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commenti alla Parola della domenica e riflessioni

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XXVIII domenica tempo ordinario anno A – 2023

Is 25,6-10; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

“Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. …Eliminerà la morte per sempre, il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto”.

Mangiare insieme è una delle espressioni fondamentali della vita umana e dell’incontro con gli altri. E’ esperienza che trova modalità diverse nelle varie culture ma racchiude una profonda potenza simbolica. L’immagine del banchetto sta al centro delle promesse profetiche che annunciano il tempo del messia, un futuro segnato dall’intervento di Dio, dal compiersi del suo disegno sulla storia.

Isaia usa questa immagine del banchetto per evocare un incontro dei popoli sul monte di Sion. E sarà condivisione di un cibo preparato per tutti da Dio stesso. Questo stare insieme a tavola è parte di un futuro in cui anche la morte sarà eliminata: l’azione di Dio è vita, dono di gioia e di incontro, e Dio stesso è più forte della morte che genera sofferenza e paura. Il Signore stesso prepara un banchetto aperto all’incontro di pace di tutti i popoli.

Le testimonianze dei vangeli attestano la partecipazione di Gesù a momenti conviviali e la condivisione che egli ha attuato attorno alla tavola rompendo barriere di separazione e attuando una accoglienza aperta con esclusi, irregolari, marginali. Anche nelle sue parole Gesù rinvia spesso al motivo del banchetto (Lc 14,16-24; Mt 25,1-12).

Nel vangelo di Matteo la condivisione della tavola è esperienza che fa scorgere come il dono di Dio oltrepassa ogni confine di separazione religiosa. Così Gesù è ammirato di fronte alla fede del centurione: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. .. molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,10-11).

La pagina degli invitati al banchetto (Mt 22,1-14) unisce insieme due parabole con sottolineature diverse nel quadro del confronto di Gesù con le autorità religiose presso il tempio di Gerusalemme. Nella prima parabola gli invitati non accolgono l’invito ad una festa e l’invito è portato ad altri; nella seconda la veste per la festa rinvia alla responsabilità di chi è invitato.

La parabola narra di un re che dopo aver preparato un banchetto manda i suoi servi a chiamare gli invitati. La risposta non è solo di rifiuto ma anche di disprezzo violento. I servi sono inviati a più riprese per trovare invitati e il re giunge a dire loro di chiamare alle nozze ‘coloro che sono ai crocicchi delle strade ‘ e ‘tutti quelli che troverete…’.

Coloro che vengono invitati per primi non si lasciano toccare dall’annuncio di gioia e dalla possibilità di incontro che il re offre loro: sono chiusi in una condizione di sicurezza che li rende insensibili. La vicenda è da leggere nel quadro dello scontro di Gesù con le autorità religiose. Esse sono esempio di un modo di vivere la religione in termini di autosufficienza, di potere e di chiusura all’incontro. Nella parabola è presentata così in forma narrativa la dura affermazione di Gesù: “i pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno di Dio” (Mt 21,31). L’agire di Gesù manifesta come il Padre ama tutti coloro che si aprono ad accogliere un invito di incontro, di convivialità, di condivisione di vita e di salvezza. Coloro invece che si credono giusti, chiusi nelle loro certezze e nel loro orgoglio non accolgono l’invito. Troppo concentrati sui propri meriti, al punto da avere una visione di condanna degli altri, di intransigenza e intolleranza non si aprono ad accogliere la grazia di Dio che opera nei cuori.

Il cuore della parabola sta nell’accento sulla chiamata del re che invita ad un banchetto e ad un incontro di gioia. E’ un invito aperto a tutti ‘buoni e cattivi’. E’ ancora un annuncio del regno di Dio: Dio ama senza limiti, invita buoni e cattivi, offre un futuro nuovo e dona misericordia.

Il secondo momento che costituisce una seconda parabola vede la scena del banchetto tramutarsi rapidamente: un invitato non ha la veste adatta e viene espulso dalla sala. La veste indica la dimensione dell’agire, la coerenza tra fede e vita (cfr.  Ap 19,8). Nel vangelo di Matteo è costante la critica di una fede senza coinvolgimento della vita: ‘Non chiunque mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli…’ (Mt 7,21).

Al cuore di questa seconda parabola sta l’annuncio di una responsabilità da vivere a fronte del dono del regno di Dio. Partecipare al banchetto è appello ad una risposta che implica il coinvolgimento della vita ed una prassi coerente: la veste bianca è simbolo di tale stile.

Alessandro Cortesi op

V domenica di Quaresima – anno C – 2022

Lucas Cranach il vecchio – 1532 – Budapest Museo delle Belle Arti

Is 43,16-21; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11

“Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia e non ve ne accorgete?”

Il messaggio del profeta suggerisce di guardare ad un’opera di Dio come germoglio che apre a vita nuova in un tempo di violenza e desolazione. Nel tempo dell’esilio il profeta indica una novità di piccoli germogli, come nel deserto questi segnano la gioia della vita che contrasta e vince l’aridità che sta attorno.

Il profeta annuncia una realtà nuova che porta a lasciarsi alle spalle la tragica esperienza dell’esilio. Invita a non lasciarsi imprigionare da cose passate, il ricordo della sofferenza, la distruzione di Gerusalemme, la devastazione del tempio, la deportazione verso i campi di Babilonia. E’ annuncio di un nuovo esodo, cammino che rinnova l’esperienza di incontro con Dio vivente e liberatore, il passaggio da un’esperienza di morte e oppressione ad una vita e speranza nuove.

La pagina del vangelo, considerata da molti come non appartenente al IV vangelo ma inserita come parte aggiunta, testimonia un aspetto dell’agire di Gesù e del suo sguardo verso chi è tenuto ai margini e condannato.

La vicenda è quella di una donna portata in mezzo perché sorpresa in adulterio. E’ portata lei sola, donna, e posta nella condizione di chi non ha alcuna difesa e sottoposto alla condanna. La sua identità è anonima, calpestata dal giudizio implacabile di maschi ipocriti: uomini che intendono di lapidarla ergendosi a detentori della moralità e giudici della vita altrui. Gli accusatori si rivolgono a Gesù con l’intendimento di presentargli un tranello e trovare motivo di accusa anche nei suoi confronti: lo interrogano infatti sulla questione se questa donna deve essere messa morte. Se egli prendeva posizione sulla liceità o meno della lapidazione si sarebbe posto in contrasto con un sistema giuridico, quello ebraico da un lato – perché essi leggevano nella legge di Mosé la prescrizione di lapidare – o con quello romano, perché solamente ai romani spettava il diritto di condanna a morte.

Gesù non accetta questa provocazione e sceglie il silenzio. E’ tuttavia un silenzio pesante e che reca con sè una provocazione. E’ una reazione alla violenza non nei termini della violenza, ma nella nonviolenza attiva. Inizia scrivere con il dito per terra: è un atteggiamento enigmatico che cela forse un riferimento alla voce dei profeti: ‘Sulla terra verrà scritto chi ti abbandona, perché hai abbandonato il Signore sorgente di acqua viva’ (Ger 17,13). C’è un adulterio profondo molto più grave di ogni mancanza di fedeltà umana, ed è abbandonare il Signore, scegliere le vie del potere religioso, del dominio e della violenza sugli altri al posto della fedeltà al Dio che vuole la liberazione dei suoi figli. Di fronte all’insistenza di chi voleva una sua presa di posizione Gesù non risponde alla loro questione ma ha parole che svelano l’ipocrisia: ‘Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei’. Queste parole racchiudono una critica radicale nei confronti di chi si atteggia a giudice implacabile degli altri. “chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani”.

Il lento, silenzioso e progressivo andarsene di tutti i presenti, a cominciare dai più anziani, è momento sorprendente del racconto: questi uomini tronfi del loro potere sono smascherati nel loro preteso rigore che nasconde il grande peccato di tradire la fede d’Israele. Il distaccarsi ‘uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi’, è una presa di congedo che lascia spazio solo al silenzio, in contrasto con l’agitarsi delle accuse e la violenza delle parola di accusa. La forza del silenzio di Gesù manifesta la sua opposizione nonviolenta alla violenza in atto, che addossava su quella donna una colpa per affermare un potere religioso e maschile.

‘Rimase solo Gesù con la donna là nel mezzo’: nel mezzo è indicazione non tanto della centralità di uno spazio, ma simbolo di un essere di Gesù nel mezzo della sua vita, nel profondo del suo cuore. La sua parola non condanna, è altra rispetto a tutto ciò che rinchiude la vita e la schiaccia. Fa rinascere ed apre una novità: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

Dopo che tutti se ne furono andati Gesù rivolge alla donna un unico invito che è rivolto al futuro. Se c’è peccato è qualcosa che appartiene al passato: ‘d’ora in poi non peccare più!’. Queste parole recano con lor il, messaggio che il peccato è condizione che tutti coinvolge.  Per questo è relativizzato di fronte alla possibilità di un superamento ed alla novità offerta da Dio liberatore. Se da un lato c’è il peccato quale esperienza che segna il cammino umano è più forte il dono di speranza e di apertura ad un futuro nuovo che viene dallo sguardo di Dio. Gesù rende possibile questo nel suo stare lì davanti alla donna, nell’offrirle la sua presenza e il suo sguardo di bene: le apre possibilità di un futuro che è già cominciato.

Alessandro Cortesi op

Kyiv, Ukraine February 25, 2022. REUTERS/Umit Bektas

Responsabilità nel dilemma

Di fronte alla violenza non è facile prendere posizione: è la questione drammatica di questi giorni mentre giungono notizie e immagini delle devastazioni, della guerra che miete vittime tra la popolazione inerme, distrugge le abitazioni e infrastrutture della vita civile e demolisce ogni attesa e speranza delle persone, facendo il deserto: scene già viste a Grozny, ad Aleppo si ripetono. Ma sono anche le medesime scene dell’Irak, del Kosovo, della Libia, dell’Afghanistan. La barbarie s’impone quale spettacolo quotidiano e tragica realtà per milioni di persone. L’orrore della guerra con strumentazione bellica che causa devastazioni e dolori senza limite è la tragica realtà della guerra di questo tempo con potenza inaudita di morte. E per questo folle.  L’insegnamento che proviene dall’esperienza è che non c’è più alcuno spazio né per la guerra santa né per la guerra giusta. “Torniamo a pensare a questa mostruosità della guerra e rinnoviamo le preghiere perché si fermi questa crudeltà selvaggia che è la guerra” sono le parole di papa Francesco all’udienza del 30 marzo.

Raccolgo alcune voci, nel drammatico interrogarsi di chi si chiede quali vie seguire a fronte di questa aggressione brutale di Putin contro l’Ucraina per giungere ad un cessate il fuoco, per preparare una pace possibile, per orientarsi ad un futuro non per vie che prolunghino il conflitto rendendolo situazione endemica e con possibilità continue di escalation, né per vie che conducano a prospettive addirittura impensabili nel tempo delle armi atomiche e del possibile conflitto nucleare.

