(Giovanni Pisano, Madonna col bambino, Museo nazionale di san Matteo – Pisa)
Is 7,10-14; Rom 1,1-7; Mt 1,18-24
Al re al trono Isaia prefigura la nascita di un nuovo re giusto dal nome ‘Emmanuele’ (Dio in noi), un autentico erede di Davide, non come Acaz stesso e i re infedeli che ponevano la loro fiducia in alleanze di imperi più forti.
La dinastia di Davide continuerà e l’Emmanuele sarà esempio di abbandono fiducioso in Dio. Isaia delinea così il figlio di Acaz, Ezechia, come Emmanuele, re con i tratti di pietà e fedeltà a Dio. Questa promessa indica un orizzonte che va oltre (cfr. Is 11,1-16). Dio stesso stabilirà il regno del messia (l’unto, il consacrato) come situazione di pace, oltre ogni orizzonte di spazio e di tempo: ‘grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine’ (Is 9,5-6). Isaia annuncia anche un ‘resto’, un piccolo gruppo che troverà stabilità nell’appoggiarsi nel Dio fedele e solo in lui. “In quel giorno il resto di Israele… non si appoggeranno più su chi li ha percossi, ma si appoggeranno sul Signore, sul Santo d’Israele, con lealtà” (Is 10,20).
Questo testo apre così all’attesa di un futuro in cui si attua la promessa di Dio a Davide in un cammino di popoli. Isaia indica un segno, ed una speranza oltre i confini del tempo: Dio interviene nella storia con segni che indicano il suo disegno di salvezza.
Matteo ha presente questi testi profetici quando scrive il suo vangelo. Nel volto di Gesù coglie il compimento di promesse e attese. L’annuncio dell’angelo a Giuseppe è presentato per far entrare Gesù nella discendenza di Davide. Così è ripreso lo schema classico di un annuncio di nascita: c’è la presenza di un messaggero, la chiamata per nome, l’invito a superare le difficoltà; il rinvio ad un segno e indicazioni su chi sta per nascere (cfr. Gdc 13,1-24).
Lo Spirito Santo è all’opera sin dal momento dell’inizio della vita di Gesù. Un messaggero comunica a Giuseppe di ‘non temere’ e di lasciarsi coinvolgere nell’opera di Dio. Giuseppe giusto, cioè fedele, vive una duplice fedeltà, a Maria a cui è legato e alla chiamata di Dio. Si abbandona nella fede a Dio che lo chiama.
Maria che darà alla luce un figlio, è invitata a scorgere che c’è un’opera dello Spirito santo nella sua vita, accoglie la volontà di Dio sulla sua vita: il suo cuore è spazio aperto oltre gli schemi umani. Come il sonno di Adamo anche il sonno di Giuseppe è luogo in cui opera Dio creatore. E come nel sogno dei magi si attua la guida di Dio vicino. Giuseppe è presentato come uomo giusto, cioè fedele. Nel profilo di Giuseppe si delinea così quello del credente, che vive la fatica del dubbio e l’abbandono della fede. Ed infine prende con sé Maria.
A Giuseppe è affidato il compito di dare il nome a Gesù, nome che significa ‘il Signore salva’. Emmanuele è nel vangelo di Matteo il nome di Gesù: ‘Dio con noi’, nome che riprende le promesse del Dio vicino in tutta la storia di salvezza. In questo nome è racchiuso il senso della vita di Gesù stesso. La salvezza è dono di vita, di perdono, di liberazione ed ha un nome che rinvia ad una presenza. Ed è un nome affidato.
Al cuore delle nostre esperienze sta un’attesa profonda, l’attesa di un nome, di qualcuno che solo può salvare. Quel ‘nome’ sta oltre ogni nostra attesa e possibilità, è dono ed è avvento, venire gratuito di Dio che libera e salva.
