la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivi per il mese di “dicembre, 2017”

Domenica della Santa Famiglia – anno B – 2017

IMG_1752.jpg(pagina aggiornata il 30.XII.2017 – mi scuso per l’errore – ac)

Gen 15,1-6; 21,1-3; Ebr 11,8.11-12.17-19; Lc 2,22-40

‘Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la legge di Mosè (Maria e Giuseppe) portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore… Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea alla loro città di Nazaret’.

In questo andare e tornare da Gerusalemme, in attenzione alle prescrizioni della legge, è descritto l’incontro nel tempio con il vecchio Simeone e con la profetessa Anna, due anziani presentati come persone in attesa e capaci di accogliere una profonda novità nella loro vita.

La fragilità di una vita appena nata, la freschezza di un bambino entra in una storia segnata dalla vecchiaia e la rinnova. Al centro di questo incontro la chiave per comprenderne il significato sta nelle parole del cantico di Simeone.

Queste sono richiamo ad antichi annunci del profeta Isaia: “Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà” (Is 40,15); “io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino alle estremità della terra” (Is 49,6); “i popoli vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria” (Is 62,2).

Sono memoria di una storia di attesa e di speranza. Simeone non indica qualcosa di futuro che deve venire, ma guarda al presente e si rivolge al bambino che tiene tra le braccia: l’attesa della salvezza ha ora un nome, è qualcuno, è quel bambino, avvolto in fasce, segno debole in cui si rende vicina la debolezza dell’amore di Dio entrata nella storia per cambiare e donare salvezza e speranza per tutti: ‘i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te per tutti i popoli…’

Maria e Giuseppe hanno portato a Gerusalemme il loro bambino per consegnarlo a Dio: sta qui il compimento autentico della legge, una consegna, una restituzione. E quel bambino è luce per Israele e per tutti i popoli. Simeone riconosce in quel volto il compiersi delle promesse sul Messia. Indica il percorso della vita di Gesù: la sua vita sarà sotto il segno della debolezza dell’amore, sarà un ‘segno di contraddizione’. Passando per il cammino della sofferenza e subendo il rifiuto, integrando nella sua via le conseguenze della malvagità umana, e la stessa condanna ingiusta, Gesù ha reso la morte stessa, che contraddice il disegno di vita di Dio, luogo di accoglienza e di manifestazione dell’amore.

La narrazione di Luca è poi attraversata da un corrente di stupore: non solo il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui (cfr. Lc 2,33), ma anche Simeone ed Anna, pur nella vecchiaia hanno occhi che si lasciano muovere dalla meraviglia. La capacità di stupirsi è propria di chi non è chiuso nella propria autosufficienza ma è aperto alla vita come consegna e dono. Accogliere il volto di un Dio che si fa vicino nel segno di un bambino inerme è sfida ad una conversione su come vivere la fede.

Maria e Giuseppe hanno consegnato Gesù il figlio. Abramo, il primo credente, ha vissuto il cammino drammatico dell’affidamento a Dio di Isacco, il figlio della promessa. Ed è questo anche il cammino di fede di ogni persona, di ogni comunità e di ogni famiglia: affidare al Signore la propria vita, i propri figli, perché tutto partecipi al venire di Gesù per servire e dare la vita per tutti, al suo dono di salvezza per tutti i popoli.

Alessandro Cortesi op

IMG_1988.jpg(Pietro Bugiani – Preghiera)

L’equivoco della famiglia

“L’equivoco della famiglia” (ed. Laterza 2017) è titolo di un libro di Chiara Saraceno sociologa torinese, impegnata da anni nella ricerca attorno alle questioni relative alla famiglia e alle sue trasformazioni.

Una prima sottolineatura che il libro evidenzia sin dal titolo è l’equivoco a cui il termine famiglia facilmente conduce. Più che di famiglia si dovrebbe parlare di forme diverse di famiglia, di famiglie al plurale. C’è un carattere dinamico dell’istituto familiare nel tempo. Nelle diverse epoche e contesti la famiglia ha avuto diverse funzioni. “Gli studi antropologici ed etnologici, e da ultimo di storia sociale, hanno mostrato la varietà di esperienze familiari nel passato, contemporaneamente indicando l’impossibilità di ricostruire una vicenda unitaria di trasformazioni, all’interno della quale rintracciare il filo unitario della famiglia” (L’equivoco, 5).

Oggi è difficile determinare un confine alle definizioni e esperienze di famiglia. Se un aggettivo si addice alla condizione delle famiglie oggi è quello di essere s-confinate: “Le famiglie, infatti, si trovano a esistere contemporaneamente nello spazio stretto delle definizioni normative e in quello più indefinito delle relazioni ed esperienze concrete, che spesso eludono le definizioni e i confini normativi” (L’equivoco, 17). Ma le famiglie sono s-confinate anche per la condizione di un’epoca in cui la mobilità geografica impone in diversi modi alle famiglie confini mobili, si pensi alle famiglie migranti, o con coniugi di nazionalità diversa, o alle famiglie in cui qualcuno si trova a vivere altrove per lavoro o studio.

Anche in conferenze Chiara Saraceno ha avuto modo di esplicitare l’idea che non esiste un unico modello di famiglia formulato sulla base di un presunto paradigma naturale. La famiglia è istituzione umana che risente degli influssi della storia e dei movimenti sociali e legata a contenuti e regole che nel tempo hanno subito e subiscono cambiamenti.

“La famiglia esiste dove c’è appartenenza non solo dal punto di vista biologico ma anche affettivo, e dove è presente un radicamento che genera relazione e accoglienza. Tuttavia ciò non si manifesta allo stesso modo in tutte le società umane, acquisendo un significato diverso a seconda del contesto sociale e culturale”. (Leggere la città, Pistoia 2017)

Oggi la famiglia trova espressione soprattutto nella dimensione affettiva e dell’amore. Non sempre non dappertutto è stato così. Lo sposarsi per motivi economici o per accordi di famiglie di origine o per altre ragioni sociali è stato il modo in cui le famiglie si sono formate nel passato.

“Il matrimonio ha attraversato profondi mutamenti nel corso delle ultime tre generazioni, soprattutto a causa dei cambiamenti nelle aspettative per la vita di coppia e l’educazione dei figli: è così passato da un fatto basato sul rispetto e sulla fedeltà coniugale, con finalità quasi esclusivamente riproduttive, a uno dei tanti, possibili modi di convivenza sociale, più legato a un sentimento di amore e di affettività che non alle sole ragioni pratiche” (ibid.)

“Era già avvenuto nei paesi nordici ed anche in Francia e in Germania, dove ormai da diversi decenni il matrimonio aveva perso il ruolo di rito di passaggio, per divenire piuttosto rito di conferma. Non si va a vivere insieme come coppia solo dopo che ci si è sposati. Piuttosto, ci si sposa dopo aver sperimentato qualche anno di vita insieme e sempre più spesso anche dopo aver avuto uno o più figli… siamo quindi di fronte ad un importante cambiamento culturale, oltre che comportamentale, del significato del matrimonio e della sua collocazione nella vicenda della coppia. Rimane da vedere se ciò comporterà anche un indebolimento del matrimonio in quanto tale o solo una sua trasformazione… Considerare, come fa qualcuno, la diffusione delle convivenze senza matrimonio un indicatore di deresponsabilizzazione e incertezza è semplicistico. Al contrario, può essere la conseguenza di una maturata consapevolezza che non basta sposarsi per essere capaci di vivere insieme e lavorare a un progetto di vita comune” (L’equivoco, 19-20)

Proprio il cambiamento culturale relativo alla considerazione della finalità e fondamenti del matrimonio con accento sulla componente della libertà di scelta ispirata dall’amore e in vista di una solidarietà condivisa ha condotto a considerare la possibilità di unione di coppie dello stesso sesso. Da qui il riconoscimento anche giuridico delle coppie omosessuali.