Paolo Naso in un suo articolo sulla rivista “Confronti” presenta il dilemma di chi si pone su posizioni pacifiste oggi: il pacifismo ha infatti  “di fronte a sé un dilemma morale che non può risolvere solo ideologicamente ma che impone un criterio anche etico e quindi una valutazione sulla moralità della resistenza. Da alcuni passaggi della Storia non si esce “in santità e purezza” e la resa umanitaria richiesta agli ucraini sarebbe il riconoscimento del potere del più forte e del più violento. Gli spazi di manovra sono stretti perché ogni mossa deve essere volta a sostenere il negoziato e a fermare il conflitto: quindi, più tecnicamente, è politicamente saggio e doveroso non istituire una no fly zone che potrebbe accendere altre micce in un campo già minato. Ma il sostegno alla resistenza ucraina può e deve essere altro. Sappiamo bene che non è condotta né da santi né da eroi senza macchia; sappiamo anche che al suo interno c’è una forte componente nazionalistica. Ma di fronte a noi, oggi, vediamo un popolo che, a larga maggioranza, si sta difendendo da un’aggressione violenta e irragionevole che non si ferma neanche di fronte ai civili inermi. Questo è ciò che abbiamo di fronte a noi. E ognuno è libero di voltarsi da che parte preferisce”. (Pace (e pacifismo) secondo giustizia, “Confronti” aprile 2022)

Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova offre indicazioni sulle domande di chi in una linea di scelta nonviolenta si pone di fronte alla complessità del reale: “Chi si considera nonviolento non è un’anima bella che immagina un mondo ideale privo di conflitti, e si sottrae persino all’idea di prendere posizione di fronte ad essi. Il nonviolento vede con chiarezza la dinamica dei conflitti, prende una posizione ferma contro l’ingiustizia, contro l’aggressore e dalla parte dell’aggredito, ma cerca tutti i mezzi possibili per scongiurare un’inutile escalation del conflitto, esplorando le possibili soluzioni precedenti e alternative alla guerra. Sono un antico obiettore di coscienza. Per me impugnare le armi non è un’opzione. Credo che in molte situazioni (ma ho l’onestà di dire: non in tutte) sia possibile trovare mezzi diversi, e persino più efficaci, per combattere un nemico, un aggressore, rispetto all’uso della stessa forza che sta usando lui. Ma ho sempre pensato che questo valga per la mia coscienza. E non implica che sia sbagliato, o moralmente ingiustificabile, rispondere alla violenza difendendosi anche usando la violenza, da parte di chiunque. Tanto meno presuppone una superiorità morale di chi rifiuta di combattere, rispetto a chi sceglie di lottare: al contrario, bisogna riconoscere la virtù o il coraggio di chi si ribella all’imposizione, pagandone il prezzo, in qualsiasi modo lo faccia. Credo che di fronte a un’aggressione plateale e ingiustificata come quella russa nei confronti dell’Ucraina sia necessario prendere una posizione chiara ed esplicita a fianco dell’Ucraina. Questo, da fuori, può essere fatto in tre modi, tra loro compatibili e non mutuamente escludentisi: a) inviando armi a chi ritiene di dover combattere contro la prepotenza dell’esercito russo, costringendolo a trattare da una posizione di non totale asservimento e dunque debolezza della parte aggredita; b) aiutando la popolazione civile con supporto materiale e morale, come fanno le ong e le organizzazioni di cooperazione impegnate nella risposta all’emergenza umanitaria, ma anche come ha fatto l’Unione Europea imponendo sanzioni e sequestrando patrimoni di sostenitori del regime russo, e boicottando attivamente le istituzioni dell’aggressore, come fa Anonymous; c) aiutando tutte le persone sfollate a trovare una nuova casa a casa nostra. Non fare nulla, tanto più in nome del pacifismo, non è accettabile”. (Guerrafondai e pacifisti a parole? No, grazie La nonviolenza attiva faccia un passo avanti, “Avvenire” 1 aprile 2022)

In conclusione afferma “Nessuna opposizione alla guerra è credibile se non si paga un prezzo personale e non si attiva una testimonianza diretta”. indica qualcosa che può essere fatto oltre a vari tipi di impegno, la presenza di una solidarietà attiva contro la guerra e contro l’ingiustizia: con una grande marcia della pace.

E’ quello che sta già avvenendo in questi giorni: è partita oggi la carovana ‘Stop the War Now’ organizzata dall’associazione Papa Giovanni XXIII, con l’adesione di ottantanove organizzazioni religiose e laiche. «Il viaggio a Leopoli viene esattamente trent’anni dopo la grande marcia per la pace organizzata nella Sarajevo assediata proprio dal vescovo Bello, che all’epoca era il presidente del movimento cattolico Pax Christi» osserva Tonio Dell’Olio, discepolo e continuatore dell’impegno di don Tonino Bello, punto di riferimento del movimento pacifista italiano. “Riteniamo che il pacifismo e la nonviolenza siano più diffusi di quanto non si creda e che questo sia il momento di riprendere una costruzione dal basso. Ogni guerra è una sconfitta per tutti, e noi andremo a Leopoli incoraggiati dalla fierezza di papa Francesco che è andato oltre tutti i suoi predecessori, quando ha definito la guerra un atto barbaro e sacrilego» (R.Michelucci, Si parte ricordando don Tonino, “Avvenire” 1 aprile 2022).

Giulio Marcon su “Il Manifesto” peraltro ricorda come la scelta di aumentare le spese militari in questo momento costituisce una scelta foriera di ulteriore uso delle stesse in guerre e devastazioni: “Armandoci fino ai denti non ci sarà pace e sicurezza, ma solo crescita dei rischi di nuove guerre e di altre tensioni internazionali. È sempre stato così nella storia del secondo dopoguerra. E la guerra in Ucraina è solo l’occasione per accelerare politiche sbagliate fondate su un riarmo fonte di nuovi pericoli. Ecco perché la strada non può che essere quella della prevenzione dei conflitti, delle Nazioni unite e del disarmo”. “Rimane poi il nodo di fondo. A cosa servono le armi? Ad essere usate per la guerra. Ora la guerra, oltre che essere un crimine, ha dimostrato di essere negli ultimi 30 anni completamente un disastro, una distruzione di risorse e di vite umane, soprattutto dei civili. Fallimentare in Afghanistan dove, dopo aver speso una montagna di soldi (solo l’Italia 9 miliardi di euro) in 20 anni per la guerra, siamo al punto di partenza. Fallimentare in Medio Oriente, dove dopo due guerre del Golfo, non c’è certo sicurezza nell’area, né pace per i palestinesi. Fallimentare in Libia, dove – dopo i bombardamenti occidentali propedeutici alla defenestrazione di Gheddafi- da 10 anni si combatte una sanguinosa guerra civile interna e contro i migranti. E fallimentare sarà la guerra di Putin contro l’Ucraina” (Elogio del disarmo, ovvero finché non c’è guerra c’è speranza, “Il Manifesto” 1 aprile 2022).

E così osserva Fulvio Ferrario, rinviando in modo competente e profondo alla testimonianza ed alla riflessione di Dietrich Bonhoeffer: “L’ambizione, davvero non piccola, dell’etica della responsabilità consiste nel coniugare radicalità e realismo. Il suo fondamento teologico risiede nel fatto che Cristo è vissuto ed è morto nella realtà del mondo e non nell’empireo dei princìpi. L’etica della responsabilità ha una connotazione specificamente protestante, non priva però di interesse ecumenico, che riassumerei così: nel mondo intriso di violenza, nessuno ne esce pulito. L’etica non libera dal peccato, questo lo può fare solo il perdono di Dio. Il compito etico consiste nell’aiutare a vivere umanamente nel mondo attraversato dal peccato, il che comporta scelte inevitabilmente ambigue. Non esistono guerre giuste né, tanto meno, guerre sante. La responsabilità morale vive nello spazio della fallibilità umana, che cerca, come può, di circoscrivere le peggiori tra le conseguenze storiche del peccato. È sempre troppo poco, ma merita l’impegno più profondo” (Responsabilità, “Confronti” aprile 2022).

Alessandro Cortesi op

XXVI domenica del tempo ordinario – anno B – 2021

Nm 11,25-29; Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48

Nel deserto, nel cammino dell’Esodo Mosè sceglie settanta fra gli anziani di Israele quale aiuto per guidare il popolo. Ricevono il dono dello spirito di profezia. Ma improvvisamente Eldad e Medad, che non erano tra quelli prescelti ed erano rimasto nell’accampamento furono investiti dallo spirito e ‘si misero a profetizzare’. Tale evento suscita sorpresa e disorienta perché qualcuno esterno al gruppo istituito ha ricevuto un dono particolare e si fa portatore della parola di Dio – vive il compito di profeta – senza essere istituito tale. Mosè a fronte delle rimostranze risponde: “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il suo spirito!”.

Queste parole manifestano lo sguardo lungo di Mosè, il suo essere uomo di Dio, capace di scorgere che Dio va al di là delle gabbie religiose in cui l’istituzione racchiude la sua parola e il suo dono. Invita ad accogliere la libertà dello Spirito che non può essere racchiuso nei progetti e nelle strutture umane. Mosè suggerisce di accogliere con disponibilità quanto lo Spirito suscita anche al di fuori delle appartenenze costituite. E indica anche un orizzonte di promessa: è il sogno che tutti siano profeti nel popolo del Signore, testimoni del suo agire. Nella profezia di Eldad e Medad si rende presente l’azione dello Spirito che soffia dove vuole. C’è una profezia da ascoltare e accogliere al di fuori e oltre ogni barriera e sistema religioso. Sta in questa apertura il segreto che rende disponibili

La pagina del vangelo raccoglie alcuni brevi insegnamenti di Gesù che rinviano al suo stile. Di fronte a qualcuno fuori del gruppo dei discepoli che opera miracoli come segni di liberazione i discepoli reagiscono dicendo che non è ‘uno dei nostri’. Ancora si manifesta la mentalità di chiusura e di incapacità a scorgere il soffio di Dio al di fuori dei confini stabiliti. Gesù per contro invita a riconoscere i segni della presenza dello Spirito e non vivere nella chiusura, nell’autoreferenzialità e nell’atteggiamento di chi sempre vede negli altri un pericolo. “non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi”.

La vita al seguito di Gesù si riconosce non per atti di religiosità e di culto, ma per un operare quotidiano nei gesti più semplici: sono i gesti della accoglienza della cura, del conforto. “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa”.

Anche un bicchiere d’acqua offerto, un gesto quotidiano e quasi insignificante, è invece importante agli occhi di Gesù e lui indica che non andrà perduto. In ogni gesto che esprime un dono si rende presente la comunicazione di Dio stesso che è Dio della gratuità e della misericordia. Le parole di Gesù sono dure a fronte di chi offende i piccoli: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare”. Segue un forte invito a tagliare tutto ciò che può essere di impedimento e di inciampo (scandalo) a chi è più debole nella fede. Rompere con ogni occasione di male e di peccato è esigenza chiara di Gesù a chi desidera seguirlo. In queste parole emerge un forte appello a considerare il proprio cammino sempre in rapporto agli altri e a vivere un impegno di responsabilità che coinvolge tutta l’esistenza rifuggendo senza riserve ogni ipocrisia e doppiezza.  Le dure parole della lettera di Giacomo rivolte ai ricchi che opprimono il giusto si pongono in questa linea: non si può vivere rimanendo indifferenti alla sofferenza degli altri. Ogni tesoro diverrà ruggine, cioè rivelerà la propria inconsistenza e giungerà alla rovina se non è inteso secondo la logica della condivisione con i poveri. Nell’uso dei beni si attua una scelta di accoglienza o rifiuto del volto stesso di Dio.

