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Riflessioni nella novena di Natale – mercoledì

Dal Vangelo secondo Luca (1,39-45)

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.  Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

“Così lontane di età, di figura. / La giovane – che quasi / è ancora una bambina – ha il fresco viso / dell’innocenza, la tenera luce / del cielo che si specchia in una sorgente. / L’altra, l’anziana, segnata da tante / fatiche ormai e dolori, somiglia un albero / nodoso e storto, piegato dal peso / degli anni e delle bufere. / Eppure son vicine – indicibilmente. / Non solo nel legame di sangue o nell’affetto / dell’abbraccio a cui entrambe si protendono. / Un segreto le unisce, quale mai / da alcuna donna fu condiviso. (…)” (da Margherita Guidacci, Luca Della Robbia Visitazione, dalla raccolta postuma Anelli del tempo 1993)

C’è un segreto al cuore del Natale: è il segreto racchiuso nella visita. Tutto nasce da una visita. Maria scopre che la sua vita è visitata. E si alza e intraprende un viaggio. Nell’ospitalità della visita ha inizio un movimento di risurrezione: si alza e si pone in cammino, si reca a visitare Elisabetta. Dalla visita ha inizio un movimento nuovo di partenza e di uscita. Maria esce dalla sua casa, vive per prima il cammino della fede, fede in Dio e fede nell’umano, fede nel Dio che è respiro dell’umano, che apre agli altri.

Nell’entrare nella casa di Elisabetta si apre ad un dono di gioia e di reciprocità. Elisabetta e Maria scoprono che la visita di Dio è dono di vita che cresce inafferrabile, non a miusra nostra, e si rende presente in modi diversi e facendo comunicare.

La corrente della visita si allarga e ci coinvolge. Siamo chiamati anche noi a lasciarci visitare da Dio, a metterci in cammino, a visitare gli altri, a lasciarci sorprendere dall’inedito. Ogni visita è incontro in cui scoprire un dono. Natale è mistero della visita di Dio che apre a scoprire la vita come cammino di accoglienza che può rinascere ogni giorno. E di rapporti nuovi. Natale è dono di visita che spinge a far proprio il cammino di Gesù: accogliere la visita e recare vita a chiunque ne è in qualche modo privato. E’ festa di speranza al di fuori di appartenenze religiose o culturali (cristiani o no). E’ per tutti coloro che recano nel cuore l’attesa e il desiderio di un cambiamento nel mondo nel segno dell’ospitalità, del convivere nella pace. Oggi siamo chiamati ad accogliere la visita di Dio che ci raggiunge nell’incontro con l’altro.

Alessandro Cortesi op

Assunzione di Maria ss. – Messa della vigilia

1Cr 15,3-4.15-16; 16,1-2; 1Cor 15,54-57; Lc 11,27-28

In questa celebrazione della vigilia della festa dell’Assunzione si possono individuare tre motivi di riflessione.

Il primo è il riferimento al segno dell’arca. L’arca è immagine dell’alleanza. E’ il luogo in cui le tavole della legge sono custodite. L’arca accompagna il cammino d’Israele nel deserto e viene trasportata sino alla terra promessa e a Gerusalemme quale segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.

L’immagine dell’arca è presente nella prima lettura: “Davide convocò tutto Israele a Gerusalemme, per far salire l’arca del Signore nel posto che le aveva preparato”. Il salmo 31 canta “Sì, il Signore ha scelto Sion, / l’ha voluta per sua residenza: / «Questo sarà il luogo del mio riposo per sempre: / qui risiederò, perché l’ho voluto».

Questa salita dell’arca a Gerusalemme è un riferimento importante per leggere la presenza stessa di Maria che custodisce in sé un mistero di alleanza e di vita. In Gesù si rende vicino il dono dell’alleanza che rinvia al patto dell’esodo e a tutto il cammino d’Israele. Maria nel suo portare in sé Gesù è così vista come arca dell’alleanza, che tiene insieme l’intero cammino di Israele, lei figlia di Sion, ed apre ad un incontro con il volto di Gesù che rende vicino la presenza dell’Abbà. 

Scrivendo alla comunità di Corinto Paolo indica un orizzonte di speranza di fronte all’interrogativo posto dalla morte: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!”. Il dono di grazia derivante dall’offerta di Gesù che ha dato se stesso attuando un amore sino alla fine è aperura di un orizzonte che va oltre la morte ed è liberante da ogni schiavitù della legge.

Il vangelo di Luca riporta un dialogo: una donna della folla rivolgendosi a Gesù gli dice «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!». Ma non si lascia irretire dall’ammirazione di chi lo accosta né dalle lodi che possono denotare una devozione sbagliata. Subito infatti ricorda un messaggio fondamentale a cui richiama tutte e tutti nella comunità. Gesù riconosce madre fratelli e sorelle in coloro che ascoltano e operano in rapporto alla Parola di Dio “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!”. Non si tratta solo di ascoltare ma di operare in scelte concrete di vita perché la Parola possa fare il suo corso.

Alessandro Cortesi op

Domande sul carcere

Festa dell’assunzione è festa di libertà, di redenzione, di compimento dell’umano. A fronte di tale orizzonte le esperienze di contrasto del presente conducono a riflettere su come accogliere il dono di vita nei drammi del quotidiano, laddove è presente la morte e la disumanità e come lasciare spazio a percorsi di vita e di umanizzazione.

“Se un giudice dice «ho fallito, il sistema ha fallito», senza aver paura di piangere pubblicamente lacrime sincere sulla bara di una ragazza di 27 anni morta suicida in cella inalando il gas del fornelletto su cui cucinava, c’è da fermarsi. Per la verità avremmo dovuto già fermarci da tempo a riflettere sulle troppe vite (quasi tutte di giovani detenuti per reati di poco conto) inghiottite dall’enorme buco nero delle carceri italiane, ma neanche i numeri impressionanti, 47 nel 2022, infrangono il muro dell’indifferenza generale” (Alessandra Ziniti, Le scuse del giudice e il fallimento delle carceri, “La Repubblica” 10 agosto 2022).

La lettera aperta scritta da un giudice dopo che una giovane donna si è tolta la vita in carcere raccoglie un grido di sofferenza ed un monito ma anche ripropone la questione del senso della giustizia, della disumanità del sistema carcerario. Vincenzo Semeraro, magistrato da molti anni, nella sua lettera ha scritto «So che avrei potuto fare di più per Donatella, non so cosa, ma so che avrei potuto».  “In carcere c’è un’umanità sterminata e le loro storie si assomigliano: sono fragili, fragilissimi, spesso provengono da famiglie altrettanto fragili. Entrano ed escono dal carcere di continuo. Nel caso di Donatella, il problema era il suo rifiuto ostinato a entrare in una comunità di recupero: ho sempre provato a convincerla, non ci sono riuscito. La verità è che è molto più facile entrare in carcere che in una comunità…” (Intervista a Viviana Dalosio, “Avvenire” 9 agosto 2022).

E alla domanda “Perché sente di non aver fatto abbastanza per lei?” così risponde: “Non riesco a togliermi dalla testa l’ultimo colloquio che abbiamo avuto, a giugno. Lei piangeva, raccontandomi dell’errore fatto comportandosi così in comunità. Si scusava, tentava di giustificarsi. Ripeteva di voler cambiare, di desiderare una vita normale: una casa, un lavoro, una famiglia. Mentre la sentivo parlare pensavo che sono le stesse aspirazioni che hanno tutti i giovani alla sua età, mentre quelli tossicodipendenti continuiamo a considerarli diversi. Alla fine della nostra chiacchierata si è alzata stringendomi la mano: «Grazie sai…» mi ha detto. E quelle parole non riesco a scordarmele. Se le avessi parlato dieci minuti in più, se avessi trovato altre parole per confortarla, se avessi tentato un’altra strada forse le cose non sarebbero finite così. Con la mia lettera, consegnata ai suoi familiari, ho voluto far sentire la mia voce, che credo debba essere quella di tutto il sistema: perché se una giovane donna di 27 anni si uccide in carcere è tutto il sistema penitenziario che ha fallito. Io mi metto in prima linea, ma ci riguarda tutti.”

Il succedersi di suicidi nelle carceri è motivo per una riflessione che dovrebbe coinvolgere non solo tutte le componenti che operano negli istituti di pena ma la società nel suo complesso. Il Rapporto sulle carceri italiane pubblicato a luglio dall’associazione Antigone delinea un panorama drammatico: il sovraffollamento medio delle celle è del 112% (ma in alcuni istituti supera il 150%), è raddoppiato il numero degli ergastolani negli ultimi 20 anni e 25 bambini sono in carcere con le loro mamme. Il numero dei suicidi quest’anno è un dato agghiacciante.

L’istituzione stessa del carcere così come è strutturata e pensata quale luogo di pena corporale in cui di fatto si attua una vendetta nei confronti di chi ha commesso reati e solo in forme assai limitate si offrono effettivi percorsi di reintegrazione, di riabilitazione e cambiamento della vita  va ripensato alla radice. “La prigione ti condanna a essere solo un corpo. Ma di questo corpo perdi il controllo. Nonostante il passaggio dalla pena come supplizio alla pena come rieducazione sia avvenuto, teoricamente, da ormai due secoli, in Italia la galera infligge ancora pene corporali” (Isabella De Silvestro, Ecco la vera pena corporale, la galera uccide i cinque sensi, “Domani” 6 giugno 2022)

E’ in atto anche una riflessione su abolire il carcere. Il libro dal titolo Abolire il carcere (di Luigi Manconi e altri) è una delle ultime espressioni di tale indirizzo. Elisabetta Zamparutti, componente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, delinea alcune direzioni affrontando il tema su ‘come’ cambiare: «Mettere in discussione il giudicare, in fondo richiamandosi anche al monito biblico sul “non giudicare”, perché occorre trovare forme di giustizia diverse che più che giudicare, condannare, separare, mettere in disparte siano orientate alla riparazione. Certo si deve partire dalla verità, dalla consapevolezza del danno procurato. Più che il sistema del giudizio va concepita una forma di acquisizione della verità che porti a una riparazione. Il carcere è l’espressione più crudele, ovunque ci siano istituti penitenziari, per quanto possano essere evoluti, comunque c’è una componente punitiva prevalente che pregiudica il suo uso a fini rieducativi, nonostante quello che abbiamo scritto nella Costituzione. L’impianto è quello di una giustizia portata a infliggere altro male rispetto al male commesso. Non c’è educazione che possa venire dalla punizione. Il cambio di paradigma deve essere da un pensiero violento a un pensiero nonviolento. Coltivando una concezione nonviolenta il carcere va superato». (…) Non siamo dei pazzi furiosi. Delle strutture di contenimento ci devono essere, ci sono situazioni in cui qualcuno è dannoso a sé stesso e agli altri e lo devi fermare. Quello che non ci deve essere è il preminente ruolo della punizione. Direi il carcere come eccezione e non come regola, non come punizione ma come contenimento. D’altronde, ci sono situazioni in cui ci si rende conto che il diritto penale viene usato per regolamentare problemi sociali, in carcere c’è una grande manifestazione di disagi sociali» (Il carcere è inutile. Abolirlo non è utopia” (Intervista a Elisabetta Zamparutti a cura di Roberto Davide Papini “Riforma” 22 luglio 2022).

