XXV domenica del tempo ordinario – anno B – 2021
Sap 2,12.17-20; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37
La vita del giusto costituisce un impedimento e silenziosa denuncia dell’ingiustizia e della disonestà degli empi. Per questo c’è chi trama per eliminarlo “perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni”. Il libro della Sapienza fissa questa vicenda che non è solo quella osservata dall’autore di questo libro biblico nel I secolo a.C., ma costituisce la vicenda di sempre, dell’opposizione da parte di chi detiene poteri e privilegi a chi lotta per la giustizia. La sfida è radicale: “vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio egli l’assisterà, e lo libererà dalle mani dei suoi avversari”.
Nella lettera di Giacomo la sapienza è contrapposta alle guerre e alle liti generate dalla brama di possesso, dalla ricerca di dominio e dall’invidia. Per contro la sapienza che viene dall’alto ha caratteri diversi e contrari: costruisce pace, è mite, non è aggressiva. Questo genere di sapienza non si limita ad una dimensione intellettuale ma si traduce in scelte di vita, in uno stile che porta a costruire la pace. La giustizia è come un frutto che sorge dall’albero buono della vita di chi promuove la pace. Via della sapienza – dice la lettera di Giacomo – è tessere riconciliazione, lottare contro ogni soluzione di violenza e di guerra per aprire vie diverse del convivere umano.
Nel vangelo Marco presenta Gesù nel suo cammino verso la croce, nel suo essere ‘consegnato’, e subire umiliazione e condanna rimanendo solo. Ma ‘dopo tre giorni risusciterà’: quella vita che agli occhi degli uomini è fallimentare, trova la conferma del Padre che lo risuscita al terzo giorno. Sulla strada Gesù accompagna i suoi a comprendere il senso del suo cammino. Ai dodici chiede chi è il più grande ed spiega il suo modo di comprendere i rapporti e la vita : “se uno vuol essere il primo sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti. E preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: ‘Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.
Gesù ribalta le prospettive sul ‘più grande’. Non intende la grandezza secondo le logiche del potere, del denaro, dei ruoli ma indica il criterio decisivo dell’accoglienza: chi accoglie il più piccolo e si pone a servizio è grande agli occhi del Padre. Il bambino che Gesù pone in mezzo, al centro, è figura paradigma per tutti coloro a cui non sono riconosciuti diritti e sono ritenuti piccoli, senza importanza. Gesù pone al centro i senza diritti, le vittime di un sistema sociale che scarta ed elimina i più deboli e indica che solo nell’esperienza concreta dell’accogliere si può comprendere chi è il più importante allo sguardo di Dio. Chiede così ai suoi di seguire lui, il figlio, che si è fatto servo, sulla via della croce. E così indica che accogliere i piccoli e le vittime è entrare nel cammino per incontrare il Padre.
Alessandro Cortesi op
Chi accoglie uno di questi bambini…
Raccolgo alcune parole che papa Francesco ha pronunziato nel suo recente breve viaggio in Ungheria e Slovacchia, carico di simboli sia per i luoghi visitati, sia per i gruppi e le persone a cui ha dato spazio nei suoi incontri.
La visita è iniziata con l’incontro con il presidente a Budapest e con il premier Orbàn, fautore di una chiusura sovranista, teorizzatore di una democrazia illiberale che rifiuta principi fondamentali dello stato diritto, assertore di posizioni razziste e difensore di un cristianesimo scambiato come appartenenza culturale, a cui si riferisce in modo identitario per giustificare il rifiuto dei migranti. Lo stesso premier ha regalato al papa copia di una lettera del re Bela IV a Papa Innocenzo IV (1250), in cui chiedeva aiuto per respingere la minaccia dei tartari che da Oriente minacciavano l’Ungheria cristiana e gli ha chiesto “di non lasciare che l’Ungheria cristiana perisca”. E’ da tener presente che in Ungheria le poltiiche di Orbàn di rifiuto dei rifugiati e di chiusura ai migranti è condivisa da alcuni vescovi.