“Le innovazioni giuridiche che in molti paesi hanno portato al riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali, e i dibattiti che le hanno accompagnate in tutti i paesi, sono la prova di quanto le definizioni di famiglia e di coppia siano un costrutto insieme culturale e legale, basato sul sentire condiviso circa ciò che è buono e accettabile nei rapporti interpersonali insieme più intimi e socialmente rilevanti, un ‘comune sentire’ che cambia da una società e da un’epoca all’altra” (L’equivoco, 24)

La vita delle famiglie fa riferimento alla vita e la vita precede e va oltre le configurazioni giuridiche benché il riconoscimento giuridico abbia una particolare importanza:

“C’è famiglia ogni volta che, al di là delle definizioni giuridiche, ci si prende responsabilità duratura l’uno verso gli altri. Responsabilità di accudimento, solidarietà e reciprocità”. (Intervista Bergamonews)

La vita delle famiglie è segnata oggi da violenze nascoste e pervasive, da rapporti nei quali una parte spesso le donne si trovano ad essere vittime di non riconoscimento, di oppressione e di violenze psicologiche e fisiche. I modelli di genere non solo riguardanti la sessualità, ma la divisione del lavoro e i ruoli sociali potenzialmente sono produttori di violenza

“La famiglia ha anche un lato oscuro. L’aspetto oscuro si crea proprio perché la famiglia è un luogo di intrecci affettivi emotivi molto profondi che possono generare anche grandi violenze. Queste violenze hanno una radice anche in modelli di genere maschile e femminile asimmetrici e stereotipati, che andrebbero cambiati” (Intervista Bergamonews)

“La violenza sulle donne è la drammatica punta dell’iceberg di rapporti tra uomini e donne basati su modelli di genere polarizzati, che forniscono grammatiche delle relazioni, mappe di navigazione dei rapporti, falsate, che non aiutano ad affrontare gli imprevisti e le delusioni” (L’equivoco, 144)

Viene indicata la prospettiva di una disponibilità generativa quale via per costruire famiglia nella varietà delle forme, ma nella responsabilità di far spazio e accompagnare altri nel cammino della vita:

“Ciò che dovrebbe importare, dal punto di vista non solo della coesione sociale, ma anche dello sviluppo della capacità umana di ciascuno è che venga coltivata, sostenuta e riconosciuta la disponibilità ad instaurare rapporti di responsabilità e reciprocità duraturi, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni, ma anche di quelle che l’età ha reso fragili. Senza disponibilità generativa, ovvero senza la disponibilità e capacità di dare spazio ad altri, accompagnandoli nel mondo perché possano percorrere la propria strada, non si dà famiglia, qualunque sia la forma che essa prende” (L’equivoco, 9).

Alessandro Cortesi op

 

 

 

Un pensiero di buon Natale…

“In molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio. Quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti, magari a fini politici, anziché costruire la pace, seminano violenza, discriminazione razziale e xenofobia, che sono fonte di grande preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di ogni essere umano (…)

Abbiamo bisogno di rivolgere anche sulla città in cui viviamo questo sguardo contemplativo, «ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze […] promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia», in altre parole realizzando la promessa della pace.

(Francesco, Messaggio per la giornata della pace – 1 gennaio 2018)

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Pieter Bruegel, Censimento di Betlemme – Museo Reale delle Belle Arti BruxellesPieter_Bruegel_the_Elder_-_The_Census_at_Bethlehem_-_WGA03379.jpg

Se non fosse per il titolo – il censimento di Betlemme – a nessuno che guardi questo dipinto verrebbe da pensare che Pieter Bruegel il vecchio in questa tavola a olio abbia inteso rappresentare il viaggio di Maria e Giuseppe da Nazareth a Betlemme, la città di Giuda, per farsi registrare.

Il dipinto respira un’aria che non ha nulla della rappresentazione sacra, non evoca atmosfere religiose, né cerca di ricostruire il mondo palestinese della nascita di Gesù. E’ piuttosto un scena che immerge nel clima delle terre del Nord alla metà del ‘500, segnate da inverni pesanti, da freddo, neve, gelo, ed anche dal lavoro, dalla fatica, dalla povertà di cose di ogni giorno.

Bruegel conosceva la vita dei contadini nelle vaste pianure tra Bruxelles e Anversa, i suoi ricordi gli avevano fatto imprimere nella mente le strutture di case e villaggi, parte di una natura che nell’inverno manifestava il suo aspetto spoglio, indurito dal ghiaccio e imbiancato dalla neve.

Forse non a caso sceglie il momento del censimento quale tema del suo dipinto: in esso in qualche modo scorge il senso del Natale. E lo legge non come evento lontano e romantico, ma quale presenza nascosta, segno da individuare nella trama quotidiana della vita dei poveri, nascosto tra le pieghe della vita, nei suoi aspetti quotidiani, di peso e sofferenza.

Del censimento parla il vangelo di Luca: è una decisione dell’imperatore, il dominatore del mondo che intende contare le popolazioni delle sue terre. Convocare tutti ad essere contati è un modo per verificare misure ed estensione del proprio dominio e per aumentare le entrate delle tasse. Non solo. E’ anche un modo per dire che la vita di ogni persona sottostà ad un potere da cui dipende e da cui è controllata in tutto. Così il farsi registrare è gesto di sottomissione ad un comando che ricorda dipendenza e sudditanza, nel rapporto tra i piccoli e i grandi della terra, tra i servi e i padroni.

Anche Maria e Giuseppe si misero in viaggio per farsi registrare… Così riporta Luca nel suo vangelo. Anche Luca in qualche modo è pittore. Sapeva dipingere con il suo scrivere. Nelle pennellate di questa pagina Luca compone un dittico: da un lato la decisione dell’imperatore – che era chiamato signore e salvatore – e la sua pretesa di dominare tutta la terra, in una articolazione del potere che giungeva a controllare le persone più umili fino alle periferie dell’impero. Dall’altro la storia di una famiglia come tante, sorpresa nel quotidiano dell’esistenza, nel momento di una gravidanza avanzata, costretta a mettersi in viaggio, ad affrontare i pericoli del cammino per farsi registrare, per andare a Betlemme il paese di origine. Una storia piccola contrapposta alla grande storia, una vicenda trascurabile e inosservata agli occhi di chi vede solo le vicende degli imperi e dei grandi del mondo. L’imbrunire di un giorno senza data e i calendari segnati nei libri. In questa piccola storia tuttavia la povertà e piccolezza di un piccolo segno sta al centro e custodisce una preziosità unica. E’ visibile solamente a coloro che vivono ai margini dei regni e della vita, a coloro che si lasciano illuminare da voci di messaggeri inaspettati e si lasciano mettere in cammino.

E Luca parla così di un bambino che prima ancora del suo nascere ha vissuto come migrante, è stato portato in viaggio, affrontando intemperie e precarietà, quando ancora era nella pancia di Maria. E lei e Giuseppe hanno subito il rifiuto di essere ospitati alla locanda, dove erano giunti. Perché non c’era posto per loro nell’alloggio… Ma quel bambino era autentico salvatore, senso della vita e speranza per tutti, nelle fasce del suo morire e risorgere…

Luca scorge nella vita di questi piccoli, Maria, Giuseppe, il loro bambino, un segno di grande luce che sconvolge la grande storia, la contesta e la rovescia: ha rovesciato i potenti dai troni…

Pieter Bruegel è pittore olandese, sensibile alla vita dei villaggi e delle stagioni di terre del Nord, i cui inverni sono segnati dal gelo e dalla neve. Forse leggendo la pagina di Luca ha pensato al freddo di quell’inverno del 1566 in cui iniziò a preparare la tavola ed i colori ad olio per il suo dipinto. E nel suo censimento riporta un racconto che parla del figlio di Dio riportandolo alle dimensioni del quotidiano dei figli degli uomini. L’atmosfera è quella di un tramonto, quando le temperature scendono repentine. Sullo sfondo il sole appare come una palla rossa che sta rapidamente calando all’orizzonte fino a nascondersi in fondo alla pianura, nel momento della giornata che lascia spazio al gelo. Il suo disco si scorge in lontananza rigato dai rami, completamente spogli, di un grande albero piantato davanti alla porta locanda, dove, alla base del suo tronco, si accalca una piccola folla intirizzita.