Offrendo una lettura del sorgere storico dell’istituzione carceraria ed in riferimento al dettato della Carta costituzionale  Luigi Manconi indica che osare vie nuove per pensare la pratica  della giustizia all’interno di una società democratica è possibile:

“Realismo e misura impongono di trovare alternative, alla pena detentiva oggi così come all’istituzione carceraria domani. Perché osare è possibile. Sono state le leggi ordinarie, modificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare, a introdurre l’idea che la risposta sanzionatoria dello Stato alla violazione delle leggi penali debba consistere nella privazione della libertà per un determinato periodo di tempo. E un simile concetto non lo si trova da nessun’altra parte e tantomeno nella Costituzione. È diventato senso comune e norma di legge, per una inveterata abitudine, che risale a qualche secolo fa e che è stata legittimata dall’autorità di Cesare Beccaria, preoccupato delle pene efferate con cui si sminuzzavano i corpi nell’Ancien régime. In quel contesto, dunque, il carcere era il male minore: una pena la cui «dolcezza» avrebbe fatto decadere le punizioni più feroci. D’altra parte, anche le antiche usanze, pur se nate come «rivoluzionarie», possono essere abbandonate se non corrispondono più alle domande della società. La nostra Costituzione, in uno dei suoi capolavori giuridico-letterari, dice che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La pena detentiva troppo frequentemente corrisponde di per sé a un trattamento contrario al senso di umanità, al punto da generare il sospetto che essa sia — in sostanza — una pena inumana. E si dimostrerà ancora come sempre la pena detentiva — nella grande maggioranza dei casi — non tenda alla «rieducazione» del condannato, ma costituisca una sua degradazione fino a connotarne tragicamente il destino. D’altro canto, la Costituzione non parla mai di carcere, né di pena detentiva. Anche se i costituenti conoscevano solo il carcere (per averlo personalmente scontato durante il regime fascista) e la pena capitale, in modo saggio e miracolosamente lungimirante non aggettivarono le pene, lasciando campo libero a un legislatore che voglia cambiare radicalmente la fisionomia delle sanzioni penali. Siamo dunque autorizzati a osare”. (Luigi Manconi, Se il castigo è peggio del delitto, “La Repubblica” 26 maggio 2022).

Sono sollecitazioni che ci raggiungono dai drammi del presente e provocare una domanda su come attuare le vie di una giustizia che abbia il volto umano e si ponga nella direzione di riparare le ferite e riabilitare a percorsi di relazioni …

Alessandro Cortesi op     

Assunzione di Maria – anno B – 2021

Ap 11,19-; 12,1-6.10; 1Cor 15,20-26; Lc 1,39-56

“Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”. Paolo richiama la bella notizia comunicata alla comunità. E’ il vangelo da lui stesso ricevuto, annuncio essenziale della fede cristiana: Il Cristo risorto è il medesimo Gesù che ha vissuto la passione ed è morto sulla croce. Credere è radicarsi nell’incontro con il profeta di Galilea passato in mezzo a noi, nella sua storia e sorge il mattino di Pasqua quando la testimonianza delle donne apre ad un orizzonte al di là della storia: credere in Gesù Cristo è vederlo in modo nuovo come il Vivente che ha vinto la morte. L’evento della risurrezione è inscindibilmente legato alla morte, e di qui a tutta la vita di Gesù, al suo progetto testimoniato fino alla fine.

La risurrezione non è ritorno alla vita di prima e coinvolge ogni donna e uomo (da Adamo). Paolo accosta Cristo ad Adamo e lo indica come ultimo Adamo, compimento del dono di vita nella creazione di Adamo. Tutti siamo simili ad Adamo, tratti dalla terra, fragili, esposti alla morte, e Gesù è ultimo Adamo, immagine più alta a Dio. Possiamo accogliere la somiglianza di Gesù: “Come siamo simili all’uomo tratto dalla terra, così allora saremo simili a colui che è venuto dal cielo” (1Cor 15,47-49)

Maria è partecipe dell’umanità che ha in Adamo la sua origine ed è assunta nella vita della risurrezione, segno di consolazione e di speranza per tutti. Cristo è come la primizia nella primavera della storia, inizio di un grande raccolto e la sua risurrezione coinvolgerà tutta l’umanità: “come tutti gli uomini muoiono per la loro unione con Adamo, così tutti risusciteranno per la loro unione a Cristo. Ma ciascuno nel suo ordine. Prima Cristo che è la primizia, poi, quando Cristo tornerà, quelli che gli appartengono” (1Cor 15,23). Maria è, accanto a Cristo, primizia della nostra risurrezione.

Maria ha saputo leggere la presenza dell’azione di Dio nella sua storia. Ha risposto credendo alle chiamate di Dio nella sua vita. La sua esperienza ci dice che la vita nella condizione dei risorti inizia nell’ascolto che ci fa seguire la Parola di Dio ogni giorno nella vita. Tutta la sua esperienza è segnata da due dimensioni: la grazia che sperimenta come sguardo dell’amore di Dio per lei, e il servizio come risposta di donna coraggiosa e forte. E’ una dei poveri di Jahwè e guarda la storia dalla parte di chi è debole. Maria si è lasciata toccare dallo sguardo di amore di Dio per lei: “Ha guardato l’umiltà della sua serva” e ha vissuto la sua vita nella logica della risurrezione: “si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa in una città di Giuda”. In questo ‘alzarsi’ è racchiuso il senso profondo della sua vita’ ed è un alzarsi che la reca a rendersi disponibile nel servizio presso Elisabetta, la conduce a guardare il bisogno dell’altro e a mettersi in cammino, per scoprire nell’incontro la benedizione di Dio e la potenza dello Spirito. E’ una indicazione di come poter sperimentare sin d’ora come vivere nell’orizzonte della risurrezione.

Alessandro Cortesi op

In alto insieme

Citius, altius, fortius è il motto delle olimpiadi: avverbi che fanno cogliere il fascino della dimensione agonistica propria dello sport, la gara nel misurarsi con altri, la tensione a superare il proprio limite, la fatica nell’esprimere il gesto atletico più armonico o preciso, lo spirito di squadra che conduce a sopravanzare gli avversari. E’ un di più che orienta a vincere e primeggiare osservando le regole e i caratteri propri di ogni disciplina e tuttavia va tenuto insieme al primato del partecipare secondo l’ideale delle olimpiadi moderne affermato da De Coubertin. Ma è forse da ricordare come il motto possa essere capovolto con indicazione diversa: lentius, pofundius, suavius… Da pochi giorni si concluse le olimpiadi del Giappone segnate dalla pandemia e rinviate di un anno. Nei giochi di quest’anno si sono presentate alcune storie che hanno rivelato aspetti dell’umanità che ha popolato le gare e le sfide, storie che conducono a guardare le olimpiadi anche da altri punti di vista non solo secondo la logica della competizione, ma secondo la linea dell’attenzione a chi soffre e nell’orizzonte del vincere insieme.  

Yusra Mardini è atleta proveniente dalla Siria. E’ una degli 80 milioni di rifugiati nel mondo. Alle olimpiadi ha partecipato anche una delegazione di atleti rifugiati che con la loro presenza hanno ricordato al mondo la sofferenza di tanti. Nuotava in piscina a Damasco con la sua sorella più piccola e quando una bomba cadde nelle vicinanze. Maturò la decisione di lasciare il paese e si trovò ancora a nuotare per trascinare il gommone per 9 persone su cui nella notte erano saliti in venti. Yusra con la sorella Sara ora vive in Germania e non nuota più sotto le bombe ma è giunta a partecipare alle olimpiadi. Come lei la ciclista Masomah Ali Zada originaria dell’Afghanistan e rifugiata anche lei di etnia hazara a causa della persecuzione attuata dai talebani nel suo paese e costretta a vivere in esilio. 

Nel giorno in cui la staffetta italiana ha vinto on una corsa storica la 4×100 la mamma di Eseosa (Fausto) Desalu, uno dei quattro velocisti, invitata ad una trasmissione televisiva si è scusata di non poter partecipare dicendo: “Mi scuso per non poter essere in trasmissione ma io lavoro come badante e evo seguire una persona anziana. Ho cresciuto mio figlio da sola, venendo dalla Nigeria in Italia e non parlando una parola di italiano…”.

Quan Hongchan 14enne cinese ha vinto la medaglia d’oro nei tuffi: proviene da una famiglia di contadini  la madre è malata e necessita di cure continue. Proprio il desiderio di poter essere d’aiuto alla mamma malata è stata la molla che l’ha condotta a sostenere la fatica degli allenamenti e di emergere nei tuffi dalla piattaforma di 10 metri. Desiderava infatti poter sostenere gli ingenti costi delle cure della mamma.

Theodoros Iakovidis atleta greco al termine delle gare in cui è stato impegnato ha parlato delle condizioni di difficoltà in cui si trovano gli atleti greci che non possono nemmeno permettersi terapie dai fisioterapisti. Il 35 % della popolazione in Grecia è sulla soglia della povertà e questo atleta ha reso visibile nelle sue lacrime le condizioni di indigenza di questo paese.