Alessandro Cortesi op
(Robert Campin, Trittico di Mérode, 1427, Metropolitan Museum – New York)
La figura di Giuseppe compare, in modo insolito e originale, in una scena di annunciazione secondo lo stile fiammingo: è il trittico Mérode (dal nome degli antichi proprietari) conservato ora al Metropolitan Museum di New York, attribuito alla bottega di Robert Campin. E’ un dipinto databile tra il 1422 e il 1430, periodo che in Italia vede attivi tra altri Masolino da Panicale, Masaccio, Paolo Uccello, Filippo Lippi.
Il trittico, elaborato con pittura a olio, è composto di tre pannelli, quello di sinistra nell’ambientazione di un giardino, quello al centro, con l’angelo e Maria in un salotto e quello a destra nell’interno della bottega di un artigiano con una finestra che affaccia su un panorama cittadino, su un piazza tipica di una città delle Fiandre, in cui si muovono persone prese dalle faccende della vita quotidiana.
Il pannello centrale raffigura la scena dell’annunciazione di Maria posta all’interno di una casa, nel contesto di una stanza in cui al centro sta un tavolo e Maria è raffigurata in posizione seduta a terra.
Un angelo con capelli ricci che scendono sule spalle, con la veste bianca e cintura azzurra da cui spuntano sulle spalle ali colorate con tinte variegate, appare come appena entrato e sembra che stia cercando di attirare a sé l’attenzione di Maria con un gesto di saluto mentre s’inginocchia. Maria, con i lunghi capelli sciolti, profondamente assorta nella lettura di un libro non sembra si sia accorta della sua presenza. L’arredo della sala e i dettagli delle vesti e degli oggetti presenti sono tratteggiati con una particolare cura. Si possono distinguere sullo sfondo un bacile sospeso e un asciugamano che reca i tratti di un velo della preghiera ebraica; Sullo sfondo una finestra con i battenti aperti, ma con un parapetto a grata fa intravedere il cielo e le nubi. Sopra la tavola, di forma rotonda, sono disposti un libro e un rotolo. Sono riferimento alle Scritture e al rotolo di Isaia con le profezie sul messia. Maria appare adagiata a terra con un’ampia veste di colore rosso e trova sostegno su di una panca davanti al camino. Regge tra le mani un libro proteggendolo con un velo che ne indica l’importanza e il valore. Dietro a lei un camino con la parete annerita davanti al quale una tavola traforata funge da protezione del fuoco. In un vaso poggiato sulla tavola è contenuto un giglio fiorito, simbolo di purezza, e su un candeliere una candela che si sta spegnendo fa salire alcune volute di leggero fumo. Dall’alto, attraverso i vetri di una finestra ovale giungono i raggi di una luce che attraversa la stanza e in questa luce compare la figura stilizzata di un omuncolo che regge la croce: è il simbolo della presenza di Gesù nel momento in cui l’angelo giunge ad annunciare a Maria il concepimento. I raggi attraversano il vetro senza danneggiarlo. La candela è spenta da questo soffio dello Spirito che giunge a lei recando una luce più grande di ogni lume terreno. L’atmosfera che regna su questo squarcio di vita quotidiana è quella di un profondo silenzio. Nel silenzio si compie qualcosa di grande, l’irrompere dello Spirito, l’azione di Dio e l’incarnazione del Verbo.
Nel pannello di destra Giuseppe è fissato mentre è al lavoro nella sua bottega di falegname che viene descritya come una stanza attigua della medesima casa. Anch’egli vestito con un abito di colore rsso, come Maria, assorto nel suo lavoro, appare ignaro di quanto sta avvenendo nella stanza vicina. E’ alle prese con una trivella e sta forando una tavola per predisporre una protezione di riparo del fuoco simile a quella che si trova nel caminetto. La bottega è occupata di strumenti di lavoro e sullo sfondo la finestra si apre sulla piazza della città. Ben in vista sono però due elementi che attraggono l’attenzione dell’osservatore, una trappola per topi sul tavolo di lavoro e un’altra trappola esposta al di fuori della finestra su un banco che aggetta al di fuori.
