esame della posizione cristiana in cui la decisione di seguire Cristo implica un movimento di svuotamento e d’altra parte assume il tratto prevalente del dono. Compare qui il riferimento alla kenosis, lo svuotamento di Cristo nel suo percorso esistenziale che manifesta il suo stare di fronte al Padre in modo nuovo e diviene la via indicata per chi intende seguirlo: “È dunque il Cristo il paradigma di un rapporto in cui il Figlio diventa in senso pieno maggiorenne, rendendosi ospitale alla parola e alla volontà del Padre, spingendo l’obbedienza fino al limite della kénosis”.
Una posizione diversa è quella di Bartleby, lo scrivano nel romanzo di Melville: la sua è una posizione di chi non si pone in modo polemico e non intende entrare in tale fatica, ma vorrebbe rimanere senza peso da sopportare nel suo stare nella vita: “Bartleby non può – né presume neppure lontanamente di farlo – competere con i «campioni» che si sono affrontati nel combattimento relativo ai modi più efficaci per raggiungere la piena maturità. Non intende misurarsi, più o meno polemicamente, con chicchessia. Non ha certezze da esibire, verità assolute da rivelare, convinzioni granitiche a cui rimandare. Vorrebbe semplicemente non portare il peso, essere ex-onerato dal dover fare o dire qualcosa che sia allineato all’orizzonte di senso e alla gerarchia di importanza dei suoi interlocutori”.
Il profilo di Bartleby in qualche modo riassume una situazione esistenziale di questo tempo. Interpreta da un lato una critica alla attitudine guerresca e di opposizione che intende il diventar maturi come uccisione del padre e dall’altro anche esprime l’attitudine di una distanza rispetto alla linea dello svuotamento di sè: “Posto di fronte all’alternativa fra ribellione e kénosis, fra parricidio e obbedienza, Bartleby lascia intendere che è la proposizione stessa del problema – come si esce dalla minorità – a non suscitare il suo interesse. Chiede soltanto di dormire, «con i re e i governanti della Terra». Costoro hanno saputo soltanto costruire per sé «luoghi desolati». Mentre un umile scrivano ci ha donato la forza tranquilla della mitezza. A chi ci incalza per farci diventare maggiorenni ha dimostrato che si può rispondere: «preferirei di no»”.
D’altra parte, di fronte a tale posizione che ha elementi di attrazione in quanto prospetta la via del non decidere a fronte di passaggi esigenti della vita (attraverso una porta stretta), Curi osserva come: “L’alternativa forse più convincente alla seduzione insita nella figura stessa di Bartleby può forse essere individuata nel mito platonico della caverna. A condizione che esso non venga abusivamente interpretato – come è ormai consuetudine consolidata – come metafora di una compiuta teoria della conoscenza, ma se ne valorizzi invece la forte connotazione propriamente drammaturgica”.
Nel mito platonico viene evidenziato come il passaggio da una condizione di prigionia nel buio della caverna ad una libertà che consente di giungere alla luce, non si connota come passaggio che avviene una volta per tutte, ma prigionia e libertà rimangono intrecciate. Il dramma apre a considerare come il passaggio alla maturità si attua in un continuo scontro:
“La simultanea compresenza della cecità e della chiaroveggenza, del vedere e del non vedere, sia all’interno sia all’esterno della caverna, spiega per quale motivo mai, in nessun momento, neppure una volta che sia uscito dalla dimora sotterranea e abbia potuto fissare lo sguardo direttamente sul sole, mai il prigioniero sia in pace, ma piuttosto debba costantemente lottare, e dunque sia infine destinato a ritornare sottoterra per sviluppare un ancor più duro combattimento. La paidéia non solo non affranca definitivamente dalla necessità del conflitto: essa si limita a modificare i termini e le condizioni in cui si svolge una battaglia che resta inconcludibile. Perché anche questo scontro è, come la coppia cecità-chiaroveggenza, ineliminabile dalla anthropíne phýsis”.
Lo scontro è sempre presente e con esso la fatica nel passare continuamente dalla cecità alla luce. C’è una forza che conduce ad essere nella caverna, l’essere gettati nella vita senza uan propria decisione, ma anche è una forza esterna che può aprire a sciogliere lo sguardo verso la luce: è forza offerta da qualcun altro che ha vissuto il percorso di scioglimento di legami e del volgere lo sguardo alla luce ed aiuta altri a liberarsi e a compiere quel percorso che non si conclude: “dolore e cecità sono destinati a perdurare e a diventare ancora più intensi, mano a mano che si proceda verso l’uscita dalla dimora sotterranea”.