Mentre le nubi iniziano ad oscurare il cielo e voli di sparuti uccelli lo solcano velocemente, la vita di gente semplice vede il suo dipanarsi nello spazio di un paese imbiancato dalla neve. Un ghiaccio grigio e consistente copre il fiume e gli specchi d’acqua. Vicino alla locanda c’è chi trascina fuori i maiali per ammazzarli e provvedere ad un po’ di cibo. Nei pressi di carri in sosta alcune galline zampettano sul terreno gelato alla ricerca di qualche briciola da beccare, mentre da una grande botte coperta di neve un uomo sta spillando del vino. Uomini e donne sono piegati sul loro lavoro, chi con sacchi o fascine sulle spalle, chi con ramazze, chi cercando qualche verdura zappettando nell’orto gelato. L’intera scena rinvia ad attività quotidiane. E’ un’umanità dolente e in movimento, tra cui non manca la presenza dei piccoli: in lontananza si scorgono infatti profili di bambini che giocano sul ghiaccio. E verso il villaggio da diverse direzioni pellegrini e viaggiatori giungono con sulle spalle pesanti carichi sorreggendosi con bastoni. Avanzano a fatica sulla neve mentre le scarpe pesanti stridono sul ghiaccio. Nelle case del villaggio ancora non sono accese le luci, e i profili sono delineati dai tetti innevati. Il movimento degli uomini appare come un brulicare di formiche, talvolta in fila, talaltra in ordine sparso. Davanti ad alcune porte si affollano gruppi di persone infagottate in mantelli e con coperte sulle spalle o con i cappucci e berretti a coprire il capo. Sono tutti coloro che si sono spostati affrontando la fatica, convocati per il censimento. Ora fanno la fila davanti alla porta della locanda, che appare in primo piano, adulti e bambini, mentre qualcuno sulla soglia è fissato nel gesto di chi riceve un pagamento o legge liste di nomi. E forse un’altra locanda si intravede in fondo al villaggio alla cui porta si accalca una piccola ressa.

In questa scena di ordinarietà, di lavoro e di povertà, in cui il gelo dell’inverno tutto avvolge come un peso, al centro del dipinto si possono distinguere alcune figure di chi sta per giungere, dopo lungo peregrinare, alla porta della locanda. Un uomo piegato cammina recando sulle spalle un sacco e guidando con la mano un asino e un bue. Sull’asino è seduta una donna. S’intravede la sua cuffia bianca lasciata per un tratto scoperta e i tratti del volto. Il capo è contornato dalle falde di un ampio mantello che scende ampio a coprire anche l’asino che la porta. Al centro del censimento Bruegel tratteggia così i profili di Giuseppe e Maria, nel momento in cui stanno giungendo, a sera, alla locanda dopo il lungo viaggio. Come tanti contadini e abitanti dei villaggi che si mettono in fila, nel disordine e nel vociare provocato dalla presenza di molti, in attesa di un tetto caldo, di trovare luogo dove riposare, di avere un po’ di pane e qualcosa di caldo per scaldare le membra intirizzite dal gelo e dalla fatica.

Al cuore di questa scena è posto un segno di amore, quasi un fuoco nascosto, ma anche il segno di una solidarietà. E’ la tenerezza di una donna incinta che si difende dal freddo con una coperta sulle spalle ed è la resistenza di un uomo che guida gli animali. Così Bruegel scorge il venire di Gesù salvatore in mezzo all’umanità. E’ un venire che entra e attraversa il suo tempo, i paesaggi a lui familiari delle terre del Nord. Si confonde con la vita di poveri contadini e con la quotidianità di persone senza nome. Si fa vicino in chi compie un viaggio, nel peregrinare di poveri che si affollano alla locanda di un paese. E’ condivisione di un cammino e della fatica di tanti appesantiti dalla vita. Tutto attorno frattanto la vita quotidiana si svolge nei gesti ordinari, nelle cose di ogni giorno, in un contrasto tra il penoso fare del lavoro e la leggerezza del gioco, tra il correre dei bambini e il penoso avanzare dei vecchi. Il volto del Figlio di Dio ha i tratti umanissimi di un figlio di uomini, nascosto nel grembo di una donna in viaggio.

Partecipe di un cammino, è al cuore di una storia di amore che si dipana anche nei gesti di chi conduce gli animali e di una donna capace di coraggio e forte. Come tanti innumerevoli altri, costretto alle sofferenze e alle prove. Il censimento è atto di un potere che sovrasta, riduce a numero e impoverisce. Giuseppe e Maria recano i tratti di volti piegati, condotti dalla vita a spostarsi, a lasciare il loro paese, ad affrontare con un bambino in grembo, la fatica di un viaggio nella morsa del gelo. Sono ritratti prima di affrontare la coda alla locanda ove già si stanno accalcano tanti richiedenti, il parapiglia tra la folla e poi il rifiuto e l’allontanamento. Anch’essi respinti e tenuti lontani.

Una storia semplice che reca in sé l’annuncio e la promessa di un volto di Dio sconvolgente e diverso. Non abitante di cieli lontani ma vicino, umanissimo, che s’identifica con poveri paesani in viaggio. E forse Bruegel ponendo al centro della scena una coppia e gli animali suggerisce anche quel rovesciamento che Gesù è venuto a portare. Non il dominio dell’imperatore che ordina il censimento è la forza che regge il destino nella vita, ma quel mistero di amore racchiuso e custodito nella storia di quelle presenze, nel loro affetto, in un amore custodito, e dove anche gli animali, l’asino e il bue daranno il calore della cura, con il loro respiro, a colui che sta per nascere fuori dalla locanda perché per lui non c’era posto…

 

Ti sei lasciato portare

nel cammino

hai conosciuto la tenerezza

di donna innamorata

la fedeltà

di un uomo giusto

compagno che prende e sa portare

capace di accompagnare e

custodire

hai camminato e ancora

cammini

nascosto nella vita

dove c’è il coraggio di

un sì al Dio

che guarda ai piccoli

rovescia i potenti

e innalza gli umili

hai vissuto la tua esistenza

come viaggio

di chi chiede ospitalità

aperto a visitare

ed entri nel villaggio

come poi a Gerusalemme

cavalcando un asino

la tua presenza

è celata

nelle pieghe della vita

amore velato nei nostri amori

nel lavoro di poveri

nella fatica di chi è senza nome

agli occhi dei grandi

ma ha un volto unico

e un nome che mai

sarà dimenticato.

Apri i nostri occhi a scorgere

la visita

del Dio umanissimo

 

Buon Natale 2017

Alessandro

IV domenica di avvento – anno B – 2017

Pulpito-Duomo-di-Barga(Pulpito – Duomo di Barga)

2Sam 7,1-5.8-12.14.16; Rom 16,25-27; Lc 1,26-38

Natale è questione di casa e dell’abitare. L’abitare di Dio in mezzo all’umanità. La casa non di pietre ma di volti.

Davide (2Sam 7,12ss) è il re che aveva avuto il progetto di costruire un tempio a Dio. Natan uomo di Dio gli comunica però che il progetto di Dio è diverso: non sarà lui a costruire una casa a Dio ma sarà Dio stesso a costruire a lui un casato, gli dona una discendenza. La presenza di Dio non è racchiudbile in una costruzione, in un segno di grandezza e di splendore di pietre. si rende vicino nel volto di qualcuno, in una relazione, in un figlio. La casa ha un senso se è luogo di incontro, se reca la presenza di volti e presenze. Una casa per Dio non è questione di costruzioni di pietra o di idee, ma è questione di relazioni, di vita.

Natale è annuncio di un nome. La presenza del messia in Israele è attesa, è sguardo rivolto ad un salvatore e liberatore. La sua vita è in rapporto ad altri, al cammino di tutto un popolo chiamato ad incontrare Dio in un’alleanza che orienta al futuro. Tali attese erano espresse nelle figure del sacerdote e del re. Luca indica che Maria è legata alla discendenza sacerdotale (Lc 1,5) e accenna alle promesse fate al re Davide: “il Signore gli darà il trono di David, suo padre… e il suo regno non avrà fine” (Lc 1,32-33). Gesù è così indicato come il messia, che compie queste promesse. Ha il volto del messia, presenza di liberazione e salvezza per i poveri.