Dietro a questi oggetti sta un significato che il pittore vi ha racchiuso rendendoli chiave di lettura dell’intero trittico e suscitando così l’interesse di chi osserva.
Ma prima di individuare il loro senso si può porre attenzione alla parte sinistra del trittico, ambientata nel giardino che è cinto da mura e che conduce ad accedere con una porta che si apre all’ambiente centrale. Nel giardino sono raffigurati i profili dei committenti. Sono ricchi mercanti di Malines vestiti con abiti eleganti e la donna con il capo avvolto da un velo segno della condizione di donna sposata e un rosario tra le mani.
Lo studio della composizione ha posto in risalto come la figura della donna e quella a lato in secondo piano, di un messaggero che giunge con un cappello di paglia in mano a portare un annuncio – raffigurato con l’abito dei messi comunali di Malines – siano figure aggiunte in un secondo tempo alla composizione. A questo punto si può indicare una possibile spiegazione dell’intero trittico.
Questo fu commissionato all’artista Campin prima del matrimonio del committente e solo a distanza di qualche tempo furono aggiunte da un altro pittore suo discepolo, Rogier van den Weiden, le figure della donna e del messo. La donna è la sposa del committente e il messo forse viene ad annunciare la prossima nascita di un loro figlio. Il dipinto sorge quindi come un ex voto per chiedere la protezione di Maria su questa nuova famiglia. E le sue dimensioni assai limitate (120×64 cm) confermano che era un dipinto non destinato ad una chiesa, ma ad un ambiente domestico in cui si pongono insieme sguardo al mistero dell’incarnazione e sguardo alla vita di una famiglia del tempo.
In tale contestualizzazione si può cogliere come nel dipinto il rinvio all’ambiente della casa e all’intervento di Dio si intrecciano e sono compresenti. La chiave di lettura diviene quell’elemento posto in risalto nella bottega di Giuseppe: la trappola per topi. Secondo un’interpretazione di Agostino infatti la croce di Gesù Cristo è trappola per il diavolo perché nell’umanità di Gesù stava nascosta la divinità che vinse la morte (Agostino, Sermo 263, De ascensione Domini). Tale simbolo diviene così figura della redenzione. Gesù trasse in inganno il diavolo celando la sua natura divina nella natura umana. E nella morte di Gesù si attuò la volontà di Dio di salvare l’umanità (cfr. Gregorio di Nissa, Oratio catechetica magna 24). Così il matrimonio di Maria e Giuseppe è velo che nasconde la realtà profonda dell’intervento di Dio nella vita umana. E’ come un riparo che tiene protetto il mistero della divinità di Gesù nascosta nella sua umanità e nella vita con Giuseppe e Maria nel silenzio di Nazareth. In tale senso è velo: così dal di fuori – dalla piazza – nel rapporto di Maria e Giuseppe le persone possono scorgere solamente un matrimonio umano, ma la loro è vicenda umana che racchiude una realtà più grande e diviene così trappola per il diavolo che viene ingannato. Infatti se si osserva bene l’oggetto che sta sulla finestra della bottega non è simile ad una una trappola per topi, come quella che sta sul banco, ma può essere letta come un letto matrimoniale. In quella casa chi guardava da fuori vedeva un matrimonio ordinario, (Meyer Schapiro, “Muscipula Diaboli,” The Symbolism of the Mérode Altarpiece, “The Art Bulletin” 27, 3,1945, 182-187).
A questa spiegazione si potrebbe aggiungere un proseguimento: il matrimonio di Maria e Giuseppe racchiude un mistero più grande nella loro unione che si dipana nella casa di Nazareth. Ma anche la famiglia dei committenti è toccata dal mistero dell’incarnazione. Nella loro vita insieme e nell’accogliere il messaggio di una nascita partecipano, nel giardino, alla vicenda di quella casa: nella loro unione e nel ricevere la notizia del giungere di un figlio possono cogliere nella trama della loro esperienza il celarsi della visita di Dio, di quell’annuncio che è salvezza per l’umanità e che è opera del Dio umanissimo presente e operante nelle trame della vita umana. E’ la presenza di un Dio nascosto che rinvia ad un cammino nell’andare oltre il velo, nel leggere i segni, nell’entrare nelle profondità del silenzio, nel non cadere nelle trappole di quanto immediatamente appare.
