la parola cresceva

commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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VI domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 10,25-48; 1Gv 4,7-10; Gv 15,9-17

“In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”

La scoperta di Pietro nella casa di Cornelio, un pagano e un lontano, sorge innanzitutto dall’esperienza. Pietro si è lasciato condurre fuori dalla sua casa dalla forza dello Spirito, da una chiamata dello Spirito espressa nei termini del sogno e della visione, per entrare nella casa dell’altro, in una casa che Pietro poteva ritenere estranea alla possibilità di incontro ma anche dall’esperienza di Dio. Cornelio era un pagano, appartenente ad un mondo guardato come lontano e senza speranza. Per i pagani la possibilità di salvezza era vista solo nei termini di una loro condivisione della religione di Israele, accogliendo tutte le norme e osservanze previste dalla tradizione. Pietro ragionava nei modi di chi considerava innanzitutto con distanza e disprezzo i pagani, gli altri; ma era anche convinto che il mondo dei pagani fosse lontano da Dio.

L’esperienza di uscita dalla sua casa, del lasciarsi accompagnare verso la casa dell’altro, apre a Pietro un orizzonte nuovo. Nell’essere accolto come ospite Pietro vive un incontro umano, in cui scoprirsi nella sua umanità di fronte all’altro, e nell’altro, di fronte al suo volto, riconosce la medesima umanità. Anzi Pietro scopre che quel pagano è un uomo che nutre un senso della presenza di Dio nella sua vita e pratica la giustizia. Lo stile di vita di Cornelio, il suo agire manifestano un cuore aperto ed anche un esempio di ricerca di quanto è autentico nella vita umana e la rende piena. Praticare la giustizia è segno di un’apertura a riconoscere gli altri e di disponibilità a percorrere i sentieri della fraternità. Nella sua ospitalità Cornelio si manifesta uomo aperto all’incontro e capace di riconoscere la preziosità del volto dell’altro.

Pietro scorge tutto questo non in una teoria ma nel concreto dell’esperienza dell’incontro, nella quotidianità di vita di una casa abitata da molte presenze. Quell’incontro diviene per Pietro un passaggio fondamentale per ripensare il suo rapporto con Gesù e con il vangelo. Il Dio di Gesù non fa preferenze, è presenza vivente che si dà ad incontrare – come Gesù aveva raccontato – nelle pieghe della vita, nei cuori aperti alla sua Parola che pervade la realtà, le persone, e si fa percepire nell’incontro, nel dialogo.

Nella casa di Cornelio Pietro vive una delle sue conversioni. Aveva vissuto accanto a Gesù la conversione dalla sua pretesa di grandezza a riconoscere la sua debolezza e incapacità, a lasciarsi prendere dalla grazia di uno sguardo di accoglienza e perdono. Ora vive un altro passaggio: dal Dio delle religioni e delle appartenenze, dal Dio che esclude al Dio che sorprende sempre ed apre strade nuove: strade di incontro, di ospitalità, di giustizia.


“Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola”

E’ lo Spirito santo il grande protagonista nascosto di questa pagina:è lui che spinge Pietro ad uscire, è Lui che spinge Cornelio a cercare e accogliere, è ancora Lui che spalanca nuove vie alla Parola, che fa ardere il cuore di Cornelio al racconto di Pietro che ricorda Gesù, la sua vita, il suo donarsi. E’ lo Spirito che scende come respiro nuovo che conduce a vivere non una religione delle opposizioni e delle esclusioni ma una fede che lascia il primato al Dio accogliente che ha un sogno di pace, al Dio più grande dei nostri pensieri che suscita incontro ed apre novità inedite nei cuori e nelle case.

Lo Spirito guida anche oggi i cammini e attende di essere accolto nella disponibilità ad ascoltare la Parola, ad uscire e allargare gli orizzonti.

Alessandro Cortesi op

III domenica di Pasqua – anno B – 2024

At 3,13-15.17-19; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48

Gli Atti degli Apostoli presentano alcuni tratti fondamentali della prima predicazione su Gesù che al centro vede la testimonianza della sua morte e risurrezione. Pietro, prendendo la parola a Gerusalemme contrappone l’agire degli uomini con la loro violenza all’azione potente di Dio che non ha lasciato Gesù nell’oscurità della morte ma lo ha ‘rialzato’: a Lui Gesù ha affidato tutta la sua vita chiamandolo Abbà: è lui che lo ha risuscitato dai morti.

La prima comunità ha vissuto l’incontro nuovo con Gesù, il crocifisso, dopo i giorni della passione nel suo farsi loro incontro. Il medesimo di prima, ma vivente in modo nuovo. Gesù non è tornato alla vita di prima. La sua risurrezione è evento non richiudibile nella storia, ma è irruzione dell’ultimo. E’ assolutamente nuovo e non dicibile perché evento escatologico. La presenza del Risorto chiede di essere riconosciuta con uno sguardo nuovo, nella fede. Pietro annuncia a Gerusalemme che con il suo intervento il Padre ha portato a compimento ‘ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il Cristo sarebbe morto’. Luca insiste in tutta la sua opera, sul fatto che la passione di Cristo è stata predetta dai profeti (cfr. Lc 9,22; 18,31, 22,22; 24,7; At 2,23; 3,18; 4,28). Non si tratta del compimento di una previsione; piuttosto è  coerenza letta nella luce della Pasqua, tra l’agire di Dio nella storia di salvezza e la vicenda di Gesù di Nazaret. La sofferenza, la passione e la morte di Cristo sono così viste come adempimento del farsi vicino di Dio all’umanità per vie che sono altre dalle nostre vie. Cristo compie le Scritture perché vive l’inermità, il servizio, la condivisione della vita dei disprezzati. Per la prima comunità poteva presentarsi il rischio, dopo la Pasqua, di dimenticare che Gesù aveva scelto di condividere la condizione delle vittime. Nel suo vangelo Luca è attento a tutto ciò narrando il percorso di Gesù verso Gerusalemme dove incontrò rifiuto e condanna. La risurrezione è evento in cui il Padre conferma che quella via è la via della vita e della risurrezione. Il Padre ha glorificato il torturato e disprezzato della croce: la sua gloria è l’altro versante del suo dono e della fedeltà al suo progetto.

Luca presenta l’apparire il Risorto a Gerusalemme, dove gli undici e gli altri con loro sono condotti ad aprirsi ad un incontro nuovo con Gesù. Insiste sul fatto che il Risorto è il medesimo del crocifisso e la sua presenza è viva e reale. Preoccupato di contrastare interpretazioni puramente spiritualistiche – forse presenti anche nella sua comunità – proprie di una mentalità che disprezzava il corpo, Luca contrasta l’idea che la risurrezione sia identificabile con una sorta di immortalità dell’anima. La risurrezione investe tutte le dimensioni della persona di Gesù: ‘Sono proprio io’ dice ai suoi.

E’ possibile un incontro reale con Gesù ed essere coinvolti nella sua vita di Risorto in una condizione nuova percepibile nella fede. Nel gesto di mangiare insieme si rende vicina la sua presenza: Gesù che aveva condiviso la tavola con i suoi ora si dà ad incontrare in modo nuovo inatteso, e comunica che la sua vita coinvolge tutte le dimensioni della vita umana. Richiede da loro uno sguardo di affidamento nel percorso di fede. Così Gesù in mezzo ai suoi apre all’intelligenza delle Scritture: proprio il ritornare alle Scritture è itinerario per scoprire il disegno di fedeltà di Dio nella storia ed è luogo in cui incontrare il Risorto. Il saluto della pace racchiude anche una missione. Nell’esperienza di condividere il pane, di ascoltare delle Scritture, di tessere pace il Risorto si dà ad incontrare e suscita il cammino della testimonianza.

Alessandro Cortesi op

XXXI domenica tempo ordinario – anno A – 2023

Mal 1,14-2,2; 1Tess 2,7-9.13; Mt 23,1-12

“Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente… Ma voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è vostro maestro e voi siete tutti fratelli”

Filatteri, frange, posti nelle sinagoghe… sono tutti segni relativi a preghiera e culto. Piccoli astucci di cuoio con dentro rotolini di pergamena recanti brani biblici, i filatteri sono da legare a braccia, mani e sul capo. Un segno dell’importanza della Parola di Dio: “Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore… te li legherai alla mano come un  segno…” (Dt 6,8-9). Così le frange legate alla veste ricordano i comandamenti del Signore (Num 15,38-40). La sinagoga è poi luogo di preghiera, di ascolto e incontro con la Parola. Propria dei ‘maestri’ (rabbi) è la funzione di insegnare la legge. Se questi segni non svolgono la funzione di ricordo e appello risultano svuotati, restano solo forme vuote di un culto esteriore.

I profeti hanno richiamato insistentemente contro la continua tentazione di dimenticare che la fede in Dio, la preghiera stessa chiede corrispondenza con la vita, non può essere concepita in modo separato dalla concretezza di un impegno, dal coinvolgimento dell’esistenza: “Cessate di fare il male imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,11,17). Gesù riprende tale critica verso chi è maestro ma vive una religiosità chiusa e indifferente che non si traduce in comportamenti e testimonianza della fede.

