V domenica di Quaresima – anno C – 2022
Is 43,16-21; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11
“Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia e non ve ne accorgete?”
Il messaggio del profeta suggerisce di guardare ad un’opera di Dio come germoglio che apre a vita nuova in un tempo di violenza e desolazione. Nel tempo dell’esilio il profeta indica una novità di piccoli germogli, come nel deserto questi segnano la gioia della vita che contrasta e vince l’aridità che sta attorno.
Il profeta annuncia una realtà nuova che porta a lasciarsi alle spalle la tragica esperienza dell’esilio. Invita a non lasciarsi imprigionare da cose passate, il ricordo della sofferenza, la distruzione di Gerusalemme, la devastazione del tempio, la deportazione verso i campi di Babilonia. E’ annuncio di un nuovo esodo, cammino che rinnova l’esperienza di incontro con Dio vivente e liberatore, il passaggio da un’esperienza di morte e oppressione ad una vita e speranza nuove.
La pagina del vangelo, considerata da molti come non appartenente al IV vangelo ma inserita come parte aggiunta, testimonia un aspetto dell’agire di Gesù e del suo sguardo verso chi è tenuto ai margini e condannato.
La vicenda è quella di una donna portata in mezzo perché sorpresa in adulterio. E’ portata lei sola, donna, e posta nella condizione di chi non ha alcuna difesa e sottoposto alla condanna. La sua identità è anonima, calpestata dal giudizio implacabile di maschi ipocriti: uomini che intendono di lapidarla ergendosi a detentori della moralità e giudici della vita altrui. Gli accusatori si rivolgono a Gesù con l’intendimento di presentargli un tranello e trovare motivo di accusa anche nei suoi confronti: lo interrogano infatti sulla questione se questa donna deve essere messa morte. Se egli prendeva posizione sulla liceità o meno della lapidazione si sarebbe posto in contrasto con un sistema giuridico, quello ebraico da un lato – perché essi leggevano nella legge di Mosé la prescrizione di lapidare – o con quello romano, perché solamente ai romani spettava il diritto di condanna a morte.
Gesù non accetta questa provocazione e sceglie il silenzio. E’ tuttavia un silenzio pesante e che reca con sè una provocazione. E’ una reazione alla violenza non nei termini della violenza, ma nella nonviolenza attiva. Inizia scrivere con il dito per terra: è un atteggiamento enigmatico che cela forse un riferimento alla voce dei profeti: ‘Sulla terra verrà scritto chi ti abbandona, perché hai abbandonato il Signore sorgente di acqua viva’ (Ger 17,13). C’è un adulterio profondo molto più grave di ogni mancanza di fedeltà umana, ed è abbandonare il Signore, scegliere le vie del potere religioso, del dominio e della violenza sugli altri al posto della fedeltà al Dio che vuole la liberazione dei suoi figli. Di fronte all’insistenza di chi voleva una sua presa di posizione Gesù non risponde alla loro questione ma ha parole che svelano l’ipocrisia: ‘Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei’. Queste parole racchiudono una critica radicale nei confronti di chi si atteggia a giudice implacabile degli altri. “chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani”.
Il lento, silenzioso e progressivo andarsene di tutti i presenti, a cominciare dai più anziani, è momento sorprendente del racconto: questi uomini tronfi del loro potere sono smascherati nel loro preteso rigore che nasconde il grande peccato di tradire la fede d’Israele. Il distaccarsi ‘uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi’, è una presa di congedo che lascia spazio solo al silenzio, in contrasto con l’agitarsi delle accuse e la violenza delle parola di accusa. La forza del silenzio di Gesù manifesta la sua opposizione nonviolenta alla violenza in atto, che addossava su quella donna una colpa per affermare un potere religioso e maschile.
‘Rimase solo Gesù con la donna là nel mezzo’: nel mezzo è indicazione non tanto della centralità di uno spazio, ma simbolo di un essere di Gesù nel mezzo della sua vita, nel profondo del suo cuore. La sua parola non condanna, è altra rispetto a tutto ciò che rinchiude la vita e la schiaccia. Fa rinascere ed apre una novità: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
Dopo che tutti se ne furono andati Gesù rivolge alla donna un unico invito che è rivolto al futuro. Se c’è peccato è qualcosa che appartiene al passato: ‘d’ora in poi non peccare più!’. Queste parole recano con lor il, messaggio che il peccato è condizione che tutti coinvolge. Per questo è relativizzato di fronte alla possibilità di un superamento ed alla novità offerta da Dio liberatore. Se da un lato c’è il peccato quale esperienza che segna il cammino umano è più forte il dono di speranza e di apertura ad un futuro nuovo che viene dallo sguardo di Dio. Gesù rende possibile questo nel suo stare lì davanti alla donna, nell’offrirle la sua presenza e il suo sguardo di bene: le apre possibilità di un futuro che è già cominciato.