Alessandro Cortesi op
Assunzione di Maria ss. – Messa della vigilia
1Cr 15,3-4.15-16; 16,1-2; 1Cor 15,54-57; Lc 11,27-28
In questa celebrazione della vigilia della festa dell’Assunzione si possono individuare tre motivi di riflessione.
Il primo è il riferimento al segno dell’arca. L’arca è immagine dell’alleanza. E’ il luogo in cui le tavole della legge sono custodite. L’arca accompagna il cammino d’Israele nel deserto e viene trasportata sino alla terra promessa e a Gerusalemme quale segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.
L’immagine dell’arca è presente nella prima lettura: “Davide convocò tutto Israele a Gerusalemme, per far salire l’arca del Signore nel posto che le aveva preparato”. Il salmo 31 canta “Sì, il Signore ha scelto Sion, / l’ha voluta per sua residenza: / «Questo sarà il luogo del mio riposo per sempre: / qui risiederò, perché l’ho voluto».
Questa salita dell’arca a Gerusalemme è un riferimento importante per leggere la presenza stessa di Maria che custodisce in sé un mistero di alleanza e di vita. In Gesù si rende vicino il dono dell’alleanza che rinvia al patto dell’esodo e a tutto il cammino d’Israele. Maria nel suo portare in sé Gesù è così vista come arca dell’alleanza, che tiene insieme l’intero cammino di Israele, lei figlia di Sion, ed apre ad un incontro con il volto di Gesù che rende vicino la presenza dell’Abbà.
Scrivendo alla comunità di Corinto Paolo indica un orizzonte di speranza di fronte all’interrogativo posto dalla morte: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!”. Il dono di grazia derivante dall’offerta di Gesù che ha dato se stesso attuando un amore sino alla fine è aperura di un orizzonte che va oltre la morte ed è liberante da ogni schiavitù della legge.
Il vangelo di Luca riporta un dialogo: una donna della folla rivolgendosi a Gesù gli dice «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!». Ma non si lascia irretire dall’ammirazione di chi lo accosta né dalle lodi che possono denotare una devozione sbagliata. Subito infatti ricorda un messaggio fondamentale a cui richiama tutte e tutti nella comunità. Gesù riconosce madre fratelli e sorelle in coloro che ascoltano e operano in rapporto alla Parola di Dio “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!”. Non si tratta solo di ascoltare ma di operare in scelte concrete di vita perché la Parola possa fare il suo corso.
Alessandro Cortesi op
Domande sul carcere
Festa dell’assunzione è festa di libertà, di redenzione, di compimento dell’umano. A fronte di tale orizzonte le esperienze di contrasto del presente conducono a riflettere su come accogliere il dono di vita nei drammi del quotidiano, laddove è presente la morte e la disumanità e come lasciare spazio a percorsi di vita e di umanizzazione.
“Se un giudice dice «ho fallito, il sistema ha fallito», senza aver paura di piangere pubblicamente lacrime sincere sulla bara di una ragazza di 27 anni morta suicida in cella inalando il gas del fornelletto su cui cucinava, c’è da fermarsi. Per la verità avremmo dovuto già fermarci da tempo a riflettere sulle troppe vite (quasi tutte di giovani detenuti per reati di poco conto) inghiottite dall’enorme buco nero delle carceri italiane, ma neanche i numeri impressionanti, 47 nel 2022, infrangono il muro dell’indifferenza generale” (Alessandra Ziniti, Le scuse del giudice e il fallimento delle carceri, “La Repubblica” 10 agosto 2022).