Il mito della caverna viene così inteso quale immagine del cammino verso la maturità, esigenza di passare da una porta stretta che richiede fatica e lotta e che non è mai concluso nei giorni della vita:
“in quanto possa essere interpretato come metafora del percorso che conduce verso la maturità, il mito ribadisce quanto già si è intravisto nelle stazioni del viaggio fin qui effettuato. Ci dice che la maggiore età non è l’incrollabile punto di arrivo del viaggio, non coincide con uno stato acquisito una volta per tutte. Ma che la nostra vita è, nel suo insieme, caratterizzata da un pólemos inesauribile, dal quale non si esce mai definitivamente vincitori una volta per tutte”.
Il riferimento evangelico alla porta stretta assume quindi possibilità di interpretazioni ampie e nuove se intesa come metafora di un percorso che implica sempre transizione, passaggio, che richiede decisione insieme al peso di dolore e incertezze. “Ciò a cui, presto o tardi, qualunque fase della vita, si è posti di fronte, è la necessità di una scelta, non limitata ad ambiti circoscritti, ma tale da coinvolgere totalmente noi stessi, la nostra stessa più profonda identità”.
Alessandro Cortesi op
XXII domenica tempo ordinario – anno C – 2022
Sir 3,17-18.20.28-29; Eb 12,18-19.22-24; Lc 14,1.7-14
“Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso.
Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore”.
Il libro di Ben Sira, sapiente che scrisse il suo libro agli inizi II secolo a.C., fu tradotto dal nipote nel 132 circa: ricordando gli insegnamenti del nonno indica la via per vivere in fedeltà al Signore. In un tempo di prova per la fede e persecuzione lo scritto è indicazione di sapienza per non smarrire la consapevolezza della presenza del Signore nella vita, nel creato (cfr Sir 42,15-43,33) e nella storia (44,1-50,29).
L’attitudine fondamentale del sapiente sta nel percepire come tutto proviene da un dono di Dio: da qui l’invito a coltivare un senso di umiltà e percorrere i sentieri della mitezza. Sono le attitudini di chi rimane aperto al dono di Dio nella gratitudine, consapevole che ogni grandezza umana non può essere considerata possesso e ogni vanto non ha senso. Così il rapporto con gli altri va vissuto con la mitezza che è lo stile di Dio.
Anche Gesù offre insegnamenti a partire dal suo osservare il quotidiano. Vedeva come gli invitati sceglievano i primi posti ad un banchetto: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto…”.
Gesù guarda chi sta agli ultimi posti e a chi rimane senza posto. E critica la corsa a prendere i primi posti ma anche ogni pretesa di essere più importante degli altri.
Gesù propone un capovolgimento della logica di affermazione della grandezza umana e della competizione. Propone un cambiamento radicale e chiede di vivere i rapporti secondo un altro orizzonte, nella fiducia che “quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. E’ la fiducia di intendere la propria vita al cospetto di Dio che pronuncia la parola ‘amico’ accogliendo tutti.
Gesù non offre solamente un invito di contrasto all’affermazione e all’l’arrivismo, fondati sulla pretesa di una propria grandezza. Il messaggio profondo della parabola riguarda l’annuncio del volto di Dio. E’ ‘colui che ti ha invitato’ ed è l’unico che può dire ‘amico’. E’ il messaggio della grazia e della amicizia del Dio che chiama ‘amici’ i suoi commensali. Da qui sgorga la responsabilità di vivere nella propria vita la testimonianza di questa scoperta: “Quando offri un pranzo o una cena… invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti”. Gesù propone ai suoi di accogliere e condividere con chi sta agli ultimi posti e sperimentare la gratuità di un amore di Dio che chiede di essere tradotto in concreti gesti di condivisione gratuita. Invita così a chiamare ‘amici’ tutti coloro da cui non si può avere contraccambio: lo stile di Dio è mitezza gratuità.
Alessandro Cortesi op
Mitezza
Norberto Bobbio scrisse una breve riflessione in un momento di passaggio della sua vita, quando manifestò il suo orientamento a distaccarsi dalla politica scorgendo nella nuova situazione creatasi in Italia alla fine degli anni ’90 una nuova fase che esigeva “un salto di qualità troppo alto per le sue gambe”.