Toccante è anche la vicenda di due atleti campioni nella lotta libera, tra cui Arthur Naifonov, uno dei settecento bambini che furono ostaggio nell’azione terroristica nella scuola di Beslan tra il 1 e il 3 settembre 2004. In quell’occasione sua madre morì per difendere il figlio. Sopravvissuto alla strage ha saputo porre impegno sino a divenire campioni nella lotta libera a partire dall’orrore di quell’evento sanguinoso. Un altro bambino della scuola, Zaurbek Sidakov, che quel giorno si salvò perché era rimasto a casa è un altro campione della lotta alle olimpiadi. Egli ha dichiarato i suoi pensieri negli anni: “se mai dovessi ottenere una grande vittoria, la dedicherò a tutti coloro che hanno sofferto a Beslan”

Trovo infine una tra le immagini più emblematiche e cariche di significato di queste olimpiadi nell’abbraccio che ha visto insieme Gianmarco Tamberi e il qatariota Mutaz Essa Barshim, atleti del salto in alto. Al termine di una intensa gara conclusa in parità, al giudice che stava proponendo ai due atleti di procedere ad una ulteriore sfida per determinare il vincitore, Mutaz Essa Barshim, campione del Qatar, ha chiesto: ‘è possibile avere due ori?’ ed alla risposta positiva del giudice è scoppiata la gioia incontenibile di entrambi. Così sulla pedana della premiazione, al suono degli inni nazionali si è assistito allo scambio delle medaglie tra i due, insieme campioni, non l’uno senza l’altro, insieme premiati con l’oro dell’amicizia.

Nel programma ‘Notti magiche’ in collegamento con il TG3 la giornalista Giovanna Botteri ha espresso forse meglio di altri alcune chiavi di lettura che aiutano a leggere ciò che sta dietro ai risultati di tanti atleti italiani: ““È bellissima soprattutto l’immagine degli atleti Italiani che vincono. L’Italia che ha vinto è un’Italia che rimanda un’immagine di lavoro, di lacrime, di sofferenza, di fatica. (…) In questo momento in cui l’Italia si affaccia in un periodo difficile, la pandemia non è finita, bisogna ricostruire il Paese, questo è un grande messaggio che arriva: possiamo farcela, abbiamo tutto per farcela, nonostante tutte le lacrime e i sacrifici. Perché l’Italia che vince non è quella degli splendidi e dei meravigliosi, è l’Italia dei figli delle badanti, di quello che si ammala di Covid e di quella che continua nel garage a fare le prove. L’Italia quella vera, che magari si vede di meno ma nelle occasioni che contano”.

Il messaggio di Maria che si alza per andare incontro ad Elisabetta, che scopre il volto di Dio come colui che ‘ha guardato l’umiltà della sua serva’, che abbassa i potenti dai troni e innalza gli umili è in certo modo il messaggio che si è reso presente in alcune storie di queste olimpiadi, storie di una umanità plurale tesa a vivere non solo la competizione che fa andare più veloce e più in alto, ma che sperimenta la nostalgia di salvarsi insieme agli altri.

Alessandro Cortesi op

Tre movimenti e un nome

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,39-45)

Tre movimenti e un nome possono esssere colti in questa breve scena della visita di Maria a Elisabetta.

Maria si alzò e andò in fretta… E’ un primo movimento: alzarsi è verbo di risurrezione. Dopo aver accolto l’annuncio dell’angelo, una parola proveniente da Dio nella sua vita, Maria si alza e va incontro all’altro. Si muove al di fuori, si dirige verso… in un movimento che la conduce a rendersi disponibile, ad aiutare. Esce per incontrare: dalla Parola accolta sorge in lei una spinta di apertura all’altro. Ed è già questo un movimento di risurrezione che si fa servizio.

Fu colmata di Spirito santo... è questo il secondo movimento: è indicazione di quanto si muove nel mistero della visita. Nell’andare incontro e nel salutare – che è abbraccio di accoglienza senza difese – scende lo Spirito. Lo Spirito santo è il nascosto protagonista della vita di Gesù sin dai primi momenti ed è soffio e respiro del silenzio di Dio che pervade l’esistenza di ognuno. Lo Spirito è lasciato soffiare quando si attua il dialogo nell’incontro che apre a vita nuova.

Il bambino ha sussultato di gioia nel grembo… è un terzo movimento: Maria si reca a far visita ad Elisabetta, e questa visita come ogni visita racchiude un mistero di vita che nasce e cresce. Visitare è aprirsi al mistero racchiuso nella vita dell’altro e il sussulto del bambino rinvia ad un movimento di danza: la danza di Davide nudo davanti all’arca di Dio. C’è un mistero di vita e presenza di Dio stesso racchiuso nei volti umani e nella visita questa scoperta si apre alla gioia perché Egli viene non in modo sorprendente ma nell’ordinario di un ospitare che è anche essere sempre accolti.

Nel saluto di Elisabetta infine compare un nome che indica Maria: è infatti indicata come ‘colei che ha creduto’. Non un titolo altisonante e sovrumano, ma il nome di chi si è posta in cammino nel seguire Gesù. E’ il nome suo e può essere il nome nostro: colui/colei che vive un affidamento di fondo, radicale alla parola di Dio per andare, per incontrare, per inseguire lo Spirito che sempre precede, che fa attraversare i confini e pone in un cammino mai concluso.

Chiediamo che questo Natale sia per noi occasione per alzarsi e vivere l’esperienza di rinascere e risorgere nell’accogliere la Parola di Dio che ci raggiunge in tanti e diversi modi nella vita. Chiediamo che sia occasione per renderci disponibili allo Spirito, ospite silenzioso nei cuori. Chiediamo che sia occasione per assaporare la gioia di un venire di Dio che rende responsabili di visitare questo nostro tempo, chi soffre e chi è oppresso, ogni persona in ricerca.

Alessandro Cortesi op – san Domenico di Fiesole – novena del Natale 21.12.20

II domenica di Natale – anno A – 2020

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Al cuore della prima pagina del IV vangelo sta l’espressione ‘E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi’. Più esattamente si potrebbe tradurre ‘pose la sua tenda in mezzo a noi’.

La tenda, chiamata la ‘dimora’, aveva accompagnato il percorso dell’esodo ed era il luogo in cui risiedeva la ‘gloria’ di Jahwè (cfr. Es 26,1-14): in essa era posta l’arca dell’alleanza con le tavole della legge. Tenda e arca sono simboli che rinviano all’alleanza e all’opera di liberazione di Dio sceso per liberare il suo popolo. Tale luogo era pensato come la sede in cui Dio aveva il suo trono sedendo sopra: “Davide…si alzò e partì con tutta la sua gente… per trasportare di là l’arca di Dio, sulla quale è invocato il suo nome, il nome del Signore degli eserciti, che siede in essa sui cherubini” (2Sam 6,2).

La tenda è vissuta da Israele come ‘luogo dell’incontro’: “a questa tenda del convegno posta fuori dell’accampamento, si recava chiunque volesse consultare il Signore” (Es 33,9). La tenda è segno della presenza di Dio che accompagna il cammino d’Israele dall’Egitto verso la terra promessa. Sopra la tenda sostava la nube simbolo della presenza di Dio. La nube da un lato rivela e dall’altro mantiene velato; con la tenda indica la vicinanza del Dio altissimo che parlava con Mosè ‘come un uomo parla con un altro’.

Dio rimane l’inaccessibile, l’Altro dalla creatura, ma la tenda è luogo segno di incontro con Lui che si rende vicino ogni volta che si ascolta la sua Parola: ‘Io sono il Signore tuo Dio’. “Se due si riuniscono insieme per dedicarsi alle parole della Torah, la shekinah (la dimora) è presente” (Pirkê Abot III 3; cfr. Mt 18,20).

I profeti indicheranno che Dio non abita in qualche luogo particolare, ma abita il suo popolo: Dio sta in mezzo a Israele per adempiere la sua promessa: ‘Io sarò con te’ (Es 3,12) e la sua presenza è per costruire il suo popolo. Anche il tempio, sede dell’arca dell’alleanza nel tempo della stabilità dopo il cammino nel deserto, è solamente un segno. “Gioisci, esulta, figlia di Sion, perché ecco io vengo ad abitare in mezzo a te… nazioni numerose aderiranno in quel giorno al Signore e diverranno suo popolo ed egli dimorerà in mezzo a te” (Zac 2,14).

“il Verbo ha posto la sua tenda in mezzo a noi” è espressione che rinvia a tali riferimenti. La Parola si è resa vicina nella presenza umana di Gesù. “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha raccontato” (Gv 1,18). Nel volto di Gesù il IV vangelo legge il farsi vicino della Parola di Dio: ha posto la sua tenda in mezzo a noi, nella umanità, la carne. Gesù spiega e fa vedere nel suo volto umano la gloria di Dio il Padre.

Il Verbo fatto carne è la nuova tenda di una alleanza, non frutto di opera umana, ma dono da accogliere: “a quanti però l’hanno accolto ha dato il poter di diventare figli di Dio; a quelli che credono nel suo nome, i quali non da volere di carne, né da volere di sangue, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13). La nascita di Gesù è vista dal IV vangelo nel mistero profondo della vita di Dio. Quella vita segnata dalla fragilità dell’esistenza umana (la carne) è ‘tenda’ in cui incontrare il volto di Dio, la sua Parola. “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini… e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre” (Gv 1,4.14).

Alessandro Cortesi op

Madonna di Fiesole.jpg

Sguardi di umanità

E’ stata una scoperta particolare qualche anno fa. I restauratori dell’Opificio delle pietre dure di Firenze durante un sopralluogo nel vescovado di Fiesole hanno posto attenzione a quest’opera, una terracotta policroma, modellata nella creta con materiali particolarmente preziosi, indicazione di una ricca committenza. Si tratta di un modello utilizzato poi per altre repliche realizzate da questo prototipo. La Madonna di Fiesole è così stata sottoposta a restauro e presentata nel 2008. E’ apparso come la sua fattura, dipinta a freddo, fosse particolarmente raffinata al punto da condurre ad una attribuzione a Filippo Brunelleschi, il grande architetto fiorentino progettatore della cupola della Cattedrale di s. Maria del Fiore e del portico dell’Ospedale degli Innocenti. Brunelleschi fu anche scultore: si era formato in età giovanile in una bottega di scultori e aveva collaborato all’altare argenteo di san Jacopo di Pistoia. La terracotta è collocabile agli inizi del Quattrocento e risente dello stile di Brunelleschi come appare da un raffronto con il crocifisso di santa Maria Novella. Potrebbe essere un’opera giovanile successiva al concorso del 1401 sulle porte del Battistero e prima delle grandi opere di architettura.