La sua polemica è rivolta a quel modo di essere religiosi in cui grande enfasi ha l’esteriorità, il ruolo pubblico, la dimensione cultuale, la ricerca del successo e del riconoscimento sociale. Chi agisce in tal modo genera steccati, coltiva un senso di superiorità, assume criteri di esclusione e discriminazione. La religione è intesa come motivo di appartenenza, si fa possesso di gruppi che si concepiscono in contrasto con gli altri, genera attitudini di disprezzo verso l’altro identificato come nemico. La tensione all’incontro con Dio – che sempre sfugge ad ogni pretesa di tenerlo nelle proprie mani o nei propri pensieri – si perde e si confonde in progetti umani: le energie si concentrano sulla ricerca del potere, sulla gestione di un dominio.

Gesù chiede ai suoi di vivere in modo alternativo: disponibili a camminare in una conversione mai conclusa, non tranquilli e appagati ma consapevoli di non considerarsi mai ‘maestri e di non farsi chiamare tali. Seguire Gesù non apre a percorsi di carriera, ma fa vivere nella condizione di chi segue, è discepolo, orienta ad intendere la vita come quella di Gesù stesso che si è fatto servo. Ciò porta a rimanere in ascolto di Dio e degli altri, a mantenere il senso della fragilità e della precarietà – in questo senso fratelli e sorelle di tutti – per lasciarsi istruire e guidare dalla Parola che rinvia sempre oltre i gretti confini di certezze date per scontate e di chiusure identitarie. Si possono svuotare anche i segni che richiamano all’ascolto della Parola di alleanza. L’invito di Gesù è scorgere la gioia del dono del Dio che si fa vicino. Porre la sua presenza al centro, seguire Gesù come unico maestro e guida rende così anche attenti a relativizzare i tanti maestri e le tante guide che pretendono di essere tali, per non affidare la propria esistenza a chi la può esaurire e sfruttare. Gesù indica di cercare la via della vita autentica. Propone il ribaltamento del modo di intendere l’autorità e di pensare le gerarchie. “Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo”.

Alessandro Cortesi op

XX domenica tempo ordinario – anno A – 2023

Is 56,1.6-7; Rom 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28

“Gli stranieri che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore e per essere suoi servi, li condurrò sul mio monte santo…”

Lo sguardo del profeta si allarga ai popoli lontani: per essi ci sarà un posto nel monte del tempio, luogo dell’incontro con Dio. E il tempio stesso viene ad assumere il profilo di una casa per tutti, di preghiera per tutti i popoli. Nessuno può essere escluso dall’incontro con il Dio dell’alleanza.

Tale orizzonte di apertura universale è passaggio di crescita nel percorso della fede d’Israele: certo la fede del popolo è chiamata a guardarsi dall’esaurimento, dal cedere al grande peccato l’idolatria, dal venir meno alla fedeltà al Dio dell’esodo confondendosi con i culti degli stranieri, ma d’altra parte la presenza dello straniero nel popolo dell’alleanza è un segno importante. Ricorda che Dio ha rivolto lo sguardo a Israele nel suo essere  vittima e straniero in Egitto ed è sceso a liberarlo. Per questo dovrà mantenersi continuamente in cammino, non nella fissità di chi possiede la terra e si pone come dominatore, ma nella disponibilità di chi ricorda una salvezza ricevuta.

L’elezione non è privilegio da difendere, ma missione che apre. Per essere un segno tra i popoli e per favorire il cammino di pagani e stranieri verso un disegno di pace che si estende e coinvolge tutta l’umanità (cfr. Is 2).

Lo straniero ricorda anche che Dio è ‘altro’, è ‘straniero’ lui stesso. Il Dio straniero, diverso e non racchiudibile si fa vicino nei volti di chi chiede accoglienza e sperimenta la debolezza.

Anche Gesù, proprio nel territorio di Tiro e Sidone, regione dei pagani, incontra una donna straniera. E questa gli chiede un gesto di liberazione e guarigione. Ma Gesù risponde che è venuto solo per le pecore perdute d’Israele. La donna non si arrende e richiama l’immagine di una tavola in cui c’è da mangiare per tutti, per i figli, ed anche per i cagnolini che raccolgono le briciole che cadono. E questo termine ‘cagnolini’ racchiude allusione ai pagani detti ‘cani’ con disprezzo dagli ebrei che guardavano a loro con distanza. L’insistenza della donna, il suo richiamo, il suo rivolgersi a Gesù con fiducia conducono ad un cambiamento in Gesù stesso. In fondo quelle pecore perdute sono anche tutti coloro che cercano senso e salvezza come lo erano le folle incontrate nel suo camminare, pecore perdute e senza pastore (Mt 9,36). E Gesù si muove nella compassione che è il modo di agire di Dio. Si prende cura e ascolta il grido dei poveri. Riconosce nel volto della straniera, nel suo abbandono l’apertura fondamentale che orienta la vita all’Altro: la tua fede ti ha salvata.  

Gesù loda così la fede di una donna pagana, fuori dai recinti religiosi, che a lui si rivolge con fiducia e lo ha condotto ad un superamento di barriere di divisione e di esclusione.

La donna aveva colto la possibilità di un nutrimento di vita per tutti oltre le divisioni religiose e i privilegi: non chiede il pane dei figli ma si accontenta delle briciole per i cagnolini. Gesù vede in lei la testimone di una valicatrice di muri religiosi e culturali.

Gesù loda la fede di questa donna e la indica come una fede ‘davvero grande’. I percorsi della fede sono profondi e sono nascosti nelle profondità dei cuori. Viviamo un tempo di giudizi perentori e di condanne senza appello per le esistenze di chi chiede di superare le forme di esclusione e le mentalità religiose che discriminano e umiliano. In quelle voci, in quelle ricerche sta spesso nascosta una fede grande, sofferta, una fedeltà di chi attende un cambiamento anche nell’istituzione ecclesiale benché tutto concorra a spingerli lontano per altre strade. Il messaggio di questa domenica è un invito a scorgere i tesori della fede nascosti nelle profondità dei cuori, ad assumere lo stile della compassione di Gesù, al di sopra di ogni codificazione, a vivere l’accoglienza quale tratto rivelativo della fede nel Dio capace di accogliere senza riserve e senza condizioni e di dare sapzio ad ogni ricerca e attesa.  

E riprendo così quanto le parole scritte con mitezza e delicatezza da Antonio Autiero – così diverse nello stile da tante parole nutrite di violenza, di durezza, di condanna – dopo aver partecipato come amico ai recenti funerali di Michela Murgia: “La porta e la sua soglia (una volta Michela ed io abbiamo fatto una lectio accademica in dialogo su questo tema) mettono davanti alla sfida radicale di cosa se ne vuole fare di essa, barriera per impedire o area di accoglienza. Molti si sono sentiti accolti da Michela, leggendo i suoi scritti e ascoltando le sue parole, si sono visti aperta una porta davanti, su orizzonti di maggiore luce, per dare esito di compimento e non di disfatta al gemito nel quale si sentivano avvolti.

L’intreccio tra religioso e politico che Michela ha voluto fosse espresso con il suo funerale era ed è in realtà un’istanza centrale del suo modo di stare al mondo ad occhi aperti, di abitarlo con responsabilità e cura, di trasformarlo con volontà tenace e non da sola. Per esprimere così la profondità del suo essere credente, la radicalità del suo essere cittadina. Vedendo a fondo l’intreccio, ella ha saputo esprimere l’indignazione sia per quelle visioni religiose che avevano scelto, legittimato e incrementato le vie dell’esclusione, sia per quegli abbozzi distorti di progetti e di programmi politici che dell’esclusione e dei privilegi fanno la base di raccolta per pescare nel bacino dei consensi. (…) La sua traiettoria dalla teologia alla politica passava attraverso l’esperienza narrativa, fatta di volontà di comunicazione, letteraria e oltre. Così come il suo afflato politico le metteva sott’occhio il vissuto scabroso di quella parte di umanità dolente, esclusa, marginalizzata e le faceva trovare il linguaggio dei diritti da difendere e per cui battersi, come riflesso di quella luce, pathos di quel gemito e coscienza di quella porta, di cui lei, attraverso i testi biblici al suo funerale ancora avrebbe voluto parlarci” (A. Autiero, Le due voci del cuore di Murgia. Politica e religione  per un unico sogno, “La Stampa” 15 agosto 2023).

Alessandro Cortesi op

XIX domenica tempo ordinario – anno C – 2022

Sap 18,3.6-9; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12, 32-48

“Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava… Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre…”. L’ascolto di una chiamata di Dio nella vita apre ad un viaggio, ad un camminare, ad un andare oltre che si radica unicamente sulla promessa. Ed apre orizzonti imprevedibili, inattesi. Dio chiese ad Abramo di guardare le stelle nel cielo e di camminare sulla terra.

Guardare il cielo è sguardo all’oltre che rinvia sempre all’altro da incontrare costruendo sentieri di pace. Camminare sulla terra è abbandono di legami per uscire, ma è anche apertura a sentire che la terra è affidata per divenirne custodi. La terra dell’ambiente e la terra delle persone e dei popoli. Dio chiama a stringere nuovi legami di alleanza con il creato e di fraternità seguendo le vie della pace, lottando contro tutto ciò che provoca inimicizia.   

“Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze”. Essere pronti: questo chiede Gesù non tanto per instillare paura e per porre di fronte ad una minaccia. Indica invece come il cammino dei discepoli sta su una via di responsabilità nel presente. La prontezza è attitudine di chi veglia e si prende cura, di chi resiste alla distrazione, all’indifferenza, a tutto ciò che impedisce di maturare consapevolezza sulle situazioni e di agire. Essere pronti è proprio di chi è disponibile a partire aprendosi a chiamate inedite che si fanno strada tra le pieghe del quotidiano, nei volti e nelle situazioni. Essere pronti significa così custodire e ad essere responsabili. Oggi avvertiamo una chiamata particolare ad essere responsabili della casa comune del creato e della casa delle relazioni, da quelle più vicine a quelle dei popoli. Stare pronti significa allora maturare attenzione alle cose, alle persone, dare spazio a quell’ascolto che è prima forma di accoglienza.

Il padrone della parabola affida una casa e tornerà dalle nozze: la fedeltà nell’attesa è chiamata rivolta a chi si trova affidato un compito. Amministrare è pensare il rapporto con le cose e con gli altri non in termini di possesso ma di rispetto, di custodia, di cura. La terra non è dominio a disposizione di un uomo centrato su sé stesso e sul proprio potere. La terra è prestata. Oggi sperimentiamo il disastro di un rapporto con la natura inteso nel senso del dominio. La natura stessa non è proprietà, è dono da amministrare con attenzione, affidato ‘per coltivare e custodire’. Oggi vediamo anche l’orrore a cui conduce pensare i rapporti dei popoli secondo logiche imperialistiche, senza disponibilità a comprendere l’altro. Vi è un affidamento a cui rispondere con creatività e coraggio. Amare è scoprire affidamenti molteplici e reciproci. Essere pronti significa anche questo: essere aperti a riconoscere sempre che siamo per il Signore che ci affida la terra e gli altri e Lui per primo ha cura di noi.

Alessandro Cortesi op

Cura e parole

Nei giorni scorsi a causa di un incidente è mancato Luca Serianni, noto docente di storia della lingua italiana, attento scrutatore delle parole. Dal suo insegnamento condotto con passione emerge un messaggio di cura, per le persone, per le parole. Nell’ultima sua lezione nell’Aula Magna della Sapienza dove aveva per molti anni insegnato ebbe a dire davanti ai suoi studenti: “Ho avuto nel mio lavoro, come riferimento, il secondo comma dell’articolo 54 della Costituzione: ‘I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e con onore’. In questo senso, per me, voi rappresentate lo Stato”.

Disciplina e onore, quasi sinonimi di quella cura che iniziava dall’attenzione alle parole, come elementi della casa della lingua quale casa comune che consente legami di vita e di costruzione condivisa in relazioni sempre aperte. Parlare è infatti movimento di fiducia che lancia ponti verso l’altro, che costruisce un ‘noi’ in cui vi è una radicale attesa di essere compresi e di farsi comprendere. L’uso della parola è esercizio di preparazione, di coltivazione, di custodia di rapporti.

In quell’ultima lezione del giugno 2017 ebbe a dire parole importanti sull’insegnamento che egli aveva vissuto intensamente con riconoscenza verso suoi grandi maestri come Arrigo Castellani: «Insegnare è soprattutto trasmettere un certo modo di vedere le cose, da una generazione all’altra» Parlando così di chi ha scelto l’insegnamento affermava che ha «scommesso sui propri scolari, e in generale sui giovani, sulla loro capacità di apprendere quale che sia il punto di partenza» e «non può prendersi il lusso di essere pessimista». Così lo ricorda un suo allievo  Giuseppe Antonelli divenuto poi docente e collega: Passavamo un’ora a prendere ininterrottamente appunti, perché ogni parola era illuminante. Finivamo con un crampo alla mano e un sorriso stampato in faccia. Il tempo volava: perché da ogni parola traspariva la cura, la dedizione, la gioia per quello che stava facendo”. (G.Antonelli, Morto Luca Serianni, un linguista che illuminava con le parole, “Corriere della sera” 22 luglio 2022 ). Sono illuminanti le sue osservazioni espresse in un volume che raccoglie un dialogo sul senso della lingua in cui sottolineava l’importanza degli scritti di divulgazione. Sottolineava il ruolo delle parole e della lingua con sguardo a favorire un senso di comunità che riguarda tutti: insisteva “riguarda i “nuovi italiani”, ai quali bisogna assicurare tutti i diritti dei nativi, a partire dalla lingua”. “Nel caso della lingua italiana, avverto anche l’esigenza di un certo impegno civile: diffondere la padronanza della lingua e della sua storia è un modo per rafforzare il senso di appartenenza a una comunità”.  (da Il sentimento della lingua. Conversazione con Giuseppe Antonelli, il Mulino 2019; cfr. La lingua italiana è un diritto).

Accademico dei Lincei, trovava orientamento nella sua ricerca e nel suo insegnamento dalla convinzione di poter comunicare in modo semplice anhe il frutto più raffinato degli studi perché la parola potesse essere tessitura di una comunicazione capace di coinvolgere in un cammino comune di popolo che si forma con legami di solidarietà.

“La sua lezione di studioso si lega profondamente alla testimonianza di cristiano – così annota Andrea Riccardi – proprio nel valore della parola, parola degli uomini e delle donne, parole dei profeti, parola di Dio. Egli scrive in un libro, intitolato ‘Parola’: «L’importanza della parola, che può essere fonte di vita o di morte, di giustizia e di ingiustizia, di illuminante sapere o di cieca ignoranza è ben presente nelle tre religioni rivelate, che non a caso si definiscono ‘religioni del libro’…». Serianni è stato un uomo della parola: parola studiata, parola del credente, parola leale con gli amici e i colleghi, parola comunicata con la sapienza di decenni di studio e di confronto costante. Fragile e riservato, ha vissuto proprio abitato da questa forza della parola” (A.Riccardi, Serianni il ‘francescano’ ricco solo della parola, “Avvenire” 22 luglio 2022).

Alessandro Cortesi op

XXII domenica del tempo ordinario – anno B – 2021

Dt 4,1-2.6-8; Gc 1,17-18.21-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23

I farisei criticano Gesù perché i suoi discepoli prendono cibo con mani immonde, cioè non lavate: li accusano di non osservare le prescrizioni della legge, la tradizione degli antichi. Dal punto di vista storico c’è una presentazione parziale dei farisei che al tempo di Gesù coltivavano una profonda tensione spirituale ed erano vicini a quanto Gesù diceva. Tuttavia nei vangeli i farisei sono presentati come paradigma di una religiosità costruita sull’esteriorità e nutrita di ipocrisia: la polemica con loro non è da leggere come un rifiuto di una spiritualità fondata sull’alleanza e sulla predicazione profetica ma va contro una attitudine universale che rinchiude la fede entro un sistema religioso. Il fariseismo è quindi atteggiamento presente in ogni tradizione e in ogni tempo. E’ questo il problema che viene posto a Gesù: l’osservanza di prescrizioni del rito e di norme è un fine o un mezzo?   

Nel rispondere Gesù porta la questione al suo centro: pone la domanda sul rapporto con Dio e  le tradizioni frutto di elaborazione umana, e apre la questione dell’obbedire a ciò che Dio chiede e di non seguire precetti di uomini.

Gesù si schiera contro l’ipocrisia, atteggiamento raffinato che porta a scambiare i fini con i mezzi, e porta a dare un primato alla preoccupazione scrupolosa di osservanze al posto di un ascolto di Dio nel percorrere un cammino di fedeltà.

E’ questa la linea costante nei profeti nel loro richiamare ad un culto non esteriore, di gesti sacrali e di osservanze di precetti, ma attuato nella vita nel cambiamento del cuore. Per questo Gesù riprende il rimprovero di Isaia: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto insegnando dottrine che sono precetti di uomini (Is 29,13).

Se il cuore sta presso Dio praticare un autentico culto significa vivere relazioni nuove con gli altri, di giustizia, di cura, di ospitalità. Riferire la vita a Dio implica prendere le parti dei poveri: “Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me (…)  Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,13-17).

Gesù smaschera la pretesa presente in ogni tipo di fariseismo che esaurisce la fede (come incontro e coinvolgimento personale nell’affidamento a Dio) ad un sistema religioso controllato da istituzioni che pretendono di avere un controllo assoluto riguardo al rapporto con Dio: limitare il culto a Dio ad una questione di osservanze e precetti che non implicano un rapporto nuovo con gli altri. Il comandamento di Dio richiede un culto della vita ossia impegno in una prassi di giustizia e di custodia dell’altro.

Gesù suggerisce anche che la sede del bene e del male non sta nelle cose in se stesse, ma è nel cuore dell’uomo, là dove si decide per il bene o per il male. Questo dice lo sguardo positivo, ottimista e buono verso tutte le realtà della vita umana: tutto viene da Dio e non può esser cattivo o impuro in sè. Nello stesso tempo pone davanti ad una radicale esigenza di responsabilità. Puro e impuro derivano dalle scelte che hanno la loro sede nel ‘cuore’ e si concretizzano in azioni. Gesù riporta al profondo del cuore e pone ognuno ad interrogarsi in modo libero e responsabile.