Parlando ai vescovi il 12 settembre Francesco ha offerto elementi di una risposta alle sollecitazioni ricevute dal premier Orban e riprendendo il tema delle radici ha detto: “custodire le nostre radici religiose, custodire la storia da cui proveniamo, senza però restare con lo sguardo rivolto indietro: guardare al futuro, guardare avanti e trovare nuove vie per annunciare il Vangelo (…) Il vostro Paese è luogo in cui convivono da tempo persone provenienti da altri popoli. Varie etnie, minoranze, confessioni religiose e migranti hanno trasformato anche questo Paese in un ambiente multiculturale. Questa realtà è nuova e, almeno in un primo momento, spaventa. La diversità fa sempre un po’ paura perché mette a rischio le sicurezze acquisite e provoca la stabilità raggiunta. Tuttavia, è una grande opportunità per aprire il cuore al messaggio evangelico: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Davanti alle diversità culturali, etniche, politiche e religiose, possiamo avere due atteggiamenti: chiuderci in una rigida difesa della nostra cosiddetta identità oppure aprirci all’incontro con l’altro e coltivare insieme il sogno di una società fraterna”.
L’appello finale è stato centrato sull’invito a costruire ponti di dialogo in questo tempo e coltivare accoglienza:
“Sopra il grande fiume che attraversa questa città si staglia l’imponente Ponte delle Catene: sostituì un fragile ponte di legno e servì a unire Buda e Pest. Se vogliamo che il fiume del Vangelo raggiunga la vita delle persone, facendo germogliare anche qui in Ungheria una società più fraterna e solidale, abbiamo bisogno che la Chiesa costruisca nuovi ponti di dialogo. Come Vescovi, vi chiedo di mostrare sempre, insieme ai sacerdoti e ai collaboratori pastorali, il volto vero della Chiesa: è madre. È madre! Un volto accogliente verso tutti, anche verso chi proviene da fuori, un volto fraterno, aperto al dialogo.”
Nell’incontro ecumenico a Bratislava la sera di domenica 12 settembre, in un discorso in cui ha richiamato Dostojevski e la leggenda del grande inquisitore ed una poesia che viene imparata nelle scuole, Francesco ha invitato a condividere la carità: “Condividere la carità apre orizzonti più ampi e aiuta a camminare più spediti, superando pregiudizi e fraintendimenti. Ed è anch’esso un tratto che trova genuina accoglienza in questo Paese, dove a scuola s’impara a memoria una poesia, che contiene, tra gli altri, un passaggio molto bello: «Quando alla nostra porta bussa la mano straniera con sincera fiducia: chiunque sia, se viene da vicino oppure da lontano, di giorno o di notte, sul nostro tavolo ci sarà il dono di Dio ad attenderlo» (Samo Chalupka, Mor ho!, 1864). Il dono di Dio sia presente sulle tavole di ciascuno perché, mentre ancora non siamo in grado di condividere la stessa mensa eucaristica, possiamo ospitare insieme Gesù servendolo nei poveri. Sarà un segno più evocativo di molte parole, che aiuterà la società civile a comprendere, specialmente in questo periodo sofferto, che solo stando dalla parte dei più deboli usciremo davvero tutti insieme dalla pandemia”.
Nell’incontro con la comunità ebraica a Bratislava il papa ha iniziato la riflessione a partire dal luogo in cui trovavano, la piazza sede del quartiere ebraico e memoria delle persecuzioni “La piazza dove ci troviamo è molto significativa per la vostra comunità. Mantiene vivo il ricordo di un ricco passato: è stata per secoli parte del quartiere ebraico; qui ha lavorato il celebre rabbino Chatam Sofer. (…) In seguito, però, il nome di Dio è stato disonorato: nella follia dell’odio, durante la seconda guerra mondiale, più di centomila ebrei slovacchi furono uccisi. E quando poi si vollero cancellare le tracce della comunità, qui la sinagoga fu demolita. Sta scritto: «Non pronuncerai invano il nome del Signore» (Es 20,7). Il nome divino, cioè la sua stessa realtà personale, è nominata invano quando si viola la dignità unica e irripetibile dell’uomo, creato a sua immagine. Qui il nome di Dio è stato disonorato, perché la blasfemia peggiore che gli si può arrecare è quella di usarlo per i propri scopi, anziché per rispettare e amare gli altri. Qui, davanti alla storia del popolo ebraico, segnata da questo affronto tragico e inenarrabile, ci vergogniamo ad ammetterlo: quante volte il nome ineffabile dell’Altissimo è stato usato per indicibili atti di disumanità! Quanti oppressori hanno dichiarato: “Dio è con noi”; ma erano loro a non essere con Dio”.
