la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

Archivio per il tag “ascolto”

II domenica di Quaresima – anno B – 2024

Gen 22,1-2.9.10-13.15-18; Rm 8,31-34; Mc 9,2-10

L’intera quaresima, i quaranta giorni, è cammino orientato alla Pasqua, tempo per coltivare una disponibilità interiore al ascoltare Gesù come Figlio che conduce ad incontrare l’amore del Padre.

Al centro della liturgia della Parola di questa domenica è la narrazione dell’esperienza vissuta dagli apostoli con Gesù sul monte: è un racconto di luce e di incontro che va letto nel punto particolare in cui Marco lo colloca nel suo vangelo. Viene infatti subito dopo la confessione di Pietro a Cesarea (8,29). Pietro aveva riconosciuto in Gesù il volto del messia atteso (cfr. Mc 8,27-33): ma la via del messia che Gesù propone a Pietro è lontana da attese e orizzonti di potere. Pietro viene rimproverato perché attende da Gesù un messia del dominio, capace di affermazione e di violenza e Gesù invece si situa in un altra linea. Inizia infatti a annunciare che la sua via sarà segnata da sofferenza e ingiusta ostilità e condanna. Da allora inizia a insegnare che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire. In questo cammino l’episodio sul monte è segno di speranza. I discepoli nella luce del Tabor ricevono un annuncio per affrontare lo scandalo della croce: la via che Gesù sta percorrendo non è senza senso e non è buio ma in essa si racchiude un orizzonte di luce e di gloria.

“Gesù fu trasfigurato”: il verbo al passivo suggerisce che Dio stesso è il soggetto di quanto si compie in Gesù. L’esperienza indicibile viene descritta con il linguaggio della luce e dello splendore. Marco è attento a non far pensare alla metamorfosi degli dèi, ben conosciuta in ambito romano. Narra invece di vesti splendenti e bianche, come nessun lavandaio potrebbe renderle, segno di vicinanza unica a Dio. E Gesù sul monte è accompagnato dai tre discepoli che saranno con lui anche nell’orto del Getsemani (Mc 14,33). Con questo particolare Marco suggerisce un collegamento tra questo momento di luce e la passione di Gesù. Così anche la presenza di Mosè e di Elia, profeti di cui si attendeva il ritorno negli ultimi tempi è segno di un momento in cui passato presente e futuro si uniscono. Per comprendere Gesù si deve entrare nella storia di alleanza di cui Mosè e Elia sono i paradigmi.

Di fronte allo splendore i discepoli sono presi dallo spavento.  è timore di fronte al rivelarsi dell’identità di Gesù. Pietro propone di fare tre tende – con allusione alla festa ebraica delle capanne festa che anticipa il riposo della fine dei tempi -. Ma non è questo il momento della gioia e del riposo, è invece questo il tempo dell’ascolto. Inoltre la tenda rinvia al luogo della dimora: ora la dimora è la stessa umanità di Gesù, è lui la nostra casa.

La nube che avvolge nell’ombra, evocazione della presenza di Dio nella tradizione dell’Esodo (Es 16,10;24,18) lascia spazio ad un’altra voce: “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo”. La voce, come al momento del battesimo al Giordano, esprime il mistero dell’identità di Gesù, il Figlio, l’amatissimo: la voce è rivolta non solo a Gesù ma ai discepoli ed invita all’ascolto di lui (cfr. Dt 18,15).

Come sull’Oreb Dio aveva manifestato a Mosè la sua identità donando l’alleanza ora su un monte alto Gesù viene indicato come ‘il Figlio’. La voce nella nube richiama solo all’ascolto di lui. I discepoli sono chiamati a rivolgersi a lui solo e ad ascoltarlo lasciandosi coinvolgere nel suo cammino. Sul volto del servo sofferente che va verso Gerusalemme emergono i tratti del Figlio amatissimo, che rivela le profondità dell’amore del Padre. Sul monte l’esperienza dei discepoli apre al mistero dell’amore di Dio vicino e diviene appello a lasciarsi illuminare dall’incontro con lui: Ascoltatelo.

Alessandro Cortesi op

IV domenica tempo ordinario – anno B – 2024

Dt 18,15-20; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28

“Il Signore disse: Io susciterò loro un profeta e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò” (Dt 18,16)

Non un ‘lettore del futuro’, non un mago che risponde a domande relative ad una vita già predeterminata nelle linee delle mani o delle carte. Profeta è invece uomo, donna della Parola. La sua condizione è ben distante dalla illusoria conoscenza dei venditori di certezze. E’ invece la precarietà e la fragilità di chi ha accolto l’invito di una chiamata ed imposta la vita sull’ascolto della parola di Dio. La sua parola richiama così ad una fedeltà a Dio che passa attraverso relazioni nuove di giustizia, di cura per gli altri. Il richiamo alla parola di Dio si accompagnerà con lo scontro con ogni istituzione che chiude la parola in un sistema in un possesso di una classe clericale o di una élite di sapienti o schiaccia le vite impedendo parole di bene. Le voci dei profeti si alzeranno soprattutto per richiamare il disegno di pace di Dio contro l’ingiustizia, la prevaricazione e la guerra.

Marco nel suo vangelo presenta Gesù come ‘uomo della parola’. Egli infatti insegna ed il suo insegnare è parola che fa trasparire la direzione della sua esistenza. Coinvolge chi lo ascolta perché proveniente da un’esperienza di libertà interiore “non come gli scribi”. Nel giorno di sabato, giorno della memoria del riposo di Dio e del dono della legge, al centro della sinagoga Gesù insegna nella sinagoga, luogo della comunità e luogo della Parola. E’ il suo un insegnamento pacato, non gridato, parola capace di incontrare le attese e le sofferenze di chi ascoltava e sapeva essere benedizione, apertura alla speranza.

Marco sottolinea il contrapporsi di questo insegnamento di Gesù – maestro che non s’impone ma attrae e coinvolge – con il grido di un uomo dominato da uno spirito immondo –. Lì, al centro del luogo religioso, della sinagoga -: “si mise a gridare: ‘che c’entri con noi Gesù nazareno? Io so chi tu sei: il santo di Dio!’. E Gesù lo sgridò: ‘Taci, esci da quell’uomo’. E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.”

Gesù impone di tacere ad una voce che grida la sua identità in modo prepotente. Invita al silenzio: ‘Ammutolisci ed esci da lui’. La forza del male è presentata in contrasto con la Parola. Con la sua parola Gesù porta liberazione. Il suo insegnare diviene gesto di liberazione e apre il passaggio dal grido all’ascolto. Non una parola che rende schiavi e domina facendo morire, ma un parola che apre la possibilità di vivere.

Con la sua parola Gesù restituisce quell’uomo a se stesso, attua una liberazione che è permettere che la persona sia se stessa, non sdoppiata o dominata. Marco delinea in Gesù il modello di un educatore che lascia spazio alla crescita, alla vita di ognuno.

La parola di Gesù richiama il profeta annunciato nel Deuteronomio: “All’udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: ‘Questi è davvero il profeta’ (Gv 7,40; cfr. Gv 6,14). Non si tratta di una ‘dottrina’, piuttosto di  una parola capace di toccare la vita e di accoglierla e prendersi cura.

Il dono di essere profeti nel popolo di Dio è dono di ascolto di questa parola che può coinvolgere e trasformare la nostra esistenza.

Alessandro Cortesi op

II domenica del tempo ordinario – anno B – 2024

1Sam 3,3-10.19; 1Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42

La storia di Samuele inizia con il pianto di Anna avvilita per la sua sterilità. Ed insieme con un rimprovero del sacerdote perché Anna nel suo piangere davanti a Dio non aveva un contegno religioso. Tutto si capovolge quando Anna partorisce un figlio e si manifesta il volto di un Dio che rovescia i modi di pensare umano, sta dalla parte dei ‘poveri’ e spezza le armi dei violenti. Samuele dopo la nascita è consegnato al Signore e vive presso il tempio. La pagina della sua chiamata è centrata sull’irrompere della parola e sull’ascolto. Samuele accoglie una voce ma non sa da dove proviene; solo dopo vari tentativi può aprire il cuore e dire ‘eccomi’ a Dio stesso. Nel racconto si rende presente Dio che rivolge la sua parola e chiama per nome. Come per Abramo e Mosé anche Samuele viene raggiunto in modo inatteso e vive la fatica discernere  da dove proviene quella voce che lo inquieta. Il suo itinerario trova aiuto nel vecchio sacerdote Eli, paziente nel lasciare spazio alla ricerca del giovane, attento e discreto nell’indicare l’apertura ad un incontro e l’ascolto dell’Ineffabile.

Un grande messaggio di questa pagina è che Dio chiama, rivolgendo la sua parola, continua a chiamare nella storia e suscita attenzione e ascolto. E’ una voce debole, può sempre essere confusa con altre voci. Ma c’è un altro messaggio: ascoltare le chiamate di Dio non può compiersi senza un confronto, senza un’altra parola, questa volta umana. La parola di Dio richiede la fatica dell’ascolto e dell’interpretazione, da attuare continuamente ed insieme. Le chiamate di Dio sono parola che raggiunge non in modo impersonale e asettico, ma come invito personale. Per ogni persona si apre la via di compiere il proprio nome, con originalità e immaginazione creativa: il dono ricevuto può germogliare in modi inediti.