Alessandro Cortesi

Responsabilità

“La vera emergenza migranti non è quella di cui parla la propaganda populista, ma quella che potrebbe abbattersi sull’Europa se non verranno governati gli sconvolgimenti meteo-climatici che già oggi attraversano il pianeta. E che domani rischiano di capovolgere gli equilibri geopolitici della comunità internazionale e i rapporti sociali ed economici dei Paesi occidentali. Stando ai dati presentati nell’ultimo rapporto della Banca Mondiale Growndshell entro il 2050 almeno 216 milioni di persone saranno costrette a migrare a causa del cambiamento climatico e delle sue conseguenze” (Francesca Santolini, La Stampa 23 settembre 2021).

Nella giornata mondiale del migrante e del rifugiato in questo tempo segnato dal perdurare della pandemia e dal maturare della consapevolezza dei danni arrecato dall’agire umano sull’ambiente si pone sempre più urgente la questione di tenere unita la considerazione della crisi ecologica e della questione climatica con la questione sociale. Il periodo della pandemia ha visto lo spropositato arricchirsi di pochi miliardari e l’impoverimento di intere popolazioni sul pianeta. Nel suo primo discorso al Congresso degli USA nell’aprile scorso Joe Biden ha indicato come 650 miliardari americani hanno aumentato il loro patrimonio netto di tremila miliardi di dollari in questo periodo. Mentre nel frattempo solamente negli USA venti milioni di persone perdevano il lavoro.

Alcuni esempi possono essere significativi: secondo la rivista Forbes Jeff Bezos risulta essere la persona più ricca del mondo nel 2021 con un patrimonio di 177 miliardi di dollari, con un incremento di 64 miliardi rispetto allo scorso anno per la crescita delle azioni di Amazon. Elon Musk è al secondo posto con 151 miliardi di dollari: ha aumentato il suo patrimonio di 126,4 miliardi in un anno dovuto all’aumento delle azioni di Tesla del 705%. Il francese Bernard Arnault ha quasi raddoppiato la sua fortuna, da 76 a 150 miliardi di dollari per l’aumento delle azioni di marchi come Louis Vuitton e Christian Dior. Seguono Bill Gates e Mark Zuckerberg con una crescita dell’80% delle azioni di Facebook.

Questi dati  lasciano senza parole pensando alla condizione di impoverimento che la pandemia ha aggravato per gran parte dell’umanità nel mondo: a titolo di esempio, e per richimaare attenzione nel disinteresse generale, si può menzionare la situazione del Libano in cui vi è mancanza di combustibile per le auto, la fornitura di energia elettrica è limitata e razionata durante il giorno impedendo le normali attività di ospedali e aziende, e gli stessi medicinali sono di difficile reperibilità nelle farmacie. E’ sconvolgente la situazione di ingiustizia globale che vede l’arricchimento dei super-ricchi mentre i poveri sendono sempre più in condizioni di indigenza. E tale arricchimento si attua in un fondamentale disinteresse verso la condizione globale del clima e dell’ambiente: si tocca quindi con mano l’insipienza del ricco che non si rende conto che i beni che possiede hanno un riferimento sociale ineludibile e che pensa di poter godere da solo la propria ricchezza disinteressandosi di una casa comune. L’impatto della crisi climatica non colpisce solamente le aree più povere del pianeta ma si sta già rendendo visibile nei suoi effetti disastrosi e nel generare spostamenti di popolazioni per fuggire dalle zone colpite da eventi estremi e calamità naturali e dal progressivo innalzamento delle acque.

In Fratelli tutti (2020) Francesco ha scritto: “in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso” (FT 123) E in Laudato sì (2015) ha ricordato che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata» (LS 93).

Una redistribuzione delle ricchezze attraverso una tassazione dei patrimoni e un deciso orientamento a impiegare risorse in scelte economiche di sincero rispetto dell’ambiente sono due sfide che l’attuale momento storico pone all’umanità intera.

Alessandro Cortesi op

XXII domenica del tempo ordinario – anno B – 2021

Dt 4,1-2.6-8; Gc 1,17-18.21-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23

I farisei criticano Gesù perché i suoi discepoli prendono cibo con mani immonde, cioè non lavate: li accusano di non osservare le prescrizioni della legge, la tradizione degli antichi. Dal punto di vista storico c’è una presentazione parziale dei farisei che al tempo di Gesù coltivavano una profonda tensione spirituale ed erano vicini a quanto Gesù diceva. Tuttavia nei vangeli i farisei sono presentati come paradigma di una religiosità costruita sull’esteriorità e nutrita di ipocrisia: la polemica con loro non è da leggere come un rifiuto di una spiritualità fondata sull’alleanza e sulla predicazione profetica ma va contro una attitudine universale che rinchiude la fede entro un sistema religioso. Il fariseismo è quindi atteggiamento presente in ogni tradizione e in ogni tempo. E’ questo il problema che viene posto a Gesù: l’osservanza di prescrizioni del rito e di norme è un fine o un mezzo?   

Nel rispondere Gesù porta la questione al suo centro: pone la domanda sul rapporto con Dio e  le tradizioni frutto di elaborazione umana, e apre la questione dell’obbedire a ciò che Dio chiede e di non seguire precetti di uomini.

Gesù si schiera contro l’ipocrisia, atteggiamento raffinato che porta a scambiare i fini con i mezzi, e porta a dare un primato alla preoccupazione scrupolosa di osservanze al posto di un ascolto di Dio nel percorrere un cammino di fedeltà.

E’ questa la linea costante nei profeti nel loro richiamare ad un culto non esteriore, di gesti sacrali e di osservanze di precetti, ma attuato nella vita nel cambiamento del cuore. Per questo Gesù riprende il rimprovero di Isaia: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto insegnando dottrine che sono precetti di uomini (Is 29,13).

Se il cuore sta presso Dio praticare un autentico culto significa vivere relazioni nuove con gli altri, di giustizia, di cura, di ospitalità. Riferire la vita a Dio implica prendere le parti dei poveri: “Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me (…)  Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,13-17).

Gesù smaschera la pretesa presente in ogni tipo di fariseismo che esaurisce la fede (come incontro e coinvolgimento personale nell’affidamento a Dio) ad un sistema religioso controllato da istituzioni che pretendono di avere un controllo assoluto riguardo al rapporto con Dio: limitare il culto a Dio ad una questione di osservanze e precetti che non implicano un rapporto nuovo con gli altri. Il comandamento di Dio richiede un culto della vita ossia impegno in una prassi di giustizia e di custodia dell’altro.

Gesù suggerisce anche che la sede del bene e del male non sta nelle cose in se stesse, ma è nel cuore dell’uomo, là dove si decide per il bene o per il male. Questo dice lo sguardo positivo, ottimista e buono verso tutte le realtà della vita umana: tutto viene da Dio e non può esser cattivo o impuro in sè. Nello stesso tempo pone davanti ad una radicale esigenza di responsabilità. Puro e impuro derivano dalle scelte che hanno la loro sede nel ‘cuore’ e si concretizzano in azioni. Gesù riporta al profondo del cuore e pone ognuno ad interrogarsi in modo libero e responsabile.

Alessandro Cortesi op

Ipocrisia

Ipocrisia è termine che trae la sua radice etimologica nel saper giudicare in modo puntuale e con profondità (da krinein, giudicare). Ma il termine nella Grecia classica fu utilizzato nell’ambito teatrale per cui l’hypocrites è un attore che sa proporre in modo convincente il suo ruolo, attuando quindi una recitazione attraente. E’ quindi connesso alla capacità di immedesimazione in un personaggio e nel saperlo rendere credibile agli occhi degli spettatori. Da qui si è attuato uno spostamento di significato dall’ambito della recitazione fino a rendere la parola sinonimo di una capacità di finzione, quindi di simulazione e presentazione di un volto che non è il proprio autentico volto. Nel contesto contemporaneo che vede lo sviluppo di una società connessa alla rappresentazione alcuni sociologi hanno rilevato come sia in atto un processo diffuso di assunzione di ruolo da mantenere come una maschera nelle diverse situazioni della vita. Ognuno diviene così attore di una grande rappresentazione offrendo una o più maschere. Questo gioco di ruoli può corrispondere al consenso proveniente dagli altri vicini o lontani (si pensi ai social media), oppure può anche derivare dalla paura di assumere una responsabilità nel manifestare autenticamente la propria interiorità, le proprie incertezze e ricerche, il proprio volto con i suoi limiti, imperfezionie con le sue attese, aperture, speranze.

Proprio in questi giorni nell’udienza generale di mercoledì 25 agosto papa Francesco ha parlato dell’ipocrisia offrendone una breve descrizione ed affrontando la questione dell’ipocrisia nella chiesa: “Cosa è l’ipocrisia? Si può dire che è paura per la verità. L’ipocrita ha paura per la verità. Si preferisce fingere piuttosto che essere sé stessi. È come truccarsi l’anima, come truccarsi negli atteggiamenti, come truccarsi nel modo di procedere: non è la verità. “Ho paura di procedere come io sono e mi trucco con questi atteggiamenti”. E la finzione impedisce il coraggio di dire apertamente la verità e così ci si sottrae facilmente all’obbligo di dirla sempre, dovunque e nonostante tutto. La finzione ti porta a questo: alle mezze verità. E le mezze verità sono una finzione: perché la verità è verità o non è verità. Ma le mezze verità sono questo modo di agire non vero. Si preferisce, come ho detto, fingere piuttosto che essere sé stesso, e la finzione impedisce quel coraggio, di dire apertamente la verità. E così ci si sottrae all’obbligo – e questo è un comandamento – di dire sempre la verità, dirla dovunque e dirla nonostante tutto. E in un ambiente dove le relazioni interpersonali sono vissute all’insegna del formalismo, si diffonde facilmente il virus dell’ipocrisia. Quel sorriso che non viene dal cuore, quel cercare di stare bene con tutti, ma con nessuno…” Francesco, Udienza generale 25 agosto 2021)

“L’ipocrita è una persona che finge, lusinga e trae in inganno perché vive con una maschera sul volto, e non ha il coraggio di confrontarsi con la verità. Per questo, non è capace di amare veramente – un ipocrita non sa amare – si limita a vivere di egoismo e non ha la forza di mostrare con trasparenza il suo cuore. Ci sono molte situazioni in cui si può verificare l’ipocrisia. Spesso si nasconde nel luogo di lavoro, dove si cerca di apparire amici con i colleghi mentre la competizione porta a colpirli alle spalle. Nella politica non è inusuale trovare ipocriti che vivono uno sdoppiamento tra il pubblico e il privato. È particolarmente detestabile l’ipocrisia nella Chiesa, e purtroppo esiste l’ipocrisia nella Chiesa, e ci sono tanti cristiani e tanti ministri ipocriti. Non dovremmo mai dimenticare le parole del Signore: “Sia il vostro parlare sì sì, no no, il di più viene dal maligno” (Mt 5,37). Fratelli e sorelle, pensiamo oggi a ciò che Paolo condanna e che Gesù condanna: l’ipocrisia. E non abbiamo paura di essere veritieri, di dire la verità, di sentire la verità, di conformarci alla verità. Così potremo amare. Un ipocrita non sa amare. Agire altrimenti dalla verità significa mettere a repentaglio l’unità nella Chiesa, quella per la quale il Signore stesso ha pregato” (ibid.).