Questo riferimento al luogo simbolico della piazza e a momenti in cui il nome di Dio è stato disonorato andavano alle vicende storiche della seconda guerra mondiale quando, dopo il patto di Monaco nel 1938, fu istituito sotto stretto controllo del regime di Hitler uno Stato slovacco autonomo alleato della Germania nazista e da essa dipendente. Un vescovo cattolico mons. Tiso ne fu presidente e ne divenne successivamente il duce, e fu egli stesso in accordo con i tedeschi per attuare le deportazioni di circa 100.000 ebrei slovacchi.
Dietro a queste parole del papa è da scorgere non solo la vergogna e la condanna per l’azione di mons. Tiso al tempo del nazismo ma anche la logica che presiede alla logiche sovraniste affermate oggi in queste regioni. E ha concluso con parole di speranza richiamando al bisogno di porte aperte: “Il mondo ha bisogno di porte aperte. Sono segni di benedizione per l’umanità. Al padre Abramo Dio disse: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3). È un ritornello che scandisce le vite dei padri (cfr Gen 18,18; 22,18; 26,4). A Giacobbe, cioè Israele, Dio disse: «La tua discendenza sarà innumerevole come la polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E si diranno benedette, in te e nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra» (Gen 28,14). Qui, in questa terra slovacca, terra d’incontro tra est e ovest, tra nord e sud, la famiglia dei figli di Israele continui a coltivare questa vocazione, la chiamata a essere segno di benedizione per tutte le famiglie della terra.”
Nella divina liturgia bizantina presieduta nella festa dell’esaltazione della croce il 14 settembre ha ricondotto al significato della croce per Gesù e per i suoi discepoli:
“La croce esige … una testimonianza limpida. Perché la croce non vuol essere una bandiera da innalzare, ma la sorgente pura di un modo nuovo di vivere. Quale? Quello del Vangelo, quello delle Beatitudini. Il testimone che ha la croce nel cuore e non soltanto al collo non vede nessuno come nemico, ma tutti come fratelli e sorelle per cui Gesù ha dato la vita. Il testimone della croce non ricorda i torti del passato e non si lamenta del presente. Il testimone della croce non usa le vie dell’inganno e della potenza mondana: non vuole imporre sé stesso e i suoi, ma dare la propria vita per gli altri. Non ricerca i propri vantaggi per poi mostrarsi devoto: questa sarebbe una religione della doppiezza, non la testimonianza del Dio crocifisso. Il testimone della croce persegue una sola strategia, quella del Maestro: l’amore umile. Non attende trionfi quaggiù, perché sa che l’amore di Cristo è fecondo nella quotidianità e fa nuove tutte le cose dal di dentro, come seme caduto in terra, che muore e produce frutto”.