Nella pagina del vangelo i primi discepoli sono fermati nel loro iniziale seguire Gesù. C’è all’inizio un incrocio di sguardi e di inviti a ‘vedere’. Per accogliere Gesù è richiesto camminare dietro a lui: ‘venite e vedete’. Si tratta del ‘credere’ come esperienza e coinvolgimento dell’esistenza, che apre ad nuovo vedere. L’invito che Gesù è seguito da una domanda: ‘che cosa cercate?’ Gesù non si impone con le sue risposte: apre una ricerca, lascia spazio ad una inquietudine oltre ogni pretesa di chiudere anche la sua presenza entro i ristretti confini di una ‘religione’ o di un tempio. Da qui si apre una strada che condurrà fino alla domanda rivolta a Maria di Magdala in pianto nel giardino (Gv 20,11): ‘Donna, perché piangi? Chi cerchi?’. L’intero vangelo si presenta come itinerario per giungere alla domanda ‘chi cerchi?’. Ed apre ad un vedere quale sguardo dell’amore che vince la morte. Tutto ciò nel racconto avviene all’interno di una rete di relazioni. Sono gli incontri della quotidianità, della parentela e dell’amicizia: Andrea è fratello di Simone, Filippo è della città di Andrea, Filippo incontra Natanaele…L’esperienza dell’incontro con Gesù si genera all’interno di un quotidiano  di relazioni e di incontri nel tessuto ordinario della vita.
Alessandro Cortesi op

Trasfigurazione del Signore – anno A – 2023

Dan 7,9-10.13-14; 2Pt 1,16-19; Mt 17,1-9

Sei giorni dopo… così inizia Matteo il suo racconto della trasfigurazione. E’ una notazione marginale, quasi trascurabile, ma racchiude un essenziale riferimento per comprendere l’intera pagina e la sua narrazione di un’esperienza decisiva di incontro con Gesù.

Il rinvio a sei giorni prima è da collegare infatti al momento in cui Gesù aveva posto ai suoi una domanda che li coinvolgeva direttamente: Voi chi dite che io sia?

E quella domanda aveva ricevuto la risposta di Pietro “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Ma a queste parole Gesù aveva reagito notando che dire questo non è affermazione proveniente da capacità umane ma da una rivelazione del Padre. Non solo ma Gesù aveva indicato che il suo essere messia (Figlio del Dio vivente) si poteva cogliere solo nel suo cammino “doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto…e venire ucciso e resuscitare il terzo giorno”. E tutto ciò era per Pietro motivo di scandalo e di incomprensione. E Gesù chiamava chi lo seguiva a concepire il proprio cammino sui suoi passi, condividendo la sua via, nella linea del dono, del servizio. Erano chiamati a seguire non una promessa di affermazione e di potenza, non di guadagni e di comodità indifferente, ma il volto del messia povero che condivideva la vicenda delle vittime e dei poveri della storia.

E sul monte sei giorni dopo, ricorda Matteo, Gesù si fece incontrare  avvolto di luce: il volto brillava in quel momento in cui vicino a Gesù c’erano i tre Pietro Giacomo e Giovanni: i medesimi tre che saranno accanto a lui nel momento più buio, delle tenebre e del disorientamento di fronte alla morte, nell’orto degli ulivi quando Gesù venne arrestato per essere condotto al processo e alla condanna.

Quel momento di luce  si fissò nel ricordo dei discepoli a divenire momento di rivelazione: il volto del messia che stava andando verso Gerusalemme è volto di luce. Essi sono accompagnati a scorgere sul volto del servo sofferente che percorre la via della croce i tratti del Figlio amatissimo, di colui che rivela le profondità dell’amore del Padre. Ed anche i discepoli sono partecipi di quella luce, desiderosi di fermarsi là, di trattenerla: …facciamo tre tende. Ma quel momento non può essere trattenuto: il cammino continua e ai discepoli, a conclusione della narrazione è data un’indicazione essenziale per sostenere il cammino anche nei giorni bui, anche nel momento in cui la luce sembra sparita: ‘Ascoltatelo’. “Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo»”. L’ascolto è l’orizzonte in cui rimanere per accogliere la via di Gesù e per percorrerla, anche quando prevale il buio e non c’è la luminosità del monte ad aprire lo sguardo.

E nella lettera di Pietro compare quasi un’eco di quell’esperienza, e l’indicazione di cammino per una comunità che cerca ogni giorno di seguire il suo Signore:

«Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino”  

C’è una attesa da coltivare, una attesa di luce ma quello squarcio di luce che è stata esperienza dei discepoli è forza nel cammino e ci chiede di rimanere nell’ascolto e nell’accoglienza del suo amore.

Alessandro Cortesi op

XXVI domenica tempo ordinario – anno C – 2019

ricchezza-povertà-1.jpgAm 6,1.4-7; 1Tim 6,11-16; Lc 16,19-31

Amos nella sua azione di profeta denuncia gli spensierati, seduti in letti d’avorio, che canterellano, bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati. E’ modo di vivere di chi rimane insensibile alla miseria degli impoveriti che nel medesimo tempo vivevano nella miseria e nell’oppressione. Amos grida la sua protesta che proviene dalla chiamata ad annunciare la parola del Signore: ‘finirà l’orgia dei buontemponi’.

La parabola del ricco e del povero Lazzaro, il cui nome ‘El azar’, significa ‘Dio aiuta’, è un racconto proprio del vangelo di Luca, attento in modo particolare alla questione della povertà.

La parabola nella prima parte presenta due quadri opposti: la situazione del ricco descritto con i caratteri di uno spensierato che gode nell’abbondanza, reso insensibile dal lusso e dell’agiatezza. Vive come in una bolla e non si rende nemmeno conto del dolore di chi alla sua porta non ha nemmeno il cibo indispensabile per sfamarsi.

Alla sua porta, vicino e distante, sta Lazzaro, povero, coperto di piaghe, allontanato dalla casa dove si banchettava lautamente e la sua unica compagnia sono i cani randagi. E’ un situazione di contrasto che già nella presentazione diviene accusa di un modo di vivere che Gesù vedeva attorno a lui nel divario tra la ricchezza dei potenti e la miseria degli sfruttati, nell’ingiustizia che esso rappresenta.

Il momento della morte comporta un totale rovesciamento della situazione: Lazzaro è portato dagli angeli accanto ad Abramo mentre il ricco è immerso nei tormenti. Abramo è padre della fede d’Israele e diviene padre dei poveri. E il ricco invece sperimenta la rovina.

Questa descrizione non intende essere una sorta di descrizione della vita dell’aldilà per suscitare strane immaginazioni, di cui si trova attestazione nell’iconografia di questo racconto. Il motivo centrale della parabola sta altrove. La questione al cuore della parabola non è un invito ad immaginare un futuro lontano e fuori della nostra portata, è piuttosto un appello rivolto al presente in cui scorgere come orientare la propria vita per trovare il suo senso più profondo: a questo ci guida la seconda parte del racconto.

La seconda parte della parabola infatti presenta un dialogo tra il ricco e Abramo. Il ricco chiede di andare ad avvisare i suoi cinque fratelli, perché non abbiano a subire la medesima sorte. Si rende conto che una vita spesa nell’indifferenza senza farsi carico degli altri è una vita fallita. Ma la sua richiesta trova in modo sorprendente un rifiuto. Abramo gli risponde: “Hanno Mosè e i profeti: li ascoltino… Se non ascoltano Mosè e i profeti, anche se uno risuscitasse dai morti non si lascerebbero convincere”. E’ una parola dura, un richiamo forte a chi ascolta.

Siamo qui di fronte al punto verso cui tutto il racconto converge: l’espressione ‘Mosè e i profeti’ indica le Scritture, rinvia alla storia della comunicazione di Dio con Israele. Lì Dio si manifesta come colui che si volge alla sofferenza del povero. La risposta di Abramo, padre dei credenti, richiama ad un ascolto che va vissuto nella vita, che interpella il presente. Non è quindi questione di miracoli sorprendenti e di invii celesti: il progetto di Dio per l’umanità è sogno di comunione, di raduno di popoli, di condivisione. Le Scritture sono via per ascoltare la volontà di Dio sulla propria vita e per agire responsabilmente. Solamente l’ascolto che provoca a cambiare il cuore è forza che conduce a vincere l’insensibilità e la cecità del ricco. Tale ascolto della parola dei profeti e del grido dei poveri può generare un diverso rapporto con gli altri perché la vita si apra al suo compimento che è incontro e comunione.

Alessandro Cortesi op

yemen_editorialeNon si tratta solo di altri

E’ un pugno nello stomaco il reportage di Francesca Moannocchi dallo Yemen pubblicato su “L’Espresso” del 22 settembre 2019, pp.10-21. Il titolo già indica la discesa a cui conduce l’articolo: L’inferno dei bambini. E’ un percorso di contatto diretto con la realtà in cui si viene portati ad ascoltare una parola ripetuta ogni giorno: “‘manca tutto’ dicono i bambini”. Ma è affermazione che contrasta con gli scaffali delle botteghe in cui è esposta la farina e le farmacie in cui sono presenti i medicinali. “Però nelle case manca tutto, le corsie degli ospedali sono piene di bambini malnutriti e i bambini muoiono di fame. Sono gli effetti delle guerre quando assumono la forma più subdola, quando diventano cioè guerre economiche e i morti che si contano, nel burocratico vocabolario bellico, si chiamano vittime indirette”.