La lettera aperta scritta da un giudice dopo che una giovane donna si è tolta la vita in carcere raccoglie un grido di sofferenza ed un monito ma anche ripropone la questione del senso della giustizia, della disumanità del sistema carcerario. Vincenzo Semeraro, magistrato da molti anni, nella sua lettera ha scritto «So che avrei potuto fare di più per Donatella, non so cosa, ma so che avrei potuto». “In carcere c’è un’umanità sterminata e le loro storie si assomigliano: sono fragili, fragilissimi, spesso provengono da famiglie altrettanto fragili. Entrano ed escono dal carcere di continuo. Nel caso di Donatella, il problema era il suo rifiuto ostinato a entrare in una comunità di recupero: ho sempre provato a convincerla, non ci sono riuscito. La verità è che è molto più facile entrare in carcere che in una comunità…” (Intervista a Viviana Dalosio, “Avvenire” 9 agosto 2022).
E alla domanda “Perché sente di non aver fatto abbastanza per lei?” così risponde: “Non riesco a togliermi dalla testa l’ultimo colloquio che abbiamo avuto, a giugno. Lei piangeva, raccontandomi dell’errore fatto comportandosi così in comunità. Si scusava, tentava di giustificarsi. Ripeteva di voler cambiare, di desiderare una vita normale: una casa, un lavoro, una famiglia. Mentre la sentivo parlare pensavo che sono le stesse aspirazioni che hanno tutti i giovani alla sua età, mentre quelli tossicodipendenti continuiamo a considerarli diversi. Alla fine della nostra chiacchierata si è alzata stringendomi la mano: «Grazie sai…» mi ha detto. E quelle parole non riesco a scordarmele. Se le avessi parlato dieci minuti in più, se avessi trovato altre parole per confortarla, se avessi tentato un’altra strada forse le cose non sarebbero finite così. Con la mia lettera, consegnata ai suoi familiari, ho voluto far sentire la mia voce, che credo debba essere quella di tutto il sistema: perché se una giovane donna di 27 anni si uccide in carcere è tutto il sistema penitenziario che ha fallito. Io mi metto in prima linea, ma ci riguarda tutti.”
Il succedersi di suicidi nelle carceri è motivo per una riflessione che dovrebbe coinvolgere non solo tutte le componenti che operano negli istituti di pena ma la società nel suo complesso. Il Rapporto sulle carceri italiane pubblicato a luglio dall’associazione Antigone delinea un panorama drammatico: il sovraffollamento medio delle celle è del 112% (ma in alcuni istituti supera il 150%), è raddoppiato il numero degli ergastolani negli ultimi 20 anni e 25 bambini sono in carcere con le loro mamme. Il numero dei suicidi quest’anno è un dato agghiacciante.
L’istituzione stessa del carcere così come è strutturata e pensata quale luogo di pena corporale in cui di fatto si attua una vendetta nei confronti di chi ha commesso reati e solo in forme assai limitate si offrono effettivi percorsi di reintegrazione, di riabilitazione e cambiamento della vita va ripensato alla radice. “La prigione ti condanna a essere solo un corpo. Ma di questo corpo perdi il controllo. Nonostante il passaggio dalla pena come supplizio alla pena come rieducazione sia avvenuto, teoricamente, da ormai due secoli, in Italia la galera infligge ancora pene corporali” (Isabella De Silvestro, Ecco la vera pena corporale, la galera uccide i cinque sensi, “Domani” 6 giugno 2022)
E’ in atto anche una riflessione su abolire il carcere. Il libro dal titolo Abolire il carcere (di Luigi Manconi e altri) è una delle ultime espressioni di tale indirizzo. Elisabetta Zamparutti, componente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, delinea alcune direzioni affrontando il tema su ‘come’ cambiare: «Mettere in discussione il giudicare, in fondo richiamandosi anche al monito biblico sul “non giudicare”, perché occorre trovare forme di giustizia diverse che più che giudicare, condannare, separare, mettere in disparte siano orientate alla riparazione. Certo si deve partire dalla verità, dalla consapevolezza del danno procurato. Più