Da un lato fu una presa di distanza dalla politica e proprio in tale frangente egli propose un approfondimento sulla virtù della mitezza che per un verso egli presentava come la virtù più antipolitica, e dall’altro proprio in questa riflessione egli propose una base indispensabile per la convivenza.
Nell’Elogio della mitezza il filosofo torinese distingue virtù forti e virtù deboli con l’osservazione che la mitezza è inserita nelle virtù deboli perché è tratto del modo di agire degli offesi, dei deboli, di chi non fa la storia e non lascia traccia del proprio nome. Il mite si distingue da chi è mansueto. Osserva Bobbio: “La mansuetudine, mi spiego, è una disposizione d’animo dell’individuo, che può essere apprezzata come virtù indipendentemente dal rapporto con gli altri. Il mansueto è l’uomo calmo, tranquillo, che non si adonta per un nonnulla, che vive e lascia vivere, e non reagisce alla cattiveria gratuita, per consapevole accettazione del male quotidiano, non per debolezza. La mitezza è invece una disposizione d’animo che rifulge solo alla presenza dell’altro: il mite è l’uomo di cui l’altro ha
bisogno per vincere il male dentro di sé”. (N.Bobbio, Elogio della mitezza, Edizioni dell’Asino, 2019, 21).
Riprende così una definizione di Carlo Mazzantini al proposito: “ la mitezza, egli diceva, è l’unica suprema “potenza” (badate, la parola “potenza” usata per designare la virtù che fa pensare al contrario della potenza, alla impotenza, se pur non rassegnata) che consiste “nel lasciare essere l’altro quello che è”. Aggiungeva: ‘Il violento non ha impero perché toglie a coloro ai quali fa violenza il potere di donarsi. Ha impero invece chi possiede la volontà, la quale non si arrende alla violenza, ma alla mitezza’”(ibid. 22).
Il mite non ha i comportanti dell’arrogante e del prepotente e tuttavia non è un remissivo: “Il remissivo è colui che rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazione. Il mite, no: rifiuta la distruttiva gara della vita per un senso di fastidio, per la vanità dei fini cui tende questa gara, per un senso profondo di distacco dai beni che accendono la cupidigia dei più…”(ibid. 27). Il mite non rinuncia alla lotta, ma rinuncia alla competizione come ambito che non costruisce nulla ma tutto conduce a distruzione: “la mitezza è il contrario dell’arroganza, intesa come opinione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione. Il mite non ha grande opinione di sé, non già perché si disistima, ma perché è propenso a credere più alla miseria che alla grandezza dell’uomo, ed egli è un uomo come tutti gli altri. A maggior ragione la mitezza è contraria alla protervia, che è l’arroganza ostentata. Il mite non ostenta nulla, neanche la propria mitezza” (Ibid. 26). Così pure la mitezza si pone in contrasto alla prepotenza quale abuso di potenza che è ostentata e praticata.
Il mite rigetta la competizione e rifiuta di entrare nella spirale della violenza che genera vincitori e vinti: “Nella lotta per la vita è infatti l’eterno sconfitto. L’immagine che egli ha del mondo e della storia, dell’unico mondo e dell’unica storia in cui vorrebbe vivere, è quella di un mondo e di una storia in cui non ci sono né vincitori né vinti, e non ci sono né vincitori né vinti perché non ci sono gare per il primato, né lotte per il potere, né competizioni per la ricchezza, e mancano insomma le condizioni stesse che consentano di dividere gli uomini in vincitori e vinti” (ibid. 26-27). La mitezza si connota per Bobbio per essere un modo di essere verso l’altro “La mitezza non è né sottovalutazione né sopravvalutazione di sé, perché non è una disposizione verso se stessi ma, come ho già detto, è sempre un atteggiamento verso gli altri e si giustifica soltanto nell’“essere verso l’altro” (ibid. 29). Tale virtù si accompagna con le altre virtù della misericordia e della semplicità: “la mitezza può (non deve) essere una predisposizione verso la misericordia. Ma la misericordia è, come avrebbe detto Aldo Capitini, un’“aggiunta” (ibid. 30).
Bobbio infine suggerisce l’identificazione del mite con il nonviolento e al proposito egli guarda alla lezione di Capitini e di Gandhi: “Avete capito: identifico il mite con il nonviolento, la mitezza con il rifiuto di esercitare la violenza contro chicchessia. Virtù non politica, dunque, la mitezza. O addirittura, nel mondo insanguinato dagli odi di grandi (e piccoli) potenti, l’antitesi della politica”. (ibid. 33)
Alessandro Cortesi op