E’ un aspetto della distanza odierna ma i mondi della ricchezza in cui regna l’abbondanza e lo spreco e gli inferni della miseria in cui i bambini muoiono di fame, di colera e difterite a causa della guerra. C’è infatti un elemento importante che il reportage pone in evidenza: le guerre sono tra le prime cause della iniquità che attraversa il mondo. Lo Yemen oggi è terra dimenticata in cui questa tragedia è quotidiana e da lì sale il grido silenzioso delle vittime. Dodici milioni di persone vedranno nelle prossime settimane ulteriormente diminuite. E questa situazione si svolge mentre la comunità internazionale rimane indifferente.

Racconta Francesca Mannocchi delle parole e del volto di una madre: “Alima, come le altre madri, sembra anestetizzata dalla fatica di sopravvivere. Non inveisce, non si lamenta”. E’ questo silenzio da ascoltare…

“Secondo lo Yemen Data Project che raccoglie i dati sugli attacchi aerei, la coalizione a guida saudita ha effettuato 20 mila attacchi aerei, un terzo dei quali su siti non militari: infrastrutture, ospedali, scuole. I danni materiali, uniti al blocco aereo, navale e marittimo imposto alle aree settentrionali hanno paralizzato l’accesso ai beni primari, mettendo in ginocchio il paese che era già il più precario dell’area e impoverendolo al punto da essere considerato sull’orlo della carestia”.

“E nel tutti contro tutti la guerra militare è anche guerra di propagande nemiche che alimentano l’arma più subdola: la fame, la più insidiosa delle battaglie, perché la fame uccide lentamente e dalla fame nessuno può scappare”.

Le foto di Alessio Romenzi che corredano l’articolo testimoniano interni di ospedali, bambini seduti tra case ridotte a cumuli di macerie, edifici sventrati e inabitabili, immagini della devastazione e della distruzione che sono denuncia della responsabilità di quanti alimentano questa guerra e dell’ignavia di un mondo distratto. La storia del ricco e di Lazzaro si ripete anche nel nostro mondo.

“Le società economicamente più avanzate sviluppano al proprio interno la tendenza a un accentuato individualismo che, unito alla mentalità utilitaristica e moltiplicato dalla rete mediatica, produce la “globalizzazione dell’indifferenza”. In questo scenario, i migranti, i rifugiati, gli sfollati e le vittime della tratta sono diventati emblema dell’esclusione perché, oltre ai disagi che la loro condizione di per sé comporta, sono spesso caricati di un giudizio negativo che li considera come causa dei mali sociali. L’atteggiamento nei loro confronti rappresenta un campanello di allarme che avvisa del declino morale a cui si va incontro se si continua a concedere terreno alla cultura dello scarto. Infatti, su questa via, ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa a rischio di emarginazione e di esclusione.

Per questo, la presenza dei migranti e dei rifugiati – come, in generale, delle persone vulnerabili – rappresenta oggi un invito a recuperare alcune dimensioni essenziali della nostra esistenza cristiana e della nostra umanità, che rischiano di assopirsi in un tenore di vita ricco di comodità. Ecco perché “non si tratta solo di migranti”, vale a dire: interessandoci di loro ci interessiamo anche di noi, di tutti; prendendoci cura di loro, cresciamo tutti; ascoltando loro, diamo voce anche a quella parte di noi che forse teniamo nascosta perché oggi non è ben vista”.

Papa Francesco nel Messaggio per la 105 giornata mondiale del migrante e rifugiato (29 settembre 2019) richiama un fenomeno in atto di globalizzazione dell’indifferenza, che non solo è disinteresse per la sorte di interi popoli, ma diviene attitudine di disprezzo e sospetto verso i più vulnerabili. E’ la cultura dello scarto per cui si può fare a men di qualcuno e la vita viene intesa come una gande competizione in cui c’è posto solo per i più forti e più ricchi e gli altri sono come i resti portati via dalla risacca sul bagnasciuga.

Una vita ricca di comodità, ma anche una pigrizia nel non ricercare modi per conoscere la reale condizione della vita degli altri impedisce di vedere.

La parola chiave che guida l’appello è Non si tratta solo di migranti… si tratta infatti della nostra vita… come per il ricco che si domanda sul senso della sua vita quando ormai il suo tempo è finito…

Non si tratta solo di migranti: si tratta della carità. … Non si tratta solo di migranti: si tratta della nostra umanità. … Non si tratta solo di migranti: si tratta di non escludere nessunoNon si tratta solo di migranti: si tratta di mettere gli ultimi al primo posto…. Non si tratta solo di migranti: si tratta di tutta la persona, di tutte le persone. … Non si tratta solo di migranti: si tratta di costruire la città di Dio e dell’uomo.

“la risposta alla sfida posta dalle migrazioni contemporanee si può riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ma questi verbi non valgono solo per i migranti e i rifugiati. (…) non è in gioco solo la causa dei migranti, non è solo di loro che si tratta, ma di tutti noi, del presente e del futuro della famiglia umana. I migranti, e specialmente quelli più vulnerabili, ci aiutano a leggere i “segni dei tempi”. Attraverso di loro il Signore ci chiama a una conversione…”

Una lettera da leggere per intero ed in cui trovare motivi per un cambiamento che ci conduca dall’ostilità all’ospitalità, dal sospetto al desiderio di incontri diretti, dall’indifferenza al farci carico nella concretezza di scelte e azioni quotidiane.

Alessandro Cortesi op

III domenica tempo ordinario – anno C – 2019

third-sunday-in-ordinary-time-year-c-24th-january-2016-640x452

Ne 8,2-10; 1Cor 12,12-31; Lc 1,1-4; 4,14-21

Due libri stanno aperti davanti a noi in questa terza domenica del tempo ordinario: il rotolo della Bibbia che il sacerdote Esdra apre nello spazio del Tempio ricostruito mentre sullo sfondo compare Gerusalemme ricostruita dopo il ritorno dall’esilio (forse attorno al 444 a.C.) e legge davanti a tutto il popolo e il rotolo aperto da Gesù nella sinagoga di Nazaret.

Il rotolo di Esdra viene letto a brani distinti, spiegato ed accolto come parola che tocca i cuori dei presenti. Coinvolge profondamente al punto da suscitare un pianto di pentimento e il desiderio di conversione.

Ma mentre il popolo piangeva ascoltando le parole della legge, Neemia, capo politico del popolo d’Israele tornato dall’esilio, invita a cogliere il senso profondo della parola di Dio, l’invito alla gioia: “Questo giorno è consacrato al Signore, andate, mangiate carni grasse, bevete vini dolci perché la gioia del Signore è la vostra forza”.

Il pentimento dev’essere solo una tappa dello stare davanti alla Parola di Dio. Questa trasforma i cuori e li rende capaci di gioia, aperti ad accogliere la speranza messianica di un banchetto dove non ci sarà più morte, né pianto, né afflizione.

Il secondo libro al centro di questa liturgia è il rotolo di Isaia. Gesù lo apre nella sinagoga, quando di sabato, come ogni pio ebreo adulto è invitato a leggere e commentare la Scrittura. Nel suo paese Nazaret, di fronte ai suoi parenti e a coloro che lo conoscevano, il figlio di Giuseppe e Maria, legge parole che indicano una missione di liberazione e di pace: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore”. Si tratta di un testo del terzo Isaia (61,1-2).

Ma la pagina del profeta è riportata con piccole ma importanti modifiche: nella lettura è tralasciato ogni riferimento al ‘giorno di vendetta del Signore’, e sono riprese invece tutte le espressioni che parlano di vita nuova, di libertà, di salvezza, di gioia, di sconfitta di ogni male e oppressione. Al termine Gesù non commenta il testo ma dice solamente ‘Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi’. La promessa di Dio di liberazione e di giustizia diviene ora presente nell’oggi di Gesù. Si tratta non solo di un ‘oggi’ che indica un tempo cronologico, ma è un ‘oggi’ che indica il tempo di salvezza ormai giunto e vicino.

Nel vangelo di Luca questo ‘oggi’ tornerà in momenti decisivi per chi incontrando Gesù si apre alla vita nuova e alla liberazione che da lui vengono, come Zaccheo a cui Gesù dice: ‘oggi la salvezza è entrata in questa casa’ (Lc 19,9), o come il malfattore appeso alla croce accanto a Gesù che ascolta le parole: ‘oggi sarai con me in paradiso’ (Lc 23,43).

La parola di Dio, le sue promesse di vita di liberazione, di senso nuovo per la vita, di gioia diviene presente nell’agire di Gesù. Tutto ciò genera meraviglia e scandalo: non è lui il figlio di Giuseppe?… Fa difficoltà aprirsi ad un incontro con Dio che si fa vicino nella debolezza di un uomo, che ci raggiunge come ‘figlio di Giuseppe’, così simile a noi e senza caratteristiche eccezionali, senza potenza. Gesù reagisce a questa meraviglia sospettosa e distante, e fa riferimento a due episodi del Primo testamento in cui Dio si è rivelato per mezzo dei suoi profeti non ai vicini, e ai membri del popolo d’Israele, ma ad una donna pagana, una vedova di Sarepta. E’ una donna capace di un gesti di accoglienza e di cura verso il profeta Elia (1Re 17,1) che si presenta come ospite alla sua casa. Così un lebbroso, Naaman, proveniente dalla Siria, cioè un pagano, fu risanato da Eliseo (2Re 5,14) per l’intervento e suggerimento a lui offerto in piena gratuità e contro ogni buonsenso umano da una ragazza di un popolo straniero, prigioniera.