Natale è anche storia di una donna: Maria è la ‘nuova Sion’. Nell’esodo una nube copriva la tenda. Questa seguiva lo spostarsi dell’accampamento nel deserto (Es 13,21) ed era segno della presenza vicina di Dio e ricordo dell’alleanza. Quella presenza trovò simbolo nel tempio, sulla collina di Sion. Luca rinvia all’immagine della nube per raccontare ciò che Dio ha operato nel venire di Gesù: lo Spirito santo agisce in Maria: “Lo Spirito santo verrà su di te, e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra; e perciò quello che nascerà santo sarà chiamato figlio di Dio” (Lc 1,35). Così a Pentecoste lo Spirito è donato alla comunità radunata. Maria è una tra i ‘poveri di JHWH’, partecipe del resto d’Israele che pone fiducia totalmente in Dio. In mezzo a questo popolo Dio si fa vicino nella vita di Gesù.

Sono così evocate le antiche parole del profeta: “Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele” (Sof 3,12-13). Il ‘resto santo d’Israele’ una piccola comunità di coloro che vivono con fiducia e umiltà davanti a Dio (cfr. Sof 2,3). Maria vive tutto ciò quale attitudine profonda. E’ una fiducia forte e tenera, che non s’impone e sa guardare oltre.

Prepararsi a Natale forse sta solo in questo, lasciare che lo Spirito susciti un cuore aperto per incontrare una presenza… Maria ha vissuto questa ricerca e questo affidamento. E’ la prima credente, è donna che si fa voce dei poveri: ‘ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili’…

Alessandro Cortesi op

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Concerto

Un brano musicale può offrire motivo di meditazione e di sosta nel Natale seguendo il linguaggio proprio della musica: il Magnificat in re maggiore BWV 243 di Johann Sebastian Bach (1685-1750).

Nel 1723 Bach era giunto a Lipsia con l’incarico di Kantor presso la Thomaskirche. La figura del Kantor costituiva uno dei ruoli rilevanti del sistema sociale e scolastico luterano. Il Kantor, spesso dotato di titoli universitari spettava una funzione di insegnamento di varie discipline da quelle scientifiche, a quelle umanistiche e al catechismo, oltre all’introduzione alla musica. Era inoltre direttore del coro della scuola. Il suo impegno prevedeva la composizione di una cantata ad ogni cerimonia festiva e insegnare canto e musica strumentale agli allievi della Thomasschule. Nel primo Natale che Bach trascorse a Lipsia preparò il Magnificat in re maggiore che rimase una delle sue opere maggiori.

E’ una cantata sacra per orchestra, con cinque solisti (due soprani, un contralto, un tenore e un basso) ed un coro a cinque voci. Il testo latino riprende il cantico di Maria del Vangelo di Luca (Lc 1, 46-55).

Maria ringrazia Dio perché ha compiuto “grandi cose”. Lei umile serva è stata guardata con benevolenza e ha potuto generare il Messia. Maria canta l’opera di Dio in rapporto al mistero dell’incarnazione. E si attua così una contrapposizione tra la sua piccolezza e la voce di ‘tutte le generazioni, che la chiameranno beata’. La lode è rivolta a Dio perché ha soccorso il suo popolo e ha mostrato il suo volto di misericordia.

La Cantata è suddivisa in dodici parti. L’inizio è segnato dalla lode Magnificat intonato dal coro. Tra gli strumenti dell’orchestra si distingue il suono squillante delle trombe. L’invocazione ripetuta esprime la lode al creatore ed ha un tono di solennità e di ampiezza nell’avvolgere ogni cosa.

Subito dopo fa seguito il brano Et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo: violini e viole introducono il motivo dell’esultanza. E’ una melodia in cui il soprano solista modula le note della gioia nel cuore di Maria nei confronti di Dio fonte di salvezza, con l’accompagnamento dell’orchestra.

Il terzo movimento – Quia respexit humilitatem ancillae suae – è ancora interpretato dal soprano solista, con l’accompagnamento del suono dell’oboe e basso continuo. Senza interruzioni la cantata prosegue. Omnes Generationes. E’ questo momento corale, in cui in un coinvolgimento di tutte le voci il coro ripete e rimbalza il riferimento a tutti i popoli e a tutti i tempi che riconoscono in Maria la graziosa. Una contrapposizione emerge con forza: Maria umile serva verrà chiamata beata nella storia tutta.

Al riferimento all’umiltà di Maria segue il Quia fecit mihi magna qui potens est et sanctum nomen eius: è questa una parte intonata dal basso accompagnato dall’organo. La solennità del suono dell’organo imprime alle ‘grandi cose’ (magna) una sottolineatura propria con accento all’opera di Dio. E’ una voce maschile a cantare le grandi cose di Dio, evidenziando la forza divina e la santità del suo nome. Organo e basso concludono questa sezione.

Segue un delicato duetto tra contralto e tenore: è un passaggio accompagnato da violini e flauti in cui l’espressione Et misericordia a progenie in progenies timentibus eum viene ripresa in un continuo scambio nel rincorrersi delle voci e nel dialogo tra voci e strumenti.

Interviene poi il coro che sostenuto da trombe e timpani sottolinea l’agire del Signore con potenza Fecit potentiam in brachio suo, dispersit superbos mente cordis sui. Il ritmo è sostenuto, ritmato e rapido. Il cantico di Maria esprime l’agire di Dio che a partire dal passaggio del mar Rosso e in ogni cammino della liberazione ha spiegato la potenza del suo braccio, e ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore. L’intervento delle percussioni sottolinea tale agire che ribalta le pretese umane.

Segue un brano in cui la voce unica del tenore sottolinea il ribaltamento operato da Dio che ha deposto i potenti dai troni e ha esaltato gli umili: Deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles. I violini insieme sottolineano lo stile di Dio che innalza gli umili. Un assolo di flauti e violoncello introduce il momento successivo. Il Magnificat continua in un dialogo condotto tra i suoni vellutati dei flauti e il contralto: si canta l’azione di Dio che guarda agli affamati e manda a mani vuote ricchi (Esurientes implevit bonis et divites dimittit inanes).

Segue una parte in cui il trio di due soprani e un contralto cantano la liberazione di Israele: Suscepit Israel puerum suum. Mentre intervengono gli oboi, è condotto un adagio intenso e meditativo. Basso e tenore si inseriscono a dialogare con le voci femminili con tutti e cinque i solisti coinvolti. Il tono è maestoso e grave nell’evidenziare la parola e la promessa di Dio ai padri: Sicut locutus est ad patres nostros Abraham et semini eius in saecula. E’ ricordata la promessa di Dio ai padri.

A conclusione con la partecipazione dell’intero corpo orchestrale, il coro esegue il Gloria Patri, gloria Filio gloria et Spiritui sancto, lode alla Trinità che termina nella ripresa dell’inizio. La melodia del Magnificat conduce a chiudere il percorso della lode con le parole sicut erat in principio et in saecula saeculorum fino all’ultima parola: un Amen solenne.

Alessandro Cortesi op

 

III domenica di Avvento – anno B – 2017

Pieter Bruegel il vecchio predica di san Giovanni Battista 1566 Museo delle Belle arti Budapest(Pieter Bruegel il vecchio, Predica di Giovanni Battista, 1566, Museo Belle Arti Budapest)

Is 61,1-11; 1Tess 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28

La terza parte del libro di Isaia è opera di uno o più profeti nel periodo dopo l’esilio. Viene ripreso l’annuncio di consolazione e di speranza del secondo Isaia (Is 40-55) profeta della fine dell’esilio che, leggendo gli eventi, indicava la strada di un nuovo esodo.

Dopo il ritorno dall’esilio però l’esperienza dell’ingiustizia e dell’oppressione genera delusione. Il terzo Isaia medita sulla storia come luogo in cui Dio si rivela e propone un annuncio di speranza: nonostante le contraddizioni e il male Dio non abbandona il suo popolo. Il suo agire è come madre: “Come un figlio che la madre consola, così anch’io vi consolerò… (Is 66,13-14; cfr. Is 49,14s). Lo sguardo del profeta si spinge ad indicare un tempo definitivo e finale, annunciando la speranza di cieli nuovi e terra nuova.

Tratto specifico della sua teologia è l’apertura universale: la salvezza comprende tutti i popoli della terra. In un futuro nuovo i popoli apparterranno a Dio che ama di amore eterno: “Li chiameranno ‘popolo santo’, ‘redenti dal Signore’, e tu sarai chiamata ‘ricercata’ e ‘città non abbandonata’ (Is 62,11-12).