Alessandro Cortesi op
Responsabilità nel dilemma
Di fronte alla violenza non è facile prendere posizione: è la questione drammatica di questi giorni mentre giungono notizie e immagini delle devastazioni, della guerra che miete vittime tra la popolazione inerme, distrugge le abitazioni e infrastrutture della vita civile e demolisce ogni attesa e speranza delle persone, facendo il deserto: scene già viste a Grozny, ad Aleppo si ripetono. Ma sono anche le medesime scene dell’Irak, del Kosovo, della Libia, dell’Afghanistan. La barbarie s’impone quale spettacolo quotidiano e tragica realtà per milioni di persone. L’orrore della guerra con strumentazione bellica che causa devastazioni e dolori senza limite è la tragica realtà della guerra di questo tempo con potenza inaudita di morte. E per questo folle. L’insegnamento che proviene dall’esperienza è che non c’è più alcuno spazio né per la guerra santa né per la guerra giusta. “Torniamo a pensare a questa mostruosità della guerra e rinnoviamo le preghiere perché si fermi questa crudeltà selvaggia che è la guerra” sono le parole di papa Francesco all’udienza del 30 marzo.
Raccolgo alcune voci, nel drammatico interrogarsi di chi si chiede quali vie seguire a fronte di questa aggressione brutale di Putin contro l’Ucraina per giungere ad un cessate il fuoco, per preparare una pace possibile, per orientarsi ad un futuro non per vie che prolunghino il conflitto rendendolo situazione endemica e con possibilità continue di escalation, né per vie che conducano a prospettive addirittura impensabili nel tempo delle armi atomiche e del possibile conflitto nucleare.
Paolo Naso in un suo articolo sulla rivista “Confronti” presenta il dilemma di chi si pone su posizioni pacifiste oggi: il pacifismo ha infatti “di fronte a sé un dilemma morale che non può risolvere solo ideologicamente ma che impone un criterio anche etico e quindi una valutazione sulla moralità della resistenza. Da alcuni passaggi della Storia non si esce “in santità e purezza” e la resa umanitaria richiesta agli ucraini sarebbe il riconoscimento del potere del più forte e del più violento. Gli spazi di manovra sono stretti perché ogni mossa deve essere volta a sostenere il negoziato e a fermare il conflitto: quindi, più tecnicamente, è politicamente saggio e doveroso non istituire una no fly zone che potrebbe accendere altre micce in un campo già minato. Ma il sostegno alla resistenza ucraina può e deve essere altro. Sappiamo bene che non è condotta né da santi né da eroi senza macchia; sappiamo anche che al suo interno c’è una forte componente nazionalistica. Ma di fronte a noi, oggi, vediamo un popolo che, a larga maggioranza, si sta difendendo da un’aggressione violenta e irragionevole che non si ferma neanche di fronte ai civili inermi. Questo è ciò che abbiamo di fronte a noi. E ognuno è libero di voltarsi da che parte preferisce”. (Pace (e pacifismo) secondo giustizia, “Confronti” aprile 2022)
Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova offre indicazioni sulle domande di chi in una linea di scelta nonviolenta si pone di fronte alla complessità del reale: “Chi si considera nonviolento non è un’anima bella che immagina un mondo ideale privo di conflitti, e si sottrae persino all’idea di prendere posizione di fronte ad essi. Il nonviolento vede con chiarezza la dinamica dei conflitti, prende una posizione ferma contro l’ingiustizia, contro l’aggressore e dalla parte dell’aggredito, ma cerca tutti i mezzi possibili per scongiurare un’inutile escalation del conflitto, esplorando le possibili soluzioni precedenti e alternative alla guerra. Sono un antico obiettore di coscienza. Per me impugnare le armi non è un’opzione. Credo che in molte situazioni (ma ho l’onestà di dire: non in tutte) sia possibile trovare mezzi diversi, e persino più efficaci, per combattere un nemico, un aggressore, rispetto all’uso della stessa forza che sta usando lui. Ma ho sempre pensato che questo valga per la mia coscienza. E non implica che sia sbagliato, o moralmente ingiustificabile, rispondere alla violenza difendendosi anche usando la violenza, da parte di chiunque. Tanto meno presuppone una superiorità morale di chi rifiuta di combattere, rispetto a chi sceglie di lottare: al contrario, bisogna riconoscere la virtù o il coraggio di chi si ribella all’imposizione, pagandone il prezzo, in qualsiasi modo lo faccia. Credo che di fronte a un’aggressione plateale e ingiustificata come quella russa nei confronti dell’Ucraina sia necessario prendere una posizione chiara ed esplicita a fianco dell’Ucraina. Questo, da fuori, può essere fatto in tre modi, tra loro compatibili e non mutuamente escludentisi: a) inviando armi a chi ritiene di dover combattere contro la prepotenza dell’esercito russo, costringendolo a trattare da una posizione di non totale asservimento e dunque debolezza della parte aggredita; b) aiutando la popolazione civile con supporto materiale e morale, come fanno le ong e le organizzazioni di cooperazione impegnate nella risposta all’emergenza umanitaria, ma anche come ha fatto l’Unione Europea imponendo sanzioni e sequestrando patrimoni di sostenitori del regime russo, e boicottando attivamente le istituzioni dell’aggressore, come fa Anonymous; c) aiutando tutte le persone sfollate a trovare una nuova casa a casa nostra. Non fare nulla, tanto più in nome del pacifismo, non è accettabile”. (Guerrafondai e pacifisti a parole? No, grazie La nonviolenza attiva faccia un passo avanti, “Avvenire” 1 aprile 2022)
In conclusione afferma “Nessuna opposizione alla guerra è credibile se non si paga un prezzo personale e non si attiva una testimonianza diretta”. indica qualcosa che può essere fatto oltre a vari tipi di impegno, la presenza di una solidarietà attiva contro la guerra e contro l’ingiustizia: con una grande marcia della pace.