Incontrando la comunità rom nel Quartiere Luník IX a Košice – comunità che nel passato hanno subito situazioni di discriminazione e che recentemente dal premier Orban sono stati individuati come categorie da emarginare e individuate come ‘nemico interno’ – ascoltando storie di integrazione ha così dialogato con i presenti: “Quante volte i giudizi sono in realtà pregiudizi, quante volte aggettiviamo! È sfigurare con le parole la bellezza dei figli di Dio, che sono nostri fratelli. Non si può ridurre la realtà dell’altro ai propri modelli preconfezionati, non si possono schematizzare le persone. Anzitutto, per conoscerle veramente, bisogna riconoscerle: riconoscere che ciascuno porta in sé la bellezza insopprimibile di figlio di Dio, in cui il Creatore si rispecchia. (…) Così ci avete dato un messaggio prezioso: dove c’è cura della persona, dove c’è lavoro pastorale, dove c’è pazienza e concretezza i frutti arrivano. Non subito, col tempo, ma arrivano. Giudizi e pregiudizi aumentano solo le distanze. Contrasti e parole forti non aiutano. Ghettizzare le persone non risolve nulla. Quando si alimenta la chiusura prima o poi divampa la rabbia. La via per una convivenza pacifica è l’integrazione. È un processo organico, un processo lento e vitale, che inizia con la conoscenza reciproca, va avanti con pazienza e guarda al futuro. E a chi appartiene il futuro? Possiamo domandarci: a chi appartiene il futuro? Ai bambini. Sono loro a orientarci: i loro grandi sogni non possono infrangersi contro le nostre barriere. (…) Ringrazio chi porta avanti questo lavoro di integrazione che, oltre a comportare non poche fatiche, a volte riceve pure incomprensione e ingratitudine, magari persino nella Chiesa. (…) Andate avanti su questa strada, che non illude di poter dare tutto e subito, ma è profetica, perché include gli ultimi, costruisce la fraternità, semina la pace. Non abbiate paura di uscire incontro a chi è emarginato. Vi accorgerete di uscire incontro a Gesù. Egli vi attende là dove c’è fragilità, non comodità; dove c’è servizio, non potere; dove c’è da incarnarsi, non da compiacersi. Lì è Lui”.
Tali parole di apertura all’incontro divengono rilevanti anche per la chiesa per un cambiamento da attuare. Parlando nella cattedrale di san Martino a Bratislava Francesco ha detto: “La Chiesa non è una fortezza, non è un potentato, un castello situato in alto che guarda il mondo con distanza e sufficienza. Qui a Bratislava il castello già c’è ed è molto bello! Ma la Chiesa è la comunità che desidera attirare a Cristo con la gioia del Vangelo – non il castello! –, è il lievito che fa fermentare il Regno dell’amore e della pace dentro la pasta del mondo (…) Ecco, è bella una Chiesa umile che non si separa dal mondo e non guarda con distacco la vita, ma la abita dentro. Abitare dentro, non dimentichiamolo: condividere, camminare insieme, accogliere le domande e le attese della gente. Questo ci aiuta a uscire dall’autoreferenzialità: il centro della Chiesa… Chi è il centro della Chiesa? Non è la Chiesa! E quando la Chiesa guarda sé stessa, finisce come la donna del Vangelo: curvata su sé stessa, guardandosi l’ombelico (cfr Lc 13,10-13). Il centro della Chiesa non è se stessa.”.
“non abbiate timore di formare le persone a un rapporto maturo e libero con Dio. Importante è questo rapporto. Questo forse ci darà l’impressione di non poter controllare tutto, di perdere forza e autorità; ma la Chiesa di Cristo non vuole dominare le coscienze e occupare gli spazi, vuole essere una “fontana” di speranza nella vita delle persone. È un rischio. È una sfida”.
“La gioia del Vangelo è sempre Cristo, ma le vie perché questa buona notizia possa farsi strada nel tempo e nella storia sono diverse. Le vie sono tutte diverse. Cirillo e Metodio percorsero insieme questa parte del continente europeo e, ardenti di passione per l’annuncio del Vangelo, arrivarono a inventare un nuovo alfabeto per la traduzione della Bibbia, dei testi liturgici e della dottrina cristiana. Fu così che divennero apostoli dell’inculturazione della fede presso di voi. Furono inventori di nuovi linguaggi per trasmettere il Vangelo, furono creativi nel tradurre il messaggio cristiano, furono così vicini alla storia dei popoli che incontravano da parlarne la loro lingua e assimilarne la cultura. Non ha bisogno di questo anche oggi la Slovacchia? Mi domando. Non è forse questo il compito più urgente della Chiesa presso i popoli dell’Europa: trovare nuovi “alfabeti” per annunciare la fede?”.