Gesù scardina le pretese di possedere in qualche modo Dio e la sua stessa persona, da parte di coloro che sono i ‘suoi’. Ed afferma la necessità di una conversione della vita. La salvezza, l’incontro con Dio si rende presente nei gesti di gratuità e accoglienza che testimoniano la liberazione di Dio. E’ un appello alla fede che implica non diritti di appartenenza ma apertura del cuore.

La vedova di Sarepta o il lebbroso Naaman, al di fuori delle appartenenze costituite, lontani o pagani, sono testimoni di liberazione, di apertura degli occhi e del cuore. E’ la bella notizia ed è animato dalla forza dello Spirito che soffia dove vuole. E conduce a riscoprire l’unzione dello Spirito che invia al seguito di Gesù ad essere annunciatori di liberazione nel servizio accanto a chi è oppresso.

Alessandro Cortesi op

126765-sd

Gesti di cura

Cristina Cattaneo è docente di medicina legale all’Università di Milano e dirige il LabAnOf, il laboratorio di antropologia e odontologia forense. La sua attività di medico forense si è indirizzata inizialmente allo studio di resti umani di epoche antiche, ma con il tempo ha visto il suo impegno orientarsi nel contribuire a fare giustizia, nello studio in particolare delle vittime di violenza, nel centro medico specialistico di assistenza per i problemi della violenza alle donne.

Una delle attività più coinvolgenti e drammatiche della sua vicenda professionale è stata la partecipazione all’opera di studio e identificazione dei morti in naufragi di navi migranti nel Mediterraneo, in particolare dei morti nel naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e del 18 aprile 2015.

Nel suo libro Naufraghi senza volto. Dare nome alle vittime del Mediterraneo (ed. Raffaello Cortina 2018) ha descritto l’impegno della sua comunità scientifica, composta di professionisti la cui opera è quella di ricostruire e identificare le vittime soprattutto quando avvengono disastri come un incidente aereo, uno tsunami, un deragliamento di treno, cogliendo tuttavia una sorta di distacco e indifferenza di fronte alle tragedie del Mare Mediterraneo che colpivano i migranti:

“… è proprio per questo che rimasi scioccata quando mi accorsi che, per le tragedie dei barconi pieni zeppi di migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, morti e sepolti senza un nome, nessuno della comunità internazionale batteva ciglio. Nessuno della ‘mia’ comunità, quella che sapeva benissimo che cosa significasse lasciare un corpo senza identità e che aveva sgomitato per dare il proprio contributo in occasione di tanti altri disastri, aveva mosso un dito” (27)

Ricorda i segnali di umanità sorti in Italia in un passato che oggi appare lontano e dimenticato: il soccorso dalle spiagge per aiutare naufraghi, le iniziative della Marina militare e della Guardia Costiera, i sistemi di prima accoglienza messi in atto da governo e ONG, le sepolture quasi sempre dignitose. “Ma quando si trattava di dare un nome a questi corpi.. niente”.

Nelle pagine del suo racconto offre una descrizione del suo personale coinvolgimento dal putno di vista professionale e umano, a partire dalla tragedia di Lampedusa che scosse le coscienze. In questo disastro di un ‘imbarcazione che portava migliaia di persone furono recuperati 366 cadaveri. Da lì nacque l’operazione Mare nostrum “e da lì iniziò, seppur molto lentamente, a pensare ai loro morti come ai nostri” (44)

E poi il 18 aprile 2015, un altro naufragio a cento chilometri dalle coste libiche con quasi mille morti. Era il Barcone che conteneva circa mille passeggeri quasi tutti adolescenti e giovani la maggioranza proveniente dall’Africa sub-sahariana. Il più grande disastro di cui si ha conoscenza per numero di morti in questi decenni in cui il mare Mediterraneo è divenuto la tomba di decine di migliaia di uomini e donne che viaggiavano in cerca di un futuro.

Così Cristina Catteno descrive lo squarcio di umanità che in quell’occasione si aprì: “Di solito queste vittime, soprattutto dall’Europa ‘che conta’, non vengono considerate degne di pietas né di essere identificate, né i loro parenti degno di sapere se il proprio figlio è vivo o morto, di entrare in ossesso di certificati di morte, fondamentali per esempio come nel caso di Lampedusa, per il ricongiungimento degli orfani. Per il Barcone, invece, si è momentaneamente aperto uno squarcio di umanità in un periodo nuvoloso per la rabbia e l’ostilità, grazie alla volontà di un paese che, ironicamente, era proprio l’ultimo che poteva permettersi tale gesto…. Nei trent’anni di attività, questo è trai gesti collettivi più nobili che abbia visto e sentito” (99-100).

Un gesto di cura, di pietas umana, un gesto antico che ripete lo squarcio del cuore di chi accompagna alla sepoltura un proprio caro, facendo di questo gesto un momento fondamentale che dà senso all’esistenza nel riconoscimento dell’altro.

La ricerca di identificazione e ricostruzione dei corpi delle vittime di quel naufragio è narrata nelle pagine di questo libro che toccano e accompagnano a percepire come si possa morire di speranza. E’ quella speranza racchiusa nei sacchetti di terra recati con sé e trattenuta in fagottini di cellophane tra gli indumenti di giovani eritrei, è la speranza portata nel leggero bagaglio di una tessera di biblioteca e di una attestazione di donatore di sangue gelosamente custodite nel viaggio, ed è la speranza scolpita nei voti di una pagella scritta in arabo e francese, recuperata dopo aver scucito una tasca da un giubbotto di un adolescente del Mali:

“mentre tastavo la giacca, sentii qualcosa di duro e quadrato. Tagliammo dall’interno per recuperare, senza danneggiarla qualsiasi cosa fosse. Mi ritrovai in mano un piccolo plico di carta composto da diversi strati. Cercai di dispiegarli senza romperli e poi lessi: Bulletin scolaire e, in colonna le parole un po’ sbiadite mathematiques, sciences physiques.. Era una pagella. ‘Una pagella’, qualcuno di noi ripeté a voce alta. Tutti si avvicinarono e ci furono diversi secondi di silenzio durante i quali si sentiva soltanto il lontano chiacchiericcio dei medici legali che operavano nella tenda accanto dettandosi appunti. Pensammo tutti la stessa cosa, ne sono sicura: con quali aspettative questo giovane adolescente del Mali aveva con tanta cura nascosto un documento così prezioso per il suo futuro, che mostrava i suoi sforzi, le sue capacità nello studio, e che pensava gli avrebbe aperto chissà quali porte di una scuola italiana o europea, orami ridotto a poche pagine colorite intrise di acqua marcia?” (134-135).

Ai suoi occhi e nel quotidiano operare delle sue mani nel prendersi cura di corpi irriconoscibili e di cui rimaneva talvolta solamente un brandello è apparso come quell’imbarcazione, diventata la tomba di tanti giovani diveniva una reliquia, un memoriale che avrebbe potuto ricordare cosa non doveva più accadere.

Sappiamo tuttavia che le tragedie sono continuate, sappiamo che innumerevoli barche, gommoni contenenti settanta ottanta cento persone hanno continuato naufragare, sappiamo come contro i migranti provenienti dall’inferno della Libia si sia accanita una politica che ha fatto di loro merce di mercanteggiamento elettorale in questa Italia in cui pure squarci di umanità si sono aperti e si aprono magari nascosti e soffocati da una cattiveria dilagante, sappiamo la disumanità della chiusura dei porti, sappiamo i patti iniqui di governanti italiani con la polizia libica, sappiamo la criminalizzazione avvenuta delle ONG che salvavano vite umane e le cui navi ora sono costrette a rimanere ferme, sappiamo l’orrore dei respingimenti riportando nelle mani di torturatori spietati persone che fuggono dalla persecuzione.

“Il Barcone rappresentava cosa succedeva dietro l’angolo di quell’Europa e dei rispettivi parlamenti, che si dichiarano i più civili, democratici e liberali: adolescenti e giovani morti, stipati su imbarcazioni che nulla hanno di diverso dalle antiche navi guerriere, per scapare dalla guerra, dalla persecuzione o dalla fame. Un monito di ciò che non deve più succedere o, meglio, di quanto sia facile dimenticare o non voler guardare, dal momento che, ancora una volta, è successo proprio a noi di non guardare e di dimenticare” (176).

Cristina Cattaneo racconta e immortala questa storia nelle righe del suo libro, con gli occhi di un medico legale che insieme a tante collaboratrici e collaboratori ha vissuto i giorni di Melilli per dare un nome alle vittime dimenticate, per dare venerazione, nei pazienti gesti della ricomposizione dei corpi, a volti distrutti vittime della malvagità e dell’indifferenza che parlano come nessun altro può, di violenze, sofferenze, speranze e sogni traditi. “Non ti abitui mai a parlare con i parenti delle vittime” (69)…

La sua voce, come quella di Antigone, è richiamo oggi, nel tempo dei porti chiusi, nel tempo in cui si impedisce il soccorso in mare, a insorgere in una resistenza civile, a recuperare quel senso di umanità che porta a dare un nome e accompagnare nella sepoltura i morti, per rispondere all’angustia di chi non sa la sorte dei propri cari, per ricordare ai vivi la sofferenza delle vittime e per indicare vie di giustizia e di cura.