Alessandro Cortesi op

XXXIII domenica tempo ordinario – anno A – 2020

Prov 31,10-31; 1Tess 5,1-6; Mt 25,14-30

La parabola dei talenti è una tra le parabole del capitolo 25 del vangelo di Matteo situata nel contesto dell’ultimo dei cinque grandi discorsi che compongono il vangelo. E’ il discorso cosiddetto escatologico sulle realtà ultime della venuta del Signore Gesù alla fine dei tempi come sposo – la parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13) – e del giudizio sulla storia – il quadro del Figlio dell’uomo/re che separa, come fa il pastore, le pecore dai capri (Mt 25,31-46)-.

Messaggio centrale di questa parte del vangelo è l’invito a vigilare: la storia è orientata verso un incontro, il Signore viene come sposo e sarà il giudice della storia. E’ urgente rispondere all’invito di accogliere il suo regno. Già nel presente lo si accoglie nelle scelte della vita nel rapporto con gli altri: ‘ogni volta che avete fatto queste cose ad uno dei miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me’ (Mt 25,40). 

L’intero capitolo è attraversato da uno sguardo al punto finale della storia: sarà un incontro di comunione e di amore. Per preparare la venuta del Signore è necessario coltivare l’attesa e  ‘vegliare’: “Vegliate dunque perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25,12).

Il discorso è anche segnato da un esigente richiamo: non ci si deve lasciar prendere dalla distrazione e dall’indifferenza perché sin d’ora è da rimanere svegli e operare. 

La parabola dei talenti si situa in questo contesto. Potrebbe essere indicata come la parabola dei tre servi: il racconto vede tre momenti. Un padrone affida i suoi beni a tre suoi servi prima di partire per un viaggio. I tre si comportano in modo diverso durante l’assenza del padrone, infine – ed è la parte più estesa – i tre rendono conto di quanto hanno fatto quando il padrone ritorna. 

Alla sua partenza Il padrone distribuisce i suoi beni ‘secondo le capacità di ciascuno’, non quindi operando discriminazioni e a tutti dà un numero diverso di talenti. E’ da tener presente che i talento al tempo di Gesù era un lingotto d’oro o d’argento di 36 chili: una ricchezza spropositata che era più abbondante del guadagno di un’intera vita. Il racconto converge verso la parte finale e si concentra sul contrasto tra la lode dei servi, che sono detti ‘buoni e fedeli’ perché hanno fatto fruttare il dono ricevuto e il rimprovero verso il terzo che è stato inoperoso e per paura ha nascosto sotto terra il talento a lui affidato.

Come tutte le parabole anche questa è da leggere non a partire dai singoli elementi ma nel quadro dell’intera struttura della narrazione con attenzione al punto focale dell’intero racconto. Il vertice va colto nel dialogo tra il padrone e il terzo servo: infatti i primi due sono elogiati ma il terzo viene rigettato non perché abbia compiuto qualcosa di sbagliato ma proprio perché non ha fatto nulla e non è stato creativo nel far sì che il dono ricevuto potesse moltiplicarsi in qualche modo. Soprattutto è rimasto chiuso in una condizione di paura  e di sospetto verso il padrone. Agli altri servi è detto di ‘entrare nella gioia’. Ad essi il padrone si rivolge con l’espressione: ‘servo buono e fedele’. Gesù accompagna a scorgere che qui sta parlando del rapporto non con un padrone umano ma con Dio. 

I talenti non sono le doti personali di ciascuno ma un dono dal valore quasi incalcolabile. Accogliere l’affidamento di un dono richiama a responsabilità. Ciò che il terzo servo non ha compreso è che l’autentica ricchezza è costituita dal rapporto con il padrone nel quale Gesù tratteggia il volto di Dio Padre. Egli rimane bloccato dalla paura, rinchiuso in un’idea preconcetta che lo rende incapace di agire: “So che sei un uomo esigente, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”. Ha considerato il talento non come dono ma sis sente sotto il controllo di un padrone cattivo. Non comprende che il talento affidatogli è segno di una relazione a cui rispondere con il coinvolgimento di tutta la sua vita e che il desiderio di Dio è far entrare nella sua gioia. Non ha compreso che al cuore di quell’affidamento stava la chiamata a vivere un’esistenza nel servizio e nella creatività.

La parabola racchiude un messaggio che invita a considerare innanzitutto come Dio a tutti affidi un dono grande. Da qui sorge la responsabilità di essere fecondi nell’amore. L’attesa del ritorno del Signore non è motivo di paura ma di fiducia e di apertura.  Quel che abbiamo ricevuto dev’essere portato ad altri, in atteggiamento di servizio. Nel tempo della storia i discepoli sono chiamati a vivere la fedeltà non secondo una religione della paura che porta all’immobilismo e al rifiuto di ogni cambiamento, ma ad entrare in una relazione di gioia che apre l’esistenza alla novità all’inedito e alla fecondità nell’amore. 

Alessandro Cortesi op

Talenti: dono fecondo

Pier Giorgio Cattani era consapevole di cosa significassero i talenti della parabola di Gesù. Ha vissuto la sua disabilità con la forza e il coraggio di chi accoglie l’esistenza come dono e ha saputo rendere la sua fragilità feconda di vita per gli altri. Nell’impegno, nella fatica del pensare, nel condurre una sofferta e profonda ricerca spirituale, nell’apertura a creare legami e generare amicizie, nell’intendere la vita come viaggio.

Costretto sin da bambino in carrozzina da un patologia invalidante, la distrofia muscolare di Duchenne, non si è lasciato impedire nei movimenti interiori dell’intelligenza e del sentimento, della creatività, del pensiero, delle relazioni: “una delle sue tante qualità era la capacità di creare legami, tessere relazioni, avviare un dialogo sollevando in un certo senso i suoi genitori comprensibilmente in ansia per le sue condizioni di salute che avrebbero potuto isolarlo, ma non è mai stato così” (M.T.Pontara Pederiva, Piergiorgio Cattani: le fragilità e le risorse, “Settimananews” 11 novembre 2020)

La scrittura e l’attività editoriale unite all’impegno a livello sociale e politico sono stati gli ambiti della sua azione, che si nutriva di una profonda fede e di una continua riflessione sul senso di essere cristiani in questo tempo. E’ stato presidente dell’associazione ‘Oscar Romero’ (2007-2015) e tra i fondatori della casa editrice “Il Margine” per cui ha scritto alcuni libri. Tra di essi una intensa meditazione sulla fede in “Cara Valeria, lettere sulla fede” – ventiquattro lettere a un’amica alla viglia del matrimonio nell’intento di rintracciare le radici della fede – e l’ultimo libro “Il pane di Farina: conversazioni al tramonto di un mondo”, un dialogo con don Marcello Farina uscito nel 2016. 

Era direttore del quotidiano online unimondo.org, e collaboratore del quotidiano “Trentino”, e di “QT – Questo Trentino”, il giornale delle Acli Trentine.

Così l’hanno ricordato i responsabili de “Il margine”: “Chiunque abbia avuto la grazia di conoscere Piergiorgio ha ricavato senz’altro l’impressione di trovarsi di fronte un resistente. Un uomo che non conosceva la parola «rassegnazione». Il suo modo di resistere era quello di elaborare progetti sempre nuovi. Di uno degli ultimi abbiamo avuto la fortuna di essere messi a parte. Per la rivista «Il Margine», espressione della Associazione Oscar O. Romero, aveva ideato un ciclo di otto articoli ispirati da una rilettura dei Sepolcri di Foscolo. Essi avrebbero dovuto trattare i seguenti argomenti: la condizione umana e la morte; il legame tra gli uomini e con la natura oltre la fine; la necessità di lasciare, per laici o credenti, una «eredità di affetti»; la morte e i cimiteri dimenticati dalla città; la sepoltura come inizio della civiltà e il cimitero/giardino; la morte e la politica; oltre l’oblio: l’arte e la memoria. Il titolo che aveva scelto ci sembra la migliore eredità che possiamo (dobbiamo) raccogliere da lui: «Con soavi cure. Riflessioni sulla morte e la vita, sulla memoria e il tempo, sull’arte e la natura».” (Andrea Schir e Francesco Ghia, Caro Piergiorgio: la cura della vita e della morte, “Trentino” 9 novembre 2020). 

Aveva vissuto un intenso impegno politico prima della ‘Margherita’ – raccontato nel libro “Ho un sogno popolare” (2001) – poi del ‘Partito democratico’ in Trentino, da cui poi aveva preso le distanze – esponendo la sua lettura critica nel libro “Solo al comando: Dellai, i gregari, il Trentino” (2013) -. Recentemente aveva collaborato alla fondazione dell’associazione “Futura” di cui era  presidente. Nel 2015 aveva riportato la sua esperienza di malattia e ricovero in ospedale in un libro: Guarigione: un disabile in codice rosso

Don Marcello Farina amico di Piergiorgio e a lui legato dalla comune ricerca su temi filosofici ed esistenziali testimonia la profondità e libertà del suo pensiero: “Piergiorgio ha avuto un coraggio inimmaginabile e immenso. La sua forza arrivava da un insieme di cose, dall’idea di poter essere presente tra le persone portando un contributo di profondità: uno degli aspetti più veri della vita di Piergiorgio è stato quello di riempire i contatti con la serietà, con la bellezza dell’esperienza umana e della ricerca. Questa curiosità profonda, questa stima per l’umano, Piergiorgio l’aveva in una condizione che si potrebbe dire paradossalmente così poco ricca di umanità per lui dal punto di vista fisico, ma con una sovrabbondanza di spirito che gli veniva dal senso della dignità di ogni persona, oltre che da una profonda ricerca spirituale. Perché Piergiorgio è stato un uomo di grande spiritualità…” (Ci ha insegnato la libertà di pensiero e di coscienza. Intervista a Marcello Farina a cura di Marica Viganò, “L’Adige” 9 novembre 2020)

In particolare ha sottolineato che motivo ispiratore della vita di Piergiorgio è stato “la libertà che il Vangelo porta con sé, l’idea che la religione poteva essere uno degli stimoli a coltivare la libertà di pensiero, la libertà di coscienza. Questa apertura che egli vedeva soprattutto nel Vangelo, nel rispetto delle coscienze” (ibid.).

Il suo ultimo articolo pubblicato in Trentino l’8 novembre testimonia tale profondità critica nell’affrontare le questioni dell’oggi. Confrontandosi con il tema della legge naturale e giungendo ad affrontare la questione dell’omosessualità alla luce della Bibbia così scriveva: “C’è un concetto molto scivoloso e che si usa troppo spesso a sproposito: quello di ‘legge naturale’. … La confusione regna però sovrana e la parola natura si usa disinvoltamente indicando sia l’ambiente esterno sia le caratteristiche intrinseche a un fenomeno. In ambiti religiosi – confondendo naturale con ‘essenziale’ – ci si riferisce alla ‘legge naturale’ come il disegno che Dio ha voluto per la creazione: se si segue quel disegno si asseconderà una “legge morale” oggettiva e universale, inscritta nelle cose: altrimenti si trasgredisce. Ovviamente sono alcuni specialisti del sacro che interpretano, sanciscono e descrivono questo disegno di Dio” (Il concetto di legge naturale, “Trentino”, 8 novembre 2020). 