E’ quello che sta già avvenendo in questi giorni: è partita oggi la carovana ‘Stop the War Now’ organizzata dall’associazione Papa Giovanni XXIII, con l’adesione di ottantanove organizzazioni religiose e laiche. «Il viaggio a Leopoli viene esattamente trent’anni dopo la grande marcia per la pace organizzata nella Sarajevo assediata proprio dal vescovo Bello, che all’epoca era il presidente del movimento cattolico Pax Christi» osserva Tonio Dell’Olio, discepolo e continuatore dell’impegno di don Tonino Bello, punto di riferimento del movimento pacifista italiano. “Riteniamo che il pacifismo e la nonviolenza siano più diffusi di quanto non si creda e che questo sia il momento di riprendere una costruzione dal basso. Ogni guerra è una sconfitta per tutti, e noi andremo a Leopoli incoraggiati dalla fierezza di papa Francesco che è andato oltre tutti i suoi predecessori, quando ha definito la guerra un atto barbaro e sacrilego» (R.Michelucci, Si parte ricordando don Tonino, “Avvenire” 1 aprile 2022).
Giulio Marcon su “Il Manifesto” peraltro ricorda come la scelta di aumentare le spese militari in questo momento costituisce una scelta foriera di ulteriore uso delle stesse in guerre e devastazioni: “Armandoci fino ai denti non ci sarà pace e sicurezza, ma solo crescita dei rischi di nuove guerre e di altre tensioni internazionali. È sempre stato così nella storia del secondo dopoguerra. E la guerra in Ucraina è solo l’occasione per accelerare politiche sbagliate fondate su un riarmo fonte di nuovi pericoli. Ecco perché la strada non può che essere quella della prevenzione dei conflitti, delle Nazioni unite e del disarmo”. “Rimane poi il nodo di fondo. A cosa servono le armi? Ad essere usate per la guerra. Ora la guerra, oltre che essere un crimine, ha dimostrato di essere negli ultimi 30 anni completamente un disastro, una distruzione di risorse e di vite umane, soprattutto dei civili. Fallimentare in Afghanistan dove, dopo aver speso una montagna di soldi (solo l’Italia 9 miliardi di euro) in 20 anni per la guerra, siamo al punto di partenza. Fallimentare in Medio Oriente, dove dopo due guerre del Golfo, non c’è certo sicurezza nell’area, né pace per i palestinesi. Fallimentare in Libia, dove – dopo i bombardamenti occidentali propedeutici alla defenestrazione di Gheddafi- da 10 anni si combatte una sanguinosa guerra civile interna e contro i migranti. E fallimentare sarà la guerra di Putin contro l’Ucraina” (Elogio del disarmo, ovvero finché non c’è guerra c’è speranza, “Il Manifesto” 1 aprile 2022).
E così osserva Fulvio Ferrario, rinviando in modo competente e profondo alla testimonianza ed alla riflessione di Dietrich Bonhoeffer: “L’ambizione, davvero non piccola, dell’etica della responsabilità consiste nel coniugare radicalità e realismo. Il suo fondamento teologico risiede nel fatto che Cristo è vissuto ed è morto nella realtà del mondo e non nell’empireo dei princìpi. L’etica della responsabilità ha una connotazione specificamente protestante, non priva però di interesse ecumenico, che riassumerei così: nel mondo intriso di violenza, nessuno ne esce pulito. L’etica non libera dal peccato, questo lo può fare solo il perdono di Dio. Il compito etico consiste nell’aiutare a vivere umanamente nel mondo attraversato dal peccato, il che comporta scelte inevitabilmente ambigue. Non esistono guerre giuste né, tanto meno, guerre sante. La responsabilità morale vive nello spazio della fallibilità umana, che cerca, come può, di circoscrivere le peggiori tra le conseguenze storiche del peccato. È sempre troppo poco, ma merita l’impegno più profondo” (Responsabilità, “Confronti” aprile 2022).