Forse l’opera venne trasferita a Fiesole dopo la cacciata di Piero de’ Medici e della sua famiglia, avvenuta il 9 novembre 1494, a seguito del saccheggio del giardino di San Marco e delle altre proprietà Medicee. Risultano infatti scalpellati gli stemmi medicei alla base. La Madonna potrebbe essere stata recuperata da qualcuno e condotta a Fiesole in tale circostanza.

Nella terracotta Maria è raffigurata con volto giovane e delicato. Il suo sguardo si perde nell’orizzonte ma la sua testa è chinata dolcemente ad incontrare il volto del bambino e a sfiorare con il suo zigomo la fronte riccioluta, su cui scendono capelli dorati, di Gesù. La scultura evoca i pensieri di Maria in rapporto al suo figlio. Gesù è raffigurato nel movimento dello stringersi alla mamma. Anche nel suo sguardo traspare un velo di tristezza, quasi un movimento di ritrarsi. E’ proprio della tradizione iconografica cristiana raffigurare la madre il bambino, con una evocazione degli eventi della morte di Gesù, letta insieme  al mistero della risurrezione. Nel suo volto si delinea già l’ombra del dramma della sua vita, ma nel contempo l’abbandono in Dio e la decisione serena che guida la sua esistenza: una tenerezza che racconta la misericordia di cui la croce è segno supremo. Il bambino si stringe alla madre e quasi si rannicchia sotto il manto di lei che lo copre avvolgendone il corpo, non a coprirlo interamente, ma lasciandolo in parte nudo. Le sue gambine scoperte si intrecciano con la mano di Maria che ne tiene una come se stesse accarezzandola mentre l’altra le si appoggia dolcemente. E l’altra mano di Maria sorregge Gesù facendosi arco e appoggio al suo corpo. La nudità del bambino è indicazione della sua umanità, del suo condividere la fragilità di ogni creatura. Gesù si stringe alla mamma quasi aggrappandosi a lei e alla sua veste: una veste particolarmente preziosa, decorata con oro. Maria è raffigurata con sul capo una corona di cui sono andate perdute le punte risultando così come un cerchio che tiene fissato il suo velo. E così il suo volto manifesta i tratti di una giovane donna. Gesù appare nella sua fragilità, nella nudità del suo essere bambino, nella vulnerabilità di chi cerca rifugio e protezione con lo sguardo che sembra esprimere sentimenti diversi: paura, desiderio di sottrarsi al male e ai pericoli, senso di affidamento e ricerca di sicurezza ed anche riposo sereno nelle braccia della madre. Un dialogo silenzioso avvolge la scena di questo stare insieme, intrecciati e facendosi dono di tenerezza e di sostegno l’uno all’altra.

Il gruppo scultoreo è poggiato su una base rettangolare, in cui appaiono archetti intrecciati in stile gotico e sui lati degli stemmi che sono stati cancellati. Ai piedi la scritta ‘O mater Dei memento mei’, ‘Madre di Dio ricordati di me’: una preghiera che sgorga dal soffermarsi ad incontrare lo sguardo del bambino e della giovane madre.

Alessandro Cortesi op

 

 

 

 

 

 

Immacolata Concezione – anno A – 2019

Cranach,_adamo_ed_eva,_uffizi-1(Lucas Cranach il vecchio, Adamo e Eva – 1528 – Uffizi)

Gen 3,9-15.20; Ef 1,3-12; Lc 1,26-38

“Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te”. In queste poche parole, in un saluto, è racchiusa l’esperienza di Maria, donna capace di responsabilità e impegno perché segnata da un amore ricevuto e accolto.

“Rallegrati” non esprime riconoscimento di una sorta di grandezza o di virtù da parte di Maria: è piuttosto espressione di un amore immeritato che ha avvolto la sua vitae di cui lei si rende consapevole. E’ indicazione di un’esperienza di grazia che genera stupore e ringraziamento. Ed insieme senso di restituzione di tutto a Dio. La vita di Maria è posta nel segno di una gratuità che lei in modo adulto accoglie responsabilmente facendone orizzonte di sequela di Gesù e di servizio. Non nella logica dell’assoggettamento e di una femminilità vissuta nei termini di sottomissione e rassegnazione, ma con il coraggio proprio dei poveri di Jahwè che percorrono e accompagnano cammini di liberazione. Maria si scopre amata e per questo inviata ad essere testimone di un amore che guarda ai piccoli, che rovescia i potenti dai troni, che innalza gli umili, che ribalta una storia dominata dai violenti e dai prepotenti e inaugura una storia nuova. E’ l’amore di Dio.

Nel volto di Maria si può scorgere la bellezza di chi è amato da Dio e accoglie questo dono con senso di gratitudine e con creatività e decisione, facendosi terreno di accoglienza e dando spazio alla fecondità di questo amore. Una zolla di terra capace di dare spazio ad un seme di vita.

“Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo…” La nudità di Adamo nel giardino è il segno di uno stare di fronte nella sincerità e nella trasparenza. Di fronte al suo ‘tu’, Adam, l’umano fatto di terra, si scopre nudo, scoperto, capace di gioire della trasparenza di corpi che s’incontrano senza nascondimenti. La nudità esprime la bellezza dell’amore in cui proprio l’incontro dei corpi manifesta il desiderio di consegna del proprio io ad un ‘tu’ che sta di fronte, incontrato come presenza che accoglie vicina e diversa. E’ esperienza di trasparenza nell’intimità della vita. Nella loro nudità Adamo e Eva scoprono di potersi affidare reciprocamente e di poter consegnare l’un l’altra la propria fragilità senza paure, senza riserve. E’ la bellezza dell’amore che sulla terra è traccia ineludibile di Dio.

Tuttavia la nudità diviene un ostacolo, elemento che genera paura quando il rapporto s’incrina con falsità, sospetto e tradimento. Quando non è trasparente, quando si vuole nascondere qualcosa: nell’immagine di Adamo che di fronte a Dio ha paura perché si trova ad essere nudo sta racchiuso il messaggio su di una rottura del rapporto. E’ un atteggiamento di insincerità, tentativo di nascondere un sospetto. E’ ricerca di coprirsi e di mascherare nel trovarsi a disagio con la propria fragilità, nel voler nascondere una distanza ed una rottura.

Ad Adamo ed Eva, padre e madre dei viventi, nudi, narra Genesi, Dio procurerà delle tuniche di pelle per coprirsi: il Dio che vuole la vita e l’amore, nonostante l’insincerità dell’uomo, nonostante l’incapacità ad accogliere con fiducia il suo dono, apre cammini in cui poter recuperare sincerità e amore di fronte all’altro.

“In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”. C’è un disegno di benedizione sulla vita umana e sul cosmo. L’inno agli Efesini ricorda che c’è un sogno di Dio su ogni volto: ed è un sogno di benedizione, di partecipazione alla sua vita, di santità. Sta qui la radice per scorgere in ogni volto un luogo di benedizione e per chiedere al Signore di essere strumenti perché ogni persona possa scoprire questo sguardo di amore nel cuore della sua esistenza, nonostante ogni contraddizione, ogni abbandono, ogni sofferenza per non essere amati. In lui, in Cristo che si è dato per tutti, Dio ci ha scelti. Siamo inseriti in una corrente di sguardo benevolente e amoroso che solo fa sorgere vita e vita per altri.

Alessandro Cortesi op

viva-vittoria-bergamo-1024x768(le piazze di alcune città italiane sono state tappezzate nella giornata del 25 novembre con coperte multicolori per sensibilizzare contro la violenza di genere: qui una installazione a Bergamo)

Violenza, sfruttamento, individualismo

Leggendo i quotidiani degli ultimi giorni non si può non sostare con preoccupazione a fronte a due fenomeni che si presentano con drammatica evidenza: il dato sulla violenza contro le donne in Italia e il fenomeno dello sfruttamento del lavoro che continua e alimenta gli affari delle grandi marche della moda.

Sono novantacinque le donne uccise in Italia dall’inizio dell’anno. Nel 2018 le vittime sono state 142. Dal 2000 ad oggi sono state 3.230. Circa la metà per mano del proprio compagno o ex compagno, in un contesto quindi familiare. Manifestazioni di violenza si accompagnano a maltrattamenti, ad oppressioni e umiliazioni, a stalking, e sono condotte in modo trasversale senza differenze tra Nord centro e Sud Italia. Le vittime e gli aggressori provengono da tutte le classi sociali e dalle più diverse condizioni economiche. La rete dei centri anti-violenza, in una sua analisi comparando i dati Istat e quelli raccolti direttamente, ha evidenziato che la percentuale più alta delle forme di violenza subita dalle donne ascoltate presenta situazioni di violenza psicologica (73,6 per cento). Le denunce sono aumentate ma non sono sufficienti le misure di tutela. I Centri antiviolenza non hanno sostegni adeguati. Avanzamenti nella legislazione come la legge sullo stalking del 2009, e quella sul femminicidio del 2013 non hanno portato ad una decisa diminuzione della violenza.

Appare come il femminicidio sia una piaga in particolare del nostro Paese che denota non più una situazione di emergenza ma un fenomeno continuativo. La violenza esercitata sulle donne non può essere relegata ad una vicenda privata, ma assume una valenza sociale. L’intera società deve sentirsi interpellata e individuare misure per reagire e predisporre itinerari educativi. Alla base del fenomeno sta una idea malata di possesso dell’altro, la dipendenza da una comprensione androcentrica e patriarcale della vita, una comprensione narcisistica della personalità, l’incapacità di rispettare l’autonomia e la libertà dell’altro, il rifiuto di affrontare la fatica nel costruire giorno per giorno relazioni adulte. Le questioni in gioco sono l’educazione alla parità, al rispetto dell’altro, l’accettazione della differenza, la capacità di confronto e dialogo, soprattutto una comprensione nuova della propria identità in relazione e poi il superamento di visioni discriminatorie, di stereotipi e pregiudizi. La violenza sulle donne è uno dei versanti dell’affermarsi della violenza in un contesto in cui si esalta il ripiegamento su un proprio io incapace di guardare all’altro e di lasciarsi porre in discussione dalle diversità dell’altro.