Alessandro Cortesi op

Ipocrisia

Ipocrisia è termine che trae la sua radice etimologica nel saper giudicare in modo puntuale e con profondità (da krinein, giudicare). Ma il termine nella Grecia classica fu utilizzato nell’ambito teatrale per cui l’hypocrites è un attore che sa proporre in modo convincente il suo ruolo, attuando quindi una recitazione attraente. E’ quindi connesso alla capacità di immedesimazione in un personaggio e nel saperlo rendere credibile agli occhi degli spettatori. Da qui si è attuato uno spostamento di significato dall’ambito della recitazione fino a rendere la parola sinonimo di una capacità di finzione, quindi di simulazione e presentazione di un volto che non è il proprio autentico volto. Nel contesto contemporaneo che vede lo sviluppo di una società connessa alla rappresentazione alcuni sociologi hanno rilevato come sia in atto un processo diffuso di assunzione di ruolo da mantenere come una maschera nelle diverse situazioni della vita. Ognuno diviene così attore di una grande rappresentazione offrendo una o più maschere. Questo gioco di ruoli può corrispondere al consenso proveniente dagli altri vicini o lontani (si pensi ai social media), oppure può anche derivare dalla paura di assumere una responsabilità nel manifestare autenticamente la propria interiorità, le proprie incertezze e ricerche, il proprio volto con i suoi limiti, imperfezionie con le sue attese, aperture, speranze.

Proprio in questi giorni nell’udienza generale di mercoledì 25 agosto papa Francesco ha parlato dell’ipocrisia offrendone una breve descrizione ed affrontando la questione dell’ipocrisia nella chiesa: “Cosa è l’ipocrisia? Si può dire che è paura per la verità. L’ipocrita ha paura per la verità. Si preferisce fingere piuttosto che essere sé stessi. È come truccarsi l’anima, come truccarsi negli atteggiamenti, come truccarsi nel modo di procedere: non è la verità. “Ho paura di procedere come io sono e mi trucco con questi atteggiamenti”. E la finzione impedisce il coraggio di dire apertamente la verità e così ci si sottrae facilmente all’obbligo di dirla sempre, dovunque e nonostante tutto. La finzione ti porta a questo: alle mezze verità. E le mezze verità sono una finzione: perché la verità è verità o non è verità. Ma le mezze verità sono questo modo di agire non vero. Si preferisce, come ho detto, fingere piuttosto che essere sé stesso, e la finzione impedisce quel coraggio, di dire apertamente la verità. E così ci si sottrae all’obbligo – e questo è un comandamento – di dire sempre la verità, dirla dovunque e dirla nonostante tutto. E in un ambiente dove le relazioni interpersonali sono vissute all’insegna del formalismo, si diffonde facilmente il virus dell’ipocrisia. Quel sorriso che non viene dal cuore, quel cercare di stare bene con tutti, ma con nessuno…” Francesco, Udienza generale 25 agosto 2021)

“L’ipocrita è una persona che finge, lusinga e trae in inganno perché vive con una maschera sul volto, e non ha il coraggio di confrontarsi con la verità. Per questo, non è capace di amare veramente – un ipocrita non sa amare – si limita a vivere di egoismo e non ha la forza di mostrare con trasparenza il suo cuore. Ci sono molte situazioni in cui si può verificare l’ipocrisia. Spesso si nasconde nel luogo di lavoro, dove si cerca di apparire amici con i colleghi mentre la competizione porta a colpirli alle spalle. Nella politica non è inusuale trovare ipocriti che vivono uno sdoppiamento tra il pubblico e il privato. È particolarmente detestabile l’ipocrisia nella Chiesa, e purtroppo esiste l’ipocrisia nella Chiesa, e ci sono tanti cristiani e tanti ministri ipocriti. Non dovremmo mai dimenticare le parole del Signore: “Sia il vostro parlare sì sì, no no, il di più viene dal maligno” (Mt 5,37). Fratelli e sorelle, pensiamo oggi a ciò che Paolo condanna e che Gesù condanna: l’ipocrisia. E non abbiamo paura di essere veritieri, di dire la verità, di sentire la verità, di conformarci alla verità. Così potremo amare. Un ipocrita non sa amare. Agire altrimenti dalla verità significa mettere a repentaglio l’unità nella Chiesa, quella per la quale il Signore stesso ha pregato” (ibid.).

Alessandro Cortesi op

XIII domenica tempo ordinario – anno B -2021

Sap 1,13-15; 2,23-24; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

Nel vangelo di oggi Marco pone in risalto il potere di Gesù sulla morte e sulla malattia. I due episodi vedono protagoniste Giairo il capo della sinagoga – la sua figlia di dodici anni era morta – e la donna che soffriva da dodici anni di emorragie. Al centro sta la loro fede che apre ad una salvezza come dono di vita e guarigione dal male. I due incontri sono intersecati l’uno nell’altro facendo così scorgere i parallelismi e il messaggio centrale.

Giairo si getta ai piedi di Gesù e ‘lo pregava con insistenza’. L’invito, rivoltogli quando tutto sembra ormai finito, è ‘Non temere continua solo ad aver fede’.

Gesù comunica alla bambina esanime la sua forza di vita: ‘Talità kum, Io ti dico alzati’: è questo già annuncio della risurrezione. La risurrezione è infatti ‘alzarsi dalla morte’ ed in questi termini Marco nel suo vangelo la descrive. Tutti i parenti sono presi da stupore e proprio lo stupore è l’atteggiamento dei testimoni della risurrezione. Marco intende dirci che la forza della risurrezione è vittoria sul potere della morte ed è comunicata da Gesù a coloro che a lui si affidano con tutto il cuore.

In modo analogo Gesù accoglie il gesto della donna malata e impaurita che aveva cercato di toccare il suo mantello, e le dice ‘Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male’. Anche qui Marco pone in luce la fede di chi si accosta a Gesù, portando a lui ogni incapacità e dolore. E’ un affidamento senza riserve perché da lui ci si sa accolti: Gesù non  esclude nessuno. Mentre la folla attorno lo premeva da ogni lato Gesù si accorge che qualcuno lo aveva toccato e risponde a questo desiderio e attesa d’incontro. La fede – suggerisce Marco in questa narrazione – non è l’esaltazione della folla, ma è affidamento profondo, che attraversaincontro personale di chi cerca di toccare il lembo del mantello per venire a contatto con Gesù. Fede è ricerca sofferta, movimento del cuore di chi si consegna nella propria povertà. E Gesù riconosce la grandezza di questa fede che salva: “Figlia, la tua fede ti ha salvata”.

Alessandro Cortesi

Uguaglianza e doni

“Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza”. L’appello di Paolo alle comunità in vista di una colletta è paradigmatico di una attitudine concreta in vista di scelte che traducano nella vita l’orientamento della fede in Cristo. La scoperta insita nel venir incontro all’indigenza di chi ha bisogno è sorprendente perché apre a scorgere che mai la direzione dell’aiuto e del dono è unica e univoca. Un dono raccolto e dato genera una circolarità inattesa, conduce a scoprire che nella relazione aperta si attua uno scambio e il dono portato si incontra a questo punto con un dono ricevuto. Tale orizzonte può essere considerato in rapporto alla situazione mondiale di fronte alla crisi sanitaria in atto.

Per giungere a stroncare la diffusione della pandemia si dovrebbe poter vaccinare almeno il 70% della popolazione mondiale (7,9 miliardi di persone). Al momento attuale tuttavia solamente il 10,5 % circa di essa è stato vaccinato e si tratta per la stragrande maggioranza della popolazione dei paesi più ricchi del pianeta. L’enorme sforzo della ricerca compiuto dallo scoppio della  pandemia nel predisporre vaccini in grado di limitare il contagio e le morti è stato in gran parte vanificato dal ritardo con cui la Banca Mondiale ha destinato fondi per poter provvedere dei vaccini i paesi meno sviluppati e più poveri del pianeta. Da qui lo sviluppo di varianti e di un contagio che si è diffuso soprattutto tra i non vaccinati. I paesi privi di scorte di vaccini costituiscono infatti anche i luoghi di sviluppo delle varianti che certamente non rimangono chiuse entro ambiti regionali e risultano essere nuovi fonti di pericolo a livello mondiale.

“Mentre i paesi ricchi, con ampio accesso ai vaccini, seguono con inquietudine i segni del suo inevitabile impatto, sperando che l’immunizzazione possa rallentarne l’ascesa, la grande minaccia arriva dal divario globale di accesso ai vaccini, rivelatore della crescita di iniquità nel livello di salute” (E.Tognotti, L’egoismo suicida sul piano vaccini, La Stampa 25 giugno 2021).

L’esperienza della pandemia dovrebbe spingere ad uscire da visioni egoistiche e miopi, nella considerazione di una immunizzazione valida solo per alcuni quando si nutre disinteresse per gran parte della popolazione povera mondiale. La salute costituisce non solo un bene di vita in termini anche economici ma potrebbe essere scoperta come l’autentico bene comune in cui attuare quella uguaglianza che genera possibilità di vita buona per tutti. Non a caso i gesti di Gesù erano così attenti alla salute delle persone, e l’invito di Paolo apre anche nuovi orizzonti. Laddove facendo uguaglianza si pensa di arrecare un dono, si apre la scoperta di un passaggio di doni che aprono la vita stessa al suo senso profondo nella relazione e nel farsi carico dell’altro.  

Alessandro Cortesi op

XXVIII domenica tempo ordinario – anno A – 2020

Is 25,6-10; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

“Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. …Eliminerà la morte per sempre, il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto”.