Alessandro Cortesi op

 

 

 

 

 

 

 

«Non è solo una questione di memoria o del diritto sacrosanto ad avere un nome anche nella morte. Identificare significa anche tutelare i vivi, basti pensare al ricongiungimento familiare dei minori rimasti orfani»

 

XXIII domenica tempo ordinario – anno A – 2017

IMG_2622Ez 33,7-9; Sal 94,1-2.6-9; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20

La vita credente – come la vita umana stessa – sorge dall’ascolto. La vita di ognuno nasce da una parola accolta e che precede. Il profeta come sentinella è chiamato a vivere un ascolto della Parola di Dio e ne è poi reso responsabile. Non deve lasciare che il suo cuore divenga di pietra, sia ‘indurito’. L’ascolto è disponibilità a scorgere quanto Dio sta compiendo, il suo agire nella storia. Il suo opposto è l’atteggiamento di sfida, il voler mettere alla prova Dio, senza fidarsi di lui: “mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere’ (salmo 94). Il profeta invece è sentinella: sta in ascolto nei confronti della Parola e vive una responsabilità nei confronti degli altri. L’ascolto conduce a farsi carico della vita degli altri: è atteggiamento del cuore che genera attenzione e solidarietà. “Figlio dell’uomo, io ti ho costituito sentinella per gli israeliti; ascolterai una parola dalla mia bocca e tu li avvertirai da parte mia”.

La pagina del vangelo – tratta dalla sezione del vangelo di Matteo che raccoglie insegnamenti di Gesù sulla comunità – parla dell’ascolto della parola del Signore per vivere uno stile di vita fraterna anche nella difficoltà. “Se tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà avrai guadagnato il fratello. Matteo prende le mosse da un detto di Gesù (della fonte Q; cfr. Lc 17,3), l’invito a perdonare l’offesa di un fratello. Passa poi alla situazione di un fratello che ha peccato. Pone il problema del farsi responsabili di accompagnare un fratello che ha sbagliato. L’accento allora non cade sul giudizio di chi ha sbagliato o sulla condanna dell’errore. E’ invece posta la questione su come si possa costruire una comunità di persone che pure sbagliano.

La correzione fraterna è percorso che guarda in faccia ciò che è male e ciò che è bene, che non confonde, eppure pone lo sguardo alla possibilità delle persone di cambiare e ravvedersi. E’ un percorso lento e difficile che può vedere diversi momenti e non è immediato. Parlare con il fratello è primo passo, poi insieme ad altri, poi davanti alla comunità. Se non c’è ascolto ‘consideralo come un pagano e un pubblicano’. E’ un invito a non stancarsi nel tentare di percorrere diverse strade, per guadagnare il fratello e costruire rapporti nuovi, a farsi carico di chi sbaglia perché nessuno vada perduto (cfr. Mt 18,12-14).

Il fratello non deve essere umiliato quando il suo errore è reso manifesto. La presenza di due testimoni può essere motivo di consapevolezza del peccato. Se anche davanti alla comunità non c’è riconoscimento l’ultima parola non è l’esclusione. Il riconoscimento di una situazione momentaneamente di estraneità può aprire a nuove possibilità perché la volontà del Padre è che nessuno vada perduto. L’ascolto è la via nella quale costruire la comunità. Alla sua comunità Matteo indica che il rifiuto ad ascoltare la Parola di Dio e la parola degli altri non costruisce.

Seguono poi tre detti di Gesù: il primo indica la comunità come responsabile di ‘legare e sciogliere’, di interpretare la parola del Signore e di leggerne le esigenze momento per momento. Tale compito non è esclusivo ma affidato all’intera comunità. Il secondo detto riguarda la preghiera: il Padre senza dubbio ascolta e risponde alla preghiera compiuta insieme. Qui Matteo vede probabilmente la situazione della comunità che insieme prega e supplica per chi ha sbagliato. Il terzo detto è una parola di fiducia. Gesù promette di essere presente laddove la comunità si riunisce nel suo nome, unita nell’affidamento a lui. Gesù riprende qui un insegnamento dei rabbini che dicevano che Dio si fa vicino dove due o tre si riuniscono per leggere insieme la legge, per ascoltare la Parola di Dio. Al centro della comunità che Gesù voleva sta l’ascolto e l’incontro con la Parola di Dio che nella sua persona si è resa vicina.
Alessandro Cortesi op

14Ascolto

Anche se non è ancora suonata la campanella del primo giorno di scuola, che fra poco ritornerà a scandire orari e insieme attese, gioie, ansie e fatica di insegnanti e alunni, l’organizzazione scolastica è in pieno movimento in vista dell’anno che inizia. Sono giorni, questi delle prime settimane di settembre, in cui la scuola è di fatto ricominciata.

A più riprese in tempi recenti è stata sollevata la questione della scarsa preparazione in ambito linguistico degli studenti che escono dalla scuola (cfr. la lettera di seicento docenti universitari) e, come accade in questi casi, facilmente le colpe vengono riversate su alcuni settori dell’itinerario scolastico.

Oltre a ciò nel periodo estivo in cui si delinea la composizione delle classi per il nuovo anno, si è aperto un altro motivo di discussione, la questione delle cosiddette ‘classi ghetto’ con la concentrazione, soprattutto nella scuola primaria, di alunni stranieri o di chi presenta particolari difficoltà in alcune classi rispondendo spesso a pressioni di genitori desiderosi di avere i propri bambini in sezioni privilegiate e mettendo in seria difficoltà alcuni insegnanti tra altri.

Il problema ha visto un dialogo a distanza tra un maestro Franco Lorenzoni autore del bel libro I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica, (ed. Sellerio 2014) e l’attuale ministra all’Istruzione Valeria Fedeli.

Osserva Lorenzoni: “Tra le informazioni che l’Invalsi restituisce alle scuole c’è un dato relativo alla composizione delle classi. Normalmente le classi di una stessa scuola dovrebbero essere simili, cioè avere al proprio interno alunni più ricchi e più poveri, alunni più preparati e altri meno. In molte scuole, soprattutto al sud, non avviene. I dati Invalsi dicono che la variabilità tra le classi, che dovrebbe aggirarsi intorno al 5-6 %, in Italia è intorno al 14% e al Sud tocca il 27%, più del quadruplo del valore fisiologico. In più di un terzo delle scuole, dunque, si realizza una vera e propria segregazione per cui molti alunni sono raggruppati per condizioni socio-economiche simili. (…) Da anni viene rilevato quanto in Italia, a differenza di altri paesi europei, sia bloccato l’ascensore sociale a partire dall’accesso ad una istruzione di qualità. Qui accade qualcosa di peggio. I più poveri, deprivati ed emarginati per diverse ragioni, sono invitati a scendere direttamente in cantina e a non muoversi da lì (…) Moltissime sono le insegnanti e gli insegnanti e non pochi i dirigenti che ogni giorno si spendono con dedizione per dare le migliori opportunità a tutti. Proprio per dare spazio e respiro a chi nella scuola ci crede la invito a interrompere con provvedimenti drastici e controlli questa odiosa discriminazione, spesso assecondata e taciuta”. (Ministra, basta classi ghetto, ‘Invece Concita’ rubrica La Repubblica, 5 luglio 2017 – il giorno dopo la ministra Fedeli ha risposto a Repubblica (Basta con le classi ghetto) scrivendo: “La variabilità fra classi è un dato che ha a che fare con la ‘democrazia’ di una scuola. Classi troppo omogenee, con alunne e alunni ‘raggruppati’ per ‘bravura’, rappresentano un fenomeno contrario ai principi della nostra Costituzione, che va arginato… Lavorare in classi disomogenee, come dice lei, è più difficile. Ma la missione della scuola è quella di fare di ogni differenza una ricchezza… Perché la povertà educativa è la madre di tutte le povertà. La scuola è l’unico agente possibile del cambiamento e saremo al suo fianco. Cominciando dalle periferie, dove le scuole possono diventare avanguardie di sperimentazione educativa. Partendo da esempi che già esistono e facendone un modello. Per non lasciare davvero indietro nessuna e nessuno.”)

Lorenzoni ha scritto al riguardo parole che offrono chiarezza per affrontare tali questioni con riflessione ed equilibrio in un articolo dal titolo ‘Per una scuola dell’ascolto’. A proposito delle difficoltà di apprendimento della lingua osserva: “Insegno nella scuola elementare da 38 anni e mi domando ogni giorno come aiutare bambine e bambini ad arricchire il loro pensiero e il loro linguaggio. Noi maestre e maestri ci accorgiamo subito, in prima elementare, quanto il numero di parole a disposizione di ciascun bambino sia profondamente e ingiustamente diverso. Pare che dalla nascita ai 7 anni si impari una nuova parola ogni ora, ma questo non è vero per tutti. La ricchezza del lessico dipende da molti fattori: da quanto è pescoso il mare linguistico familiare, da quanto ascolto ricevono in casa i più piccoli e da quanto tempo è stato dedicato loro da genitori, fratelli o amici nell’intessere domande, dialoghi e conversazioni ricche di vocaboli e argomentazioni. Dispiace allora constatare che, mentre alcune famiglie straniere prestano grande attenzione e pretendano dai loro figli costanza e impegno nello studio, un numero sempre maggiore di famiglie italiane non credono più alla scuola come luogo di crescita culturale. Trent’anni di continuo dileggio e insulto pubblico verso la cultura ‘che non dà da mangiare’ da tempo stanno regalandoci i loro frutti avvelenati”

E ancora, riconoscendo come la scuola sperimenti la fatica di affrontare i compiti enormi dell’integrazione e dell’accompagnamento di tanti disagi culturali e sociali, afferma:

“La scuola primaria fatica tanto, è vero. Da anni noi maestre e maestri affrontiamo ad esempio l’enorme compito di accogliere, integrare e cercare di includere una grande quantità di bambini che provengono da famiglie straniere. Sono circa il 20% a livello nazionale, ma in molte classi sono più della metà. Accanto a loro ci sono una quantità sempre crescente di bambini e ragazzi che portano dentro la scuola disagi dovuti alle più diverse ragioni, accentuati dalla crisi e dalle tante difficoltà di ogni genere che investono molte famiglie”.