L’interrogarsi sulle domande del tempo si accompagnava in lui al riflettere sull’esistenza, segnata dal dolore, dal limite, dalla fragilità trovando motivo di speranza nell’affidamento a Dio amante della vita e che si prende cura di ogni volto. Nel suo libro “Cara Valeria” così scriveva: “La nostra insignificante vita costruisce una parte di storia, forse poco appariscente, lontana dalle decisioni che contano, ma proprio per questo fondamentale agli occhi di Dio […] E la fede significa sentirsi parte di questa storia … scaturisce da una convinzione personale che trova il suo senso in una storia comune, la storia di Dio”.

E la sera prima di morire così scriveva ad un amico, Paolo Ghezzi (già direttore dell’Adige) che ha condiviso su facebook questo suo appunto: “Coloro i cui desideri hanno la forma delle nuvole sono mutevoli, fuggitivi, leggeri. Il viaggio per loro è necessità: non conoscenza, ma impulso, non esperienza, ma attesa costante dell’impossibile. … Sul loro desiderio – che è il desiderio di chi culla il proprio “infinito sul finito dei mari” – si commisura lo scarto che ogni viaggio rivela tra l’attesa e l’evento, tra il sogno senza confine e il limite, tra la rappresentazione del mondo e l’esperienza del mondo” (Antonio Prete, I fiori di Baudelaire, Donzelli 2007, p. 42). Mi piacerebbe essere così”.

Alessandro Cortesi op

Una lettera sulla responsabilità politica

santa-caterina-da-siena-907083E’ stata diffusa in questi giorni una lettera aperta firmata da 52 docenti dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Toscana s.Caterina da Siena. Come ha detto mons. Filippini vescovo di Pescia e moderatore dell’ISSR “è una denunica politica in senso alto, che indica i valori e le prospettive dell’agire nella polis, nella società, in maniera coerente con i valori cristiani”. Qui di seguito il testo della lettera con le firme di coloro che hanno dato adesione. (ac)

Lettera aperta di alcuni docenti dell’ISSR Toscana s.Caterina da Siena

In qualità di docenti dell’Istituto Superiore di Scienze religiose s.Caterina da Siena della Toscana desideriamo esprimere la nostra viva preoccupazione per la gravità di una situazione che si connota come crisi di umanità ed emergenza democratica nel nostro Paese.

Il nostro compito di docenti che vivono l’impegno della ricerca e dell’insegnamento in discipline bibliche, teologiche, morali, storiche, filosofiche, pedagogiche e sociali ci spinge a sentirci responsabili per il cammino dell’intera comunità civile e umana verso orizzonti di giustizia e di pace.

Recenti misure di legge su sicurezza e politiche d’asilo cancellano di fatto i diritti fondamentali degli stranieri e sono profondamente discriminatorie di diritti inalienabili di uomini e donne. La ‘declamata’ chiusura dei porti e il rifiuto nei confronti di migranti che fuggono da guerre e miseria incrementano la percezione che i rifugiati siano una minaccia per la sicurezza dei cittadini italiani, e non persone da proteggere. Molti di essi sono anche sorelle e fratelli in Cristo. Determinazioni politiche che impediscono il soccorso in mare di naufraghi sono in contrasto con norme di diritto internazionale e profondamente disumane. L’attuazione di respingimenti verso paesi come la Libia in cui i migranti sono tenuti in condizione di schiavitù e tortura sistematica costituiscono una violazione ai principi riconosciuti al cuore del progetto europeo sorto sulle rovine e tragedie della seconda guerra mondiale e della Shoah con il grido ‘mai più’. L’accettazione dell’idea che possano esserci diversi livelli di cittadinanza senza garantire il riconoscimento della dignità di ogni persona non è accettabile e ci spinge ad unire la nostra voce accanto a quella di tanti altri per un risveglio di responsabilità democratica e di umanità.

Siamo particolarmente preoccupati per la diffusione di un clima di paura dell’altro che individua negli stranieri il capro espiatorio dei malesseri della nostra società, per l’affermarsi di modi di intendere la vita centrati sui propri interessi senza compassione per le sofferenze dei più fragili e degli impoveriti, per l’estendersi di nazionalismi che si oppongono a orizzonti di fraternità e solidarietà tra i popoli. Pensiamo che il silenzio e l’indifferenza in questa congiuntura storica siano terreno di coltura dell’intolleranza, del razzismo e della xenofobia che conducono al dissolvimento di ogni convivenza possibile.

Desideriamo unirci al messaggio che con insistenza papa Francesco ha espresso: “In molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio. Quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti, magari a fini politici, anziché costruire la pace, seminano violenza, discriminazione razziale e xenofobia, che sono fonte di grande preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di ogni essere umano” (Messaggio per la giornata della pace, 1 gennaio 2018)

Invitiamo le nostre comunità ad ascoltare le parole di Gesù “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35) a farne criterio di orientamento per scelte concrete di accoglienza e vicinanza in un momento in cui sta per essere smantellato il sistema di accoglienza e protezione per i richiedenti asilo.

Siamo con i pastori delle nostre chiese che esprimono parole chiare, capaci di orientare le coscienze secondo il messaggio del vangelo che chiama a riconoscerci stranieri in cammino, responsabili – come diceva santa Caterina ai governanti – di una ‘città prestata’, solidali con l’umanità ferita nella ricerca della giustizia e della pace.

Come insegnanti sentiamo la responsabilità politica che deriva dal nostro servizio teologico al popolo di Dio. Nutriamo la speranza che la nostra voce contribuisca ad una presa di consapevolezza della deriva di barbarie in atto e della gravità di orientamenti che si pongono in contrasto con il vangelo e con principi fondamentali della Costituzione italiana.

Auspichiamo condivisione di impegno per far sì che vi sia apertura di canali legali di accesso al nostro paese, soccorso ai naufraghi nel mare Mediterraneo, promozione di corridoi umanitari, una nuova solidarietà dei paesi europei sulle politiche migratorie con sguardo lungo sul futuro, capacità di scorgere nell’immigrazione una risorsa per le società, creatività nel trovare forme di accoglienza, protezione, accompagnamento ed inclusione dei migranti. Il fenomeno migratorio è legato alle guerre, all’iniqua distribuzione delle risorse della terra, all’emergenza ecologica. Solo una comunità internazionale che agisce sulla base del diritto e con metodo multilaterale può affrontarlo alla radice. Ogni uomo e ogni donna, infatti, nasce in una terra e da esse deve essere libero di partire, ma anche di restare.

Ci impegniamo nell’esercizio quotidiano di docenza, nell’articolazione dei programmi di studio del nostro Istituto, nell’approfondimento delle singole discipline a coltivare una fedeltà al vangelo che ci rende responsabili nella costruzione di una convivenza sociale e politica fondata sul riconoscimento dei diritti umani fondamentali.

Il riferimento alla Parola di Dio segna il nostro impegno di studio nell’orizzonte dell’ospitalità, del dialogo, dell’amicizia. Al cuore dell’annuncio cristiano sta il fare spazio all’Altro che ci raggiunge nei volti dei poveri, degli oppressi e ci spinge a fare memoria delle vittime, a condividere e accompagnare le attese di liberazione dei sofferenti, ad intraprendere cammini di comprensione e dialogo con uomini e donne di altre culture e religioni.

In tale direzione confermiamo il nostro impegno per la formazione di coscienze capaci di assunzione di responsabilità in questo momento così difficile e buio per la nostra società.

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A questo link l’articolo di La Repubblica del 13 febbraio 2019 che ha ripreso la lettera dei docenti

Hanno aderito (in ordine alfabetico)

  1. Sergio Angori
  2. Alberto Ara
  3. Luca Basetti
  4. Andrea Bigalli
  5. Annalisa Bini
  6. Massimo Bini
  7. Angelo Biscardi
  8. Francesco Carensi
  9. Marco Cerruti
  10. Giovanna Cheli
  11. Piero Ciardella
  12. Alessandro Cortesi
  13. Lamberto Crociani
  14. Bryan Dal Canto
  15. Luca M. De Felice
  16. Pietro L. Di Giorgi
  17. Sabina Falconi
  18. Matteo Ferrari
  19. Roberto Fornaciari
  20. Federico Franchi
  21. Francesco Gaiffi
  22. Giovanni Gardini
  23. Vittorio Gepponi
  24. Marco P. Giovannoni
  25. Pietro D. Giovannoni
  26. Salvatore Glorioso
  27. Stefano Grossi
  28. Anselmo Grotti
  29. Giovanni Ibba
  30. Maria Incandela
  31. Mariano Inghilesi
  32. Alfredo Jacopozzi
  33. Joseph Heimpel
  34. Fabrizio Lelli
  35. Marcello Marino
  36. Claudio Monge
  37. Paolo Morelli
  38. Paolo Nepi
  39. Ariele Niccoli
  40. Serena Noceti
  41. Donatella Pagliacci
  42. Marco Pierazzi
  43. Alessandro Previato
  44. Elvis Ragusa
  45. Lisa Renieri
  46. Eugenia Romano
  47. Stefano Sodi
  48. Luciano Tomek
  49. Nadia Toschi
  50. Paolo Trianni
  51. Giovanni Vezzosi
  52. Gian Paolo Violi

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XXXIII domenica del tempo ordinario – anno B – 2018

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Dn 12,1-3; Eb 10,11-14; Mc 13,24-32

In tempi di persecuzione sorse in ambito ebraico la letteratura apocalittica, o di rivelazione: utilizzava particolari visioni, immagini e simboli, descrizioni di sconvolgimenti del mondo e del cielo, descrizioni di battaglie e conflitti per parlare della vicinanza di Dio nella prova, del suo rivelarsi. Eventi di angoscia e terrore venivano raccontati, ma all’interno di essi stava un messaggio di speranza e di attesa.

A tale genere di scritti appartiene la pagina di Daniele in cui viene presentata una enigmatica figura, quella del ‘figlio dell’uomo’ in un contesto di sconvolgimento del cosmo e con allusione ad eventi nel tempo ultimo in cui la storia giunge al suo termine.

“In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore, e gli astri si metteranno a cadere dal cielo, e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con  grande potenza e gloria”

Sono molteplici i tratti di questo ‘figlio dell’uomo’: per un lato può essere letto come figura personale, appartenente al mondo di Dio, con funzione di giudice; per altro una figura collettiva, che racchiude una moltitudine e indica così il destino dell’Israele fedele.

Appare nei tempi ultimi, ed ha un potere eterno conferito da un vegliardo. La sua è funzione di giudizio nei confronti dell’umanità e della storia. Il suo regno si differenzia dai tanti imperi che si sono succeduti ed hanno dominato nel corso dei secoli perché durerà in eterno e non sarà mai distrutto. Nel giudizio il male viene definitivamente eliminato, e si attua la vittoria definitiva del bene. I santi sono coinvolti nel compito di giudici della storia (Dan 7,22).

Ad una prima lettura questa pagina può suscitare timore e inquietudine, ma al suo cuore sta un profondo messaggio di speranza. E’ stata infatti scritta nel II secolo a.C. al tempo dell’oppressione di dominatori che imposero ad Israele l’adozione di costumi dei pagani e il rinnegamento della fede.

Il messaggio di speranza è rivolto al popolo con annuncio di una vita oltre la morte, una vita risvegliata in Dio per chi è stato fedele: “Vi sarà un tempo di angoscia, come non c’era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna” (Dan 12,1-3)

Nel tempo della persecuzione Daniele diffonde un messaggio per resistere e richiamando il valore della fedeltà. L’ultima parola è quella di Dio che affida il potere di giudizio alla figura del ‘figlio dell’uomo’.