Isaia utilizza l’immagine del banchetto per parlare di un incontro dei popoli che è visto come orizzonte finale della storia. Il monte di Sion sarà luogo del convergere di tanti cammini e Dio stesso avrà preparato un cibo da condividere tra tutti. Questo ritrovarsi nella festa e nella gioia di una tavola dove mangiare insieme è immagine di un futuro in cui la morte sarà eliminata: l’azione di Dio è vita, dono di gioia e di incontro. Il Signore che prepara un banchetto di cibi buoni e abbondanti per tutti è anche colui che elimina la morte e toglie il velo che copre la faccia dei popoli. Apre la possibilità di una vista nuova, di incontro e di vita. L’immagine del banchetto nella Bibbia è poi stata utilizzata quale segno collegato alla venuta del messia che porta a compimento la promessa di Dio.

Nei vangeli si parla spesso di pasti a cui Gesù partecipò: alle nozze a Cana (Gv 2, 1-11), con i pubblicani e peccatori a casa di Matteo (Mt 9,10-13), nella casa di Simone in cui Gesù incontra la donna peccatrice (Lc 7,36-50), a casa di Zaccheo (Lc 19,1-9), attorno alla tavola a casa di Marta e Maria (Lc 10,38-42), la condivisione sui prati verdi della Galilea quando i pani vennero distribuiti (Mc 6,30-44; 8,1-9). Gesù visse poi in una cena il momento di addio ai suoi prima della sua morte. E’ poi una costante nei racconti pasquali l’insistenza sul ‘mangiare insieme’: con i due di Emmaus (Lc 24,30) e sulla riva del lago di Tiberiade (Gv 21,4-13).

Anche nel suo insegnamento Gesù spesso richiama l’immagine del banchetto ad es. nella parabola del grande banchetto (Lc 14,16-24), in quella delle vergini stolte e sagge con sullo sfondo una cena di nozze (Mt 25,1-12) e quando si trova ad ammirare la fede del centurione ricorda ancora questo stare a mensa con Abramo Isacco e  Giacobbe, in un banchetto futuro che raduna tutti i giusti da provenienze diverse: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,10-11).

La parabola degli invitati al banchetto (Mt 22,1-14) è posta nel contesto della discussione polemica di Gesù con le autorità giudaiche presso il tempio di Gerusalemme. E’ un momento di scontro in cui Gesù pone la sua critica contro coloro che vivono la religione come motivo di potere, senza attuare un cambiamento della vita, cioè una religione senza affidamento a Dio, ma ridotta a fatto identitario o a norme che escludono e rendono indifferenti. Le parole di Gesù vengono riprese dalla comunità di Matteo in un tempo successivo di scontro e polemiche tra comunità e giudaismo: il riferimento alla città data alle fiamme può essere un rinvio ai tragici eventi del 70 d.C. E’ peraltro certamente una parola rivolta ai capi dei sacerdoti e i farisei e notabili del popolo (Mt 21,45; 21,23).

In essa sono riunite due parabole con diverse accentuazioni La prima è quella del banchetto in cui gli invitati non accolgono l’invito, la seconda riguarda l’invitato senza la veste adatta per la festa.

Un re dopo aver preparato un banchetto manda i suoi servi a chiamare gli invitati. La risposta non è solo di rifiuto ma anche di indifferenza, di disprezzo e violenza. Gli invitati hanno altro di cui occuparsi sono in una condizione di sicurezza e di indifferenza: sono coloro che vivono la religione come una condizione di privilegio e di sicurezza e hanno perso di vita l’incontro con Dio stesso. E’ questa una parola di denuncia verso coloro i capi dei sacerdoti e notabili. A fronte di una mancata accoglienza del suo invito il padrone invia ancora i servi a chiamare ‘coloro che sono ai crocicchi delle strade ‘ e ‘tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze’.

L’agire di Gesù manifesta come il Padre ami chi vive una condizione di peccato e si apre alla consapevolezza di essere salvato. Coloro invece che si credono giusti vivono una profonda difficoltà a cogliere la verità della loro vita di fronte a Dio, non avvertono l’esigenza di lasciarsi accogliere e perdonare da Dio. Gesù critica questa religiosità falsa indicandola come ‘ipocrisia’: è l’atteggiamento di chi solo manifesta una religiosità fatta di gesti esteriori per essere ammirati dagli uomini ma non coltiva il coinvolgimento interiore della fede (Mt 6,6.7.16). Matteo presenta la chiamata di Dio che fa entrare ‘buoni e cattivi’: Dio ama non allontanandosi dai peccatori, ma assumendo su di sé il peccato e perdonando, offrendo misericordia.

La scena del banchetto si tramuta rapidamente in una scena di tribunale: c’è un invitato che non ha la veste adatta e viene espulso dalla sala. Nel linguaggio biblico la veste indica il comportamento degli uomini, l’agire, la coerenza tra fede e vita (in Ap 19,8, la veste di lino, data alla sposa dell’agnello, indica ‘le opere giuste dei santi’). Partecipare al banchetto è incontro con Dio che richiede un cambiamento della vita nei gesti, nelle scelte, nel modo concreto di condurre la vita.

Nel vangelo di Matteo è costante la critica di una religiosità che si nutre solo di proclamazioni senza riferimento alla vita: ‘Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli’ (Mt 7,21).

La parabola richiama che la via per partecipare al banchetto dell’incontro con Dio è l’operare seguendo Gesù in modo concreto aprendosi alla fraternità. In ciò si fa la volontà del Padre: non nel rivendicare una appartenenza di gruppo o una sicurezza derivante dal ruolo religioso ma nel compiere scelte e gesti di cura e accoglienza verso l’altro (Mt 16,27; 25,31-46).

Alessandro Cortesi op

Invito

La tradizione palestinese del wajib prevede che le partecipazioni ad un matrimonio siano recapitate personalmente e direttamente a ciascuno degli invitati. Centinaia di inviti casa per casa: famiglie amiche, zii e zie, cugini e cugine, familiari di diverso grado.

Nel film di Annemarie Jacir, che nel titolo richiama tale tradizione, è questo il compito a cui si dedica Abu Shadi, stimato insegnante arabo che si prepara a diventare preside, alla vigilia del matrimonio della figlia Amal in un periodo che si avvicina al Natale.

Shadi, suo figlio, architetto che da anni ha lasciato la Palestina e vive a Roma, è rientrato a Nazareth per aiutarlo nell’impegno della distribuzione degli inviti. Il film descrive le numerose visite condotte in ottemperanza a tale dovere. Padre e figlio si recano su per ripide scale o in mezzo a popolosi condomini, presso conoscenti e amici entrando nelle diverse case e ambienti di vita.

Le visite accompagnano a cogliere la vita di una rete di relazioni di famiglie e amici. Nel percorrere ampie strade congestionate dal traffico o strette vie di una Nazareth contemporanea paradigma di diversità e complessità, si illuminano frammenti di piccole storie personali o familiari intrecciate e collocate nella storia più grande del conflitto tra palestinesi e israeliani che segna pesantemente le esistenze e la vita cittadina.

Le scelte del figlio Shadi di rimanere a vivere lontano, in Italia, la sua convivenza con la sua compagna che ha un padre dell’OLP, il suo stesso lavoro, ma anche il suo modo di vestire non corrisponde alle attese del padre, anzi incontra un lui un profondo e sofferto rifiuto. Nel distribuire gli inviti emergono progressivamente differenze sia per la distanza generazionale sia per un diverso modo di guardare e affrontare la realtà. Si vengono anche a conoscere aspetti nascosti della storia familiare in cui la madre da tempo ha lasciato la famiglia. Ora, attesa per il matrimonio imminente, vive all’estero con un nuovo marito che proprio in quei giorni sta per morire.

“E’ con la saggezza che si costruisce una casa ed è con la comprensione che la si fortifica”: questa è la frase posta nell’invito di nozze di Amal. Emerge una tensione di fondo tra l’assuefazione di Abu Shadi nel dover vivere in una condizione di oppressione e di sudditanza in una situazione di dolore e conflitto accettato con rassegnazione e il senso di rivolta e di libertà del figlio che non intende accettare e non riesce a comprendere quanto realtà di ingiustizia e conflitto possano condizionare la quotidianità.

Su tutto prevale tuttavia una profonda nostalgia per una sintonia e complicità vissuta in un tempo lontano, una stagione della vita felice: si fanno strada progressivamente parole di sincerità e di autentica comunicazione tra figlio e padre. E si delinea anche il profilo più autentico dell’interiorità di un padre che soffre la solitudine e il senso di impotenza di fronte alla complessità della vita: malato di cuore e nel contempo capace di una sensibilità all’altro celata da una ruvidezza.