La costruzione di parole quali tasselli di una lingua come luogo di comunicazione e di riconoscimento di dignità sarebbe il compito primario e ineludibile della scuola che da anni subisce un continuo attacco quale istituzione inutile che non procura vantaggi nell’ottica di un mondo appiattito sulla dimensione del mercato, nell’inseguimento di un successo presentato nelle forme della visibilità mediatica o nel fare soldi facili con furbizia, nella linea del prevalere dei dotati e dell’esclusione di chi è fragile o povero. Dove la capacità di pensare e di attitudine critica è considerata uno svantaggio.

“Costruire una lingua comune, articolata, ricca e capace di dare dignità alla voce di tutti è un compito enorme che ci sforziamo di adempiere e per il quale – certo! – molte volte le nostre competenze ci paiono insufficienti. Lo sforzo è titanico, perché si tratta di andare controcorrente rispetto a ciò che accade nella società, trasformando le nostre classi assai disomogenee in piccole comunità dove cerchiamo di valorizzare tutti. Tutti, perché questo è ciò che prescrive la Costituzione nel suo articolo 3, che invita con forza a superare gli ostacoli che trasformano le disuguaglianze in discriminazione. Ora una comunità si costruisce, a mio avviso, quando si rompono gli stereotipi, cresce la curiosità reciproca e riusciamo a non lasciare indietro nessuno. Ed è su questo terreno, nel grande sforzo di includere tutti, che cresce e si affina l’uso della lingua, che è prima di tutto relazione. Non mi convince la contrapposizione tra la scuola seria dei contenuti e la scuola buona della cura e delle relazioni. La lingua, proprio la lingua, è il territorio in cui queste due esigenze si intrecciano, perché non c’è arricchimento di linguaggio senza fiducia reciproca e buona considerazione di sé. Un bambino continuamente giudicato come inadeguato smetterà presto di esprimere il suo pensiero faticando con le parole”.

Mi ha colpito, in questa riflessione di un maestro capace di ascolto dei bambini, soprattutto l’accento sull’importanza della scuola come luogo in cui confrontarsi con i grandi testi difficili della letterature, del sapere, in cui sperimentare la curiosità della ricerca che conduce a vivere in prima persona l’indagine sulle cose. In tale orizzonte la scuola è occasione di incontro e confronto unico dove proprio la possibilità di ascolto dell’altro non ha limiti ed esclusioni ed è lì in quei momenti in cui viene data parola e si ascolta la parola dell’altro che solo può nascere un tipo di società ben diversa dall’aggregato dei sordi e dei muti piegati sul proprio cellulare e incapaci di raccontare di esprimere un sentimento, di riproporre il percorso di una scoperta. Ma soprattutto incapaci di scoprire che costruire una lingua comune è itinerario mai concluso che vive dell’attitudine di apertura a scorgere la ricchezza di nuovi linguaggi, lo stimolo che giunge dall’intendersi nelle differenze. impegno per la dignità di ognuno.

“Nella mia esperienza con i bambini so che il linguaggio si arricchisce leggendo insieme ad alta voce un bel testo, anche difficile, scrivendo lettere ad amici lontani a cui dobbiamo fare immaginare il mondo in cui viviamo e, soprattutto, ascoltando le parole che affiorano, a volte a fatica, in un cerchio di ascolto e narrazione in cui si parla liberamente di sé o si confrontano ipotesi, si abbozzano teorie, ci si contraddice e si argomenta intorno alle più diverse esperienze vissute possibilmente con tutto il corpo. Ma perché ciò accada dobbiamo essere capaci di far sentire a tutti che la voce di ogni bambina e bambino è importante, necessaria. Solo così è possibile dare dignità al pensiero di ciascuno, nessuno escluso”. (tratto da F.Lorenzoni, Per una scuola dell’ascolto, 17 febbraio 2017)

Alessandro Cortesi op

XXVI domenica tempo ordinario – anno C – 2016

britainunrefugeesummitjpeg-4dcb2_1474281689-kfve-u1090728418398htb-990x556lastampa-it(Londra, 19 settembre 2016 – giubbotti salvagente allineati a Parliament Square mentre si svolgeva il Summit dell’ONU sui rifugiati)

Am 6,1.4-7; 1Tim 6,11-16; Lc 16,19-31

Amos denuncia gli spensierati, seduti in letti d’avorio, che canterellano, bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati. Contro questo stile di vita colpevolmente insensibile alla miseria di chi viveva nell’oppressione e nella miseria, Amos grida il suo disappunto: ‘finirà l’orgia dei buontemponi’.

La parabola del ricco e del povero Lazzaro, il cui nome ‘El azar’, significa ‘Dio aiuta’, è racconto proprio del vangelo di Luca, attento in modo particolare alla questione del rapporto con i beni e della ricchezza in relazione alla chiamat a seguire Gesù. Luca è preoccupato per la situazione della sua comunità e richiama ad uno stile di vita di attenzione ai poveri e di scelta della povertà.

In radice è una scelta alternativa rispetto ad una concezione della vita di autosufficienza e di potere. E’ per Luca condizione fondamentale dell’essere discepoli di Gesù: ‘Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo’ (Lc 14,33). Se non si attuano scelte di sobrietà e un impegno di condivisione, si cade in pretese di potenza, si vive senza lasciarsi toccare dalla miseria dell’altro, con il cuore indurito che impedisce l’incontro.

All’inizio la parabola offre due quadri contrapposti: la situazione del ricco spensierato. La sua esistenza è chiusa come in una bolla, ed è cieco perché immerso totalmente nella sua ricchezza al punto da non accorgersi di ciò che gli accade intorno, della situazione di vita di chi sta alla sua porta. E’ ignaro del dolore di chi soffre vicino a lui. Per contro Lazzaro, povero, coperto di piaghe, allontanato dalla casa dove si banchettava lautamente, accerchiato dai cani randagi.

Il momento della morte comporta un totale rovesciamento della situazione: Lazzaro è portato dagli angeli accanto ad Abramo mentre il ricco è immerso nei tormenti. Lazzaro è presentato nel seno di Abramo in una comunione di vita di cui Abramo è il padre. E il ricco invece sperimenta la rovina.

Scopo di tale descrizione non è formulare una dottrina sull’aldilà dopo la morte. L’accento va piuttosto al presente. L’oggi è luogo in cui si decide della propria vita nell’orizzonte di un senso che troverà pienezza nel per sempre della vita in Dio. Luca in particolare invita ad una vigilanza nel presente: “Guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione! Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame” (Lc 6,24-25).

Nel vangelo non c’è una condanna semplicistica e manichea della ricchezza, come se i beni e il benessere siano cattivi in se stessi: al contrario il disegno di Dio sta nell’eliminare povertà e miseria che sono mali che rendono la vita meno umana e sono autentica oppressione. Il regno di Dio annunciato da Gesù è possibilità di nuova di vita, di salute e benessere per ogni persona. Gesù reagisce con forza all’indifferenza, al vivere senza pensiero per l’altro. Comprende che la povertà non è condizione di destino, ma è frutto di scelte e di una iniquità che fa rimanere nell’indifferenza alcuni e nella sofferenza altri.

I beni sono affidati, e sono via per attuare l’incontro con gli altri: è questo il cuore della chiamata umana a vivere insieme agli altri. Il rapporto con i beni esige perciò una vigilanza particolare: va vissuto con un atteggiamento di riserva e di attenzione. Le ricchezze non possono assorbire ogni energia e la vita non va asservita alla logica dell’accumulo. E’ questa la linea dello stolto (cfr. Lc.12,20). La presunzione e la superficialità del ricco sono considerati da Luca come un ostacolo insormontabile a comprendere la via che Gesù indica ai suoi.

La seconda parte della parabola presenta un dialogo tra il ricco e Abramo nell’aldilà. Il ricco chiede ad Abramo di andare ad avvisare i suoi cinque fratelli, perché non abbiano a subire la medesima sorte. La risposta di Abramo è: “Hanno Mosè e i profeti: li ascoltino… Se non ascoltano Mosè e i profeti, anche se uno risuscitasse dai morti non si lascerebbero convincere”.

E’ questo il punto focale verso cui tutto il racconto converge: Mosè e i profeti rinviano alle Scritture. Abramo, padre dei credenti, richiama all’ascolto. Non è questione quindi di miracoli sorprendenti e di invii celesti. La fede come incontro con Dio si attua nell’incontro con gli altri. La volontà di comunione, al centro del disegno di Dio per tutta l’umanità, può essere ascoltata e messa in pratica nella ordinarietà della vita. Non mancano possibilità, vicine e alla portata di tutti: ‘hanno Mosè e i profeti’. L’ascolto, secondo Luca, è atteggiamento fondamentale che può far fiorire un modo diverso di rapportarsi agli altri. E’ ascoltare della voce dei profeti. E’ anche un ascolto del grido dei poveri.