Il profeta avverte la chiamata a portare il lieto annuncio ai poveri, il ‘vangelo’ come bella notizia di gioia a chi ha il cuore ferito, vive in condizione di oppresso, è prigioniero. La lieta notizia è annuncio di un tempo di misericordia del Signore. L’intera pagina è pervasa della gioia: il profeta inviato dovrà consolare, versare olio di letizia e canto di lode.

Un tempo nuovo si apre: Israele sarà ‘popolo di sacerdoti’ e anziché umiliazione si vivrà l’esperienza della gioia e la possibilità di ricostruire città abbandonate. Ed anche lo straniero, avrà posto a questa gioia. La pagina si conclude con l’immagine dello sposo che si prepara per incontrare la sposa, rinvio al rapporto tra Dio fedele e il popolo d’Israele. E’ anno di giubileo (Lev 25,8-17) di liberazione degli schiavi, di condono del debito e redistribuzione delle terre. Il profeta si presenta come annunciatore di questo evento, un anno di misericordia del Signore.

La visione si allarga a cogliere la fecondità dell’agire di Dio: al centro sta l’immagine del giardino in cui il Signore fa germogliare giustizia e lode davanti a tutti i popoli. Il dono di vita di JHWH coinvolge Israele e tutti i popoli.

Gesù nel suo discorso inaugurale nella sinagoga di Nazareth, riprende queste parole presentandosi come il profeta inviato ad annunciare il tempo della grazia (Lc 4,16-21).

Anche nella pagina del vangelo i temi centrali sono la gioia e la testimonianza. La figura di Giovanni Battista compare sin dal prologo di Giovanni. Il venire della Parola, luce che illumina ogni uomo è preparata da un testimone: ‘venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce ma doveva render testimonianza alla luce… “

Nel quarto vangelo l’azione del ‘testimoniare’ è orientata alla figura di Gesù, e rinvia ad un’esperienza diretta di incontro con lui. Il battista parla di sé dicendo che non è lui il messia e indica “in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete”.

La sua testimonianza si situa in un’atmosfera di ostilità e opposizione. ‘I giudei’ nel IV vangelo sono simbolo di chi è preoccupato di sé e del proprio potere. Da essi Giovanni Battista viene interrogato con sospetto: le tenebre della presunzione e dell’autosuffi-cienza si contrappongono alla luce. Giovanni dice la sua identità fragile, rivolta ad altro, non autosufficiente: è solamente ‘voce’ … di colui che grida nel deserto: raddrizzate la via del Signore…’ -. Il gesto dell’immersione nelle acque del Giordano, il battesimo da lui proposto, è segno di preparazione ad un intervento di Dio stesso, segno di attesa e di disponibilità ad un cambiamento della vita. Tutta l’attenzione è fatta convergere su Gesù.

Nei tratti del Battista si delinea il profilo del credente che nelle difficoltà vive la gioia del testimone e sta in rapporto con Gesù lasciandosi coinvolgere nella conoscenza di lui che significa incontro e cambiamento della vita.

La gioia è il motivo centrale di questa terza domenica di avvento: è una gioia motivata dall’attesa perché ‘il Signore viene’: “Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto rallegratevi, il Signore è vicino” (Fil 4,4-5).

Alessandro Cortesi op

Nacimiento_de_San_Juan_Bautista_(Artemisia_Gentileschi).jpg(Artemisia Gentileschi, Nascita di Giovanni Battista – 1635)

Testimone di luce

Artemisia Gentileschi, pittrice del XVII secolo, dipinse questa tela a olio nel 1635, mentre era a Napoli. Commissionata dal vicerè di Napoli, il conte duca Olivares, questa tela era parte di una serie di dipinti sulla vita del Battista. E’ un’opera della maturità di quest’artista che come donna visse tutte le difficoltà per affermarsi con le sue capacità di pittrice in un mondo dominato da uomini. Vittima di violenza in giovane età non smise di lottare per realizzare con la sua arte la capacità e la sensibilità propria delle donne. In questo quadro Artemisia offre una sua personale interpretazione della figura del Battista fissando il momento della nascita.

Sulla sinistra in secondo piano nella penombra si scorge la figura di Elisabetta che manifesta nella contrattura del volto la sofferenza del parto appena avvenuto. Vicino a lei una donna che l’assiste e davanti a lei Zaccaria appare seduto, l’ampia fronte stempiata. Chiuso nel suo mutismo, sta scrivendo su di un foglio il nome del bambino. La scena di destra è composta di più presenze, movimentata e viva. E’ il riflesso di una nascita in un tempo e in una ambiente contemporaneo all’artista, nella Napoli del ‘600, all’interno di un palazzo in cui sullo sfondo s’intravede un panorama sui monti, forse allusione al Vesuvio?

Il neonato Giovanni è accudito da alcune donne che sono vestite nelle fogge della Napoli di quel tempo. I loro movimenti denotano la gioia per la nascita, gli sguardi esprimono dialogo e scambio. I gesti esprimono la calma energia di chi sa prestare aiuto con modi forti e fermi nel tenere in braccio il neonato, nel lavarlo con l’acqua calda preparata e nel predisporre la fasciatura con le fasce tenute già tra le mani per avvolgerlo. Il dialogo dei volti parla di una curiosità e interesse attorno al piccolo che tende le mani in segno di aiuto. In particolare l’ancella di sinistra con la mano sotto il mento è fissata in una posa familiare e nello stesso tempo attenta e interrogativa. In quei gesti quotidiani, attorno a quel momento di vita venuta alla luce il dipinto fa emergere una luminosità particolare.

Artemisia offre un’interpretazione personale di un aspetto della figura di Giovanni, riprendendo sì la narrazione dell’infanzia secondo il vangelo di Luca, ma anche tenendo presente la descrizione del Batista che il IV vangelo offre: “venne come testimone per dare testimonianza alla luce”. La luce e l’ombra nel dipinto di Artemisia costituiscono un elemento rilevante che rende affascinante la composizione. Vi è infatti presentato un contrasto profondo tra lo scuro e la chiarità della luce. Ne risultano esaltati i colori degli abiti, le sfumature delle carnagioni, la luminosità degli sguardi.

La nudità avvolta di luce di Giovanni, al centro, tenuto da mani forti, costituisce il luogo del riflettersi di una luce, riverberata dalla camicia bianca dell’ancella inginocchiata sul catino nell’atto di sciacquare, che si riflette sui volti e sugli abiti delle altre donne a lui intorno. Nella sua vita il Battista è testimone di luce, quella luce che illumina ogni uomo e donna e rende i gesti quotidiani della cura luogo in cui scorgere una presenza di luce. L’incarnazione è annuncio che tutto l’umano, la relazione di sguardi e parole, i gesti del far crescere, la corporeità sono luogo di incontro con Dio. Battista è testimone di questa luce che illumina ogni volto.

Alessandro Cortesi op

 

 

 

 

 

Gerusalemme, Gerusalemme…

mappa-gerusalemme-madaba(Mosaico della chiesa greco-ortodossa di san Giorgio Madaba – Giordania – VI sec.)

In questi giorni in cui l’annuncio del presidente degli Stati Uniti sul riconoscimento di Gersualemme capitale dello Stato di Israele sta suscitando reazioni diverse e nuovi motivi di conflittualità, una riflessione si fa strada sul senso di Gerualemme quale città non di qualcuno, ma simbolo di un cammino umano universale.