Proprio in considerazione di tale questione di un ‘io’ incapace di aprirsi alla considerazione dell’altro da sé, Matteo Zuppi, cardinale di Bologna, osserva: “Oggi le appartenenze sono piuttosto digitali, comunque più individualistiche e frammentarie, condizionate da opportunità, affinità iniziali e non verificate, oppure contingenze. Cosa diventa un individualismo di questo genere se non crescono parimenti la responsabilità, la capacità di discernimento e di visione che sono possibili solo in un rapporto con il prossimo?”

Un egocentrismo che si connota come aspirazione senza limiti porta a drammatiche conseguenze nella vita sociale: “L’egocentrismo – io penso – ha pretese senza limite, perché il vero limite, che non riesco mai a superare da solo, sono io stesso: quell’io su cui punto tutte le mie risorse. L’egocentrismo ci persuade che staremo bene solo assecondando il nostro io, anche a costo di rovinare i rapporti con le persone più care. Così finiamo per scegliere la parte e non il tutto, lo spazio e non il tempo, la difesa delle cose piuttosto che la costruzione dei rapporti” (Matteo Maria Zuppi con Lorenzo Fazzini, Odierai il prossimo tuo. Perché abbiamo dimenticato la fraternità. Riflessioni sulle paure del tempo presente, Piemme 2019)

C’è anche un egocentrismo di un mondo che alimenta il suo produrre nello sfruttamento degli altri: “L’Italia fonda una parte rilevante della sua qualità manifatturiera sul lavoro schiavizzato in distretti industriali che, per tradizione ormai di oltre mezzo secolo, si occupano di realizzare in nero e in condizioni spesso disumane confezioni, cuciture, rifiniture, ma anche scarpe, abiti, cinture, prodotti dell’alta moda”. Così Roberto Saviano introduce un suo articolo in cui denuncia la situazione diffusa a nord al centro e al sud dello sfruttamento di lavoro schiavizzato che alimenta l’industria dell’alta moda, delle grandi marche che esportano in tutto il mondo (Quegli operai sfruttati nella fabbrica ‘grandi firme’, “La Repubblica” 18 novembre 2019) .

Dopo aver fatto riferimento a recenti situazioni concrete in cui sono stati scoperti lavoratori in nero che lavoravano in condizioni di sfruttamento per due/tre euro l’ora osserva: “Il lavoro italiano schiavizzato è stato totalmente rimosso dal dibattito pubblico sovranista perché andrebbe a smontare il suo principale cavallo di battaglia ideologico, svelando che non sono gli immigrati clandestini che arrivano in Italia a far abbassare il prezzo del lavoro e quindi a reintrodurre la schiavitù. Da più di cinquant’anni in molte zone del Meridione d’Italia (ma anche in Veneto) esiste un sistematico sfruttamento della manodopera di qualità da parte di tutto il sistema della moda, ma nonostante articoli, reportage, denunce e impegno dei sindacati, non si riesce in alcun modo a mutare la situazione”.

“la responsabilità di molte aziende dell’alta moda è totale: sono consapevoli — anche se legalmente al riparo — che la qualità della loro merce è frutto di condizioni di lavoro terribili e di uno sfruttamento costante. Solo da loro possono venire scelte in grado di cambiare questa situazione. Il populismo tace per convenienza, i riformisti temono di far scappare le aziende, quindi i salari, quindi i voti. Insomma, la solita verità italiana”.

Forme diverse di violenza e sfruttamento sono presenti in un contesto in cui sarebbe indispensabili maturare la consapevolezza della dignità di ogni volto perché in esso sta una benedizione originaria ed una chiamata fondamentale alla relazione.

Alessandro Cortesi op

Santa famiglia – anno C – 2018

Salterio-inizio-del-XIII-secolo-British-Library(Salterio sec. XIII – British Library)

Sir 3,2-6.12-14; Col 3,12-21; Lc 2,41-52

“voi mogli state sottomesse ai mariti come si conviene nel Signore. Voi mariti amate le vostre mogli e non inaspritevi con esse. Voi figli obbedite ai genitori in tutto…”

La Scrittura è Parola di Dio scritta da mani d’uomo e porta con sé i tratti della cultura in cui i vari testi sono nati. Questo testo reca in sè il condizionamento del modo di concepire i rapporti in una società fortemente maschilista come quella ebraica del I secolo d.C., una cultura distante dal modo attuale di concepire i rapporti tra uomo e donna, tra genitori e figli.

Nel tentativo di cogliere il messaggio centrale della Parola di Dio oltre i condizionamenti culturali c’è un’espressione che offre uno squarcio importante: “come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3,13). Pur rimanendo condizionato dalla mentalità del proprio tempo l’autore di questa lettera individua un criterio di riferimento per intendere i rapporti nel contesto familiare e lo ritrova nel rinvio a Gesù, nel movimento di dono e perdono che ha guidato la sua esistenza.

Così nella lettera agli Efesini si legge: “Come la chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano sottomesse ai loro mariti. E voi, mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa” (Ef 5,24-25).

Gesù nel radunare una comunità attorno a sé indicava nuovi orizzonti per la vita di una famiglia nova, fatta di sorelle e fratelli. Ciò si poneva quale critica radicale rispetto ai rapporti di potere presenti nella società e contestava le forme patriarcali: ‘nessuno tra voi si chiami padre…’. I rapporti dovevano essere di fratelli e sorelle: una comunità di uguali quindi, ma in cui sono da riconoscere le diversità di ognuna e ognuno con il proprio nome, nella differenza.

Il riferimento a Cristo, al centro allora dell’esortazione della lettera paolina, conduce ad intendere i rapporti come Cristo ha vissuto la sua vita e le relazioni. Ha dato se stesso per coloro che ha amato, per tutti coloro che ha chiamato a seguirlo, vivendo la cura per gli altri e non sottomettendosi ad alcun potere umano, fino al dono totale della sua vita. Questa è la radice di una attitudine di incontro e di dialogo reciproco.

Il criterio di riferimento fondamentale da cui trae vita l’esperienza della fede è quindi: ‘come Cristo ha amato la chiesa’. L’esortazione a ‘sottomettersi’ viene così ad essere trasformata dall’interno, a significare tutt’altro che accettazione di un dominio. Essa esprime invece l’orientamento a vivere la propria vita in libertà e nella fedeltà alla chiamata all’amore. E forse dovrebbe in tale senso essere addirittura cambiata nelle traduzioni per non suscitare ambiguità cariche di conseguenze negative. Sappiamo infatti che queste, come altre espressioni analoghe, hanno generato nella vita delle comunità cristiane attitudini e stili di rapporti tra uomo e donna e tra genitori e figli ben lontane dal vangelo e la Scrittura è diventata strumento per mantenere strutture di dominio legate alla mentalità patriarcale presenti non solo al tempo di Paolo, ma tutt’oggi persistenti.

Al cuore del vangelo sta l’indicazione di rapporti segnati dalla gratuità e dal dono. Tutt’altro che dominio e sottomissione. Il modo per vivere fedeltà a Cristo e vivere in lui è accogliere l’altro, l’altra, da pari, e secondo una logica di fraternità e sororità. Nell’uguaglianza e riconoscendo le differenze.

La pagina di Luca parla della famiglia di Nazaret, ma non certo per offrire un esempio di vita familiare. Tutto è orientato a far risaltare le parole di Gesù: ‘Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?’ Espressione che può essere anche tradotta: “Non sapevate che io devo stare nella casa del Padre mio?”. Al cuore della pagine sta la scoperta del cuore dell’esperienza di Gesù nel rapporto con il Padre suo.

All’età di dodici anni, Gesù è prsentato da Luca nel momento di passaggio alla maturità: è la casa del Padre il luogo in cui Gesù, e con lui ogni discepolo e discepola, deve stare. Maria ritrova Gesù giovinetto nel tempio e ascolta questa parola in riferimento alla casa del Padre: è una indicazione già rivolta alla risurrezione. Luca presenta la risurrezione come salita di Cristo alla casa del Padre e tutto il vangelo si conclude nel tempio come nel tempio era iniziato. La casa del Padre, è la missione del Padre, il rapporto con Lui che implica un rapporto nuovo con gli altri. La casa del Padre apre ogni casa umana ad un orizzonte nuovo di rapporti, spalancando ogni ristretto confine di chiusura e di appartenenza.

Alessandro Cortesi op

Fitzwilliam Museum Cambridge, Book of Hours, Ms 69, 15° sec.

Fitzwilliam Museum Cambridge, Book of Hours, Ms 69, 15° secolo

Cambiare prospettiva

Questa immagine insolita della natività apre a considerare come spesso il nostro modo di leggere la Scrittura e di riflettere sulla fede è segnata da pregiudizi che suddividono i ruoli e inseriscono ogni persona nei quadri di una precomprensione determinata da pensieri di genere.

E’ infatti un’immagine che capovolge l’immaginario consueto di pensare alla natività, e i modelli in cui questo momento è stato raffigurato nella storia dell’arte. E’ una miniatura tratta da un libro d’ore (Fitzwilliam Museum Cambridge, Book of Hours, Ms 69, 15° secolo): si chiamavano così libri che si diffusero soprattutto dopo l’invenzione della stampa e che raccoglievano preghiere insieme ai salmi e all’ufficio della beata vergine Maria. Erano arricchiti con miniature talvolta di grande raffinatezza artistica e videro grande diffusione non come libri liturgici ufficiali, ma quali testi che alimentavano la preghiera.

In questa miniatura il bambino Gesù è presentato in fasce in braccio a Giuseppe che lo culla con tenerezza e affetto tra le sue mani. E Maria, seduta con sulle gambe un’ampia coperta rossa che viene a scendere occupando ampio spazio è raffigurata seduta in atteggiamento di lettura, con un libro in mano: è il libro della Torah e sono i testi dei profeti. E’ ripresa del motivo dell’ascolto di Maria ad una chiamata che le giunge dall’ascolto della Parola di Dio accolta nella Scrittura.