Alessandro Cortesi op

codex_aureus_epternacensis

Miniature e racconto

Il codice di Echernach è un antico codice miniato del XI secolo prodotto nella abbazia di Echternach (Lussemburgo) tra il 1030 e il 1050 circa. Attualmente è conservato al Museo nazionale di Nürnberg. E’ un magnifico esemplare artistico dell’epoca degli Ottoni. Nel manoscritto è copiata la versione della vulgata (la traduzione latina di Girolamo del II secolo d.C.) dei quattro vangeli ed è riportato il canone di concordanza di Eusebio.

Nel codice sono presenti alcune pagine miniate, su sfondo dorato: sedici pagine sono miniate a pagina intera. Inoltre vi sono cinque miniature degli evangelisti.

Prima del testo del vangelo di Luca il codice riporta le immagini di alcune parabole di Gesù, una per pagina, i lavoratori nella vigna (Mt 20,1-16), dei vignaioli omicidi (Mc 12,1-12; Lc 20,9-19), del grande banchetto (Lc 14,15-24), del ricco e di Lazzaro (Lc 16,19-31).

La miniatura nella pagina della parabola dell’uomo ricco e Lazzaro presenta una vivace descrizione della narrazione. Nella scena del primo registro in alto si distingue una tavola apparecchiata attrono alla quale siedono tre figure in abiti nobili e colorati e si distingue la pinguedine del personaggio in abito rosso ricamato che sta ricevendo una pietanza dal servo. Quest’ultimo è raffigurato con un abito corto, adatto al servizio. In uno spazio separato, alla destra, fuori dalle mura della casa, appare la figura di Lazzaro, nudo, coperto di piaghe, solo, con due cani ai suoi piedi che gli leccano le piaghe: segno di una pietà possibile agli animali che non vede riscontro negli uomini e segno pure di desolazione. La sua posizione non è eretta ma rannicchiata, inginocchiato, nella nudità che esprime visivamente una condizione umana di degrado, con le mani lazate e protese in un gesto di implorazione.

Nel registro sottostante altre due scene sono accostate: il momento della morte di Lazzaro con l’uscita della animula dal suo corpo. Questa è raccolta da due angeli alati, dalle forme molto belle e splendenti, che attraversano il cielo di un blu intenso mentre si distendono uscendo da un’area segnata da cerchi colorati di rosso e di blu, allusione alla sfera della vita divina di luce e di colore. La scena accanto è un’immagine del paradiso e compare il motivo del grembo di Abramo, motivo diffuso soprattutto nelle raffigurazioni dei giudizi dei portali delle cattedrali medioevali. Abramo appare come un vegliardo con attorno tante presenze e che reca in braccio tanti. E’ un luogo di vita in cui si può scorgere la presenza di acqua e di piante e al centro la figura di Abramo seduto sui cieli con accanto dodici animule dall’aspetto gioioso. Abramo reca in braccio un’altra figura quasi fosse un bambino nelle sue braccia.

Nel registro in basso la prima scena a sinistra descrive la morte del ricco, disteso e ancora ben vestito, coricato su di un letto appoggiato su un pavimento in cui ancora c’è l’acqua, simbolo della vita. Da lui sta uscendo l’animula come fosse contorta e questa viene subito presa da diavoli scuri e trasportata, a destra,  da un’altra figura di colore scuro con piedi raffigurati come zampe di animale. Nella scena di destra c’è una rappresentazione dell’inferno che si contrappone al grembo di Abramo: una figura legata è attroniata da presenze inquietanti che appaiono attorniate da lingue di fuoco rosso. Non c’è più acqua simbolo della vita, ma terra e fuoco.

Può essere interessante suggerire un accostamento proposto negli studi esegetici: il nome di Lazzaro riprenderebbe in forma abbrevaiata il nome del servo di Abramo, Eliezer di Damasco: a lui fu detto ‘non costui sarà tuo erede’. E’ quindi figura ritenuta esclusa dall’alleanza. Mentre il ricco sarebbe il discendente di Abramo, Lazzaro è tenuto fuori dalla porta, escluso. Ma Lazzaro, nella parabola di Gesù, viene accolto nel grembo di Abramo. Ad affermare che la nuova alleanza non è per un’esclusione ma per un’accoglienza nuova di vita, in una partecipazione piena al cammino di Abramo. Per la sua disponibilità di fede fu capace di accogliere. Il grembo di Abramo diventa così annuncio di una chiamata all’ascolto e segno di una alleanza che è per una solidarietà di tutta l’umanità, così come nel suo grmabo c’è spazio per tutti e per una vita nell’essere tenuti come in braccio..

Le immagini del codice di Echternach possono essere un aiuto in questa lettura.

Alessandro Cortesi op

XVI domenica tempo ordinario – anno C – 2016

IMG_0265_2Gen 18,1-10; Col 1,24-28; Lc 10,38-42

“il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno”. L’incontro con il Signore nella vita di Abramo è evento che irrompe in diversi modi. Qui è venire inatteso nel quotidiano: nell’ora del mezzogiorno, presso la tenda, la sua casa, nel giungere di tre sconosciuti.

Negli ospiti che Abramo accoglie offrendo ristoro una visita di Dio tocca la sua vita. Di fronte a questi stranieri Abramo scorge la presenza di Dio: “Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo”.

I gesti di Abramo sono quelli dell’ospitalità: procura riposo agli stranieri, li pone al centro dell’attenzione, fa preparare il cibo e vi provvede, lo condivide nel mangiare insieme.

Gesù nella casa di Betania vive l’ospitalità amica. Nella casa di Betania si respira l’atmosfera di accoglienza della tenda di Abramo. Dopo la parabola del samaritano l’episodio di Betania completa la risposta alla domanda ‘maestro che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?’ (Lc 10,25-42).

Nella parabola lo straniero è l’unico capace di fermarsi e ‘vedere’ il volto del sofferente, e agisce concretamente ponendo gesti di cura e vicinanza. Ciò che vale veramente è il servizio e la cura. Nella casa di Betania Marta continua questo stile di azione: è ‘presa dai tanti servizi’. Accanto a lei Maria ‘ascoltava’ la parola di Gesù.

Marta e Maria vanno viste insieme: in quella casa sono entrambi tese all’accoglienza. Nei loro volti sta l’indicazione di due attitudini da non separare e da tenere unite per vivere l’incontro con Gesù. Vivono insieme, in modi diversi, il servizio e l’ascolto. Ogni servizio autentico sorge dal lasciar spazio ad un parola presente nel profondo della vita e ogni ascolto è vuoto se non si traduce in prassi di servizio. Ricordando anche che una sola cosa è essenziale: le parole di Gesù richiamano a quanto è necessario per non farsi prendere dall’affanno.

Quale l’autentica cosa necessaria? Non la vita contemplativa come migliore rispetto alla vita attiva, non la contrapposizione tra chi sta in silenzio e prega e chi opera e si dà da fare. La cosa necessaria, l’unica, è intendere la vita nell’incontro, maturare uno sguardo capace di scorgere che decentra ed apre all’irruzione dell’Altro e all’incontro con i volti. La vera sorgente di fecondità della vita nonsta  nel proprio affannarsi, che talvolta genera orgoglio, non nel sentirsi a posto e appagati per l’efficienza del proprio organizzare, e neppure nel silenzio di un ascolto che rischia sempre di essere disincarnato, disimpegnato,vissuto nell’indifferenza per chi fatica, nel non farsi carico di scelte operative.  Nasce invece qualcosa di nuovo solo dalla presenza di un Altro nella vita che irrompe come ospite. In questo scorgere il limite della nostra vita, nell’accogliere il vuoto e la mancanza nel nostro esistere sorge la disponibilità di accogliere, si apre la possibilità della scoperta che l’incontro con Dio si fa vicino, si rende esperienza possibile nell’incontro con gli altri. La fede che ne sgorga è fede umile, si concepisce come cammino nella mancanza, nell’apertura all’Atro e agli altri, si scopre quale incontro che non oppone Dio e mondo, aldilà e aldiqua, materia e spirito. E’ la fede capace di vedere come il tessuto della vita stessa reca in sé i tratti della vita di Dio ed è chiamata ad ascoltare la sua chiamata all’ospitalità.

Alessandro Cortesi op

IMG_0134_2

Ospite

Per Edmund Jabès autore de Il libro dell’Ospitalità (Cortina, Milano 1991) l’ospitalità è esperienza che permette alle persone umane di incontrarsi e di riconoscersi: “L’ospitalità è crocevia di cammini”. “Ti benedico, ospite mio, mio invitato poiché il tuo nome è colui che cammina. / Il cammino è nel tuo nome / L’ospitalità è crocevia di cammini”.

Fondamentale, in questo cammino dell’ospitalità, è l’attitudine di chi riconosce un vuoto in sé, una mancanza che non ha nome e non sa nemmeno quali siano le direzioni del desiderio si fa attesa: “Davvero ospitale è, fino in fondo, l’Attesa”.

Ospitanti e ospitati: forse per scorgere le frontiere dell’ospitalità è in primo luogo richiesto di scorgere la nostra condizione esistenziale di ospitati. Solo da questo riconoscimento può germogliare la capacità di vivere l’apertura dell’accogliere. Ci si deve infatti guardare dal viverla come offerta paternalistica di ricchi, nella nascosta preoccupazione di non farsi minacciare. Ospitalità può divenire esperienza che de-centra e si fa condivisione della medesima condizione umana. Scoperta che lo straniero è rivelatore delle profondità di se stessi e di dimensioni inedite della vita: stranieri a se stessi.