Una analisi politica della situazione è condotta da un attento osservatore delle vicende medio orientali Janiki Cingoli del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (pubblicato sul magazine online Huffington Post), che s’interroga sulle ragioni di tale dichiarazione, tra le quali inserisce la preoccupazione di Trump di distrarre l’opinione pubblica dalle questioni interne americane delle investigazioni sul Russiagate:

“… se si legge bene il testo del suo discorso, si scorgono dei caveat, o meglio dei paletti, che probabilmente gli sono stati suggeriti dai concitati scambi telefonici avuti con i maggiori leader arabi ed europei, oltre che dai suoi collaboratori più impegnati nello sforzo negoziale (…) L’elemento più significativo è la sottolineatura che, con questo riconoscimento, gli Usa non stanno prendendo posizione su alcun aspetto riguardante il negoziato sul Final Status, compresi gli specifici confini della sovranità israeliana dentro Gerusalemme, o la risoluzione delle contestazioni sui confini tra le due parti. Tali questioni, si afferma, sono lasciate al negoziato tra le parti coinvolte. (…)

Il Premier di Israele sa che Trump resta essenzialmente un mercante, e con lui i debiti si pagano. Resta da vedere quale sarà, in concreto, questa proposta di pace. In questi giorni si rincorrono le anticipazioni, si parla di un’ampia porzione del Sinai egiziano, ai confini con Gaza, che verrebbe ceduta ai palestinesi per costruire il loro Stato, in cambio di una striscia della Cisgiordania, di circa il 12%, ove sono concentrati i maggiori insediamenti israeliani; si parla di una proposta di Capitale palestinese ad Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme Est (riesumando così vecchia proposta di accordo proposta nel 1995 dall’esponente israeliano Yosii Beilin e dall’attuale Presidente Palestinese Mahmoud Abbas, allora respinta dalla destra israeliana). Si parla di un quotidiano scambio di Sms tra Jared Kushner e Mbs, il Principe ereditario saudita Moḥammad bin Salmān, per definire i contorni regionali di tale proposta. Bisognerà vedere se alla fine la proposta potrà essere accettabile per il Presidente palestinese Abbas (e la proposta su Abu Dis capitale difficilmente lo sarebbe). E se Netanyahu potrà reggere senza che il suo Governo vada in frantumi. Un’equazione a molte incognite, che solo nei prossimi mesi potrà trovare la sua soluzione”.

Mappa-di-Gerusalemme-1200-ca.-Frammento-di-salterio.-LAja-KB-76-F-5.-Courtesy-Medieval-Illuminated-Manuscripts-Project-Koninklijke-Bibliotheek.-_-National-Library-of-the-Netherlands.jpg(Mappa di Gerusalemme, 1200 ca. Frammento di salterio. L’Aja, KB, 76 F 5. Courtesy Medieval Illuminated Manuscripts Project, Koninklijke Bibliotheek)

In ‘Cose dell’altro mondo’, blog curato dal giornalista e scrittore Riccardo Cristiano si può leggere una riflessione (Gerusalemme, il senso di una città.) che pone la questione del significato di Gerusalemme per un cammino che sin dal principio non è di isolamento e solitudine ma che solo può essere comune. Questa città il cui nome reca in sè la speranza e l’annuncio della pace rimane lo snodo di conflitti che investono popoli e religioni:

“Gerusalemme ha troppi significati, per questo rischia di perdere il suo vero senso. E’ una pietrificazione di pregiudizi, o forse di un’idea, cioè di un’idealismo estraneo a tutti i monoteismi, fatti di greggi, di migranti, non di idee. Gerusalemme così, in un’ottica sana, sta chiaramente lì a indicare il bisogno di tutti e tre i monoteismi di vivere insieme, di non essere soli, abbandonati, separati, isolati dagli altri.
Così Gerusalemme ha un senso, se viene vista come simbolo vivo di un islam che è attratto dalla città di ebrei e cristiani, perché non esiste islam senza ebraismo e cristianesimo, non si può credere nell’islam senza credere anche nell’ebraismo e nel cristianesimo. Gerusalemme recupera il suo senso anche se viene vista e capita come simbolo della persistenza della matrice giudaica nel cristianesimo paolino, universale. E’ di conseguenza Gerusalemme una città piena di senso se vista come segno di un destino comune, che richiede un cammino comune.
Se le religioni prediligono il tempo allo spazio, cioè se prediligono camminare con l’uomo, vivere con lui, nel tempo, nella storia, allora sono chiamate a farlo insieme, come sorelle della famiglia umana fatta di figli di Dio, cioè di fratelli, che hanno nella loro parentela e nella loro diversità il segno della volontà celeste. Ma se le religioni prediligono lo spazio al tempo, cioè il potere, la fortificazione, il possesso, allora non solo si fermano, non camminano più, ma si chiudono, si isolano, non sono più sorelle dell’umanità. I simboli delle religioni non sono più le greggi, le migrazioni, i pastori, ma le caserme. (…)

Ecco che Gerusalemme da simbolo di fratellanza e sorellanza celeste diviene simbolo chiuso di incomunicabilità, di separatezza, di cuori che si fanno di pietra invece che di pietre che hanno un cuore, o che parlano. L’unità di Gerusalemme è solo l’unità del plurimo, del non riducibile, del non assimilabile. (…)

Se c’è un valore eterno oggi evidente a Gerusalemme è quello del tradimento del suo valore fraterno, del messaggio di sorellanza, della sua consapevolezza che vivere da soli è contro la nostra natura e quindi contro il messaggio di quella creazione che è cominciata con la creazione di Adamo e subito dopo dell’altro, o altra, senza la quale la creatura sarebbe morta. Di solitudine”.

Vengono così oggi alla mente le parole del Salmo:

“Se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra;
mi si attacchi la lingua al palato,
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia” (Salmo 136,5-6)

Alessandro Cortesi op

Due testimoni: memoria e gratitudine

Due figure di domenicani che hanno condotto il loro impegno in diversi ambiti, della teologia e della lotta per i diritti umani, hanno concluso il loro cammino terreno.

In modi diversi, in ambiti diversi di impegno, hanno testimoniato la forza liberante del vangelo quale bella notizia per i poveri e hanno dedicato vissuto la loro fede con competenza e occhi aperti in attitudine di compassione con i cammini dell’umanità.

Père Henri BURIN DES ROZIERS

Il primo è Henri Burin des Roziers. Nato a Parigi nel 1930, in una famiglia dell’alta borghesia cattolica parigina. Così egli stesso racconta della sua adolescenza: “Da bambino e adolescente non leggevo molto la Bibbia e non ero un praticante fervente. Tuttavia conservo un ricordo molto forte delle visite alle famiglie povere della regione di Parigi che ho iniziato a fare alla fine dei miei studi secondari, con un gruppo di cristiani. La guerra stava finendo. Nel contatto con queste persone ho avvertito che lo slancio di solidarietà che mi spingeva era profondamente radicato in me. Era qualcosa che toccava la mia fede…”.

E’ poi arruolato nell’esercito francese e prende parte alla guerra di Algeria negli anni 1954-56. Dopo aver conseguito la laurea in diritto nel 1957 entra nell’Ordine domenicano in seguito ad un incontro con p. Congar. Così egli stesso ne parla: “Al ritorno dall’Algeria… grazie all’ottenimento di una borsa di studio mi sono recato a Cambridge per fare il dottorato in diritto. Lì ho incontrato p. Congar … aveva una fede assai profonda, un’immensa apertura di spirito e una grande libertà riguardo all’istituzione. Dopo aver ottenuto il mio dottorato in giurisprudenza tornai a Parigi. Avevo preso una decisione: sarei entrato dai domenicani: I miei genitori ne rimasero stupiti ma accettarono”.

Viene ordinato presbitero a Parigi nel 1963 e diviene assistente della facoltà di diritto negli anni della contestazione. Per più di dieci anni negli anni ‘70 svolge attività come operatore sociale a Annecy, lavorando con immigrati tunisini, lavoratori in piccole fabbriche e vittime di razzismo. Inizia a difenderli come avvocato nel tribunale del lavoro. Ma per il suo impegno a favore di barboni e nomadi è costretto ad abbandonare la parrocchia di Annecy. Proprio nel medesimo periodo l’incontro con alcuni esiliati brasiliani lo rende consapevole della situazione di questo paese latinoamericano. Nel 1978 viene inviato così in Brasile e da subito inizia la sua collaborazione con la Commissione della Pastorale della terra (CPT), organo della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (CNBB).

“Nella regione del ‘Becco di pappagallo’ al sud dell’Amazzonia dove fui inviato dalla CPT presi coscienza della feroce oppressione che i più potenti – grandi proprietari fondiari, politici e rappresentanti della giustizia – esercitavano sui più deboli. Uomini e donne la cui vita valeva quanto un animale. E tuttavia quei poveri, quei prediletti di Dio lottano per la dignità e la giustizia, di fronte ad un sistema che li pone ai margini fino al punto di eliminarli fisicamente”.