La prima comunità cristiana conosceva questa immagine e la utilizzò per indicare Gesù come figlio dell’uomo: davanti a lui si scorge la sua vita come proveniente da Dio e nei suoi gesti è visto l’irrompere dei tempi ultimi.

Gesù indica ai suoi che la storia non è senza orizzonte ma è indirizzata verso un futuro di speranza. Il tempo ultimo non sarà la fine, ma tempo di incontro e invita  scorgere i segni di un’estate vicina. “Dal fico imparate questa parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina; così anche voi, quando vedete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, alle porte…”

In queste parole sta racchiusa una promessa e un orientamento al futuro. Gesù promette che tornerà e sarà compimento della novità della risurrezione, la comunione per sempre con Dio e con gli altri: “… sappiate che egli è vicino, alle porte…”. Accogliere la promessa di Gesù apre ad un  futuro che si fa av-venire: è lui, il risorto, che conduce al Padre ed alla comunione.

L’esempio del fico è richiamo allora ad attenzione e responsabilità nel tempo presente: “quando il suo ramo si fa tenero e mette le foglie voi sapete che l’estate è vicina…”. Sin da ora si possono scorgere segni di novità, di fioritura che annuncia una nuova stagione di gioia  disseminati nella storia. Sono segni da scorgere pur nelle contraddizioni e nelle difficoltà del tempo.

Nel tempo della storia già ci sono segni della presenza di colui che tornerà. Nel tempo sta crescendo come seme il ‘regno’: è la presenza stessa di Gesù che ha preso su di sè la storia umana ed inaugura nuovi rapporti umani e Gesù per questo ai suoi chiede di scrutare i ‘segni dei tempi’.

La vita cristiana si pone tra l’attenzione al presente nello scorgere i segni del regno e l’attesa del compimento della promessa. ‘Vieni Signore Gesù’: con questa invocazione le prime comunità esprimevano la loro attesa e la loro speranza. “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.

Alessandro Cortesi op

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Tempo

Momo è la protagonista dell’omonimo romanzo di Michael Ende (ed Longanesi 1993, orig. ted. 1973). E’ una bambina vestita con una larga giacca che si presenta in una città senza nome senza conoscere la sua età, forse 8 forse 10 anni, provenendo da un orfanotrofio. Vive in un antico anfiteatro romano. Momo ha un cuore buono e il suo sguardo sa soffermarsi sui volti e cose cogliendo sfumature che fanno vivere: ha capacità di ascolto e un’apertura che suscita la fantasia e genera pace attorno a sè. Nella città senza nome quando qualcuno ha dei problemi diviene usuale l’invito: “Ma va’ da Momo che ti passa!”.

Alcune persone che incontra diventano suoi amici particolare, come Beppo spazzino, da cui apprende l’importanza di spazzare la strada dalle foglie, un colpo alla volta, senza fretta e con pazienza, scorgendo così il senso di ogni momento e di ogni passo nella vita da affrontare con un preciso ritmo: passo- respiro-colpo di scopa-passo-respiro-colpo di scopa. Così Beppo, mentre spazza, nel silenzio dell’alba, lascia spazio ai suoi pensieri che cercano di distanziarsi da ogni falsità. E poi Gigi Cicerone, improbabile guida turistica dell’antico anfiteatro che usa la sua parlantina per proporre storie inventate ai turisti che lo seguono ammirati dal suo cappello con visiera, ed è capace di scherzi e risate spensierate. E così altri tra cui Mastro Hora che abita nella Casa di Nessun Luogo all’interno Vicolo di Mai dove sono collezionati orologi classici, pendole, orologi da taschino, cucù, altri segnatempo di ogni genere e tipo. Lì per andare veloce bisogna camminare piano.

Momo non compie grandi cose, sta in ascolto e diviene poco alla volta presenza che nella città guarisce conflitti, consola, riesce a dar valore a chi sembra non avere nessuna capacità. I ritmi di una vita in cui vi è spazio per pensare agli altri lasciano tempo per la spensieratezza, per il gioco, per il lavoro che accetta i limiti e insieme per la festa.

Tuttavia il clima di serenità è turbato dall’arrivo degli uomini grigi, strani personaggi, vestiti tutti uguali e con il volto oscuro. Il loro progetto, che cercano di attuare con metodi subdoli, è quello di impadronirsi del tempo. Il tempo rubato dagli uomini grigi agli abitanti della città alla fine è il tempo della gratuità e della bellezza, il tempo della cura e delle cose inutili che però danno respiro ai cuori. Gli uomini grigi intuiscono che la presenza di Momo  è la più grave minaccia ala loro strategia di rubare il tempo inducendo alla logica di un consumo senza limiti, ad un’efficienza che non guarda più in faccia le persone,e  le fa divenire struemnti e merce di un grande ingranaggio che mira a far diventare ricchi e al denaro tutto assoggetta. Gli uomini grigi si presentano infatti come agenti della ‘cassa di risparmio del tempo’ e cercano di convincere a risparmiare sempre più tempo. I minuti, le ore, i giorni risparmiati verrebbero restituiti dopo il sessantaduesimo anno con gli interessi.

Ma rubando così il tempo rendono irrealizzabile ciò che è più bello nella vita, che si compie nel tempo perduto, in un gesto gratuito, nella bellezza condivisa, come il tempo impiegato per stare accanto a qualcuno o  solamente ascoltare, o per svolgere il proprio compito quotidiano senza angustia.

“Come voi avete occhi per vedere la luce, e orecchie per sentire i suoni, così avete un cuore per percepire il tempo. E tutto il tempo che il cuore non percepisce è perduto, come i colori dell’arcobaleno per un cieco o il canto dell’usignolo per un sordo.”

La favola di Momo è una riflessione sul senso del tempo. Sul valore del tempo dedicato con gratuità, agli altri, a tutto ciò che fa respirare la vita e che non può essere assoggettato ad una logica di consumo, di dominio, di efficienza e produzione. Il tempo come luogo di incontro e di respiro della vita.

“Esiste un grande eppur quotidiano mistero. Tutti gli uomini ne partecipano ma pochissimi si fermano a rifletterci. Quasi tutti si limitano a prenderlo come viene e non se ne meravigliano affatto. Questo mistero è il tempo. Esistono calendari ed orologi per misurarlo, misure di ben poco significato, perché tutti sappiamo che talvolta un’unica ora ci può sembrare un’eternità, ed un’altra invece passa in un attimo… dipende da quel che viviamo in quell’ora. Perché il tempo è vita. E la vita dimora nel cuore.”

Alessandro Cortesi op

 

XXII domenica tempo ordinario – anno B – 2018

IMG_E0951Dt 4,1-8; Gc 1,17-27; Mc 7,1-23

“…Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?” Nel vangelo di Marco i farisei sono presentati come gruppo in forte polemica con Gesù. Per certi versi Marco opera una caricatura della spiritualità farisaica, legata alla Legge, alla fedeltà quotidiana all’alleanza, ad esprimere la fede in atti concreti e visibili. Per certi aspetti il loro impegno era espressione di coerenza e vicino a quanto Gesù stesso proponeva. Ma Marco nell’indicare i farisei sottolinea un modo di opporsi a Gesù proprio di persone religiose, ma che vivono una religiosità centrata su di sé, escludente e incapace di aprirsi al dono di grazia. Marco scorge che vi è un rifiuto della proposta di Gesù che giunge proprio da persone religiose, che non comprendono il suo annuncio e vi si oppongono perché destabilizza un modo di intendere la religione. I farisei divengono così paradigma di un modo di vivere la religione in termini di esteriorità, di egoismo, di preoccupazione per sé e di indifferenza agli altri. Sono chiusi alle sofferenze del prossimo e per loro le norme stanno al di sopra dell’attenzione alle persone. L’osservanza delle prescrizioni, l’esecuzione dei riti, sono così slegati dall’attenzione agli altri. Vi è al fondo una pretesa di stare nel giusto in rapporto a Dio ed una mentalità di autoaffermazione che esclude e si pone in una condizione di autosufficienza e di superiorità.

I farisei criticano Gesù perché i discepoli prendono cibo senza lavarsi le mani, il che era una prescrizione religiosa e igienica. Gesù risponde a questa critica affrontando la questione del rapporto tra quello che Dio vuole da noi e le tradizioni che sono frutto di elaborazione umana. Gesù si oppone decisamente all’ipocrisia: è questo l’atteggiamento raffinato di chi anziché vivere la fedeltà a Dio in rapporti di giustizia pone la sua preoccupazione nell’adempimento di pratiche religiose ritenendo che questo sia tutto. I profeti richiamavano con forza che l’autentico culto doveva essere compiuto nella vita e stare in rapporto ad un impegno concreto di giustizia nei rapporti con gli altri e denunciavano un modo di rapportarsi a Dio che dava spazio al culto, ma senza coinvolgimento del cuore e perdendo di vista il centro della fede come rapporto che coinvolge la vita: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto insegnando dottrine che sono precetti di uomini (Is 29,13).

Il cuore nella mentalità ebraica è il centro della persona. “Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me, noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso (…) Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vita. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,13-17)

Gesù pone la medesima domanda: dove sta il cuore, ossia il centro delle decisioni della persona? Se il cuore sta presso Dio allora il culto dovrebbe risultare un modo di vivere in cui si attua un nuovo modo di relazione con gli altri, e al primo posto sta lo sguardo alle persone a cui Dio, difensore del povero, dello straniero e della vedova, rinvia. Non ci può essere contrasto o dissociazione tra il riferimento a Dio e lo sguardo agli altri, soprattutto a coloro che non hanno sostegni e difese, ai poveri. Gesù smaschera la deviazione di ogni tipo di fariseismo religioso, il trasporre tradizioni di uomini quale esigenza divina divenendo indifferenti alle persone, alla loro sete di liberazione e di vita.

“Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”: la durezza di queste parole dovrebbe rimanere monito ad ogni tentazione sempre presente di non mantenere il riferimento alla parola di Dio, alla sua richiesta di un culto come giustizia per i poveri, criterio primo e irrinunciabile della nostra esistenza.

C’è un secondo aspetto da cogliere nella risposta di Gesù alla questione sul puro e sull’impuro: “Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”. Bene e male non stanno nelle cose in se stesse. Le cose in se stesse non sono buone o cattive. E’ invece la persona che decide per il bene o per il male nel modo in cui utilizza le cose. .

Così dicendo Gesù dice che tutte le cose in se stesse sono buone ma possono essere utilizzate in vario modo, per il bene o per il male. In sé non hanno radice di male. Tutto viene da Dio e per questo non può esser cattivo o impuro in sé. E’ chiamata in gioco la responsabilità umana che non può essere delegata ad altri. Gesù critica quindi una religiosità che fa rimanere tranquilli perché si osservano alcune pratiche esteriorie  non s’interroga sull’orientamento del cuore. E indica come il rapporto con Dio sia un dialogo vivente in cui non si è mai concluso di domandare cosa è bene davanti a lui e in rapporto agli altri.

Puro e impuro rinviano allora ad una vita di fedeltà a Dio che trova espressione in una prassi che ha radice in un ‘cuore’ rivolto al Signore. Gesù richiama all’interiorità, a quella sorgente profonda da cui ogni comportamento della vita ha origine. Pone ogni persona davanti nella situazione di responsabilità, nell’esigenza di rispondere a se stessa e agli altri, davanti a Dio. E’ un messaggio di libertà e di fiducia perché apre ad accogliere la presenza di Dio, che solo può liberarci dall’egoismo e da ogni tipo di idolatria.