Alessandro Cortesi op
XXVIII domenica tempo ordinario anno A – 2023
Is 25,6-10; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14
“Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. …Eliminerà la morte per sempre, il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto”.
Mangiare insieme è una delle espressioni fondamentali della vita umana e dell’incontro con gli altri. E’ esperienza che trova modalità diverse nelle varie culture ma racchiude una profonda potenza simbolica. L’immagine del banchetto sta al centro delle promesse profetiche che annunciano il tempo del messia, un futuro segnato dall’intervento di Dio, dal compiersi del suo disegno sulla storia.
Isaia usa questa immagine del banchetto per evocare un incontro dei popoli sul monte di Sion. E sarà condivisione di un cibo preparato per tutti da Dio stesso. Questo stare insieme a tavola è parte di un futuro in cui anche la morte sarà eliminata: l’azione di Dio è vita, dono di gioia e di incontro, e Dio stesso è più forte della morte che genera sofferenza e paura. Il Signore stesso prepara un banchetto aperto all’incontro di pace di tutti i popoli.
Le testimonianze dei vangeli attestano la partecipazione di Gesù a momenti conviviali e la condivisione che egli ha attuato attorno alla tavola rompendo barriere di separazione e attuando una accoglienza aperta con esclusi, irregolari, marginali. Anche nelle sue parole Gesù rinvia spesso al motivo del banchetto (Lc 14,16-24; Mt 25,1-12).
Nel vangelo di Matteo la condivisione della tavola è esperienza che fa scorgere come il dono di Dio oltrepassa ogni confine di separazione religiosa. Così Gesù è ammirato di fronte alla fede del centurione: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. .. molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,10-11).
La pagina degli invitati al banchetto (Mt 22,1-14) unisce insieme due parabole con sottolineature diverse nel quadro del confronto di Gesù con le autorità religiose presso il tempio di Gerusalemme. Nella prima parabola gli invitati non accolgono l’invito ad una festa e l’invito è portato ad altri; nella seconda la veste per la festa rinvia alla responsabilità di chi è invitato.
La parabola narra di un re che dopo aver preparato un banchetto manda i suoi servi a chiamare gli invitati. La risposta non è solo di rifiuto ma anche di disprezzo violento. I servi sono inviati a più riprese per trovare invitati e il re giunge a dire loro di chiamare alle nozze ‘coloro che sono ai crocicchi delle strade ‘ e ‘tutti quelli che troverete…’.
Coloro che vengono invitati per primi non si lasciano toccare dall’annuncio di gioia e dalla possibilità di incontro che il re offre loro: sono chiusi in una condizione di sicurezza che li rende insensibili. La vicenda è da leggere nel quadro dello scontro di Gesù con le autorità religiose. Esse sono esempio di un modo di vivere la religione in termini di autosufficienza, di potere e di chiusura all’incontro. Nella parabola è presentata così in forma narrativa la dura affermazione di Gesù: “i pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno di Dio” (Mt 21,31). L’agire di Gesù manifesta come il Padre ama tutti coloro che si aprono ad accogliere un invito di incontro, di convivialità, di condivisione di vita e di salvezza. Coloro invece che si credono giusti, chiusi nelle loro certezze e nel loro orgoglio non accolgono l’invito. Troppo concentrati sui propri meriti, al punto da avere una visione di condanna degli altri, di intransigenza e intolleranza non si aprono ad accogliere la grazia di Dio che opera nei cuori.
Il cuore della parabola sta nell’accento sulla chiamata del re che invita ad un banchetto e ad un incontro di gioia. E’ un invito aperto a tutti ‘buoni e cattivi’. E’ ancora un annuncio del regno di Dio: Dio ama senza limiti, invita buoni e cattivi, offre un futuro nuovo e dona misericordia.
Il secondo momento che costituisce una seconda parabola vede la scena del banchetto tramutarsi rapidamente: un invitato non ha la veste adatta e viene espulso dalla sala. La veste indica la dimensione dell’agire, la coerenza tra fede e vita (cfr. Ap 19,8). Nel vangelo di Matteo è costante la critica di una fede senza coinvolgimento della vita: ‘Non chiunque mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli…’ (Mt 7,21).
Al cuore di questa seconda parabola sta l’annuncio di una responsabilità da vivere a fronte del dono del regno di Dio. Partecipare al banchetto è appello ad una risposta che implica il coinvolgimento della vita ed una prassi coerente: la veste bianca è simbolo di tale stile.
Alessandro Cortesi op