Nelle sue parole e nella geografia della sua visita Francesco ha mostrato come oggi l’annuncio del vangelo implichi anche una chiara presa di posizione insieme ad un impegno in contrasto ad orientamenti che svuotano l’annuncio cristiano e lo riducono a elemento identitario: con la libertà di chi non ricerca di dominare e occupare spazi oggi la sfida sta nel ricercare vie concrete di accoglienza, apertura alle diversità, incontro nella solidarietà con l’altro.
Alessandro Cortesi op
XXVI domenica del tempo ordinario – anno B – 2021
Nm 11,25-29; Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48
Nel deserto, nel cammino dell’Esodo Mosè sceglie settanta fra gli anziani di Israele quale aiuto per guidare il popolo. Ricevono il dono dello spirito di profezia. Ma improvvisamente Eldad e Medad, che non erano tra quelli prescelti ed erano rimasto nell’accampamento furono investiti dallo spirito e ‘si misero a profetizzare’. Tale evento suscita sorpresa e disorienta perché qualcuno esterno al gruppo istituito ha ricevuto un dono particolare e si fa portatore della parola di Dio – vive il compito di profeta – senza essere istituito tale. Mosè a fronte delle rimostranze risponde: “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!”.
Queste parole manifestano lo sguardo lungo di Mosè, il suo essere uomo di Dio, capace di scorgere che Dio va al di là delle gabbie religiose in cui l’istituzione racchiude la sua parola e il suo dono. Invita ad accogliere la libertà dello Spirito che non può essere racchiuso nei progetti e nelle strutture umane. Mosè suggerisce di accogliere con disponibilità quanto lo Spirito suscita anche al di fuori delle appartenenze costituite. E indica anche un orizzonte di promessa: è il sogno che tutti siano profeti nel popolo del Signore, testimoni del suo agire. Nella profezia di Eldad e Medad si rende presente l’azione dello Spirito che soffia dove vuole. C’è una profezia da ascoltare e accogliere al di fuori e oltre ogni barriera e sistema religioso. Sta in questa apertura il segreto che rende disponibili
La pagina del vangelo raccoglie alcuni brevi insegnamenti di Gesù che rinviano al suo stile. Di fronte a qualcuno fuori del gruppo dei discepoli che opera miracoli come segni di liberazione i discepoli reagiscono dicendo che non è ‘uno dei nostri’. Ancora si manifesta la mentalità di chiusura e di incapacità a scorgere il soffio di Dio al di fuori dei confini stabiliti. Gesù per contro invita a riconoscere i segni della presenza dello Spirito e non vivere nella chiusura, nell’autoreferenzialità e nell’atteggiamento di chi sempre vede negli altri un pericolo. “non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi”.
La vita al seguito di Gesù si riconosce non per atti di religiosità e di culto, ma per un operare quotidiano nei gesti più semplici: sono i gesti della accoglienza della cura, del conforto. “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa”.
Anche un bicchiere d’acqua offerto, un gesto quotidiano e quasi insignificante, è invece importante agli occhi di Gesù e lui indica che non andrà perduto. In ogni gesto che esprime un dono si rende presente la comunicazione di Dio stesso che è Dio della gratuità e della misericordia. Le parole di Gesù sono dure a fronte di chi offende i piccoli: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare”. Segue un forte invito a tagliare tutto ciò che può essere di impedimento e di inciampo (scandalo) a chi è più debole nella fede. Rompere con ogni occasione di male e di peccato è esigenza chiara di Gesù a chi desidera seguirlo. In queste parole emerge un forte appello a considerare il proprio cammino sempre in rapporto agli altri e a vivere un impegno di responsabilità che coinvolge tutta l’esistenza rifuggendo senza riserve ogni ipocrisia e doppiezza. Le dure parole della lettera di Giacomo rivolte ai ricchi che opprimono il giusto si pongono in questa linea: non si può vivere rimanendo indifferenti alla sofferenza degli altri. Ogni tesoro diverrà ruggine, cioè rivelerà la propria inconsistenza e giungerà alla rovina se non è inteso secondo la logica della condivisione con i poveri. Nell’uso dei beni si attua una scelta di accoglienza o rifiuto del volto stesso di Dio.