La tenda di Abramo è così metafora dell’ospitalità perché si lascia attraversare da ciò che viene e da chi viene: “una certa rinuncia incondizionata alla sovranità è richiesta a priori” (J.Derrida).

Per rimanere tale, e quindi capace di essere gesti di pace l’ospitalità deve mantenere il senso dell’estraneità. C’è un disagio che sorge di fronte allo sconosciuto, allo straniero. Ignorare le emozioni suscitate nell’incontro e nel percepire diversità sarebbe cadere nella falsa logica dell’assimilazione dell’inconsistenza delle differenze, del confermare solo la propria identità. Il venire di un altro porta sempre sconcerto. Forse sta qui la ragione del fatto che medesima è la radice latina per i due termini ‘ospite’ e ‘nemico’ (hospes – hostis): “questa ambiguità deriva dalla presunzione di un diritto, quello dell’appartenenza al luogo che abitiamo come fosse originariamente nostro, e la possibilità di ospitare non confermasse in fondo altro che il nostro possesso. E se così non fosse?” (S.Tarter, Evento e ospitalità. Lèvinas Derrida e la questione straniera, Cittadella, Assisi 2004,104).

Alessandro Cortesi op

IV domenica di Pasqua anno C – 2016

09_03_02.jpg(Apocalisse: i martiri ricevono la veste candida – affresco Cattedrale di Anagni cripta)

At 13,14.43-52; Ap 7,9.14b-17; Gv 10,27-30

Il passaggio dell’annuncio del vangelo ai pagani costituisce una svolta epocale nella storia del cristianesimo. La predicazione della prima comunità cristiana restò inizialmente entro i confini di comunità giudaiche, percepita come interna ad un gruppo particolare nel quadro dei diversi giudaismi che popolavano il I secolo. Ad un certo punto l’annuncio della fede in Cristo si apre al mondo dei pagani. E’ una svolta nella storia, un evento complesso, carico di implicazioni sino ad oggi e che continua ad interpellarci in vari modi.

La comprensione della figura di Gesù, del suo agire e della sua morte si apre ad orizzonti nuovi. In tale apertura si attua anche una comprensione nuova del disegno di Dio. In tutto il Primo Testamento, l’alleanza aveva il tratto di dono di salvezza per tutti i popoli attraverso la chiamata unica di Israele. La scelta di Paolo e Barnaba è in continuità con la fede ebraica, ne risulta un approfondimento: è ispirata dal coraggio che la Parola di Dio suscita e sorge dalla fedeltà ad essa. Ma è presente anche un contrasto, una prima rottura che pesa sulla storia successiva.

“Paolo e Barnaba ad Antiochia di Pisidia con franchezza dichiararono: ‘Era necessario che fosse annunziata anche a voi (ebrei) la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani”.

Paolo e Barnaba rivolgono l’annuncio ad Israele che mantiene un ruolo fondamentale nella storia della salvezza. Questa apertura di universalità trae radice nelle benedizioni di Dio non solo per Israele ma per tutte le nazioni. La stessa chiamata fondamentale per Israele è quella di essere il tramite di un dono di salvezza e di vita che progressivamente coinvolga i popoli e le genti straniere. Il popolo d’Israele sorge da una scelta gratuita quando era vittima e oppresso. Vive una elezione originaria finalizzata non ad un privilegio, ma ad un servizio per tutti i popoli. In Isaia la benedizione è rivolta al popolo degli egiziani e degli assiri: “Benedetto sia l’Egiziano, mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità” (Is 19,25). Il salmo 87 invita a vedere tutti i popoli della terra come cittadini a pieno titolo della città santa: “L’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la tiene salda. Il Signore scriverà nel libro dei popoli: Là costui è nato” (Sal 87,4-6).

Ad Antiochia si attua una svolta che trova il suo fondamento nel disegno di Dio richiamato dalla citazione di Is 49,6: ‘Ti ho posto come luce delle nazioni, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra’. La figura del servo di Jahwè è vista come presenza di luce, inviato per un annuncio sino ai confini della terra, oltre i limiti dell’appartenenza ad un popolo o ad una religione.

Le parole di Paolo e Barnaba sono indicazione dell’apertura propria della Parola contro tutte le forme di religiosità che intendono chiuderla. L’incontro con Dio sta oltre le costruzioni e strutture religiose umane.

Paolo e Barnaba ad Antiochia fanno esperienza di come la parola di Dio sia fonte di gioia e di forza. Il loro discorso è compiuto con coraggio, attitudine della libertà del credente anche nelle difficoltà: i pagani si rallegravano e glorificavano la parola di Dio… i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito santo. L’apertura dell’annuncio ai pagani è opera dello Spirito che conduce a vivere la gioia e la serenità profonda anche nelle momento della prova.

Questo itinerario offerto a tutti trova espressione nell’immagine del gregge e del pastore: “le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano”. Nella parte iniziale della similitudine Gesù parla di altre pecore: ‘E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore’ (Gv 10,16-17)

‘Vita eterna’ non è realtà lontana e distante. Indica piuttosto la risposta alla sete più profonda che ogni persona porta nel cuore: il desiderio di essere accolti e amati, di vivere la pace nell’incontro, con Dio fonte della vita.

La pagina dell’Apocalisse presenta la visione di una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare. Il dono di salvezza non è per pochi ma abbraccia ogni nazione, razza popolo e lingua. “Tutti stavano in piedi davanti al trono e all’agnello, avvolti in vesti candide e portavano palme nelle mani”. La moltitudine tiene tra le mani il segno della vittoria: tutti costoro sono i testimoni che hanno vissuto la fatica della prova, la tribolazione, e provengono da ogni direzione. Il testo reinterpreta il salmo 23, canto rivolto a Dio come pastore d’Israele. “L’agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti della vita”. La visione si chiude con una parola di consolazione: “Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi”.

La presenza di Cristo risorto, agnello inerme e donato, apre ad una comunione nuova che si estende a comprendere tutta l’umanità. Per la prima comunità cristiana il vangelo è forza che apre speranza di vita per tutti.

Alessandro Cortesi op

riace.jpg

Coraggio

Una notizia di questi ultimi giorni è che la rivista americana ‘Fortune’ ha inserito il nome di Domenico Lucano, sindaco di Riace, tra i 50 leader più influenti del mondo attuale. La presenza di questo nome è dovuta alle scelte politiche e alle attuazioni svolte nel paese di Riace in Calabria, al cuore della Locride, paese colpito dal fenomeno dello spopolamento, in una zona tristemente nota per il controllo delle ‘ndrine della ‘ndrangheta locale. Domenico Lucano ha perseguito un progetto di apertura e di speranza. L’arrivo di stranieri, profughi e rifugiati a causa delle migrazioni non è stato visto come problema da cui difendersi ma come opportunità per pensare un futuro nuovo per un borgo a rischio spopolamento. Su circa duemila residenti la popolazione degli immigrati è divenuta in pochi anni di alcune centinaia di persone.

Il paese luogo di presenza dell’antica cultura greca con i famosi bronzi di Riace – portati anch’essi lontano – si è trasformato negli ultimi quindici anni in un paese di accoglienza di etnie, tradizioni, culture, lingue diverse. Le case lasciate vuote da chi se n’andava trovavano nuova possibilità di utilizzo quale accoglienza per le famiglie di rifugiati.

Alcuni simboli ricordano l’orientamento di fondo di un progetto che mira a dare vita nuova con la valorizzazione dell’artigianato, di forme nuove di lavoro, di valorizzazione del turismo e dell’accoglienza. Nella piazza principale una porta “africana” ricorda il rapporto con l’Africa. In un’aiuola una sagoma nera di donna rinvia alle statuette tribali e indica la speranza.

Riace si è così trasformata in un paese in cui una nuova società è andata formandosi con presenza di attività artigianali di somali, afghani, nigeriani con promozione di lavori sociali, di nuove attività commerciali e con l’arricchimento della scuola per la presenza di nuovi bambini, e nella presenza di volti di origini diverse e di religioni diverse. A Riace l’accoglienza di uomini, donne, famiglie di altri paesi è divenuta così occasione di lotta alle mafie locali e promozione di lavoro e di vita sociale.

La progettualità sostenuta da Mimmo Lucano si pone in una linea di coraggio e di libertà: “questo modello si basa su un’economia solidale, sui valori di sostegno reciproco della civiltà contadina. Inoltre penso che abbiamo una responsabilità verso quei Paesi del sud del mondo a lungo depredati dall’Occidente. Per questo ospitare chi fugge dall’Africa è un dovere”.

L’azione di Domenico Lucano riconosciuta a livello internazionale è una parabola laica del ‘coraggio’ di annunciare la Parola, quel coraggio che portava ad aprire la possibilità che la Parola si diffondesse oltre i confini chiusi di appartenenze, di sistemi culturali o religiosi. La parresia di Paolo e Barnaba è forse riconoscibile oggi in queste scelte di coraggio che aprono possibilità di convivenza nuove, che respirano la libertà di realizzare una società nuova, in contrasto a tanta aria irrespirabile di rifiuto, chiusura e violenza che sta diffondendo. La parresia è la franchezza di scelte di libertà che aprono vie al diffondersi di quella Parola che è per la vita delle persone: ‘Ti ho posto come luce delle nazioni, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra’.

Alessandro Cortesi op

riace-arco-500x281.jpg

Navigazione articolo