Henri opera in Amazzonia ponendo a servizio la sua competenza giuridica nella difesa dei contadini che rivendicano il diritto alla terra. In Brasile circa quattro milioni di ‘senza terra’, sfruttati talvolta nel lavoro schiavo (la condizione per cui sono costretti a lavorare per ripagare la sussistenza che viene loro data), ripongono le loro attese alla fine della dittatura nella riforma agraria. Ma soprattutto in Amazzonia la situazione è particolarmente difficile per il dominio dei fazenderos, grandi proprietari terrieri che impediscono ogni cambiamento dello status quo. Henri Burin s’impegna per la liberazione di contadini imprigionati a causa delle loro proteste e rivendicazioni, o sottoposti a torture per aver occupato terre di latifondi.

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La sua lotta a fianco dei Sem Terra prosegue negli anni. Per la prima volta nel 2000 ottiene la condanna di un fazendero in un tribunale a Belem. Nel 2003 Henri è nominato membro della Commissione nazionale contro il lavoro schiavo. Subisce ripetutamente minacce di morte.

Negli anni, nonostante alcuni risultati positivi, la situazione non ha avuto cambiamenti rilevanti: i proprietari terrieri mantengono con la violenza e l’intimidazione i loro privilegi e la riforma agraria trova difficoltà nella sua attuazione. Henri de Roziers pur sotto la minaccia di morte incombente, e mentre attorno altri impegnati a difendere i Sem Terra, come suor Dorothy Stang nel febbraio 2005, vengono uccisi, continua l’opera di difesa dei più deboli.

Nel 2013 è rientrato in Francia a causa dell’età e delle condizioni precarie di salute ed è morto a Parigi lo scorso 26 novembre all’età di 87 anni.

Negli ultimi anni si soffermò a lungo sulla figura di Bartolomeo de Las Casas “esempio eccezionale di conversione progressiva, paziente, riflessa, ai poveri, a coloro che alla sua epoca erano senza diritti, gli indios dell’America latina, schiavi dei coloni spagnoli”. Ogni giorno meditava sulla parola di Gesù: “Quello che fate a uno di questi piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,31-46)

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In un’intervista a ‘La vie’ nel 2013 dopo aver narrato della sua esperienza elencava alcune indicazioni per la vita, sintetizzando in pochi punti i suoi consigli: “Abbandonatevi a Dio, coltivate il vostro giardino segreto, uno spazio personale dove ritrovarvi, siate coerenti con voi stessi, accettate le differenze, seguite il Cristo”. In particolare l’invito ad essere coerenti con se stessi merita attenzione.

Così egli sviluppa i tratti di tale invito: “Sentire che ciò che si fa è in coerenza con ciò che si pensa e dice, permette di essere in pace con se stessi. Si conosce così la gioia della libertà interiore. E’ fondamentale. Si è spesso prigionieri rinchiusi nei limiti delle convenzioni sociali o religiose. Di fatto ci si sente veramente liberi solamente se si è coerenti con se stessi: La difficoltà è liberarsi dai vincoli. Come fare? Formandosi delle convinzioni e rispettandole”.

Nei medesimi giorni è giunta la notizia della morte di Tiemo Rainer Peters, domenicano tedesco e teologo. Dopo un lunga malattia è morto il 25 novembre 2017 a Münster.

blog20150414-03Era nato il 13 ottobre 1938 a Amburgo. Entrato nell’Ordine domenicano nel 1960 aveva condotto i suoi studi dal 1961 al 1969 nel convento di Walberberg, centro di studi della provincia di Teutonia nella regione della Renania.

Nel 1975 ha conseguito il dottorato a Münster dove aveva condotto gli studi di specializzazione. La sua tesi diretta da Johann Baptist Metz verteva sulla presenza del ‘politico’ nella teologia di Dietrich Bonhoeffer . Peters continuò il suo servizio come docente di teologia, assistente di Metz a Bielefeld e nella Facoltà di Teologia cattolica di Münster. Dal 1979 al 2004 è stato docente di teologia sistematica e dal 1978 alla sua morte ha avolto il compito di assistente ecclesiale di un pensionato a Münster.

Con Johann Baptist Metz, Tiemo Rainer Peters è stato uno degli autori che hanno elaborato la proposta della nuova teologia politica e di una teologia dopo Auschwitz in ambito cattolico.

Ben diversa dalla teologia politica di Carl Schmitt che costituiva una ideologia di Stato tendente al totalitarismo, la nuova teologia politica afferma uno sguardo su Dio che non può essere condotto senza uno sguardo all’umanità e al mondo. A partire dalla sua ricerca su Bonhoeffer, Peters ha maturato la convinzione che la teologia non è fine a se stessa ma dev’essere consapevole di una propria responsabilità nel contesto sociale e politico. Egli stesso si pone nella svolta data da Bonhoeffer alla teologia stessa.

Nella sua collaborazione con Metz, Peters ha potuto sviluppare in particolare una riflessione cristologica dopo Auschwitz assumendo la questione di Dio a partire dalla sofferenza umana. E’ proprio questo il titolo di una raccolta di studi in suo onore pubblicata nel 1998 in occasione del suo 60 compleanno: “Christologie nach Auschwitz. Stellungnahmen im Anschluß an Tiemo Rainer Peters”.

Metz, sulla scia di Karl Rahner, ha approfondito alcune linee fondamentali della ricerca teologica richiamando l’importanza della memoria, della narrazione e della solidarietà mistico-politica quali ambiti della teologia nel contesto contemporaneo. Ha così sottolineato la compassione quale attitudine centrale della fede cristiana. Si tratta di una compassione da vivere ad occhi aperti sulla realtà storica e sociale. Peters si pone nella medesima linea: “Io cerco nella mia attività accademica di lavorare in modo liberante e di rendere possibile un apprendere comunicativo”.

blog20150414-02“I teologi progressisti dopo il Concilio hanno chiaramente dimenticato o almeno trascurato qualcosa: che Dio non è solamente pensabile ma anche deve essere sperimentabile e vivibile; hanno dimenticato che non solo egli viene, ma ha una presenza nascosta; che la fede non solo apre alla riflessione critica, ma anche alla religione vissuta…”.

Peters reagisce contro una tendenza privatistica che egli riscontra nella teologia e nella politica, dando risalto al carattere pubblico e sociale dei contenuti della fede. In tale senso la spiritualità è politica ed ha il compito di impegnarsi nel contesto sempre più globale per aprire le possibilità di una politica capace di riconoscere la dignità di ogni persona umana.

Tiemo Rainer Peters è stato riconosciuto come maestro in sacra teologia nella medesima occasione, il 24 gennaio 2014, in cui un altro domenicano Gustavo Gutierrez ha ricevuto tale riconoscimento dall’Ordine domenicano. Entrambi sono testimoni di due teologie sorelle, la teologia della liberazione e la nuova teologia politica. In modi diversi hanno vissuto la loro ricerca teologica in rapporto alla sofferenza dell’umanità concreta e lasciandosi interrogare dalla passione del mondo, in vista della salvezza e della liberazione.

Alessandro Cortesi op

Per approfondire:

Claire Lesegretain, Le père Henri Burin des Roziers est mort, “La Croix” 28.11.2017

l’intervista raccolta da ‘La vie’ nel 2013: Henri Burin des Roziers: Défendre les pauvres a alimenté ma foi, propos recueillis par Jean-Claude Gerez publié le 29/11/2017

A questo link un’intervista televisiva

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U.Engel, In memoriam Tiemo Rainer Peters (17.10.1938-25.11.2017)

U.Engel, Nachruf Tiemo Rainer Peters

II domenica di Avvento – anno B – 2017

IMG_1689.JPGIs 40,1-5.9-11; 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8

‘Consolate consolate il mio popolo…’. La parola del profeta invita il popolo a sollevarsi e a prepararsi per un ritorno. E’ la fine dell’esilio, della desolazione. Si apre un tempo nuovo, un cammino dai tratti di un secondo esodo. Nel deserto Dio sarà ancora guida e si attuerà un incontro nuovo. Dio è il signore della storia: è vano inseguire altri idoli che si rivelano inconsistenti (Is 41,29). In questo evento di liberazione si apre la comprensione di fede nell’unico Dio signore del creato e della storia: “Così dice il Signore, il re d’Israele, il suo redentore, il Signore delle schiere: Io sono il primo, io sono l’ultimo, oltre a me non c’è nessun altro Dio” (Is 44,6).