L’attività del leggere e del meditare è quindi appropriata a Maria e a Giuseppe uomo è attribuita la attitudine della cura e dello sguardo a Gesù bambino.

Ma forse altri particolari possono essere evidenziati nella composizione, quali i movimenti del bue e dell’asino. Il primo, con una campana al collo, tutto rivolto verso Maria dal recinto in cui è posto a pascolare e il secondo che si affaccia quasi ad afferrare con il suo morso l’aureola di Giuseppe nel tentativo di assaggiarla. C’è la partecipazione di questi animali che rinviano alla reinterpretazione della versetto di Isaia che parlava della durezza del cuore nel riconoscere Dio come Signore: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende” (Is 1,3).

In un tempo in cui alla fine del XV secolo le donne accedevano sempre più al contatto con la Scrittura soprattutto per mezzo dei Libri delle ore in cui trovavano stampati i testi e potevano pregare con le parole dei salmi, questa immagine richiama a quel rapporto tra le donne la Bibbia e la profezia che da questo rapporto è sgorgato nella vita della testimonianza cristiana nei secoli.

Su questo un bel libro da leggere, raccolta di saggi presentati ad un convegno tenutosi l’anno scorso in occasione dei 500 anni della Riforma, è Bibbia, donne profezia. A partire dalla Riforma (a cura di A.Valerio e L.Tomassone, Nerbini 2018). E richiama anche oggi al rapporto tra donne e Scrittura e all’esigenza di una rilettura delle Scritture superando gli stereotipi di genere ancora così presenti.

Alessandro Cortesi op

IV domenica di avvento – anno B – 2017

Pulpito-Duomo-di-Barga(Pulpito – Duomo di Barga)

2Sam 7,1-5.8-12.14.16; Rom 16,25-27; Lc 1,26-38

Natale è questione di casa e dell’abitare. L’abitare di Dio in mezzo all’umanità. La casa non di pietre ma di volti.

Davide (2Sam 7,12ss) è il re che aveva avuto il progetto di costruire un tempio a Dio. Natan uomo di Dio gli comunica però che il progetto di Dio è diverso: non sarà lui a costruire una casa a Dio ma sarà Dio stesso a costruire a lui un casato, gli dona una discendenza. La presenza di Dio non è racchiudbile in una costruzione, in un segno di grandezza e di splendore di pietre. si rende vicino nel volto di qualcuno, in una relazione, in un figlio. La casa ha un senso se è luogo di incontro, se reca la presenza di volti e presenze. Una casa per Dio non è questione di costruzioni di pietra o di idee, ma è questione di relazioni, di vita.

Natale è annuncio di un nome. La presenza del messia in Israele è attesa, è sguardo rivolto ad un salvatore e liberatore. La sua vita è in rapporto ad altri, al cammino di tutto un popolo chiamato ad incontrare Dio in un’alleanza che orienta al futuro. Tali attese erano espresse nelle figure del sacerdote e del re. Luca indica che Maria è legata alla discendenza sacerdotale (Lc 1,5) e accenna alle promesse fate al re Davide: “il Signore gli darà il trono di David, suo padre… e il suo regno non avrà fine” (Lc 1,32-33). Gesù è così indicato come il messia, che compie queste promesse. Ha il volto del messia, presenza di liberazione e salvezza per i poveri.

Natale è anche storia di una donna: Maria è la ‘nuova Sion’. Nell’esodo una nube copriva la tenda. Questa seguiva lo spostarsi dell’accampamento nel deserto (Es 13,21) ed era segno della presenza vicina di Dio e ricordo dell’alleanza. Quella presenza trovò simbolo nel tempio, sulla collina di Sion. Luca rinvia all’immagine della nube per raccontare ciò che Dio ha operato nel venire di Gesù: lo Spirito santo agisce in Maria: “Lo Spirito santo verrà su di te, e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra; e perciò quello che nascerà santo sarà chiamato figlio di Dio” (Lc 1,35). Così a Pentecoste lo Spirito è donato alla comunità radunata. Maria è una tra i ‘poveri di JHWH’, partecipe del resto d’Israele che pone fiducia totalmente in Dio. In mezzo a questo popolo Dio si fa vicino nella vita di Gesù.

Sono così evocate le antiche parole del profeta: “Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele” (Sof 3,12-13). Il ‘resto santo d’Israele’ una piccola comunità di coloro che vivono con fiducia e umiltà davanti a Dio (cfr. Sof 2,3). Maria vive tutto ciò quale attitudine profonda. E’ una fiducia forte e tenera, che non s’impone e sa guardare oltre.

Prepararsi a Natale forse sta solo in questo, lasciare che lo Spirito susciti un cuore aperto per incontrare una presenza… Maria ha vissuto questa ricerca e questo affidamento. E’ la prima credente, è donna che si fa voce dei poveri: ‘ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili’…

Alessandro Cortesi op

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Concerto

Un brano musicale può offrire motivo di meditazione e di sosta nel Natale seguendo il linguaggio proprio della musica: il Magnificat in re maggiore BWV 243 di Johann Sebastian Bach (1685-1750).

Nel 1723 Bach era giunto a Lipsia con l’incarico di Kantor presso la Thomaskirche. La figura del Kantor costituiva uno dei ruoli rilevanti del sistema sociale e scolastico luterano. Il Kantor, spesso dotato di titoli universitari spettava una funzione di insegnamento di varie discipline da quelle scientifiche, a quelle umanistiche e al catechismo, oltre all’introduzione alla musica. Era inoltre direttore del coro della scuola. Il suo impegno prevedeva la composizione di una cantata ad ogni cerimonia festiva e insegnare canto e musica strumentale agli allievi della Thomasschule. Nel primo Natale che Bach trascorse a Lipsia preparò il Magnificat in re maggiore che rimase una delle sue opere maggiori.

E’ una cantata sacra per orchestra, con cinque solisti (due soprani, un contralto, un tenore e un basso) ed un coro a cinque voci. Il testo latino riprende il cantico di Maria del Vangelo di Luca (Lc 1, 46-55).

Maria ringrazia Dio perché ha compiuto “grandi cose”. Lei umile serva è stata guardata con benevolenza e ha potuto generare il Messia. Maria canta l’opera di Dio in rapporto al mistero dell’incarnazione. E si attua così una contrapposizione tra la sua piccolezza e la voce di ‘tutte le generazioni, che la chiameranno beata’. La lode è rivolta a Dio perché ha soccorso il suo popolo e ha mostrato il suo volto di misericordia.

La Cantata è suddivisa in dodici parti. L’inizio è segnato dalla lode Magnificat intonato dal coro. Tra gli strumenti dell’orchestra si distingue il suono squillante delle trombe. L’invocazione ripetuta esprime la lode al creatore ed ha un tono di solennità e di ampiezza nell’avvolgere ogni cosa.

Subito dopo fa seguito il brano Et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo: violini e viole introducono il motivo dell’esultanza. E’ una melodia in cui il soprano solista modula le note della gioia nel cuore di Maria nei confronti di Dio fonte di salvezza, con l’accompagnamento dell’orchestra.

Il terzo movimento – Quia respexit humilitatem ancillae suae – è ancora interpretato dal soprano solista, con l’accompagnamento del suono dell’oboe e basso continuo. Senza interruzioni la cantata prosegue. Omnes Generationes. E’ questo momento corale, in cui in un coinvolgimento di tutte le voci il coro ripete e rimbalza il riferimento a tutti i popoli e a tutti i tempi che riconoscono in Maria la graziosa. Una contrapposizione emerge con forza: Maria umile serva verrà chiamata beata nella storia tutta.

Al riferimento all’umiltà di Maria segue il Quia fecit mihi magna qui potens est et sanctum nomen eius: è questa una parte intonata dal basso accompagnato dall’organo. La solennità del suono dell’organo imprime alle ‘grandi cose’ (magna) una sottolineatura propria con accento all’opera di Dio. E’ una voce maschile a cantare le grandi cose di Dio, evidenziando la forza divina e la santità del suo nome. Organo e basso concludono questa sezione.

Segue un delicato duetto tra contralto e tenore: è un passaggio accompagnato da violini e flauti in cui l’espressione Et misericordia a progenie in progenies timentibus eum viene ripresa in un continuo scambio nel rincorrersi delle voci e nel dialogo tra voci e strumenti.

Interviene poi il coro che sostenuto da trombe e timpani sottolinea l’agire del Signore con potenza Fecit potentiam in brachio suo, dispersit superbos mente cordis sui. Il ritmo è sostenuto, ritmato e rapido. Il cantico di Maria esprime l’agire di Dio che a partire dal passaggio del mar Rosso e in ogni cammino della liberazione ha spiegato la potenza del suo braccio, e ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore. L’intervento delle percussioni sottolinea tale agire che ribalta le pretese umane.

Segue un brano in cui la voce unica del tenore sottolinea il ribaltamento operato da Dio che ha deposto i potenti dai troni e ha esaltato gli umili: Deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles. I violini insieme sottolineano lo stile di Dio che innalza gli umili. Un assolo di flauti e violoncello introduce il momento successivo. Il Magnificat continua in un dialogo condotto tra i suoni vellutati dei flauti e il contralto: si canta l’azione di Dio che guarda agli affamati e manda a mani vuote ricchi (Esurientes implevit bonis et divites dimittit inanes).

Segue una parte in cui il trio di due soprani e un contralto cantano la liberazione di Israele: Suscepit Israel puerum suum. Mentre intervengono gli oboi, è condotto un adagio intenso e meditativo. Basso e tenore si inseriscono a dialogare con le voci femminili con tutti e cinque i solisti coinvolti. Il tono è maestoso e grave nell’evidenziare la parola e la promessa di Dio ai padri: Sicut locutus est ad patres nostros Abraham et semini eius in saecula. E’ ricordata la promessa di Dio ai padri.