Il film di Annemarie Jacir è motivo per riflettere sul significato dell’invito a partecipare ad una festa di nozze, paradigma di intreccio di vite e storie, momento dell’esperienza umana che rinvia all’intreccio delle relazioni nella loro complessità gioie e interruzioni. E’ anche rinvio a scorgere la nostalgia di incontro che ogni festa di nozze con i suoi inviti reca con sè. “Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze…”

Alessandro Cortesi op

Link al film: Annemarie Jacir, Wajib – Invito al matrimonio 2017

Lettura di una immagine

La parabola del banchetto e degli invitati – Codex aureus Epternacensis (f 77v)

L’immagine va letta dal basso verso l’alto. In basso a sinistra sono raffigurati i poveri e gli ammalati, invitati da un servo e con fatica raggiungono la sala del banchetto. Nella fascia in alto a sinistra si ritrovano i poveri (indicati con la scritta pauperes) seduti con chi li ha invitato (homo quidam) ad una tavola apparecchiata e con i cibi. Nella fascia centrale – con riferimento alla versione della parabola di Luca (Lc 14,18-20) a destra si può vediamo l’uomo invitato che ha comprato un campo e un altro con i suoi buoi. Il terzo invitato si vede in basso a destra insieme con la sua sposa perché si è sposato e si scusa di non poter accettare l’invito alle nozze. I tre che rifiutano l’invito si voltano in un’altra direzione, mentre i poveri tendono verso l’alto. Il servitore in piedi accanto al tavolo sulla destra arriva portando il cibo e nella mano sinistra regge un bastone bianco girato verso il basso. Questo gesto, insieme alla parte del tavolo vuoto alla destra dell’ospite, sta ad indicare che l’invito è stato ripetuto.

Nella figura dell’ospite è racchuso il riferimento a Dio stesso, che ha invitato tutte le persone a sé. Chi viene invitato per primo si scusa e si giustifica di non poter partecipare perché ha cose migliori e più importanti da fare. D’altra parte, i poveri accettano volentieri l’invito. Con fatica e con l’aiuto ma tutti sostenuti dalla grazia di Dio, sono arrivati alla mensa del Signore. La tavola preparata a festa, le scodelle d’oro e il pane segnato con una croce indicano la mensa eucaristica e la comunione in cielo. Il povero seduto accanto al padrone di casa viene preso per mano. Un gesto che esprime il desiderio di Dio di avere accanto a sé tutti coloro che invita e lo sguardo di amore che rivolge perché si giunga ad accogliere il suo invito di comunione. (ac)

XX domenica tempo ordinario – anno A – 2020

suor Elena Manganelli, monaca agostiniana guarigione della figlia della donna sirofenicia(Icona realizzata da suor Elena Manganelli, monaca agostiniana, sul brano evangelico della guarigione della figlia della donna sirofenicia)

Is 56,1.6-7; Rom 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28

“Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore… li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera …il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli”

All’incontro con il Dio dell’alleanza sono accolti gli stranieri. Questa apertura è fondamentale nel percorso della fede d’Israele: se da un lato non si deve confondere la propria fede con i culti degli stranieri venendo meno alla fedeltà al Dio dell’esodo e dell’alleanza, dall’altro la presenza dello straniero in Israele costituisce un segno importante. Il popolo d’Israele è stato straniero e schiavo in Egitto ed è chiamato a continuare il cammino, non come possessore della terra, ma nella gratitudine a Dio.

L’elezione non è privilegio da conservare, ma è invio ad essere un segno tra tutti i popoli in vista di una convocazione dei popoli nella pace che è il disegno di Dio sulla storia umana. Lo straniero ricorda anche che Dio è ‘straniero’ lui stesso. Il Dio straniero, diverso da ogni creatura, si fa incontrare in chi chiede accoglienza.

Anche nella pagina del vangelo compare una straniera: è una donna di Canaan che si avvicina mentre Gesù è nel territorio dei pagani. Gli chiede con insistenza un gesto di liberazione. Chiede la liberazione di sua figlia. Di fronte all’insistenza dei discepoli che lo invitano ad esaudirla per farla smettere di gridare, Gesù risponde: ‘non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele’.

Il testo riflette le difficoltà presenti nella comunità di Matteo nel vivere l’apertura ad accogliere i cristiani che provenivano dal paganesimo ma fa anche riferimento alla missione di Gesù che non ha inteso fondare un’altra religione ma raccogliere i perduti della casa d’Israele (Mt 10,5) come anche tutte le pecore perdute e senza pastore (Mt 9,36). La donna osserva che anche i pagani (i cagnolini) si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni.Tutto si gioca sul ‘gusto delle briciole’.

Gesù legge nel cuore di questa donna una fede che la spinge a rivolgersi con coraggio, a  superare tante barriere. E lo ‘costringe’ ad oltrepassare confini ed esclusioni. La donna non pretende nulla, ma chiede ciò che non può essere negato nemmeno a chi è estraneo: non pr4tende di essere tra i figli ma si accontenta delle briciole: non chiede il pane dei figli ma si accontenta delle briciole per color che erano considerati esclusi, senza salvezza. Gesù scorge in questa donna una apertura inedita. E’ capace di oltrepassare i muri di tipo religioso e culturale.

La supplica della donna è portatrice di vita, apre strade nuove. Costringe Gesù ad un gesto che dice accoglienza dei pagani. Gesù loda la fede presente nel cuore di questa donna e legge in questa fede ‘davvero grande’ una forza che opera la salvezza. Questo brano è indizio della scelta presente nelle prime comunità di annunciare il vangelo a tutti, senza esclusione e senza restrizioni.

Queste letture sono un invito ad essere attenti alla forza nascosta della fede presente nei cuori e a vivere l’accoglienza dello straniero come esperienza della fede in Gesù Cristo.

Alessandro Cortesi op

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Lo straniero respinto e rifiutato

Scrive Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci ne “Il manifesto” del 9 agosto 2020: “…per rassicurare gli italiani e le italiane, in realtà alimentando l’allarme e i sentimenti anti immigrati, che tanto comodo fanno alla destra razzista, il governo ha deciso di concentrare, ricorrendo alle navi quarantena che sono il simbolo dell’isolamento di massa, della separazione forzata, della logica concentrazionaria. Richiamano vecchie ma sempre verdi soluzioni contro le minoranze, in questo modo moltiplicando, nel dibattito pubblico, i numeri reali e quindi anche la percezione di essere di fronte ad una emergenza. In realtà non sta accadendo nulla di straordinario o imprevedibile. I governi sanno cosa succede in Libia e quante sono le persone in mano alle milizie, da noi finanziate e sostenute. Poche migliaia, rinchiuse nei centri di detenzione governativi o “privati” che basterebbe evacuare, come ha chiesto l’Unhcr. Ma si preferisce puntare su respingimenti delegati alla cosiddetta guardia costiera e alla retorica vittimistica dell’Italia lasciata sola dall’Europa. D’altra parte sulla Tunisia grava una crisi economica pesantissima e i giovani, come nel 2011, vogliono sottrarsi ad un destino senza prospettive. Si tratta di poche migliaia di ragazzi che, se potessero partire per l’ Europa legalmente e in sicurezza, non rischierebbero la loro vita pagando per una soluzione incerta e pericolosa, come quella via mare. Se il governo, rompendo con l’ideologia proibizionista che impedisce agli stranieri di rivolgersi agli Stati per emigrare, emanasse un decreto flussi con una quota d’ingressi dalla Tunisia, si ridurrebbe al minimo il flusso irregolare, dando ai trafficanti un colpo mortale. Si tenta invece di replicare il modello libico, investendo sulla guardia costiera tunisina, alla quale delegare i respingimenti di massa, proibiti dalle norme nazionali e internazionali. (…) Il governo è di fronte ad una scelta tutta politica: continuare a sostenere che deve fronteggiare un’emergenza, alimentando le paure e favorendo la campagna razzista delle destre, o scegliere la strada dell’accoglienza diffusa e integrata sul territorio, intervenendo con le procedure sanitarie usate per tutti i cittadini. Temiamo però che si sceglierà la strada di alimentare la paura, come sta già avvenendo, amplificando con essa anche i problemi”.

La questione stranieri è divenuta ormai motivo principe da sfruttare nelle campagne elettorali. Anche quando non vi è emergenza, anche quando è ormai chiaro che politiche appiattite sulla dimensione della sicurezza e della discriminazione non producono nemmeno i risultati attesi da chi le propone ma coltivano degenerazioni e fenomeni criminali.

Nel frattempo il rapporto con gli stranieri, con coloro che hanno diverso colore della pelle anche se stranieri non sono, con tutti coloro che costituiscono minoranze e diversità, con gli stranieri poveri in particolare, cioè i migranti, si sta approfondendo una attitudine diffusa di sospetto, esclusione, razzismo.

Sinora un argine a tale barbarie sono state le determinazioni del diritto internazionale. Ma la situazione si sta deteriorando in modo preoccupante. L’Italia è triste esempio della delega ad altri nell’attuare pratiche che vanno contro i trattati internazionali, atti di discriminazione e disumanità. E’ ben nota la politica perseguita dall’Italia in Libia dove si mantengono carceri in cui si praticano orrori indicibili su uomini donne e bambini e dove le milizie che hanno il controllo della guardia costiera possono usufruire di soldi e attrezzature procurate dall’Italia per attuare respingimenti e deportazioni.

Meno conosciuta è la situazione sulla frontiera est dell’Italia da cui provengono un numero maggiore di migranti per la rotta che attraversa via terra i Balcani, anch’essi tra enormi difficoltà e sofferenze. Nell’ultimo periodo alcune inchieste giornalistiche ed alcune prese di posizione dell’ASGI hanno denunciato una situazione di respingimenti e deportazioni attuate in modo sistematico violando il diritto fondamentale dei migranti a richiedere asilo.