Un messaggero annuncia che Dio sta per intervenire e torna a camminare con il suo popolo così come nell’uscita dall’Egitto quando accompagnava gli spostamenti delle tribù di notte e di giorno nella nube e nel fuoco (Es 13,18.21). Si apre ora una ‘via sacra’, diritta come quelle dei templi di Babilonia, nuovo passaggio attraverso il mare. Immagine di liberazione e di novità. Memoria dell’esodo che non deve venir meno e si rinnova in tempi diversi. In essa Dio stesso si fa incontro e il popolo dovrà camminare ancora, con gioia, verso la promessa. ‘Il Signore che viene con potenza’ è il Dio dal volto della tenerezza che raccoglie le pecore madri e guarda gli agnellini. La via del ritorno dall’esilio è cammino di nuovo esodo verso la terra promessa.

All’inizio del suo vangelo Marco: dice subito che Gesù stesso è la bella notizia. L’amore del Padre si fa vicino nei suoi gesti e nelle sue parole. Vangelo è così annuncio di consolazione, e non solo. La bella notizia è un incontro con Gesù, inizio di un cammino per stare dietro a lui, per seguire i suoi passi, su quella strada da lui percorsa.

Nel suo inizio Marco richiama due testi di profeti: annunci del giorno del Signore, e indicazione di un messaggero che prepara la via. Introduce prima di Gesù la figura del Battista. Il suo profilo è descritto come ‘voce’ che prepara una svolta radicale, il giorno del Signore, l’intervento definitivo di Dio. E’ annuncio tutto rivolto ad un altro, ad una presenza vicina: è Gesù il più forte (cfr. Mc 3,22; Lc 11,22) che vince le opere di ‘colui che divide’, e battezza con Spirito Santo. E’ colui che viene a sconfiggere il male e donare lo spirito, dono degli ultimi tempi. Egli ‘viene’ e il Battista lo annuncia con una parola scarna, con lo stile sobrio del profeta del deserto. Al cuore della sua testimonianza sta appello alla conversione.

Sono inviti che si rinnovano: vivere l’incontro con Dio riscoprendo la precarietà e il cammino dell’esodo, ascoltare l’appello dei messaggeri che indicano Gesù come il veniente che lotta contro il male e dona lo spirito. Accogliere la bella notizia di Gesù apre ad un cambiamento della vita.

Alessandro Cortesi op

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Voce nel deserto

Si susseguono, come un gocciolamento da un lavandino rotto, episodi inquietanti di intimidazioni, gesti sguaiati, azioni violente. Sono i tratti di un ritornante fascismo che rispolvera antichi tragici simboli, nega i crimini attuati nella storia, offende la dignità di vittime innocenti di discriminazioni e persecuzione, recupera rituali di gruppo per alimentare arroganza e senso di dominio nella volgarità propria di espressioni e lugubri gesti. Sono le attitudini che si manifestano nelle curve degli stadi, in azioni provocatorie di gruppi e di singoli. Sono i messaggi di razzismo e xenofobia che coagulano nuove aggregazioni alla ricerca di consenso nei quartieri del disagio, nelle aree più degradate, ma anche nelle aree borghesi laddove si diffonde la paura. E la paura è incentivata ad arte da chi ha interesse a sollevare l’allarme sociale. Si rende presente nell’atteggiarsi prepotente, nell’insulto e nello svillaneggiamento, nell’offesa urlata sui social network con pesanti intimidazioni e minacce. Spesso tali manifestazioni vengono minimizzate e addirittura giustificate.

Sta crescendo da tempo in vari paesi europei un diffuso sentimento nutrito di stereotipi, che individua negli stranieri la causa dei mali di società frammentate, che denigra i poveri in quanto colpevoli della condizione di indigenza, che si scaglia contro i deboli, che sostiene forme di esclusione e di scarto scagliandosi contro i più fragili ed afferma in modi nuovi il mito della forza, l’uso della violenza, che riprende gli slogan contro gli ebrei e i rom della retorica nazista oltraggiando simboli e negando i crimini della storia.

Parole e gesti sono usati per intimidire, per impedire a giornalisti di compiere il loro lavoro, per scoraggiare chi è impegnato sul piano dell’accoglienza dei migranti. Anche in Italia si stanno susseguendo episodi in varie città, in situazioni diverse. Assommati gli uni agli altri non costituiscono più momenti isolati e insignificanti, prese di posizione momentanee di esaltati sguaiati. Sono invece da leggere come un sintomo ormai evidente della diffusione di una pericolosa malattia, il ritorno di una attitudine che non è limitata ad un’epoca del passato e chiusa. Il fascismo non è solamente un periodo della storia nazionale dei decenni del potere di Mussolini con i suoi esiti tragici da relegare ai libri di storia: è piuttosto una modalità di intendere i rapporti basata sul dominio, sulla mancanza di rispetto dell’altro, sull’eliminazione della libertà, sul prevalere della forza e dell’arroganza. E’ una malattia i cui germi sono ancora presenti nella nostra società. E il rinascente fascismo si nutre del silenzio di chi non reagisce e vive indifferenza o tacita assuefazione.

Mariapia Veladiano s’interroga con riferimento a fasce sociali, quelle dei più giovani, particolarmente vulnerabili a tale nuovo proselitismo: (Perché i giovani non capiscono la sostanza del fascismo, “La Repubblica” 5 dicembre 2017): “Fascismo è un’esperienza politica, sociale e umana illiberale e violenta. Un problema è che per i ragazzi la sostanza illiberale del fascismo è inimmaginabile. Non tanto perché crescono immersi nelle libertà fondamentali dell’individuo e del cittadino: parlano quando vogliono e di quel che vogliono, si spostano dove li porta il desiderio, si ritrovano, si aggregano e disaggregano. Protestano. Ma soprattutto perché si percepiscono illimitati. Questa libertà di espandersi non conosce il limite dato, ad esempio, dal divieto di turpiloquio, di offesa, di aggressività verbale. Semplicemente dal rispetto dell’altro. È per molti di loro inimmaginabile che tutto non sia assolutamente sempre ovvio nel momento in cui lo pensano buono per se stessi e così è per i loro genitori, per la politica, per la società. E quando un piccolo limite oggettivo si concretizza, come il numero chiuso a scuola o un’assemblea negata per giusto motivo, scatta la rabbia di lesa maestà e la rabbia è buona nemica del pensiero. Quanto alla sostanza violenta del fascismo, anche qui ci si scontra con qualcosa di diffuso che è la profonda accettazione sociale della violenza”.

L’accettazione della violenza costituisce il dato più grave contro cui reagire in modo lucido oggi. In tale propagazione si celano i germi di una malattia che intacca le società nei suoi strati più deboli e in quelli più arroccati sulle proprie sicurezze e si diffonde. A fronte di tutto questo forse è da pensare una reazione in cui la responsabilità diventa impegno sociale. E non solo nelle forme di manifestazioni pubbliche di piazza ma scegliendo con chiarezza l’impegno diffuso e capillare, nei luoghi quotidiani, quelli della scuola, dello sport, del lavoro, e trovando nuovi modi per limitare e annullare quella diffusione che attraversa il mondo della comunicazione virtuale. Mantenere uno sguardo attento a lottare contro il fascismo come attitudine violenta e illiberale è questione che interpella nella capacità di essere testimoni di una buona notizia che narra del sogno di Dio, la possibilità di fioritura di giustizia nei rapporti umani. Voce nel deserto è quella che annuncia la possibilità di scoperta del senso più profondo della vita non nella violenza e nella sopraffazione dei più forti e prepotenti, ma nella capacità di riconoscimento dell’altro e di convivenza nelle differenze. E’ questa una voce da lanciare nel deserto di tante solitudini oggi, per risvegliare sussulti di coscienze che appaiono preda di una nebbia che tutto avvolge e reca con sé violenza e devastazione.

Alessandro Cortesi op

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