A conclusione con la partecipazione dell’intero corpo orchestrale, il coro esegue il Gloria Patri, gloria Filio gloria et Spiritui sancto, lode alla Trinità che termina nella ripresa dell’inizio. La melodia del Magnificat conduce a chiudere il percorso della lode con le parole sicut erat in principio et in saecula saeculorum fino all’ultima parola: un Amen solenne.

Alessandro Cortesi op

 

Letture di Pasqua

Buona Pasqua!

(Pasqua 2017 – celebrazione della chiesa copta etiope – Atene)

“…. Alla spicciolata Stella, io e gli altri amici prendemmo la via del ritorno. Quando fui a casa mantenni la promessa e in quei fogli che Marco mi aveva consegnato al termine della mia visita all’eremo trovai una bellissima sorpresa. Un tentativo di riscrivere la messa, ardito e rigoroso, in un linguaggio capace, almeno a me così sembrò, di dare freschezza a messaggi spesso coperti da uno strato di polvere insopportabile.

Lessi d’un fiato il Credo:

“Credo in Dio onnipotente nell’amore, che ha dato vita all’Universo, che ci ha messo nel cuore la nostalgia delle cose invisibili.

Credo in Gesù Cristo figlio di Dio, cresciuto nella casa di Maria e di Giuseppe, per mezzo di Lui tutti gli uomini, gli animali e le cose sono redenti.

Per essere compagno nella sofferenza e nella gioia e santificare la vita ha posto la sua tenda in mezzo a noi, nascendo da Maria di Nazareth, sorella nel silenzio e nella fede. Fu appeso alla croce e divenne fratello fino alla morte, caricandosi di tutti i peccati e dell’immenso dolore del mondo.

Al tempo di Pilato e di Caifa, infatti morì e fu sepolto. Ma il terzo giorno è risuscitato: lo testimoniano Maria di Magdala, le donne che lo accompagnarono e lo amarono nella vita e poi i suoi discepoli.

E i viandanti di Emmaus lo riconobbero quando divise il pane con loro.

Oggi lo sentiamo presente nella nostra vita e condividiamo con tutti l’attesa del ritorno; quando verrà a portare la pace ai vivi e ai morti. E tergerà le lacrime dai loro occhi. Non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate.

Credo nello spirito creatore e creativo che ci comunica la vita del Padre e del Figlio, che apre la bocca dei Profeti, dà speranza ai poveri, coraggio ai sofferenti, lo Spirito d’amore che soffia dove vuole e chiama ad essere le cose che non sono.

Vivo nella comunità dei credenti, cattolica nella santità e nel peccato, che cammina nella storia, insieme ai messaggeri della resurrezione che in ogni angolo della terra ti raccontano con la preghiera e con la carità. Fedeli alla terra e allo stesso tempo pellegrini.

Professo il battesimo della Tua grazia e della Tua compagnia per il superamento e il perdono dei peccati. Ed attendo il ritorno del Signore, la risurrezione dei morti e la vita sel mondo che verrà. Amen”

Lo rileggo ancora, con calma, dentro il silenzio ormai pieno di questa notte in questo strano paese sospeso tra realtà e immaginazione. E’ bello, è proprio bello, caro Marco!”

(da Mariano Borgognoni, Le primavere nascono d’inverno, ed.Cittadella 2016, 52-53)

“la radice di quella passione era mia madre. Dovunque vivessimo c’erano sempre fiori, era come un segno di eleganza e dignità, nella povertà della nostra esistenza girovaga. Se c’è qualcosa di regale su questa terra è proprio la sobrietà e la misura. Almeno io la penso così. La mancanza di ricchezza non mi è mai pesata.

Caro dottore, deve sapere che l’inverno offre la possibilità di avere degli straordinari fiori profumati. Perché non mette a dimora il calicanto o qualche tipo di dafne o i viburni che le daranno dei fiori di un rosa confetto molto delicati e resistenti? O anche tutte queste specie assieme, spazio ne ha a sufficienza. E se vuole allungare la stagione mescoli dei bulbi di bucaneve con perenni dai fiori precoci come l’alliboro. Avrà una fioritura rigogliosa e profumata. Niente di meglio per iniziare bene la giornata. La cosa affascinante del giardinaggio è questa santa alleanza tra uomo e natura, bisogna saper assecondare la natura, prenderla per il verso giusto, saperla ascoltare. E’ un’arte complessa quella del giardinaggio, gli impazienti non la possono mai praticare né all’opposto i pigri. Chiede capacità di attendere e perseveranza, conoscenza di un linguaggio diverso e rispetto. Fiducia nella forza della vita e speranza, con solo un piccolo spolvero di ottimismo, che il troppo addormenta, ma quel poco è come se fosse avvertito dalla natura come un far credito alle sue forze e perfino a qualche sorpresa e a un po’ di fantasia. Nel giardinaggio non tutto può essere previsto, c’è un imponderabile che ci insegna a non sentirci onnipotenti. Chi pratica questo vizio velenoso prima o poi ne paga il prezzo. Ma forse le ho rivelato troppi segreti, dottore, non pretendo che faccia altrettanto con la medicina!”

Sabato Felici aveva preso una paginata di appunti. Faceva così per tutte le cose che lo interessavano. Tornammo in salotto per un caffè forte fatto con la macchinetta napoletana.”

(da Mariano Borgognoni, Le primavere nascono d’inverno, ed.Cittadella 2016, 102-103)

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“Le donne del vangelo, invece, sono guidate dalla consolazione del Signore a entrare davvero nel mistero ed è quindi il loro atteggiamento che dobbiamo attentamente considerare (…)

… Gesù aggiunge ancora una frase: ‘Versando quest’olio sul mio corpo lo ha fatto in vista della mia sepoltura’. Maria di Betania rappresenta, mi sembra, il sì dell’umanità alla morte di Gesù. Non è Pietro che dice a Gesù: ‘Tu non farai questo’, ma è l’umanità che dice a Gesù: ‘Ti ringrazio Signore, e ti lodo e ti onoro per l’amore con il quale darai la vita per noi’. E’ la partecipazione dell’umanità alla morte del Signore. Partecipazione che è passiva e umiliante, se volete, per chi desidera essere sempre al primo posto. Umiliante per Pietro e per Giuda, umiliante per tutti noi, che vorremmo sempre fare qualcosa per il Signore, ma a cui il Signore dice in realtà: voi credete di fare qualcosa per me, ma se aveste il cuore illuminato dall’amore, come questa donna, capireste che sono io che sto facendo qualcosa per voi. Questa donna sta accettando il mio amore di salvatore: è l’unica che ha capito il Vangelo. Il Vangelo è l’amore di salvezza, è per questo che sarà predicato.

La buona novella appare quindi, qui, in una persona che è riuscita a capire che il Vangelo non è gloriarsi di far qualche cosa per il Signore, ma ringraziare perché il Signore fa qualcosa per noi poveri. I primi poveri da aiutare siamo noi. Questa donna, dunque, è il simbolo dell’umanità che si è lasciata amare da Gesù nella sua passione. E’ il simbolo della realtà di Maria: questa donna compie in maniera ‘intuitiva’ questo gesto, ma chi lo compie pienamente – lo sappiamo da Giovanni – è Maria, la quale come madre accetta l’assurdo che suo figlio soffra per lei (…) E’ lei che dice il suo ‘sì’, non un ‘sì’ per fare qualcosa, ma un ‘sì’ per lasciarsi fare…”

(da C.M.Martini, I vangeli. Esercizi spirituali per la vita cristiana, ed. Bompiani 2017, 297-307)

“E allora ho preso a dire, forse balbettando: “la mia fede? E’ ben povera cosa la mia fede. E’ una fede semplice, povera, elementare. Quello che posso dire è che non potrei mai vivere senza sentirmi legato a Gesù Cristo. Credo in tutto quello che ha detto, trovo stupendo tutto quello che ha fatto, è per me motivo di profonda pace quello che ha promesso. Mi sembra che le sue parole sulla croce: ‘Nelle tua mani consegno la mia vita’ siano le parole più belle che uno possa ritrovarsi sulle labbra. C’è il consegnarsi di chi si sente piccolo nelle mani buone di qualcuno che è soltanto amore”

(da Luigi Pozzoli, Quel poco di fede che mi porto dentro. Il sacerdote e lo scrittore. Pagine scelte, ed Paoline 2010)

IV domenica di Avvento – anno A – 2016

img_2248(Giovanni Pisano, Madonna col bambino, Museo nazionale di san Matteo – Pisa)

Is 7,10-14; Rom 1,1-7; Mt 1,18-24

Al re al trono Isaia prefigura la nascita di un nuovo re giusto dal nome ‘Emmanuele’ (Dio in noi), un autentico erede di Davide, non come Acaz stesso e i re infedeli che ponevano la loro fiducia in alleanze di imperi più forti.

La dinastia di Davide continuerà e l’Emmanuele sarà esempio di abbandono fiducioso in Dio. Isaia delinea così il figlio di Acaz, Ezechia, come Emmanuele, re con i tratti di pietà e fedeltà a Dio. Questa promessa indica un orizzonte che va oltre (cfr. Is 11,1-16). Dio stesso stabilirà il regno del messia (l’unto, il consacrato) come situazione di pace, oltre ogni orizzonte di spazio e di tempo: ‘grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine’ (Is 9,5-6). Isaia annuncia anche un ‘resto’, un piccolo gruppo che troverà stabilità nell’appoggiarsi nel Dio fedele e solo in lui. “In quel giorno il resto di Israele… non si appoggeranno più su chi li ha percossi, ma si appoggeranno sul Signore, sul Santo d’Israele, con lealtà” (Is 10,20).

Questo testo apre così all’attesa di un futuro in cui si attua la promessa di Dio a Davide in un cammino di popoli. Isaia indica un segno, ed una speranza oltre i confini del tempo: Dio interviene nella storia con segni che indicano il suo disegno di salvezza.

Matteo ha presente questi testi profetici quando scrive il suo vangelo. Nel volto di Gesù coglie il compimento di promesse e attese. L’annuncio dell’angelo a Giuseppe è presentato per far entrare Gesù nella discendenza di Davide. Così è ripreso lo schema classico di un annuncio di nascita: c’è la presenza di un messaggero, la chiamata per nome, l’invito a superare le difficoltà; il rinvio ad un segno e indicazioni su chi sta per nascere (cfr. Gdc 13,1-24).