Migranti fermati alla stazione di Trieste o vicino al confine vengono riportati oltre il confine senza permettere loro di chiedere protezione internazionale. Numerose testimonianze raccolte da Amnesty International attestano maltrattamenti e torture perché il viaggio non termina nemmeno in Slovenia ma al di là dei confini europei in Bosnia, con interventi violenti della polizia croata e senza che sia consegnato a queste persone alcuna documentazione in modo tale che non rimanga alcuna traccia del respngimento. “Un accordo di “riammissione informale” viene abusato dall’Italia per respingere i migranti in Slovenia, da dove vengono poi rimandati con respingimenti a catena in Bosnia-Erzegovina o in Serbia” (Respingimenti illegali e violenze ai confini: un rapporto di Border Violence Monitoring Network Balcani, giugno 2020).

Su “L’Espresso” di domenica 2 agosto è stato pubblicato un dossier su questa vicenda di violenza ed illegalità che sorprende e indigna. Si tratta di autentiche deportazioni attuate su base di accordi tra Italia Slovenia e Croazia nei confronti di migranti che vengono espulsi fuori dai confini dell’unione, in Bosnia senza alcuna notifica.

L’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) ha denunciato tali operazioni come riammissioni con carattere illegali ed ha inviato una lettera al Ministero dell’Interno, con la richiesta di “non eseguire le riammissioni senza un previo esame delle situazioni individuali ed un effettivo coinvolgimento delle persone interessate, tenuto conto, comunque, dei trattamenti inumani e degradanti ai quali, in violazione del divieto inderogabile previsto dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, le persone respinte vanno incontro lunga la rotta balcanica”.

Ad una precisa interrogazione su tale drammatica situazione il ministero dell’interno ha dichiarato ufficialmente che si possono respingere i richiedenti asilo. Un preoccupante segnale del venir meno di riconoscimento di diritti fondamentali.

Sono questi segni preoccupanti e drammatici della deriva culturale ed etica in cui stiamo vivendo ma anche dell’incapacità e della non volontà politica ad affrontare la questione epocale delle migrazioni e del rapporto con lo straniero. L’accoglienza dei migranti che fuggono da guerre, miseria e disastri ambientali – conseguenze di scelte politiche ed economiche globali – costituisce una delle linee di faglia del nostro tempo in cui si potrebbe impostare un nuovo modo di intendere i rapporti tra i popoli e individuare l’orientamento per la formazione di un nuovo mondo plurale, aperto, solidale.

Proprio per questo sono da ammirare e sostenere tutti coloro che si impegnano per difendere i diritti dei migranti, per aprire strade nuove e diverse. All’ultima udienza generale papa Francesco ha detto: “Mentre lavoriamo per la cura da un virus che colpisce tutti in maniera indistinta, la fede ci esorta a impegnarci seriamente e attivamente per contrastare l’indifferenza davanti alle violazioni della dignità umana” (udienza 12.08.20). Nel buio del presente va alimentata la speranza: ‘il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli’.

Alessandro Cortesi op

XIX domenica tempo ordinario – anno A – 2020

8532a56c-678a-4be9-b5ae-d8e451da03201Re 19,9.11-13; Rom 9,1-5; Mt 14,22-33

“Elia giunse al monte di Dio l’Oreb. Ed ecco il Signore passò davanti a lui…” Nel deserto, in un momento di solitudine e desolazione, Elia incontra Dio che gli si fa vicino. Non nel vento forte, non nel fuoco, non nel terremoto ma nel silenzio. Elia si era scontrato con i sacerdoti di Baal che proponevano un culto che rispondeva al desiderio di potenza e di dominio, e conduceva ad abbandonare il Dio dell’esodo e dell’alleanza per cercare sicurezze immediate. Elia si oppone ad un modo di vivere la religione che deresponsabilizza e si fa idolatria. Per questo si era trovato solo e pensava che la sua vita fosse sprecata. Ma proprio in questo momento in cui non ha altri sostegni vive la sconvolgente esperienza del farsi vicino di Dio. Un Dio dicreto che non è nel terremoto, non nel fuoco, non nel vento gagliardo ma nella ‘voce di un leggero silenzio’. Elia avverte una parola su di lui come promessa di futuro e invito a riprendere il cammino.

Dio si fa a lui vicino in modo inaspettato, in punta di piedi. Incontrarlo esige la capacità di ascoltare la voce del silenzio. In questo racconto c’è una critica a varie forme di intendere la religione, le forme della paura e del magico, ed anche alla pretesa di possedere Dio piegandolo a progetti umani. Elia scopre che il Dio che lo chiama è un Dio nascosto, Dio dell’esodo e del deserto: i suoi pensieri non corrispondono ai pensieri di grandezza e di dominio umani. E’ un Dio che spiazza, disorienta e sempre apre ad un ‘oltre’ e ad un ‘altrove’ verso cui andare, dove incontrarlo in modo nuovo. E’ un Dio che coinvolge e invia per una missione che cambia la vita. Anche Elia nel suo cammino di profeta è chiamato a convertirsi ad un volto di Dio che non corrisponde alle sue idee e a lui affidarsi.

La pagina del vangelo narra un altro momento di crisi: dopo la moltiplicazione dei pani Gesù costrinse ai discepoli a recarsi all’altra riva. E’ consapevole che il gesto della moltiplicazione dei pani può aprire a fraintendimenti: lo cercheranno non per divenire comunità che impara a condividere ma per usarlo per risolvere i propri interessi. Es inge i suoi altrove verso la riva dei pagani e lui rimane solo. Matteo a questo punto presenta così la crisi della comunità durante la tempesta nel lago. Riuniti sulla stessa barca i discepoli provano paura di fronte alla violenza del vento e delle onde. Ma Gesù stesso si fa loro incontro proprio in questo momento di paura e impotenza. Dice ai suoi: ‘Coraggio, sono io, non abbiate paura’. Il camminare sulle acque è nella Bibbia prerogativa di Dio (Gb 9,8) e le sue parole evocano l’’Io sono’ il nome di Dio stesso (Es 3,14). La sua parola è di fiducia e incoraggiamento: chiama all’incontro con lui. Anche quando afferra Pietro lo richiama alla fede: ‘Uomo di poca fede perché hai dubitato?’ E Pietro scopre di essere descritto dall’invocazione ‘Signore salvami’. C’è un desiderio di salvezza al cuore profondo dell’esistenza umana.

Sulla barca, di fronte alle forza del male simboleggiate dallo sconvolgimento del mare, la paura è vinta dalla parola di coraggio rivolta da Gesù ai suoi. Gesù si fa vicino e sostiene il cammino della sua comunità simboleggiato dalla barca dove tutti, nessuno escluso, sperimentano la fatica e il disorientamento. Il racconto rinvia ai prodigi dell’esodo quando Dio fece passare Israele attraverso il mare (Es 15,8.16). Gesù apre ai suoi ancora la strada dell’esodo, di liberazione per divenire popolo di Dio.

Al mare, che racchiude il rinvio alle forze del male e della morte, Gesù dice ‘Taci, calmati’. La sua è una parola autorevole più forte del male. Matteo in questo racconto delinea il profilo di Gesù risorto, come il più forte, colui che nella risurrezione ha sconfitto ogni male. E porta la pace. Gesù invita i suoi ad avere fede: il suo farsi vicino vince la paura, libera dal sentirsi dipendenti da forze capricciose e sconvolgenti, ed apre alla fiducia di sapersi tra le mani di un Dio buono, che ci libera da ogni male e rende responsabili di liberazione e di condivisione – come il segno dei pani aveva indicato – per gli altri.

Alessandro Cortesi op

 

SS4UrDKjuwWSpC8Gm_tWBOLssIiC22xKs_lDmiQ3oQFvLDqZn1ES0HO7egfOT3jFZs3V7fDYx6RY7Do_gBZ4FJw7DXzzHc1hOZyYk0NLpWsLEbulRvxCupY.jpgCredere e dubitare

In questi giorni all’età di 104 anni è tornato alla casa del Padre Joseph Moingt, gesuita francese, uno dei maggiori teologi contemporanei.

Entrato a 23 anni nella Compagnia di Gesù dovette arruolarsi nell’esercito francese all’inizio della guerra e subì in seguito la prigionia dei tedeschi in campi tra la Germania e la Polonia. Terminata la guerra, nel 1949 fu ordinato prete e riprese gli studi. La sua tesi sotto la direzione di Jean Daniélou, approfondì temi della teologia trinitaria nella tradizione patristica, in Tertulliano in particolare e il suo studio divenne uno dei testi di riferimento fondamentali per la storia dei dogmi. Iniziò il suo insegnamento di storia dei dogmi e teologia dogmatica alla facoltà di Fourvière dei gesuiti presso Lione sin dal 1955. In quegli anni ebbe modo di partecipare a quell’ambiente intellettuale e spirituale in cui maturava la ‘nouvelle théologie’ che preparò per molti aspetti il rinnovamento del Concilio Vaticano. Vicino a amico di Michel De Certeau insegnò anche alla Ecole Pratique des Hautes dei gesuiti di Chantilly e al Centre Sèvres di Parigi, dal 1974 al 2002. E’ stato anche per molti anni direttore della rivista Recherche de sciences religieuses.

Il suo studio si è posto decisamente sulla linea del Vaticano II dopo il Concilio e nel tempo ha approfondito una riflessione sulla fede unita ad una sensibilità spirituale in ascolto della storia. Attraverso la conoscenza del pensiero cristiano nella storia è giunto a scorgere l’esigenza di ripensare sempre in modo nuovo il vangelo e di tornare lì per vivere la sequela di Gesù.