Alessandro Cortesi
Responsabilità
“La vera emergenza migranti non è quella di cui parla la propaganda populista, ma quella che potrebbe abbattersi sull’Europa se non verranno governati gli sconvolgimenti meteo-climatici che già oggi attraversano il pianeta. E che domani rischiano di capovolgere gli equilibri geopolitici della comunità internazionale e i rapporti sociali ed economici dei Paesi occidentali. Stando ai dati presentati nell’ultimo rapporto della Banca Mondiale Growndshell entro il 2050 almeno 216 milioni di persone saranno costrette a migrare a causa del cambiamento climatico e delle sue conseguenze” (Francesca Santolini, La Stampa 23 settembre 2021).
Nella giornata mondiale del migrante e del rifugiato in questo tempo segnato dal perdurare della pandemia e dal maturare della consapevolezza dei danni arrecato dall’agire umano sull’ambiente si pone sempre più urgente la questione di tenere unita la considerazione della crisi ecologica e della questione climatica con la questione sociale. Il periodo della pandemia ha visto lo spropositato arricchirsi di pochi miliardari e l’impoverimento di intere popolazioni sul pianeta. Nel suo primo discorso al Congresso degli USA nell’aprile scorso Joe Biden ha indicato come 650 miliardari americani hanno aumentato il loro patrimonio netto di tremila miliardi di dollari in questo periodo. Mentre nel frattempo solamente negli USA venti milioni di persone perdevano il lavoro.
Alcuni esempi possono essere significativi: secondo la rivista Forbes Jeff Bezos risulta essere la persona più ricca del mondo nel 2021 con un patrimonio di 177 miliardi di dollari, con un incremento di 64 miliardi rispetto allo scorso anno per la crescita delle azioni di Amazon. Elon Musk è al secondo posto con 151 miliardi di dollari: ha aumentato il suo patrimonio di 126,4 miliardi in un anno dovuto all’aumento delle azioni di Tesla del 705%. Il francese Bernard Arnault ha quasi raddoppiato la sua fortuna, da 76 a 150 miliardi di dollari per l’aumento delle azioni di marchi come Louis Vuitton e Christian Dior. Seguono Bill Gates e Mark Zuckerberg con una crescita dell’80% delle azioni di Facebook.
Questi dati lasciano senza parole pensando alla condizione di impoverimento che la pandemia ha aggravato per gran parte dell’umanità nel mondo: a titolo di esempio, e per richimaare attenzione nel disinteresse generale, si può menzionare la situazione del Libano in cui vi è mancanza di combustibile per le auto, la fornitura di energia elettrica è limitata e razionata durante il giorno impedendo le normali attività di ospedali e aziende, e gli stessi medicinali sono di difficile reperibilità nelle farmacie. E’ sconvolgente la situazione di ingiustizia globale che vede l’arricchimento dei super-ricchi mentre i poveri sendono sempre più in condizioni di indigenza. E tale arricchimento si attua in un fondamentale disinteresse verso la condizione globale del clima e dell’ambiente: si tocca quindi con mano l’insipienza del ricco che non si rende conto che i beni che possiede hanno un riferimento sociale ineludibile e che pensa di poter godere da solo la propria ricchezza disinteressandosi di una casa comune. L’impatto della crisi climatica non colpisce solamente le aree più povere del pianeta ma si sta già rendendo visibile nei suoi effetti disastrosi e nel generare spostamenti di popolazioni per fuggire dalle zone colpite da eventi estremi e calamità naturali e dal progressivo innalzamento delle acque.
In Fratelli tutti (2020) Francesco ha scritto: “in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso” (FT 123) E in Laudato sì (2015) ha ricordato che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata» (LS 93).
Una redistribuzione delle ricchezze attraverso una tassazione dei patrimoni e un deciso orientamento a impiegare risorse in scelte economiche di sincero rispetto dell’ambiente sono due sfide che l’attuale momento storico pone all’umanità intera.
Alessandro Cortesi op