Lo Spirito Santo è all’opera sin dal momento dell’inizio della vita di Gesù. Un messaggero comunica a Giuseppe di ‘non temere’ e di lasciarsi coinvolgere nell’opera di Dio. Giuseppe giusto, cioè fedele, vive una duplice fedeltà, a Maria a cui è legato e alla chiamata di Dio. Si abbandona nella fede a Dio che lo chiama.

Maria che darà alla luce un figlio, è invitata a scorgere che c’è un’opera dello Spirito santo nella sua vita, accoglie la volontà di Dio sulla sua vita: il suo cuore è spazio aperto oltre gli schemi umani. Come il sonno di Adamo anche il sonno di Giuseppe è luogo in cui opera Dio creatore. E come nel sogno dei magi si attua la guida di Dio vicino. Giuseppe è presentato come uomo giusto, cioè fedele. Nel profilo di Giuseppe si delinea così quello del credente, che vive la fatica del dubbio e l’abbandono della fede. Ed infine prende con sé Maria.

A Giuseppe è affidato il compito di dare il nome a Gesù, nome che significa ‘il Signore salva’. Emmanuele è nel vangelo di Matteo il nome di Gesù: ‘Dio con noi’, nome che riprende le promesse del Dio vicino in tutta la storia di salvezza. In questo nome è racchiuso il senso della vita di Gesù stesso. La salvezza è dono di vita, di perdono, di liberazione ed ha un nome che rinvia ad una presenza. Ed è un nome affidato.

Al cuore delle nostre esperienze sta un’attesa profonda, l’attesa di un nome, di qualcuno che solo può salvare. Quel ‘nome’ sta oltre ogni nostra attesa e possibilità, è dono ed è avvento, venire gratuito di Dio che libera e salva.

Alessandro Cortesi op

800px-robert_campin_-_l_annonciation_-_1425a(Robert Campin, Trittico di Mérode, 1427, Metropolitan Museum – New York)

La figura di Giuseppe compare, in modo insolito e originale, in una scena di annunciazione secondo lo stile fiammingo:  è il trittico Mérode (dal nome degli antichi proprietari) conservato ora al Metropolitan Museum di New York, attribuito alla bottega di Robert Campin. E’ un dipinto databile tra il 1422 e il 1430, periodo che in Italia vede attivi tra altri Masolino da Panicale, Masaccio, Paolo Uccello, Filippo Lippi.

Il trittico, elaborato con pittura a olio, è composto di tre pannelli, quello di sinistra nell’ambientazione di un giardino, quello al centro, con l’angelo e Maria in un salotto e quello a destra nell’interno della bottega di un artigiano con una finestra che affaccia su un panorama cittadino, su un piazza tipica di una città delle Fiandre, in cui si muovono persone prese dalle faccende della vita quotidiana.

Il pannello centrale raffigura la scena dell’annunciazione di Maria posta all’interno di una casa, nel contesto di una stanza in cui al centro sta un tavolo e Maria è raffigurata in posizione seduta a terra.

Un angelo con capelli ricci che scendono sule spalle, con la veste bianca e cintura azzurra da cui spuntano sulle spalle ali colorate con tinte variegate, appare come appena entrato e sembra che stia cercando di attirare a sé l’attenzione di Maria con un gesto di saluto mentre s’inginocchia. Maria, con i lunghi capelli sciolti, profondamente assorta nella lettura di un libro non sembra si sia accorta della sua presenza. L’arredo della sala e i dettagli delle vesti e degli oggetti presenti sono tratteggiati con una particolare cura. Si possono distinguere sullo sfondo un bacile sospeso e un asciugamano che reca i tratti di un velo della preghiera ebraica; Sullo sfondo una finestra con i battenti aperti, ma con un parapetto a grata fa intravedere il cielo e le nubi. Sopra la tavola, di forma rotonda, sono disposti un libro e un rotolo. Sono riferimento alle Scritture e al rotolo di Isaia con le profezie sul messia. Maria appare adagiata a terra con un’ampia veste di colore rosso e trova sostegno su di una panca davanti al camino. Regge tra le mani un libro proteggendolo con un velo che ne indica l’importanza e il valore. Dietro a lei un camino con la parete annerita davanti al quale una tavola traforata funge da protezione del fuoco. In un vaso poggiato sulla tavola è contenuto un giglio fiorito, simbolo di purezza, e su un candeliere una candela che si sta spegnendo fa salire alcune volute di leggero fumo. Dall’alto, attraverso i vetri di una finestra ovale giungono i raggi di una luce che attraversa la stanza e in questa luce compare la figura stilizzata di un omuncolo che regge la croce: è il simbolo della presenza di Gesù nel momento in cui l’angelo giunge ad annunciare a Maria il concepimento. I raggi attraversano il vetro senza danneggiarlo. La candela è spenta da questo soffio dello Spirito che giunge a lei recando una luce più grande di ogni lume terreno. L’atmosfera che regna su questo squarcio di vita quotidiana è quella di un profondo silenzio. Nel silenzio si compie qualcosa di grande, l’irrompere dello Spirito, l’azione di Dio e l’incarnazione del Verbo.

img516Nel pannello di destra Giuseppe è fissato mentre è al lavoro nella sua bottega di falegname che viene descritya come una stanza attigua della medesima casa. Anch’egli vestito con un abito di colore rsso, come Maria, assorto nel suo lavoro, appare ignaro di quanto sta avvenendo nella stanza vicina. E’ alle prese con una trivella e sta forando una tavola per predisporre una protezione di riparo del fuoco simile a quella che si trova nel caminetto. La bottega è occupata di strumenti di lavoro e sullo sfondo la finestra si apre sulla piazza della città. Ben in vista sono però due elementi che attraggono l’attenzione dell’osservatore, una trappola per topi sul tavolo di lavoro e un’altra trappola esposta al di fuori della finestra su un banco che aggetta al di fuori.

Dietro a questi oggetti sta un significato che il pittore vi ha racchiuso rendendoli chiave di lettura dell’intero trittico e suscitando così l’interesse di chi osserva.

Ma prima di individuare il loro senso si può porre attenzione alla parte sinistra del trittico, ambientata nel giardino che è cinto da mura e che conduce ad accedere con una porta che si apre all’ambiente centrale. Nel giardino sono raffigurati i profili dei committenti. Sono ricchi mercanti di Malines vestiti con abiti eleganti e la donna con il capo avvolto da un velo segno della condizione di donna sposata e un rosario tra le mani.

robert_campin_-_l_annonciation_-_1425Lo studio della composizione ha posto in risalto come la figura della donna e quella a lato in secondo piano, di un messaggero che giunge con un cappello di paglia in mano a portare un annuncio – raffigurato con l’abito dei messi comunali di Malines – siano figure aggiunte in un secondo tempo alla composizione. A questo punto si può indicare una possibile spiegazione dell’intero trittico.

Questo fu commissionato all’artista Campin prima del matrimonio del committente e solo a distanza di qualche tempo furono aggiunte da un altro pittore suo discepolo, Rogier van den Weiden, le figure della donna e del messo. La donna è la sposa del committente e il messo forse viene ad annunciare la prossima nascita di un loro figlio. Il dipinto sorge quindi come un ex voto per chiedere la protezione di Maria su questa nuova famiglia. E le sue dimensioni assai limitate (120×64 cm) confermano che era un dipinto non destinato ad una chiesa, ma ad un ambiente domestico in cui si pongono insieme sguardo al mistero dell’incarnazione e sguardo alla vita di una famiglia del tempo.

In tale contestualizzazione si può cogliere come nel dipinto il rinvio all’ambiente della casa e all’intervento di Dio si intrecciano e sono compresenti. La chiave di lettura diviene quell’elemento posto in risalto nella bottega di Giuseppe: la trappola per topi. Secondo un’interpretazione di Agostino infatti la croce di Gesù Cristo è trappola per il diavolo perché nell’umanità di Gesù stava nascosta la divinità che vinse la morte (Agostino, Sermo 263, De ascensione Domini). Tale simbolo diviene così figura della redenzione. Gesù trasse in inganno il diavolo celando la sua natura divina nella natura umana. E nella morte di Gesù si attuò la volontà di Dio di salvare l’umanità (cfr. Gregorio di Nissa, Oratio catechetica magna 24). Così il matrimonio di Maria e Giuseppe è velo che nasconde la realtà profonda dell’intervento di Dio nella vita umana. E’ come un riparo che tiene protetto il mistero della divinità di Gesù nascosta nella sua umanità e nella vita con Giuseppe e Maria nel silenzio di Nazareth. In tale senso è velo: così dal di fuori – dalla piazza – nel rapporto di Maria e Giuseppe le persone possono scorgere solamente un matrimonio umano, ma la loro è vicenda umana che racchiude una realtà più grande e diviene così trappola per il diavolo che viene ingannato. Infatti se si osserva bene l’oggetto che sta sulla finestra della bottega non è simile ad una una trappola per topi, come quella che sta sul banco, ma può essere letta come un letto matrimoniale. In quella casa chi guardava da fuori vedeva un matrimonio ordinario, (Meyer Schapiro, “Muscipula Diaboli,” The Symbolism of the Mérode Altarpiece, “The Art Bulletin” 27, 3,1945, 182-187).

A questa spiegazione si potrebbe aggiungere un proseguimento: il matrimonio di Maria e Giuseppe racchiude un mistero più grande nella loro unione che si dipana nella casa di Nazareth. Ma anche la famiglia dei committenti è toccata dal mistero dell’incarnazione. Nella loro vita insieme e nell’accogliere il messaggio di una nascita partecipano, nel giardino, alla vicenda di quella casa: nella loro unione e nel ricevere la notizia del giungere di un figlio possono cogliere nella trama della loro esperienza il celarsi della visita di Dio, di quell’annuncio che è salvezza per l’umanità e che è opera del Dio umanissimo presente e operante nelle trame della vita umana. E’ la presenza di un Dio nascosto che rinvia ad un cammino nell’andare oltre il velo, nel leggere i segni, nell’entrare nelle profondità del silenzio, nel non cadere nelle trappole di quanto immediatamente appare.

Alessandro Cortesi op

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