Alessandro Cortesi op

IMG_1005Responsabilità

C’è un tipo di responsabilità a cui oggi siano chiamati in modo particolare, che unisce insieme il rispondere agli altri, in particolare a chi soffre per l’ingiustizia e l’iniqua distribuzione dei beni della terra e la vita stessa del pianeta: è la responsabilità ecologica che si scopre inscindibilmente legata alla responsabilità sociale. I mutamenti climatici in atto stanno dimostrando come un certo modello di sviluppo che viene presentato come elemento di miglioramento delle condizioni di vita dei popoli incide profondamente sugli equilibri ecologici. Così la devastazione della terra, lo sfruttamento senza limite delle risorse, si riflette nello sfruttamento e nell’impoverimento di popolazioni e persone.

Nel Messaggio per la 13ª Giornata Nazionale per la Custodia del Creato che si terrà il 1° settembre 2018 la commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro insieme alla commissione per l’ecumenismo e il dialogo richiamano a Coltivare l’alleanza con la terra.

Ricorda il simbolo dell’arcobaleno di Gen 9,12. L’arco nel cielo richiama il dono della terra come spazio abitabile: Dio promette un futuro in cui l’umanità e gli altri viventi possano fiorire nella pace

In contrasto a questa visione di alleanza e di pace è richiamata la situazione del nostro presente: “Anche gli ultimi mesi hanno visto diverse aree del paese sconvolte da eventi metereologici estremi, che hanno spezzato vite e famiglie, comunità e culture – e le prime vittime sono spesso i poveri e le persone più fragili. Le stesse storie narrate da tanti migranti, che giungono nel nostro paese chiedendo accoglienza, parlano di fenomeni inediti che colpiscono – in modo spesso anche più drammatico – aree molto distanti del pianeta”.

Di fronte all’ampiezza del degrado può insorgere un senso di impotenza e di disperazione. Il Messaggio richiama ad un’attitudine di attenzione e di prevenzione fatta di pazienza e di un quotidiano operare che investe l’ambito politico e le scelte economiche. E viene sottolineato come la cura del creato sia da collegare ad una cura per gli altri, per il popolo e ad una dimensione spirituale: “…la sfida non interessa solo l’economia e la politica: c’è anche una prospettiva pastorale da ritrovare, nella presa in carico solidale delle fragilità ambientali di fronte agli impatti del mutamento, in una prospettiva di cura integrale. Occorre ritrovare il legame tra la cura dei territori e quella del popolo, anche per orientare a nuovi stili di vita e di consumo responsabile…”

“Ma c’è anche una prospettiva spirituale da coltivare: papa Francesco ricorda che “la pace interiore delle persone è molto legata alla cura dell’ecologia e al bene comune, perché, autenticamente vissuta, si riflette in uno stile di vita equilibrato unito a una capacità di stupore che conduce alla profondità della vita” (Laudato Si’, n.225)”.

Tali sfide sono da affrontare con la cura che parte dai comportamenti quotidiani e dalla lucidità nel saper leggere le cause profonde di fenomeni quali il cambiamento climatico e le migrazioni che segnano il nostro presente.

“é importante operare assieme, perché possiamo tornare ad abitare la terra nel segno dell’arcobaleno, illuminati dal “Vangelo della creazione”.

Alessandro Cortesi op

XXXII domenica tempo ordinario – anno A – 2017

IMG_1319.jpgSap 6,12-16; 1Tess 4,13-18; Mt 25,1-13

Le lampade, l’olio e la porta sono le immagini della parabola delle giovani stolte e sagge. Alla fine del suo vangelo nel capitolo 25, prima del racconto della passione e morte di Gesù Matteo raccoglie alcune parabole sulla vigilanza. La missione di Gesù è tutta orientata al regno di Dio. I segni del suo inizio sono già presenti nel suo agire di liberazione. Ma c’è una attesa da maturare. Il regno è il nuovo mondo di rapporti che l’amore di Dio vicino e accolto genera per tutti. Gesù ha manifestato nel suo agire la vicinanza di Dio a chi è ‘pietra scartata’. Ha detto con la sua vita che l’umanità non è più sotto il dominio dell’egoismo, del male e della morte, ma c’è speranza di vita e liberazione per tutti. Il regno è come un seme e il tempo della chiesa è tempo dell’attesa.

La parabola narra di una festa di nozze. La festa e lo sposalizio rinviano alla grande intuizione dei profeti che Dio è sposo e ama il suo popolo Israele con amore appassionato. “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2,18.21-22) “Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace; dice il Signore che ti usa misericordia” (Is 54,1-10)

Nel rito del matrimonio ebraico la sposa con le amiche attendeva al tramonto l’arrivo dello sposo per iniziare il corteo verso la casa di quest’ultimo dove si svolgeva il banchetto delle nozze. La parabola richiama l’esperienza della festa e fa emergere una contrapposizione tra la luce e il buio: al tramonto è necessario tenere accese le lampade per accogliere lo sposo. Ma il suo ritardo scombina i piani. Giunge il sonno che fa assopire le amiche della sposa. Il sonno è come una forza che impedisce il vegliare. E’ da notare che tutte si addormentano. Quando giunge la voce “Ecco lo sposo” tutte preparano le lampade. La luce delle lampade vince il buio della notte e prepara l’incontro con lo sposo. L’olio elemento per illuminare ricorda il simbolo dell’unzione di re e profeti. E’ segno di ospitalità e fraternità: “Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme. E’ come olio profumato sul capo che scende sulla barba, sulla barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste” (Sal 133,1-2). L’olio è anche simbolo di gioia e abbondanza. Solo alcune giovanette, amiche della sposa, hanno olio per tenere accese le lucerne. E’ forse riferimento all’atteggiamento del saggio: “Neppure di notte si spegne la sua lucerna” (così i Proverbi delineano la donna saggia Prov 31,18). Le lampade sono segno di prontezza e disponibilità: “Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa.” (Mt 5,14-16). La porta chiusa e la porta aperta sono due risvolti del medesimo messaggio: la porta è aperta per chi vive l’attesa dell’incontro. Anche nel ritardo è esperienza di gioia e tempo di responsabilità. Nella vita spesso le contraddizioni e delusioni mettono alla prova e la capacità di resistere viene meno. La fede è esperienza di attesa che si fa responsabilità: lasciare che fluisca l’olio dell’ospitalità, della fraternità, della benedizione, nelle piccole cose del quotidiano.

Alessandro Cortesi op

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Olio

“La ruota del mulino, la grande ruota ad acqua, serve a far funzionare le due macine di granito, che, accoppiate, ruotano a loro volta, verticalmente, ma con moto anche di rivoluzione e traslazione su un fondello, limitato da un orlo di ghisa (…) Dal piano superiore del frantoio una certa quantità di olive, che in questa stagione sono in parte brune in parte ancora verdi, è fatta cadere, attraverso una tramoggia, direttamente sotto la macina. Si forma così, dopo una prima frantumazione, una poltiglia spessa, granosa e ruvida, di colore bruno-rossastro, dove però è ancora possibile distinguere, a occhio nudo, una infinità di piccoli pezzi verde-chiari e altri color legno, quello dei noccioli. La poltiglia viene ficcata, a mano, dentro cestini di cocco bassi e rotondi, che si chiamano viscoli, oppure fiscoli, o anche bruscole… I viscoli sono collocati l’uno sull’altro, in una prima pressa, e una colonna d’acciaio, sorgendo dal basso, spreme il primo olio, che comincia ad uscire grasso, quasi pastoso, a goccia a goccia, adagio e faticosamente. La polpa che rimane è ancora buonissima, vien tolta mano dai viscoli e ammucchiata: dal mucchio poi ributtata, con le pale, sotto le macine. E’ la seconda, e ultima, frantumazione” (Mario Soldati, Da leccarsi i baffi, Memorabili viaggi in Italia alla scoperta del cibo e del vino genuino a cura di Saverio Novelli, ed. Deriveapprodi, Roma, 278-287)

La descrizione di Mario Soldati della preparazione dell’olio nella masseria di Cesare Garboli, traduttore e filologo suo amico, è un brano di letteratura che riporta alla materialità e simbolicità del rito della frangitura.

L’olio è frutto di una spremitura che vede la sua origine lontano nei giorni e nelle stagioni, nella paziente cura di quell’albero generoso che è l’olivo, capace di resistere a intemperie nel tempo e il cui legno ricurvo e nodoso è rinvio ad una sopportazione lenta del tempo e delle sue prove. L’olio è anche legato alla fragranza e alla bellezza. La cultura dell’olio attraversa le del Mediterraneo recando con sé immaginari diversi, riti collettivi, sapienze maturate nei secoli di lavorazione e di utilizzo. L’olio è stato non solo condimento ma base di alimentazione per contadini e ricchezza di vita per molti.

Come non dimenticare l’immagine straziante della contadina palestinese aggrappata ad un olivo secolare mentre le ruspe trascinano via fusti di olivi per spianare i campi e renderli luogo di costruzione di muri di separazione di cemento? Come non ripensare ad immagini di epoche non lontane quando nelle piane siciliane e pugliesi ettari di uliveti venivano rasi al suolo per fare posto alle nuove costruzioni di industrie che avrebbero portato progresso, emancipazione e lavoro (si pensi a certi filmati d’epoca sulla costruzione dell’Ilva di Taranto…)?

Oggi sostare sui significati dell’olio, in questi giorni di raccolta delle olive e di frangitura con l’arrivo dell’olio nuovo, può essere occasione per riflettere su quel messaggio comune pronunciato insieme da due voci profetiche del nostro tempo, Bartolomeo, il ‘patriarca verde’ e Francesco che nella Laudato sì ha proposto le linee di una conversione ecologica della vita umana: “Facciamo… appello, a quanti occupano ruoli influenti, ad ascoltare il grido della terra e il grido dei poveri, che più soffrono per gli squilibri ecologici” (messaggio per giornata del creato 1 settembre 2017)

L’olio dovrebbe riportarci alla capacità di ascoltare e coltivare stupore. Quel sentimento che si prova al gocciare dell’olio nuovo, al suo colore verdastro che traspare dalle bocce in cui viene versato, mentre i raggi bassi del sole attraversano gli olivi nel tempo di autunno, o quando si avverte il pizzicore amaro che lascia in bocca quando viene assaggiato ungendo il pane fresco.

E’ lo stupore di Ildegarda di Bingen, davanti al verde del creato, alle piccole cose capaci di recare in sé per l’occhio attento una meraviglia propria ed una fessura sull’oltre, quell’energia di vita che fa crescere e fiorire le piante e copre di verde campi e boschi.

Tante persone ordinarie sanno ancora stupirsi nel loro quotidiano leggendo la natura come creazione, luogo di un incontro, sacramento di presenza. E’ la capacità di coltivare gioia nel coltivare un fazzoletto di terra davanti a casa, nel dare acqua alle piante su di una terrazza, nel custodire i fiori del balcone con semplicità. E’ la capacità di sentirsi responsabili per lasciare ad altri la possibilità di gustare la vita e la bellezza delle cose terrene in contrasto con una riduzione di tutto alla realtà virtuale. L’olio nelle sue trasparenze di verde è riflesso di questo ricordo.

Alessandro Cortesi op

XXVIII domenica tempo ordinario – anno A – 2017

IMG_0972.JPGIs 25,6-10; Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

“Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto … di cibi succulenti, di vini raffinati. …Eliminerà la morte per sempre, il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto”.