Nel 1993 ha pubblicato L’Homme qui venait de Dieu (Cerf, 1993), approfondendo una riflessione su Gesù e sul significato della fede in lui in rapporto alle domande e sensibilità del tempo contemporaneo. Poi ha fatto seguito la sua opera Dieu qui vient à l’homme (Cerf, 2002 e 2005). Nella sua ricerca ha sempre cercato di tener presente l’inquietudine propria della fede in particolare nel tempo presente in rapporto alla ricerca umana sul senso della vita. La sua profonda conoscenza della storia del pensiero cristiano lo spingeva ad attuare un ripensamento dei dogmi della fede cercando nuove formulazioni e interpretazioni in rapporto con la situazione contemporanea.

“Nei miei libri, tengo presenti i dogmi della Chiesa, ma li reinterpreto. Non li credo – non li ricevo – così come sono stati formulati, ma mi sforzo tuttavia di pensarli come sono stati creduti. […]. Tengo presente la fede […] che li ha ispirati” (Croire quand même, 178)

In tal senso ha vissuto un rapporto vivo e autentico proprio con la tradizione di cui era profondo conoscitore: “La Tradizione, quella vera, quella che è viva, non è ripetizione, ma incessante innovazione alla ricerca della Verità piena verso la quale lo Spirito Santo conduce i credenti” (Croire quand meme, 41).

Ed ha così messo insieme credere e dubitare perché non vi è autentica fede senza dubbio e ogni dubbio può essere motivo di nuovo cammino e ricerca nell’ascoltare e ricevere una parola sempre nuova verso una verità che sta sempre davanti e oltre.

“Io ho imparato a dubitare, perché è necessario conoscere per dubitare, e a credere, perché è necessario dubitare di ciò che si sa per conoscere ciò che si crede. Avevo imparato a credere e a parlare del Cristo accogliendo la tradizione della Chiesa; ho dovuto reimparare l’uno e l’altro interrogando direttamente il vangelo, con la preoccupazione di cercare la verità più che di ripetere una verità già data”. (L’homme qui venait de Dieu).

Insisteva sul rimanere ancorati alla Scrittura e sull’importanza di ritornare a trovare in essa la fonte del pensare teologico. Coltivava una tensione a comprendere mantenendo peraltro una attenzione al senso della fede di chi vive le fatiche e le gioie della vita ordinaria e quotidiana. Parlava così della religione del vangelo che sta “al cuore dell’umanità, in questo spazio spirituale strutturato dalle relazioni di carità. Dio vive lì. II suo cuore palpita lì, al cuore della nostra 
storia umana. Ecco la vera religione ‘in spirito e verità’” (L’Évangile sauvera l’Église, 145).

Il suo cammino intellettuale ed esistenziale si è svolto nel tentativo di ritornare al vangelo di Gesù facendo scorgere come alla base dell’esperienza cristiana sta una bella notizia di liberazione che implica un impegno di compagnia e di vicinanza alla causa dell’uomo: la causa di Dio è infatti la causa dell’uomo.

“Gesù (…) denuncia le pretese di dominio della religione (…) Nel suo relativizzare l’obbedienza alla legge religiosa dà tutta la sua forza alla legge etica (…) Le istituzioni religiose sono false mediazioni (…) Sono utili nella misura in cui indicano un cammino verso Dio, e sarebbe temerario rigettarle (…) ma non collegano direttamente a Dio anche se esse stesse e i fedeli lo credono” (Dieu qui vient à l’homme, t. 1, p. 387-391).

“Nel nostro tempo in cui rinascono in diversi luoghi del mondo violenti conflitti religiosi, è importante che il cristianesimo si segnali per ciò che lo differenzia da ogni altra religione, per il fatto cioè di non essere fondato sul sacro, sull’autorità di una legge e di una tradizione immemorabile e intoccabile, ma su un vangelo, una buona notizia, una parola di liberazione e di pace” (L’Évangile sauvera l’Église, 87-88).

Ciò per lui ha significato porsi in attenzione delle esperienze dei fedeli, delle difficoltà e delle obiezioni di chi ha abbandonato la chiesa. Da qui anche la sua critica ad un’amministrazione dei sacramenti staccata da una comunicazione della fede nel dialogo che coinvolge:

«La soluzione dei mali presenti non è rimediare all’amministrazione dei sacramenti, ma alla configurazione stessa della Chiesa che si è modellata nel corso dei secoli in vista di trasmettere una religione che Cristo non aveva istituito, con l’intenzione sicuramente di trasmettere così il Vangelo, ma dimenticando troppo presto che la parola evangelica, come ogni altra, si comunica attraverso il colloquio, il dialogo vivo che suscita nella comunità dei credenti e non attraverso i soli riti che la rappresentano. … Il rimedio ai nostri mali non può essere altro che ridare alla comunità dei credenti il libero uso della parola di fede e, per questo, costruire luoghi di Chiesa come luoghi di dialogo e di circolazione della predicazione evangelica» (Esprit, Église et Monde, 65).

Nel 2010 ha pubblicato Croire quand même. Libres entretiens sur le présent et le futur du catholicisme (ed Flammarion 2013).
 In questo testo esprime la sua convinzione di una urgenza di una “riforma radicale del cattolicesimo” a partire dal vangelo nel riconoscere ciò che è autenticamente umano accompagnando i percorsi e le inquietudini dei contemporanei.

Dall’incontro con Cristo sgorga un umanesimo nuovo che sta in rapporto alla pasqua di Gesù, la sua morte e risurrezione: si tratta di un umanesimo evangelico. E’ questa la proposta che Moingt vede essenziale per la vita della chiesa.

“Cristo passando per la morte e la risurrezione ha acquisito una dimensione di umanità universale, è diventato fratello di tutti (…) capace di una relazione personale con ciascuno (..) creando legami di fraternità con tutti (…) E’ promotore di un ‘io’ che è invitato ad integrarsi a un ‘noi (…) chiamato a d allargarsi a ‘tutti’ (….) questo umanesimo evangelico è caratterizzato dalla cancellazione delle frontiere e delle disuguaglianze (…) La rivelazione si manifesta così aperta sull’avvenire dell’umanità, nel senso che anch’essa viene, come la risurrezione, dalla fine della storia, da una storia che dev’essere fatta dagli uomini e per loro” (Dieu qui vient à l’homme, t. 1, 421-422)

Il regno di Dio si attua allora non in termini di pratiche religiose e cultuali ma nell’ambito della vita ordinaria, nelle relazioni e nell’impegno nel mondo:

“Il regno di Dio rientra … nell’ambito della ‘regola d’oro’, non in un dovere della religione, ma in un dovere dell’umanità ….. Questa regola, totalmente indeterminata, è consegnata al nostro desiderio, […] la via della salvezza è ampliamento del nostro senso di umanità. Ne emerge una preziosa conclusione: la salvezza è più vicina a una pratica umanistica che religiosa. …] L’umanesimo evangelico […] si pratica nel campo della secolarità” (Dieu qui vient à l’homme, t.2/2, 979).

“Non si tratta di adorare Dio in un culto ma di amare il prossimo in cui si trova l’assoluto di Dio (L’homme qui venait de Dieu, 483). “La carità diviene principio di salvezza e nessun atto di religione può sostituirla. Non si tratta di votarsi a Dio ma di dedicarsi al prossimo”. (ibid. 489).

Nel suo proporre un rinnovamento profondo della vita della chiesa scorge l’importanza della compagnia e del dialogo: 

“Penso che la salvezza della chiesa non sta nel rafforzare i ranghi del clero. Piuttosto si deve prima stabilire l’uguaglianza alla base ridare la parola di cui i fedeli godevano un tempo nella chiesa, lasciarla diffondere ampiamente perché i cristiani possano assumersi le loro responsabilità, cioè sentirsi responsabili della chiesa e della sua sopravvivenza nel mondo. Non credo da parte mia che la chiesa rischi di sparire per la mancanza di persone consacrate, per la mancanza di preti” (L’Évangile sauvera l’Église, 44)

Un aspetto rilevante di rinnovamento riguarda i ministeri che renderebbe possibile un riconoscimento del ruolo delle donne nella chiesa. A suo avviso la difficoltà fondamentale consiste nel superare un’impostazione teologica secondo la quale il ministero è stato pensato a partire dal riferimento al sacerdozio ministeriale. La sua proposta è quella di ripensare i ministeri a partire dal sacerdozio comune dei battezzati: da tale prospettiva è possibile la considerazione di una ministerialità nuova e differenziata in grado di includere tutte e tutti i fedeli e di non escludere alcune categorie.

“Vedo l’avvenire della Chiesa nelle piccole comunità, dove vi sarebbero cristiani e non cristiani, che insieme rifletterebbero sui loro problemi leggendo il Vangelo e imparerebbero così a vivere insieme seguendo Gesù: sarebbe già una vita nella Chiesa”.

In un’omelia pronunciata a 75 anni da quando fu accolto nella compagnia di Gesù diceva: “Gli rendo grazie per la sua pazienza ad insegnarmi il valore del tempo perduto ad ascoltare gli altri […]. Ciò di cui hai potuto impoverirti per altri va a tuo credito e ti arricchisce, Ecco che cosa ho imparato dalla mia lunga vita e di cui rendo grazie al Signore. Perché ogni perdita gratuitamente accettata è grazia, è sempre guadagno di grazia”.

Alessandro Cortesi op

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