che il sistema del giudizio va concepita una forma di acquisizione della verità che porti a una riparazione. Il carcere è l’espressione più crudele, ovunque ci siano istituti penitenziari, per quanto possano essere evoluti, comunque c’è una componente punitiva prevalente che pregiudica il suo uso a fini rieducativi, nonostante quello che abbiamo scritto nella Costituzione. L’impianto è quello di una giustizia portata a infliggere altro male rispetto al male commesso. Non c’è educazione che possa venire dalla punizione. Il cambio di paradigma deve essere da un pensiero violento a un pensiero nonviolento. Coltivando una concezione nonviolenta il carcere va superato». (…) Non siamo dei pazzi furiosi. Delle strutture di contenimento ci devono essere, ci sono situazioni in cui qualcuno è dannoso a sé stesso e agli altri e lo devi fermare. Quello che non ci deve essere è il preminente ruolo della punizione. Direi il carcere come eccezione e non come regola, non come punizione ma come contenimento. D’altronde, ci sono situazioni in cui ci si rende conto che il diritto penale viene usato per regolamentare problemi sociali, in carcere c’è una grande manifestazione di disagi sociali» (Il carcere è inutile. Abolirlo non è utopia” (Intervista a Elisabetta Zamparutti a cura di Roberto Davide Papini “Riforma” 22 luglio 2022).
Offrendo una lettura del sorgere storico dell’istituzione carceraria ed in riferimento al dettato della Carta costituzionale Luigi Manconi indica che osare vie nuove per pensare la pratica della giustizia all’interno di una società democratica è possibile:
“Realismo e misura impongono di trovare alternative, alla pena detentiva oggi così come all’istituzione carceraria domani. Perché osare è possibile. Sono state le leggi ordinarie, modificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare, a introdurre l’idea che la risposta sanzionatoria dello Stato alla violazione delle leggi penali debba consistere nella privazione della libertà per un determinato periodo di tempo. E un simile concetto non lo si trova da nessun’altra parte e tantomeno nella Costituzione. È diventato senso comune e norma di legge, per una inveterata abitudine, che risale a qualche secolo fa e che è stata legittimata dall’autorità di Cesare Beccaria, preoccupato delle pene efferate con cui si sminuzzavano i corpi nell’Ancien régime. In quel contesto, dunque, il carcere era il male minore: una pena la cui «dolcezza» avrebbe fatto decadere le punizioni più feroci. D’altra parte, anche le antiche usanze, pur se nate come «rivoluzionarie», possono essere abbandonate se non corrispondono più alle domande della società. La nostra Costituzione, in uno dei suoi capolavori giuridico-letterari, dice che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La pena detentiva troppo frequentemente corrisponde di per sé a un trattamento contrario al senso di umanità, al punto da generare il sospetto che essa sia — in sostanza — una pena inumana. E si dimostrerà ancora come sempre la pena detentiva — nella grande maggioranza dei casi — non tenda alla «rieducazione» del condannato, ma costituisca una sua degradazione fino a connotarne tragicamente il destino. D’altro canto, la Costituzione non parla mai di carcere, né di pena detentiva. Anche se i costituenti conoscevano solo il carcere (per averlo personalmente scontato durante il regime fascista) e la pena capitale, in modo saggio e miracolosamente lungimirante non aggettivarono le pene, lasciando campo libero a un legislatore che voglia cambiare radicalmente la fisionomia delle sanzioni penali. Siamo dunque autorizzati a osare”. (Luigi Manconi, Se il castigo è peggio del delitto, “La Repubblica” 26 maggio 2022).
Sono sollecitazioni che ci raggiungono dai drammi del presente e provocare una domanda su come attuare le vie di una giustizia che abbia il volto umano e si ponga nella direzione di riparare le ferite e riabilitare a percorsi di relazioni …
Alessandro Cortesi op