L’immagine del banchetto sta ad indicare un incontro dei popoli nel condividere un cibo preparato per tutti da Dio stesso. Questo banchetto è il simbolo di un futuro caratterizzato dalla presenza della vita e senza più la morte. L’azione di Dio è vita, dono di gioia. Il Signore che prepara un banchetto è anche colui che elimina la morte, apre la possibilità di incontro nella felicità della condivisione e dello stare insieme. L’immagine del banchetto viene anche collegata alla venuta del messia.

Nei vangeli si parla a più riprese di banchetti, a Cana, in casa di Levi nella casa di Simone il pubblicano dove irrompe la donna peccatrice, nella casa di Zaccheo, da Marta e Maria. Anche la moltiplicazione dei pani diventa banchetto. Gesù visse poi in una cena pasquale il drammatico momento di addio ai suoi prima della sua morte. Così pure nei racconti delle apparizioni vi è insistenza sul ‘mangiare insieme’ in vari contesti.

Anche nelle parole Gesù l’immagine del banchetto ritorna con insistenza, nella parabola del grande banchetto (Lc 14) in quella delle vergini stolte e sagge (Mt 25).

Così pure nelle parole rivolte al centurione, pagano lodato per la sua fede, a cui Gesù annuncia un venire di popoli lontani a partecipare alla mensa con Abramo Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli: “molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,10-11).

La parabola degli invitati al banchetto (Mt 22,1-14) risulta dall’unione di due parabole distinte. Il contesto è quello del confronto di Gesù con le autorità giudaiche presso il tempio di Gerusalemme. La prima parabola presenta l’invito alla festa di nozze e il rifiuto degli invitati. La seconda è centrata sull’abito della festa. Il riferimento alla città data alle fiamme e alla violenza può essere rinvio alla presa di Gerusalemme nel 70 d.C. La parabola può quindi essere una lettura dei rapporti tra comunità cristiana e autorità ufficiali giudaiche. Ed è un testo con molteplici rinvii allegorici: il padrone che invita è Dio, i servi sono i profeti, gli invitati il popolo d’Israele…

Di fronte all’invito la risposta è il rifiuto e la violenza. Gli invitati non si lasciano toccare dalla chiamata. Sono insensibili. I servi sono allora inviati dal re verso ‘coloro che sono ai crocicchi delle strade ‘: ‘tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze’.

Si ripropone l’insegnamento: ‘i pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno di Dio (Mt 21,31). Il Padre ama chi si apre alla consapevolezza di essere salvato. Chi si crede giusto non avverte l’urgenza di cambiamento. Chi è troppo concentrato sui propri meriti, fino a condannare gli altri ed essere intollerante non può aprirsi ad accogliere la grazia di Dio. Matteo presenta la chiamata di Dio che fa entrare ‘buoni e cattivi’: Dio ama non allontanando i peccatori, ma offrendo misericordia.

La scena del banchetto si tramuta rapidamente in un luogo di giudizio: un invitato senza la veste adatta viene espulso dalla sala. La veste può essere indicazione di un dono ricevuto come il velo che si riceveva nei banchetti, ma che è stato rifiutato. Una manifestazione di autosufficienza e di disdegno nel respingere un dono offerto. Nel linguaggio biblico poi la veste costituisce la dimensione dell’agire, la coerenza tra fede e vita (in Ap 19,8, la veste di lino, data alla sposa dell’agnello, indica ‘le opere giuste dei santi’). Matteo è molto sensibile nel denunciare una fede proclamata a parole ma che non trova riscontro nella pratica: ‘Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli’ (Mt 7,21).

La via per partecipare al banchetto dell’incontro con Dio è accoglienza di un dono che genera resposnabilità e impegno ad un amore concreto. Fare la volontà del Padre non è rivendicare l’appartenenza di gruppo o una sicurezza derivante dal ruolo religioso ma si attua nel compiere scelte e gesti di cura e servizio verso gli altri.

Alessandro Cortesi op

IMG_0994.JPGRifiuto

Il World Population Prospects – documento che fornisce stime e proiezioni relative alla situazione demografica mondiale elaborato ogni due anni dalla Divisione per la popolazione dell’ONU – nell’edizione del 2017 (pubblicata il 21 giugno u.s.) presenta le stime di crescita per il 2050. Queste indicano un aumento di 100 milioni di individui rispetto alle ultime previsioni e ciò soprattutto in ragione della crescita demografica che si registra in Africa e India. Le previsioni indicano 8,6 miliardi nel 2030, e 9,8 miliardi nel 2050.

La Cina conta attualmente 1,4 miliardi di persone (il 19% della popolazione mondiale) e l’India 1,3 miliardi (il 18% della popolazione mondiale). La previsione è che nell’arco dei prossimi sette anni la popolazione indiana supererà quella cinese.

Tra i dati rilevanti del Prospetto è da cogliere come tra i dieci Paesi più popolosi del mondo la Nigeria vedrà un incremento tra i più alti. Si stima che la popolazione di questo Paese africano supererà nel 2050 quella degli Stati Uniti, divenendo così il terzo Paese nel mondo per numero di abitanti.

Con India e Nigeria il 50% della concentrazione della crescita demografica mondiale dal 2017 al 2050 sarà nei seguenti Paesi: Congo, Pakistan, Etiopia, Tanzania, Usa, Uganda e Indonesia. L’Europa per contro vedrà una diminuzione della popolazione nei prossimi anni con un progressivo invecchiamento.

Il fatto che la crescita demografica maggiore sia concentrata nei Paesi più poveri del mondo pone serie difficoltà al perseguimento di alcuni Obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dall’ONU, in particolare l’obiettivo di ridurre la povertà e la lotta alla fame, come pure lo sviluppo dell’educazione e la riduzione delle disuguaglianze. Il processo di invecchiamento della popolazione può portare ad esigenze rilevanti di assistenza, pensioni e fondi di protezione sociale con conseguenze di aumento della pressioni fiscale.

Alla luce di questo quadro di previsioni demografiche la regione del Mediterraneo costituisce quindi una delle regioni, e non l’unica, che nel mondo continuerà ad essere segnata da una forte pressione migratoria sui paesi europei. Il mare Mediterraneo, nel quadro di una considerazione geografica, costituisce una sorta di lago le cui sponde uniscono Africa Europa e Asia. Pone in comunicazione e mette a stretto contatto i Paesi del Sud del mondo ad alta crescita demografica e i Paesi europei. La disparità dello sviluppo demografico costituirà un elemento importante di spostamento dei popoli.

La logica del rifiuto, della chiusura e dell’innalzamento di barriere con il pensiero che questa sia la soluzione a flussi migratori in un quadro di tale vicinanza geografica e di disparità di crescita demografica è un indirizzo che non solo non risolve il problema nel presente, ma non apre nemmeno a possibili vie per affrontare la complessità di tale fenomeno nel futuro.

Negli ultimi giorni si è assistito ad una convocazione organizzata ai confini della Polonia di migliaia di persone mobilitate in una manifestazione di opposizione all’accoglienza di stranieri e con la paura dell’islamizzazione ‘perchè l’Europa resti cristiana’. La cosa più sconcertante è stata la motivazione religiosa e l’atmosfera di preghiera con il rosario in mano di questa manifestazione. Tale iniziativa appare come un tradimento non solo del vangelo ma anche del senso stesso di una preghiera che richiama lo sguardo a Maria che ha cantato il Magnificat, il canto degli impoveriti che pongono la loro fiducia nel Signore che guarda a chi è tenuto fuori dei confini: “ha deposto i potenti dai troni ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”. Identificare la fede cristiana con una tradizione culturale è stato sempre nella storia processo generatore di incomprensione del vangelo stesso e di sventure per l’espereinza dei credenti e per i popoli.

Olivier Poquillon, frate domenicano francese, segretario della Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece) in una recente intervista in occasione del convegno Re-thinking Europe, ha ricordato: “La questione delle frontiere, delle identità ci fa ricordare quando l’impero romano ha cominciato a perdere forza e a costruire il limes, le frontiere attorno a lui, impiegando tutto se stesso nella difesa delle periferie, svuotando il suo centro. Oggi l’Unione Europea corre lo stesso rischio, perdere il senso della sua missione, che è un progetto di pace e di impegno positivo per il bene comune. (…) non si tratta di difendere una torta con la paura che diventi piccola se porzionata in troppi pezzi, ma di imparare a fare delle torte insieme”.

E ancora: “Se una politica funziona per i più deboli, funziona sicuramente per tutti. Il contrario non è sempre vero. Prendersi cura dei più vulnerabili, dei più poveri è essenziale per costruire il progetto europeo (…) Il motto dell’Europa è l’unità nella diversità. Diversità di culture, diversità di lingue, diversità di storie. La storia dell’Europa è segnata dalle guerre e la guerra esiste ancora alle nostre porte e in Europa, in Ucraina. Essere solidali oggi significa trovare soluzioni comuni. (…)”

Ha infine richiamato ad una dimensione pratica della politica: “La politica è una buona notizia se si mette dalla parte del bene comune. Non è più tempo di enunciare dei grandi principi, ma è il tempo di metterli in pratica”.

La Conferenza degli istituti missionari italiani (Cimi) in un recente documento  del 14 settembre 2017 ha preso una decisa posizione di fronte al recente accordo tra Italia e Libia :

“… l’Italia si è accordata con le milizie e la guardia costiera di al-Sarraj per bloccare i migranti nell’inferno libico dove sono torturati, stuprati o destinati a morire nel deserto di sete, come ha denunciato l’Onu. (…)

Noi missionari condanniamo con forza questo accordo scellerato che sarà pagato così pesantemente dai popoli africani, a noi così cari. Questo costituisce per noi missionari il naufragio dell’Europa come patria dei diritti.

«Il dramma che i migranti e i rifugiati stanno vivendo in Libia – afferma il rapporto dei Medici senza frontiere, del 7 settembre scorso – dovrebbe scioccare la coscienza collettiva dei cittadini e dei leader dell’Europa».

Questa è una politica miope, in vista delle elezioni, per salvare il nostro benessere di occidentali. Noi missionari chiediamo un’altra politica verso i paesi dell’Africa:

– l’apertura di corridoi umanitari per chi fugge da situazioni drammatiche;

– un embargo sulla vendita di armi italiane agli stati africani;

– una seria politica economica verso questi paesi con forti investimenti, non ai governi, ma alle realtà di base per permettere ai popoli d’Africa di rimettersi in piedi;

– la sospensione delle nostre politiche predatorie nei confronti dell’Africa, ricchissima di materie prime;

– la sospensione degli Epa (Accordi di partenariato economico) che la Ue ha imposto ai paesi africani e che creeranno ancora più fame.

Infine ci auguriamo che la legge sullo Ius Soli, bloccata in Senato, venga subito approvata per permettere a minorenni nati in Italia da genitori immigrati residenti da almeno 5 anni o ad alunni nati all’estero che abbiano completato 5 anni di scuola in Italia, di sentirsi cittadini a pieno titolo. Solo così lentamente e con fatica costruiremo quella “convivialità delle differenze” che ci permetterà di trovarci ricchi delle nostre differenze. O il mondo sarà così o saremo destinati a sbranarci vicendevolmente. Noi missionari crediamo che non c’è umanità se non al plurale»”.

Alessandro Cortesi op

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